Vederlo
suonare e cantare, almeno una volta nella vita, per ogni uomo dovrebbe
essere indispensabile come lavorare, vaccinarsi, andare alla scuola
dell'obbligo, far l'amore, toccare un
Oceano o, che so, vedere il Manchester United o .... la Mecca!
Credo
che anche lui, ormai, si sia convinto di essere un semidio e che tutta la sua
esistenza fosse stata una vera missione mirata al raggiungimento della divinità.
Ne era già
convinto nella sua adolescenza quando, appena quindicenne, rinnegò il cognome
paterno facendosi chiamare Dylan. Ne erano convinti anche i ragazzi di Hibbing,
rimanendo stregati dal quel ragazzo
insignificante, miope e paffutello. Era superbo, taciturno,
misterioso; se la tirava a mille ed era insopportabile, eppure emanava un carisma e un fascino così grandi da
rendere credibili anche le sue puerili bugie, così grandi da rendere
amabile anche la sua scarsa affabilità, così grandi da rendere
simpatico anche quell'antipatico visionario.
Fosse stato un "normale",
sarebbe stato preso a calci nel sedere, da subito. Ma il ragazzo di
Duluth non era un normale, aveva
dentro di sè qualcosa di speciale e già allora sapeva chi sarebbe
diventato. Quei "pregi" gli erano necessari per cominciare a costruire il
grande personaggio che c'era in lui, aprire quel bozzolo chiamato Robert
Allen Zimmermann e liberare una crisalide che da lì a poco si sarebbe
trasformata per volare in alto, molto in alto. Ecco, il genio che c'era
in lui era proprio il capire che doveva liberare qualcosa da quello
scomodo involucro che era il suo corpo!
Cinquant'anni fa, grazie a quella
farfalla, nel mondo cominciò a
prendere forma uno stile di vita, un modo nuovo di concepire la musica
e, soprattutto, un modello da seguire per intere generazioni di
giovani.
Di
lui è stato detto "Se fra cent'anni qualcuno canterà una canzone
del ventesimo secolo, sarà una canzone di Bob Dylan".
Da
quello che vedo..... anche in questo secolo, anche in questo secolo,
perbacco!
In
questo mondo così privo di ideali, Dylan è ancora una leggenda
vivente. Una delle ultime rimaste, ed è bello sapere che esiste!
Figuriamoci
dal vivo! Fargli
qualche scatto a Firenze, assieme a Mario Di Guardo, è stata
anche l'occasione per dedicargli questa pagina.
Mister Zimmy,
adesso sì che sono totalmente vaccinato!
|
Bob Dylan non andrà a ritirare il
Nobel: "Occupato in precedenti impegni"Bob Dylan non andrà a ritirare il
Nobel: "Occupato in precedenti impegni"
Dopo un mese di silenzio assoluto
dall'assegnazione del premio per la Letteratura, il cantautore ha
scritto all'Accademia di Stoccolma. Si dice "estremamente onorato", ma
"dispiaciuto" di non poter partecipare di persona alla cerimonia del 10
dicembre, alla presenza del re di Svezia. Una scelta del tutto in linea
con il personaggio
ROMA - Il silenzio è durato 32
giorni. Alla fine Bob Dylan si è fatto 'sentire', ma la lettera che ha
inviato a Stoccolma deve aver deluso l'Accademia che il 13 ottobre gli
ha assegnato il Premio Nobel per la Letteratura. Dylan infatti ha
comunicato che non presenzierà alla cerimonia del 10 dicembre e dunque
non potrà ritirare il premio di persona a causa di "impegni presi in
precedenza". Lo ha reso noto oggi l'Accademia svedese, aggiungendo
laconicamente di augurarsi che Dylan possa comunque, entro sei mesi,
dare la Nobel Lecture.
Stando a quanto riferisce
l'Accademia, l'artista è dispiaciuto di non poter partecipare e "ha
sottolineato di essere molto onorato per il riconoscimento". Si
aggiunge, quindi, una nuova puntata alla vicenda del Nobel a Dylan, dopo
il lungo silenzio dell'artista i giorni seguenti l'assegnazione del
premio e le polemiche intorno alla decisione del comitato.
L'organizzazione ha dichiarato di
aver ricevuto solo ieri una lettera nella quale Robert Zimmerman-Bob
Dylan "spiega di non potersi rendere disponibile a raggiungere Stoccolma
per ritirare il premio". Nei giorni immediatamente successivi
all'assegnazione del riconoscimento, il 13 ottobre scorso, Dylan si era
reso irreperibile e gli accademici non erano riusciti neppure a
comunicargli la bella notizia in maniera ufficiale. Soltanto dopo una
settimana il musicista si era deciso ad accettare, con un piccolo
riferimento in una pagina del suo sito; ma anche lì, dopo qualche ora,
la dicitura era già sparita, provocando una valanga di critiche.
L'Accademia di Svezia afferma di rispettare la decisione di Dylan, anche
se il fatto che un premiato accetti il Nobel e poi non si rechi a
Stoccolma senza ragioni di forza maggiore è un evento eccezionale.
Dylan non ritira il
Nobel. Castaldo: "Vuole demolire la sua leggenda"
I precedenti. E' vero, infatti, che
non è la prima volta che il Premio Nobel non viene ritirato dal
vincitore, ma negli altri casi, dietro l'assenza dei protagonisti,
c'erano impedimenti oggettivi. Due casi recenti riguardano la birmana
Aung San Suu Kyi (1991) e il cinese Liu Xiaobo (2010), premiati con il
Nobel per la pace per il loro impegno a difesa dei diritti umani: per
loro fu impossibile ritirare l’onorificenza perché rinchiusi in carcere
dai regimi dei loro Paesi.
Altri casi di mancato ritiro sono
dipesi da motivi di salute o di età avanzata. La cerimonia di consegna
del premio per la Letteratura, ad esempio, fu disertata per difficoltà
di spostamento legate all'età da Doris Lessing, nel 2007; da Harold
Pinter, nel 2005, perché gravemente malato e da Elfriede Jelinek (2004)
a causa di una sindrome che le impediva di
comparire in pubblico. Neppure il
caso di celebre di Jean Paul Sartre può essere assimilato a questo di
Dylan. Perché Sartre, 52 anni fa, rifiutò in toto il premio che gli era
stato assegnato.
In tutto questo, la decisione di
Dylan - premiato con il Nobel per essere stato capace "di creare una
nuova espressione poetica nella grande tradizione della canzone
americana" - è perfettamente in linea con il personaggio e coerente con
le scelte di un uomo che ha deciso di essere sempre in tour anche per
non lasciarsi 'cristallizzare', per continuare a sentirsi libero nel
mondo come un perfetto sconosciuto, come una pietra che rotola.
http://www.repubblica.it/cultura/2016/11/16/news/nobel_bob_dylan_non_partecipera_a_cerimonia_ritiro_premio-152148148/
“Buona sera a tutti.
Estendo i miei più calorosi saluti ai membri
dell’Accademia Svedese e a tutti gli altri distinti ospiti qui presenti
stasera. Sono dispiaciuto di non poter essere qui con voi di persona, ma
sappiate che sono assolutamente con voi nello spirito e onorato di
ricevere un così prestigioso premio. Essere premiato con il Nobel per la
Letteratura è qualcosa che non avrei mai potuto immaginare o ritenere
possibile. Sin dalla mia infanzia ho avuto familiarità e ho letto e
assorbito i lavori di coloro che sono stati ritenuti degni di tale
riconoscimento: Kipling, Shaw, Thomas Mann, Pearl Buck, Albert Camus,
Hemingway. Questi giganti della Letteratura i cui lavori sono insegnati
nelle scuole, ospitati nelle biblioteche in giro per il mondo e di cui
si parla in toni riverenti mi hanno sempre fatto una profonda
impressione. Il fatto che io ora aggiunga il mio nome a una simile lista
mi lascia davvero senza parole.
Non so se questi uomini e queste donne abbiano
mai pensato di ricevere un giorno l’onore di un Nobel, ma suppongo che
chiunque scriva un libro, una poesia, una commedia in qualche parte del
mondo conservi forse questo segreto in un posticino ben nascosto dentro
di sé. E’ probabilmente così ben sepolto che forse neanche lo sanno.
Se qualcuno mi avesse mai detto che avevo
anche una minima possibilità di vincere il Premio Nobel, avrei pensato
che avevo forse le stesse possibilità di camminare sulla luna. Infatti,
nell’anno in cui sono nato e per alcuni anni dopo, non c’era nessuno al
mondo considerato abbastanza buono da vincere questo premio Nobel. Così
riconosco di essere in una compagnia molto ristretta, a dir poco.
Ero fuori in strada quando ho ricevuto questa
sorprendente notizia, e mi c’è voluto ben più di qualche minuto per
metabolizzarla correttamente. Ho cominciato a pensare a William
Shakespeare, la grande figura letteraria. Mi sono chiesto se si fosse
riconosciuto come drammaturgo. Il pensiero che stava scrivendo
letteratura forse potrebbe non essergli passato per la testa. Le sue
parole erano scritte per il palcoscenico. Destinate a essere dette, non
lette. Quando stava scrivendo Amleto, sono certo che stava pensando a un
sacco di cose diverse: “Chi sono gli attori giusti per questi ruoli?”,
“Come si dovrebbe mettere questa cosa in scena?”, “Voglio davvero
ambientarlo in Danimarca?”. La sua visione creativa e le ambizioni erano
senza dubbio al primo posto nei suoi pensieri, ma c’erano anche altre
questioni più banali da considerare e affrontare: “Ci sono abbastanza
finanziamenti?”, “Ci sono buoni posti sufficienti per i miei
finanziatori”, “Dove lo vado a trovare un teschio umano?”. Scommetto che
la cosa più lontana dai pensieri di Shakespeare fosse la domanda:
“Questa è letteratura?”
Quando ho cominciato a scrivere canzoni da
ragazzo, e anche quando ho cominciato ad avere qualche riscontro per le
mie capacità, le mie aspirazioni per queste canzoni non andavano molto
lontano. Pensavo che sarebbero state ascoltate nei bar, nei caffè, forse
più tardi in posti come la Carnegie Hall o il Palladium di Londra. Se
avessi davvero sognato in grande, avrei forse immaginato di fare un
disco e poi di ascoltare le mie canzoni alla radio. Quello sarebbe stato
davvero un gran premio per me. Fare dischi e ascoltare le tue canzoni
alla radio significava che stavi raggiungendo un vasto pubblico e che
avresti potuto continuare a fare quello che avevi progettato di fare.
Be’, ho potuto fare quello che avevo progettato
di fare per un sacco di tempo ormai. Ho fatto dozzine di dischi e tenuto
migliaia di concerti in ogni parte del mondo. Ma sono le mie canzoni il
centro vitale di quasi ogni cosa che faccio. Sembrano aver trovato un
posto nelle vite di molte persone attraversando molte diverse culture e
sono grato per questo.
Ma c’è una cosa che devo dire. Come performer
ho suonato per cinquantamila persone come per cinquanta persone, e posso
dirvi che è più arduo suonare per cinquanta persone. Cinquantamila
persone sono come una persona sola. Non così cinquanta. Ogni persona ha
una sua individuale, separata identità, un mondo a sé stante. Possono
percepire le cose più chiaramente. La tua onestà e come ti relazioni con
la profondità del tuo talento sono messe alla prova. Il fatto che il
comitato per il Nobel sia così piccolo non mi fa perdere di vista
questo. Ma come Shakespeare, anch’io sono spesso occupato a inseguire i
miei sforzi creativi e a concentrarmi su tutti gli aspetti delle banali
questioni della vita: “Quali sono i migliori musicisti per queste
canzoni?” “Sto registrando nello studio migliore?”, “Questa canzone è
nella tonalità giusta?”. Alcune cose non cambiano mai, anche dopo 400
anni. Nemmeno una volta ho mai avuto il tempo di chiedermi “Le mie
canzoni sono letteratura?”. Così devo ringraziare l’Accademia Svedese,
sia per essersi presa il tempo di considerare questa grande domanda, sia
per aver fornito una così meravigliosa risposta.
I miei migliori auguri a tutti voi, Bob Dylan”
10 dic 2016
Tempest
- 2012 (Columbia)
di Gabriele Benzing
C'è
una città, alle pendici della collina. Le sue strade hanno nomi che
nessuna lingua umana ha mai pronunciato. È la Città Scarlatta, è la
terra delle sette meraviglie del mondo. "È il luogo dove sono
nato", canta Bob Dylan con il suo rantolo scavato dal tempo.
Perché se Duluth ha dato i natali a Robert Allen Zimmerman, il suo
doppio appartiene a un altro luogo: la patria di Bob Dylan è la stessa
di Henry Lee e Omie Wise, la patria delle ombre dell'"Anthology Of
American Folk Music". "Il male e il bene vivono fianco a
fianco, ogni forma umana sembra glorificata", mormora sul violino
antico di "Scarlet Town". Un tempo si struggeva per
raggiungere il luogo in cui la bellezza ha preso forma, alla ricerca di
un rifugio dalla tempesta. Ora che la tempesta è arrivata, è lì che
la bellezza ha posto la sua casa. Una bellezza scarlatta, come
suggerisce la copertina di "Tempest".
Il
plebiscito che accompagna l'uscita di ogni nuovo disco di Bob Dylan,
quantomeno nell'ultimo decennio, sembra essere diventato di volta in
volta sempre più accondiscendente: nel caso di "Tempest" è
bastata l'anticipazione del fatto che uno dei brani avrebbe superato i
quattordici minuti di lunghezza per far gridare a priori al capolavoro.
Ma con un personaggio sfuggente come Dylan è sin troppo facile cedere a
qualche scorciatoia di comodo. In realtà, "Tempest" si pone
in una continuità molto più stretta con i suoi diretti predecessori
rispetto a quanto era stato pronosticato. Del resto, la band è sempre
quella che accompagna Dylan sul palco nel suo instancabile giro del
mondo, e il timone della produzione resta saldamente nelle sue mani, con
una sfumatura appena più essenziale del solito.
Non c'è da stupirsi, insomma, se il morbido shuffle con cui
"Duquesne Whistle" apre il disco sembra venire direttamente
dalla vecchia sala da ballo di "Love And Theft". È il fischio
di una fabbrica abbandonata, come quelle che un tempo erano l'orgoglio
della città di Duquesne. È il fischio della locomotiva di un treno
fantasma, che chiama a raccolta tutti quelli che incontra al suo
passaggio. "Listen to that Duquesne whistle blowin'/ Blowin' like
it's gonna sweep my world away". E il mondo in cui conduce è un
mondo crudele e senz'anima, come nel video girato da Nash Edgerton per
il brano: dove anche lo slancio ingenuo dell'innamoramento finisce
calpestato dalla violenza, con il ghigno cinico di Dylan ad attraversare
i bassifondi alla guida di una gang di strada.
"This
is hard country to stay alive in/ Blades are everywhere and they're
breaking my skin", proclama subito "Narrow Way".
Avidità, corruzione, tradimento: la realtà di "Tempest"
ricorda da vicino il decadente scenario immaginato da Dylan nel film
"Masked And Anonymous". Il passo è quello del blues
infaticabile di "Modern Times", che in "Early Roman
Kings" si trasforma addirittura in un calco della celeberrima
"Mannish Boy" di Muddy Waters. Ad accompagnarlo c'è ancora
una volta la fisarmonica di David Hidalgo dei Los Lobos, come già in
"Together Through Life". Potrebbero essere gli arroganti
sovrani dell'antichità, potrebbero essere i guerrieri del Bronx che ne
hanno adottato il nome: gli "Early Roman Kings" di Dylan sono
ugualmente infidi e lascivi, ugualmente capaci di divorare anime e
città.
Tra il languore country alla Hank Williams di "Soon After
Midnight" e il senso di rimpianto di "Long And Wasted
Years", per incontrare toni meno attesi occorre arrivare agli
accenti pop-rock di "Pay In Blood", da qualche parte tra gli
Stones e Warren Zevon, che con il suo ringhio vendicativo sarebbe stata
perfetta per il Dylan dei tardi anni Settanta. Ma la vera novità di
"Tempest" è un'altra: è il ritorno di Dylan alla narrazione,
allo storytelling nella sua accezione più classica. Un gusto del
racconto vivido e torrenziale, con cui Dylan non si cimentava più ormai
da anni e di cui sembra invece pronto ad andare alla riscoperta nella
parte conclusiva dell'album.
È
questa, probabilmente, la ragione per cui "Tempest" sembra
già destinato alla reputazione di vertice della discografia dylaniana
del nuovo millennio: la scelta di Dylan di indossare nuovamente i panni
del cantore di storie, pur senza l'immaginifica visionarietà del
passato. In "Tin Angel" presta il suo timbro più
mefistofelico a una murder ballad sanguinosa e ossessiva, tutta
incentrata su un dialogo dal sapore grottesco. In "Roll On
John" dedica una tardiva elegia funebre a John Lennon, quasi a
voler replicare quella scritta ormai trent'anni fa per Lenny Bruce. Ma
è soprattutto la cronaca del naufragio del Titanic, nelle oltre
quaranta strofe di "Tempest", a reclamare un posto d'onore nel
canzoniere di Dylan.
Danzando
su un valzer dalle reminiscenze celtiche, il cantautore prende spunto da
"The Titanic" della Carter Family per costruire una galleria
di personaggi dal taglio cinematografico, in cui non è certo un caso
trovare anche un "Leo" che rimanda senza troppe difficoltà al
blockbuster di James Cameron. "La gente dirà che non è molto
veritiero", riconosce Mr. Zimmerman. "Ma un songwriter non si
interessa di che cosa sia veritiero. Quello di cui si interessa è ciò
che avrebbe dovuto accadere, ciò che avrebbe potuto accadere. È questo
il suo genere di verità".
Un
tempo, di fronte alla tempesta, la preoccupazione di Dylan sarebbe stata
quella di trovare qualcuno da incolpare. Anche allora, forse, stava
raccontando un suo genere di verità. Oggi, invece, il suo Titanic
s'inabissa con un senso di fatalità, mentre la vedetta sogna la nave
inghiottita dalle onde. Il fratello si leva contro il fratello con la
furia cieca della sopravvivenza. Gli amanti si dicono addio, gli
ufficiali piangono sulle pagine del libro dell'Apocalisse. Ma qualcuno
abbandona la sua cabina per porgere la mano a chi affonda. E per levare
lo sguardo verso il cielo.
È questo che a Dylan interessa descrivere: come nel momento del dramma
possa svelarsi la vera stoffa di cui un uomo è fatto. Ovvero, per dirla
con le parole di Camus, come di fronte alla sventura l'uomo sia
costretto a "ritrovare o assumere la più grande virtù: quella del
Tutto o Nulla". La tempesta, paradossalmente, è la grande
occasione. L'occasione di essere se stessi, anche quando la bellezza è
scarlatta come il sangue.
(10/09/2012)
Tracklist
1) Duquesne Whistle 2) Soon After Midnight 3)
Narrow Way 4) Long And Wasted Years
5) Pay In Blood 6) Scarlet Town 7)
Early Roman Kings 8) Tin Angel
9) Tempest 10) Roll On John
http://www.ondarock.it/recensioni/2012_bobdylan_tempest.htm
BOB
DYLAN/ Anteprima "Tempest": a 71 anni ecco uno dei suoi dischi
più belli di sempre
Paolo
Vites mercoledì 5 settembre 2012
Bob
Dylan e la sua banda, foto Sony Columbia Records Approfondisci BOB
DYLAN/ Il concerto di Milano all'Alcatraz: blues e sangue ANTEPRIMA/ Bob
Dylan & Mark Knopfler live a Parigi: la notte dei giganti vai allo
speciale Bob Dylan, i 70 anni di Mr. Tambourine Man
"The circus is in town", il circo è arrivato in città,
cantava Dylan qualche decennio fa nella celeberrima Desolation Row. La
canzone stessa era un circo: dentro, c'erano Cenerentola e T.S. Eliot,
il gobbo di Notre Dame e il Buon Samaritano, Einstein e il Fantasma
dell'Opera. In una galleria fantasmagorica di personaggi veri o usciti
dalle pagine dei libri e dagli schermi dei cinema, Bob Dylan all'apice
della sua visionarità poetica rinchiudeva questi rappresentanti
dell'umanità in un vicolo, quello della desolazione. Quarant'anni e
passa dopo, quel circo di umanità dolente torna a farci visita nelle
canzoni di "Tempest", un acuto da parte di un artista che non
ci sorprendeva così da molti anni, almeno dieci, quando era uscito il
suo ultimo disco davvero degno di nota, "Love and theft". Qui
troviamo infatti Charlotte la prostituta, Maria la madre di Gesù e la
Regina delle Fate, Leonardo Di Caprio e Al Pacino, Cleopatra e John
Lennon.
E'
una umanità diversa, meno disperata e fallimentare, anzi qualcuno di
essi è simbolo della salvezza stessa, che sia quella eterna o quella
del rock'n'roll, e che non meritano questa volta di essere rinchiusi in
un vicolo della desolazione. Ma allo stesso tempo, non sono degni di
stare insieme ai comuni mortali: adesso siamo noi infatti, a vivere in
un vicolo della desolazione. Loro ne sono fuggiti, per i loro meriti o
per le loro colpe, e stanno da qualche parte in una Repubblica
Invisibile dove solo i giusti possono ambire a entrare. Un Dylan
spumeggiante, irresistibile, che tratteggia un mondo non sull'orlo
dell'abisso, come ha fatto più o meno per tutta la sua carriera,
lanciando profezie di ogni tipo (molte delle quali rivelatesi reali), ma
un mondo che nell'abisso c'è già precipitato. Siamo in un'epoca
indefinibile, in una città tinta di sangue scarlatto, che si chiama
Duquesne (che esiste davvero ed è - non a caso - una città fantasma
nelle montagne dell'Arizona): da qui questi personaggi osservano lo
sfacelo del nostro mondo. Quella accennata nel disco è un'epoca che va
dagli antichi primi re romani al Far West al naufragio del Titanic, ma
è ovvio che ogni riferimento è del tutto attuale.
In
Early Roman Kings Dylan infatti si permette il lusso di citare una frase
tratta da un film di Al Pacino e di citare anche i "tribunali
siciliani" come esempio di mala giustizia. In questo mondo dannato
che ha rinunciato a ogni speranza, o illusione, resta una sola cosa da
fare: attendere non un salvatore, ma il Salvatore. “ Non mi conosci?
la prossima volta che verrò sarà per tutti voi - sì, Signore, ti
conosco" canta Dylan. Arriva anche a citare uno dei poeti maledetti
più amati dagli artisti rock, William Blake, per ribadire il concetto:
"Tigre, tigre, ardente e luminosa prego il Signore che prenda la
mia anima nelle foreste della notte".
"Tempest"
è allora un viaggio in quella Repubblica Invisibile che sin dai tempi
dei "Basement Tapes", alla fine degli anni sessanta, Dylan
bazzica con affetto. Quella Repubblica dove la promessa americana era
stata annunciata e per chi ci aveva creduto, come Dylan, quel territorio
rimane, da qualche parte, invisibile ai più. Il viaggio comincia sin
dalle primissime note: una vecchia registrazione in sordina, steel
guitar e qualche accordo di chitarra acustica, un sound low-fi, come se
chi suona fosse di là in una stanza chiusa, oppure una radio stesse
cercando di sintonizzarsi su una stazione fantasma. O forse è proprio
un fantasma, quello che suona, magari quello di Hank Williams che della
Repubblica Invisibile è il re. Pochi secondi e poi parte il brano vero
e proprio, che è un treno che sbuffa e traballa, un po' come quel
mystery train che viaggia da decenni attraverso la miglior storia del
rock senza mai fermarsi. Non può fermarsi, fino a quando un uomo buono
scriverà una grande canzone, questo treno continuerà la sua marcia.
Duquesne Whistle è il fischio del treno che ci porta a Duquesne dove
siamo invitati: è uno Texas swing, lo stile è quello del padre di
questa musica, Bob Wills, ma Dylan ci mette dentro una dose di sano rock
con due chitarre elettriche che mimano la marcia del treno.
http://www.ilsussidiario.net/News/Musica-e-concerti/2012/9/5/BOB-DYLAN-Anteprima-Tempest-a-71-anni-ecco-uno-dei-suoi-dischi-piu-belli-di-sempre/317751/
Obama
rende omaggio a Dylan, medaglia libertà
Mercoledì 30 Maggio
2012
''Non
c'e' un gigante piu' grande nella storia della musica americana'': con
queste parole, il presidente Barack Obama ha insignito alla Casa Bianca
Bob Dylan della piu' alta
onorificenza civile degli Stati Uniti, la 'Medaglia Presidenziale della
Liberta'. E ancora, Obama, che sin dalla sua campagna
per
l'elezioni presidenziali del 2008 ha piu' volte confidato di avere nel
suo i-pod gran parte della discografia di Bob Dylan, ha reso omaggio al
grande cantautore definendolo ''un trovatore dei nostri giorni'', che
''si e' affermato come uno dei musicisti più influenti del 20/mo
secolo'', perche' ''la poesia dei suoi testi ha aperto nuove
possibilità per la canzone popolare e ispirato generazioni'' Dylan, che
ha 70 anni e che oggi per l'occasione era abbigliato in redingote con
accessori argentati, cravatta a papillon e occhiali scuri tondi, ''piu'
di 50 anni dopo che la sua carriera è iniziata - ha detto ancora il
presidente - rimane una voce eminente nella nostra conversazione
nazionale, e in tutto il mondo''. Oltre a Dylan - che a sua volta nutre
una grande ammirazione per Obama, al punto da aver partecipato alla sua
campagna elettorale per le elezioni del 2008 - Obama ha oggi insignito
della stessa onorificenza anche altre grandi personalita' che hanno
avuto un ''incredibile impatto'' sulla societa' con il loro lavoro, tra
cui il premio Nobel per la letteratura Toni Morrison, l'ex segretario di
Stato Madeleine Albright, l'ex astronauta John Glenn e l'ex giudice
della Corte Suprema John Paul Stevens, e anche l'ex presidente
israeliano Shimon Peres, che pero' ricevera' la decorazione in una
diversa occasione, il mese prossimo.
Martedì
24 maggio il più famoso ed influente musicista vivente compirà 70
anni. Nessun festeggiamento, ma soltanto una pausa nel suo "Never
ending tour" che il 22 giugno tornerà in Italia per cantare ancora
una volta "Forever Young". Una leggenda che resiste alla
ruggine del tempo e all'era di internet. Un profeta che nessuno
riuscirà a chiudere in un museo
Giuseppe
Attardi
Cosa potrebbero avere in comune una settantenne leggenda musicale e una
tredicenne dell'era di Youtube? Beh, non molto: Bob Dylan e Rebecca
Black sono separati non solo dall'età, ma anche da culture e mode
musicali totalmente differenti. Eppure quando la ragazzina americana
tutta acqua e sapone ha pubblicato Friday, una canzoncina innocua adatta
a diventare un tormentone estivo, c'è stato un burlone intraprendente
che ha registrato una cover gracchiante della canzone e, dopo averla
messa su Youtube, ha dimostrato che Friday non è altro che la copia di
una canzone di Dylan contenuta nei leggendari Basement tapes del 1975.
Il video burla ha avuto oltre un milione di contatti, ma soprattutto ha
scatenato i fan dell'autore di Blowin' in the wind, rivelando che sono
ancora tanti nel mondo che vedono in lui il papà di tutti. Gli stessi
che in questi giorni, invano, gli chiedono di festeggiare tutti assieme
on line con un coro globale il suo compleanno.
Certo, settant'anni è una strana età per una rockstar, se non
addirittura incongrua rispetto allo stereotipo che vorrebbe eroi sempre
giovani, freschi, esuberanti. Ma il signor Robert Allen Zimmerman non è
tipo da farsi condizionare da così banali dettagli anagrafici. I suoi
settant'anni li dimostra tutti, fino in fondo, con segni profondi e
cicatrici dell'anima. Ha un volto autentico, da nobile superstite, da
sopravvissuto impegnato in una sua particolare forma di resistenza
umana. E' scontroso, arcigno, irsuto, un nugolo di capelli sgraziati su
quel naso adunco che da cinque decenni simboleggia il suo spigoloso
rapporto con il mondo. Che poi è il suo grande fascino, la sua
irresistibile forza.
Poeta laureato, profeta in giaccone da motociclista. Napoleone vestito
di stracci. Inafferrabile, come un sasso rotolante. E' stato un profeta.
Di quelli scacciati dal tempio, che non piacciono alle chiese e al
potere. Uomini, non santi. Ma capace di scrivere e cantare, come nei
Vangeli apocrifi, l'altra faccia della verità, della vita, dell'amore.
Dylan fischiava negli anni Sessanta la partenza di un treno, chiamando
fuori una generazione vasta come mai c'era stata prima nel mondo, e mai
ci sarà dopo. Oggi il mondo è un mercato unico, a quel tempo è stato
una sola gioventù.
Dylan non è stato un grande chitarrista, e tanto meno un grande
cantante, ma è riuscito a creare intorno a sé una mitologia. Sin da
quel 1961, quando si presentò con chitarra, armonica e berretto di
velluto a coste, metà Woody Guthrie, metà Little Richard. Era il primo
folksinger punk. Introdusse la canzone di protesta nel rock. Rese le
parole più importanti della melodia e del ritmo. La sua voce nasale e
rauca, il suo fraseggio sensuale sono unici. Può scrivere canzoni
surreali con una logica interna e semplici ballate che piovono dritte
dal cuore con la stessa semplicità. Può tirar fuori le tenebre dalla
notte e dipingere di nero il giorno. Ha diviso la sua carriera - la fase
di protesta, gli anni di Woodstock, gli album di rottura, il periodo
religioso - ma ha tenuto sempre ferma la sua visione originale come
pochi altri artisti. Ha sempre intuito cosa desiderava il pubblico. Un
anticipatore e un profeta. John Lennon nel 1965 dichiarò che a mostrare
la strada era proprio Bob Dylan. Al di là delle apparenze, è stato lui
il grande innovatore, come dimostrò a più riprese con tutti i suoi
capolavori elettrici degli anni Sessanta e Settanta.
Il miracolo Dylan, grazie a una irripetibile coincidenza di valori
artistici ed epocali, significò anche che, per la prima volta, musiche
dichiaratamente non commerciali divennero incontenibili successi di
vendita. Da quel momento l'industria discografica, costretta dagli
eventi, aprì le porte al nuovo, senza più temere l'originalità e
l'innovazione, consentendo l'afflusso di forze e di idee completamente
nuove.
Da allora la musica rock è cambiata, ma da allora è costantemente
cambiato anche Bob Dylan, il primo nemico del suo stesso mito, deciso
sempre a metterlo in discussione, ad osteggiarlo, a concedere poco alla
platea, anche oggi quando dal vivo reinventa puntualmente le sue canzoni
come se fossero pezzi interamente nuovi. Canta e passa oltre" Mr.
Tambourine Man". Uno, nessuno e centomila. Un enigma che il regista
Todd Haynes ha raccontato utilizzando sei personaggi e sei attori
(compresa Cate Blanchett) per raccontarlo nel film Io non sono qui.
Dylan non voleva, non ha voluto, non vuole essere guida di nessuno:
vuole la libertà di perdersi. A chi gli chiedeva di continuare a
fischiare per il treno, voltava le spalle. Questo gli ha consentito di
sopravvivere al suo tempo, di raggiungere il traguardo dei settant'anni
in modo vitale, inquieto, come un artista al quale la maturità non è
servita da alibi per smettere di interrogarsi e provocare domande.
Dal 1996 ha intrapreso il suo "Never ending tour" andando
ancora in cerca di risposte, scoprendo Paesi come la Cina e il Vietnam
fino a ieri tabù per un "cantante di protesta" come lui. Un
viaggio cheha misteriose premonizioni nelle sue canzoni, ma mai tanto
quanto in Like a Rolling Stone, il cui ritornello "no direction
home" suona quasi minaccioso e trionfante.
Dagli stadi stracolmi è passato ai palasport, poi dai teatri ai locali,
come accadrà il 22 giugno a Milano, ospite dell'Alcatraz, toccando con
mano il declino, vivendo fino in fondo la parabola discendente
imperterrito e comportandosi in modo opposto rispetto alle decadenti
rockstar della sua generazione che danno al loro pubblico ciò che il
loro pubblico vuole sentire. Diversamente da loro, Dylan dà al suo
pubblico soltanto ciò che lui vuole. Nessuno riuscirà a chiuderlo
dentro un museo o a trasformarlo in monumento, come gli eroi di Jack
Kerouac e di Easy rider quello che conta non è il punto d'arrivo, ma il
percorso: la meta è il viaggio, e la strada diventa una chiave per
capire anche se stessi. E, probabilmente, l'ultima canzone in scaletta
sarà Forever young, per sempre giovane.
Buon compleanno mister Zimmerman.
|
Un
sentiero verso le stelle,
sulla
strada con Bob Dylan
di
Paolo Vites, 205 pagine, Pacini Editore, con interventi
esclusivi di Steve Wynn, Eric Andersen ed Elliott Murphy. Nelle
librerie e in vendita online dal 4 maggio 2011. E dal vivo il 26
maggio al Teatro Gloria di Como. |
Da
un estrattto de l'introduzione "Sussurrando tra me e me" di
John Waters all'ultimo libro di Paolo Vites, "Un sentiero verso le
stelle. Sulla strada con Bob Dylan". Una sorta di romanzo rock in
cui l'autore racconta quasi trent'anni di concerti di Bob Dylan a cui ha
assistito.
*
* *
JOHN WATERS - In circostanze normali non mi spingerei mai a dichiarare
una qualsiasi delle canzoni di Bob Dylan come la sua migliore. Anche con
una delle più ovvie
candidate, questa frase rischierebbe di essere troppo grossa, sebbene in
una dozzina o più di casi questo potrebbe anche essere
plausibile. Ma se mi puntaste una pistola alla tempia pretendendo che io
nomini la sua migliore canzone, promettendo di uccidermi in caso
di errore, sento che avrei qualche chance di sopravvivenza se nominassi
Mama, You Been on My Mind.
La cosa strana è che non riesco a considerarla una canzone. È qualcosa
di più profondo. Ovviamente, ci sono versioni che la trasformano in una
canzone, inclusi alcuni orrendi duetti che Dylan ha fatto con Joan Baez.
Ma esiste una versione in cui la canzone vive in modo diverso, come
qualcosa in più rispetto alla somma delle sue parti, come qualcosa di
così speciale che viene da chiedersi come mai la troviamo solo sulla
Bootleg Series in una versione apparentemente scartata, come una tra le
tante interessanti tracce che sono state lasciate da parte per questa o
quella ragione, o per un motivo che nessuno ricordi.
La prima volta che l'ho sentita mi è balzata addosso, e quando mi sono
ritrovato a riascoltarla ancora e ancora, ignorando tutto il resto
presente su quella che rimane infatti un'ottima collezione, mi sono
sorpreso a farmi questa domanda, a chiedermi come mai Dylan l'avesse
semplicemente lasciata così e non fosse mai tornato a ciò che è vero
e grezzo in questa canzone, non avesse mai cercato di catturarlo in una
registrazione formale, ufficiale. (...) Se la cercate su YouTube,
trovate parecchia gente che la canta senza dirvi che è stata scritta da
Dylan. Trovate persone che la cantano così male che viene da chiedersi
perché si siano dati il disturbo di cantarla.
Trovate Dylan e la Baez che allegramente la massacrano. Trovate una
versione di Johnny Cash che inspiegabilmente ne cambia le parole,
incluso il verso iniziale, senza dubbio il migliore di tutta la musica
popolare, per ragioni non conosciute ma degne di essere investigate. Ma
se volete sentire Dylan che la canta come deve essere cantata, dovete
prendervi le Bootleg Series e prepararvi a non ascoltare altro per una
settimana.
Dylan ha scritto, registrato e pubblicato un sacco di canzoni. Molte di
queste vengono circondate da storie o frasi o enigmi o semplicemente da
abili nessi che ti lasciano stupito di fronte all'immenso senso di
ironia che alberga in quest'uomo, in questo poeta, in questo cercatore,
in questo burlone. Da mezzo secolo sta sul crinale del mondo guardandovi
dentro, riflettendo o rifrangendo le cose che colpiscono il suo occhio,
gettandocele in modi che suggeriscono sempre una pugnalata alla
veridicità/sincerità, quindi proseguendo oltre come incerto riguardo
ciò che ha fatto. Quasi nessuna delle sue canzoni è completata, e
alcune sono appena abbozzate. Altre sembrano continuare all'infinito,
altre ancora finire prima che inizi la caccia, contenendo "troppo e
non abbastanza", per dirla con parole sue, verniciando appena di
parole il soggetto come nel bisogno di trasmetterci l'inadeguatezza di
una descrizione.
Ma questa canzone, questa dichiarazione, questo enigma, questo scherzo,
ha qualcosa in più rispetto a (quasi tutte?) le altre. In essa c'è
Dylan in una maniera che (molte del)le altre non mostrano. Dylan è un
cantastorie, un creatore: non c'è alcun bisogno che sia presente nelle
sue canzoni, non c'è ragione per cui immaginiamo di averlo intravisto
in alcuna o in tutto il suo repertorio.
In
qualsiasi momento potrebbe essere lui come potrebbe non esserlo, e
probabilmente non lo è. C'è chiaramente un personaggio in questa
canzone, ma non voglio suggerire che questo sia Dylan stesso. Potrebbe
esserlo, ma questo non è decisivo. Chiunque abbia letto il suo libro
autobiografico Chronicle saprà che gli piace seminare false tracce e
mandare all'aria le comuni certezze. Ma qui c'è una verità/lealtà
difficile da evitare. La sua voce è lì, vicina, come raramente accade.
È come se si fosse fermato per farsi vero, anche solo per pochi
istanti. La canzone, se può essere chiamata una canzone, è grande
proprio perché non è una canzone. Non c'è alcun appiglio reale cui
nascondersi dietro. Non c'è un ritornello, solo la ripetizione del
verso che dà il titolo alla canzone. Inoltre, la canzone stessa si
occupa di generare tracce false, mostrando la duplicità che giace
dietro la parola e la nota e il volto e il nome. In fondo, come ha
ripetuto più volte, nessuno ha un nome.
Allo stesso tempo la canzone, che non è una canzone, è, in un altro
senso, banale. È una sorta di canzone d'amore, superficialmente si
potrebbe dire un ripensamento a perdere su una relazione finita qualche
tempo prima. Tranne il fatto che non è a perdere. E non è un
ripensamento.
È un grido che sorge dal profondo del cuore di uno che ha amato troppo
e ha perso non solo l'amore, ma anche la capacità di guardare in faccia
quella perdita. È la supplica di qualcuno cui la vita si è incastrata
per la delusione di un desiderio e l'incontro con il suo limite. È una
canzone che racconta di come il desiderio umano sia in grado di
lasciarti zoppo se lo dirigi verso l'obiettivo sbagliato. La canzone non
dice tutto questo, ma lo mostra.
L'indizio si trova nei primi versi, forse, come io penso, i più grandi
versi di apertura (e qui non c'è bisogno che mi si punti la pistola)
nella storia delle canzoni popolari che non sono popolari. Ditelo nel
modo che preferite: "Maybe it's the color of the sun cut flat / And
coverin' the crossroads I'm standin' at" ("Forse è il colore
del sole che si è tagliato piatto / E che copre il bivio in cui mi
trovo"). (...) Sta parlando a qualcuno, anche se per ora non
sappiamo a chi. Potrebbe parlare a me, a te, a chi ascolta, ma le parole
sono troppo centrate su loro stesse. Suggeriscono una storia di qualche
tipo vissuta con qualcuno, forse una storia di momenti analoghi di
stranezza e bellezza celebrati con qualcuno. La frase è troppo
sconvolgente e troppo particolare per aprire una canzone intesa a
parlare modo diretto all'ascoltatore.
Non parli in questo modo al primo che incontri per strada, nemmeno se
sei Bob Dylan, anzi, forse proprio perché sei Bob Dylan. No, chi
ascolta avverte immediatamente di essere messo a parte di qualcosa di
molto intimo, quasi stesse origliando, di un momento profondo e
personale di introspezione o ricordo. Quest'uomo sembra parlare fra sé,
o forse parla a se stesso per parlare a qualcuno che giace infondo alla
sua memoria e immaginazione.
E allo stesso tempo, nei meandri di quella nostra capacità di ascolto
che immediatamente percepisce le cose come stanno, cogliamo subito che
questa persona - chiunque siano questo lui o questa lei - grava
pesantemente sulla sua anima.(...) Non possiamo far altro che scendere
al fondo della sua confessione, dentro la disperazione che si aspetta.
Ciò che era cominciato come una supplica ora diventa una consapevolezza
quasi certa che la loro vita insieme è storia passata.
"Sto solo sussurrando a me stesso, così che non possa far finta di
non sapere, cara, che sei nella mia mente"
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Florence,
Italy - Mandela Forum - April 18, 2009
by
Giovanni Zecchi
È
la prima volta che scrivo a “Maggie’s Farm” (seguo le news quasi
tutti i giorni…), ma dopo il mio primo concerto di Dylan mi sono
sentito in un certo senso in dovere di farlo. Lo show di Firenze è
finito da un’ora e mezza: scrivo le mie impressioni-emozioni a caldo,
come uno di 26 anni che non sa molto di musica, che non sa suonare
nessuno strumento, ma che un giorno nell’autunno del 2006 ha comprato
per caso un CD (“Modern Times”) che lo ha fatto letteralmente
innamorare (prima per me Dylan era solo il nome di UN cantante): da
allora, attraverso tutti i suoi album e tutte (o quasi…!) le sue
canzoni, ho fatto un meraviglioso viaggio all’indietro nel tempo fino
al 1962… L’hanno scorso avevo acquistato il biglietto per il
concerto di Bergamo, mi ero recato sul posto, ma per problemi personali
non avevo potuto assistere allo show: tutta quell’amarezza (durata
quasi un anno) stasera è stata completamente cancellata…
La prima magia della serata è stata l’aver ritrovato, seduta appena
una fila sopra di me (eravamo nella gradinata superiore del secondo
settore numerato), una mia amica (naturalmente anche lei fan di Dylan…)
che a gennaio non aveva potuto comprare il biglietto per vedere il
concerto insieme a me, nella nostra città, poi…
La seconda magia della serata sono state le canzoni, ascoltate
direttamente dalla voce dell’Incantatore: posso fare paragoni solo con
quelle sentite dagli album ufficiali, dai CD live e da qualche bootleg,
non avendo assistito ad altri concerti prima di questo. Forse non mi
ricordo tutto esattamente, mi affido al flusso della coscienza…
Ha iniziato proprio con “Maggie’s Farm”: un bell’impatto, rock.
Poi mi è rimasta dentro una scatenata “Rollin’ And Tumblin’”,
simile a quella del disco, mi è parso… Quando Bob con la chitarra in
braccio al centro del palco ha attaccato “Man In The Long Black Coat”
mi è venuto un tuffo al cuore. Deve essere stata la sua voce cavernosa,
paludosa: ho sentito che quello era il suo regalo per Firenze.
Emozionante, vibrante, vissuta “The Lonesome Death Of Hattie Carroll”:
nel cantarla Bob ha espresso qualcosa di bellissimo ed infinitamente
triste… La successiva onestamente non l’ho riconosciuta… Ma quante
voci ha quest’omino? “Workingmaaaaaan’s Blues #2” l’ha cantata
propriocosì (!!), in maniera quasi assurda, polifonica: voce roca e
raspante, bassa e baritonale (non l’avevo mai sentito scavare così
nel profondo: sconcertante!), e poi alta e ostentatamente nasale, quella
con cui sembra divertirsi, lo sberleffo, la pronuncia di Paperino… “Ballad
Of Hollis Brown” (la conoscevo poco) è stata una sorpresa: l’atmosfera
è diventata rossa, mi pare abbiano tirato fuori un contrabbasso, era
incalzante, viscerale e molto blues, sembrava di stare nella cantina del
diavolo (chi l’ha detto prima di me…?).
Poi mi ricordo una “Summer Days” frizzante, che ha fatto ballare, e
unaspettacolare “Thunder On The Mountain”, riconoscibilissima, in
cui hanno pestato duro con chitarra e batteria.
Il momento inaspettato è stato il breve giro di “Return To Me”, l’ultima
strofa (“solo tu, solo tu, solo tu…”) cantata in italiano “americanizzato”:
atmosfera romantica e rétro, ma l’ho riconosciuta solo perché sapevo
che l’avevano già fatta anche a Roma. Poi è arrivata Lei, “Like A
Rolling Stone”, e lì è stato da pelle d’oca: è valsa da sola il
prezzo del biglietto, perché cantata da QUELLA voce, con tutto il Forum
in coro… Dopo il palco si è spento, i musicisti se ne sono andati e
poi sono ritornati, mentre finalmente sullo sfondo si accendeva il
misterioso occhio simbolico: l’aspettavo…Il primo “bis” è stato
“All Along The Watchtower”, con il suono dellachitarra molto bello,
lancinante. Poi una specie di piacevole swing sulle note tranquille di
“Spirit On The Water”, che il pubblico mi pare non abbia molto
apprezzato. Infine l’altra Signora: “Blowin’ In The Wind”,
completamente rivisitata. Qui sono stato vinto dalla tentazione ed ho
registrato un pezzo col video della fotocamera, perché, porca miseria,
ho sentito che stavo vivendo un momento di storia, irripetibile.
Ascoltare “Blowin’ In The Wind” direttamente dalla sua voce (non
importa quale…), con il suono dell’armonica che è un tutt’uno con
la sua bocca…sì, l’armonica! L’ha tirata fuori per varie canzoni
(oltre a “Blowin’ In The Wind”), anche se onestamente non ricordo
quali. Però gliel’ho sentita suonare in modo strano, con un effetto
contrappuntistico, per lo più su una sola nota, o al massimo due o tre,
in “risposta” agli altri strumenti… Soprattutto nella prima parte
dello show ho visto (col binocolo) che sul palco in realtà Bob non
stava mai fermo, teneva il ritmo con la gamba “snodabile”, si
dimenava sulla pianolina: era chiaro che si divertiva, soprattutto
quando “faceva la vocina”, salvo poi farci scendere insieme a lui
negli abissi del blues, verso profondità mostruose…
Alla fine c’è stata una sorta di standing ovation, con i musicisti
raccolti sul palco di fronte alla platea: lui a un certo punto ha
voltato le spalle al pubblico di scatto, ostentatamente (questo l’ho
percepito di sicuro…) e se ne è andato dietro le quinte camminando
molleggiato, seguito dagli altri membri della band.
Terza magia della serata è stato il pubblico, le facce della gente che
mi sono divertito ad “annusare”: famiglie coi bambini, tanti
adolescenti,
ragazzine con le mamme sessantottine (nel senso di “nate intorno al
’68”…), gruppi di ragazzi da concerto rock, coppie quarantenni,
cinquantenni, sessantenni, tanti signori (e meno signori…) di mezz’età…insomma,
un miracolo che si fosse lì tutti insieme per qualcosa di comune, un
miracolo che poteva fare solo Bob Dylan. All’uscita c’è chi ha
detto: - Sì, è vero, è stato proprio arrogante - , oppure - Come ha
cantato bene “Workingman’s Blues”… - , o addirittura - Certo che
un saluto a Firenze poteva anche farlo, ma si sa, lui è una merdaccia…
- Divide, divide ancora Dylan, e questo PER ME vuol dire che è ancora
vivo, come Artista e come Uomo, con tutti i suoi lampi di genio e tutti
i suoi difetti. Dà tutto - QUEL CHE PUO’ DARE - nella musica, e
basta.
Posso
solo dire che io un concerto così non l’ho mai visto, un tipo così
non l’ho mai visto: più volte nel corso del concerto mi è venuto da
piangere e da sorridere insieme, e questo vale più di ogni altra cosa…
P.s.: lo so, sono
stato troppo lungo, ma non potevo descrivere tutte le emozioni che
questo concerto mi ha dato in uno spazio più breve di questo…
P.p.s.:
comprerò sicuramente “Together Through Life”, ma la maglietta del
merchandising ufficiale a 30 € mi ha lasciato l’impressione di un
furto…!!
Grazie,
Giovanni Zecchi
(maggie'sfarm.it)
Nel
caso di Dylan siamo tutti consapevoli che è difficile non
esprimersi in termini retorici: quel che ha detto e fatto è
conosciuto e il suo rigoroso silenzio ha dato ai contenuti
ancora più valore. Nonostante il Never Ending Tour di Bob Dylan
abbia ormai più di 30 anni, lo spettacolo portato in Italia e
appena visto a Firenze assume di volta in volta una connotazione
sempre più personale e organica. Quest’ultima versione
aggiornata, riveduta e corretta, ci pare ancora una volta,
migliore della precedente.
Il concerto propone l’alto valore aggiunto di una presenza
umana - la sua - che si manifesta con il minimo rumore scenico.
Quando si accendono le luci Dylan è lì, a destra guardando il
palco, dietro a un organo che riproduce sonorità beat e tex mex
suonato con una certa competenza, che canta in piedi. Dylan è
lì nel mezzo del palco che canta e suona l’armonica alla
maniera dei menestrelli folk o oppure pensando a Little Walter.
Dylan è lì, finalmente nel centro del palco! con la chitarra
elettrica a tracollo a suonare un blues forte e vigoroso nel
mischione globale del suo proprio sound.
Questo e solo questo è lo spettacolo dei sei uomini in nero che
alla fine salutano con un mesto inchinano e se ne vanno impilati
come egizi guidati da lui in testa, His Bobness.
Detta così potrebbe essere un concerto qualunque e per Bob
Dylan è lecito pensare che lo sia se si chiama - non a caso -
Never Ending Tour. Per quelle migliaia che continuano ad
accorrere, e sempre maggiore è il numero dei giovani presenti,
è invece qualcosa di diverso, di più profondo. Si ha la
sensazione infatti che Dylan sia lì, a piccolissima distanza da
noi, per indicarci la soluzione alle domande assolute, totali,
segrete del vivere (“l’esperienza catartica” come la
definì dal Palco del Live Aid Jack Nicholson nello spettacolo
di Firenze si è manifestata per questo recensore nella
conclusiva Blowin’ In The Wind ).
Questo sensazione dura un attimo.
Immediatamente a seguire si ha infatti una immediatamente
opposta: che la famosa risposta non la conosceremo davvero mai.
Certo l’amara constatazione è alleviata da brani straordinari
- i più recenti sono un unico mix di blues, old style country
genteel, rock solido ma non intrusivo e molto molto groove
lasciato andare sul modello della Rolling Thunder Revue - ma pur
sempre una constatazione agrodolce, sul mistero della vita e
dell’amore, non lontana dai suoi migliori toni vocali, dalle
sue impennate strascicate o dal nuovo ritrovato sillabare.
Esci consapevole ed appagato, magari conscio di aver partecipato
per un attimo al film della sua vita, quella di Bob Dylan che
intanto è già ripartito per chissà dove.
Ernesto de Pascale
http://www.ilpopolodelblues.com/rev/aprile09/live/bob-dylan-firenze.html
Bob Dylan -
keyboard, guitar, harp
Tony Garnier - bass
George Recile - drums
Stu Kimball - rhythm guitar
Denny Freeman - lead guitar
Donnie Herron - violin, banjo, electric mandolin, pedal steel,
lap steel |
Set
list
1.
Maggie's Farm (Bob on keyboard)
2. Mr. Tambourine Man (Bob on keyboard)
3. Most Likely You Go Your Way (And I'll Go Mine) (Bob on
keyboard)
4. Man In The Long Black Coat (Bob on guitar)
5. Rollin' And Tumblin' (Bob on keyboard)
6. The Lonesome Death Of Hattie Carroll (Bob on keyboard)
7. 'Til I Fell In Love With You (Bob on keyboard)
8. Workingman's Blues #2 (Bob on keyboard)
9. Highway 61 Revisited (Bob on keyboard)
10. Ballad Of Hollis Brown (Bob on keyboard)
11. Po' Boy (Bob on keyboard)
12. Summer Days (Bob on keyboard)
13. Return To Me (Bob on keyboard)
14. Thunder On The Mountain (Bob on keyboard)
15. Like A Rolling Stone (Bob on keyboard)
(encore)
16.
All Along The Watchtower (Bob on keyboard)
17. Spirit On The Water (Bob on keyboard)
18. Blowin' In The Wind (Bob on keyboard)
|
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Set
fotografico disponibile anche in videoclip, qui.
quiù
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Qualche
scatto lontano dal palco. |
Bob
Dylan nasce come Robert Allen Zimmerman, a Duluth, una piccola cittadina
del Minnesota, quasi al confine con il Canada, il 24 Maggio 1941. Dopo
pochi anni la sua famiglia si trasferisce nella vicina Hibbing, un
centro minerario, dove il padre Abe apre con i fratelli un negozio di
componenti elettrici. Qui, Bob vive fino all'eta di 18 anni e compie gli
studi principali; qui decide di imparare a suonare il pianoforte, e qui
fonda il suo primo gruppo rock: I Golden Chords.
Il primo amore di Dylan
infatti, a differenza di quanto comunemente si crede, e' stato proprio
il rock 'n' roll. Buddy Holly, Elvis Presley, Gene Vincent sono i suoi
preferiti, gli stessi di alcune migliaia di giovani come lui. Piu' tardi
attraverso la radio conoscera' i suoi nuovi idoli: the Carter Family,
Hank Williams, Odetta, Ramblin' Jack Elliott, e soprattutto Woody
Guthrie. Messo da parte il piano, e imbracciata la chitarra acustica,
Dylan comincera' a immedesimarsi nel mito dell'hobo, e sognera' di
viaggiare sui treni merci come i vecchi giocatori d'azzardo. Nel 1959
Bob si inscrive all'universita' del Minnesota a Minneapolis, il grosso
centro vicino a Hibbing, ma e' piu' un pretesto per andarsene che un
vero interesse per lo studio. L'anno dopo Dylan arriva a New York, per
andare a trovare Guthrie, agonizzante in un letto d'ospedale e
soprattutto per cercare la strada del successo nella grande metropoli.
Qui riesce a inserirsi in una cerchia di cantanti folk, fra cui Dave van
Ronk, e inizia ad esibirsi nei locali del Greenwich Village. La voce di
Dylan, aspra e tagliente, il suo stile rozzo ma efficace, colpiscono il
grande critico musicale Robert Shelton, che con un articolo sul NY Times
lo lancia come un missile nella scena folk nuovayorchese. E' il folk
infatti, la forma musicale che il movimento giovanile ha scelto in
quegli anni come bandiera. Il rock 'n' roll, era visto alla stregua di
musica commerciale e senza alcun valore. La politica si fondeva con il
folk attraverso quelle canzoni dette "di protesta", che
proprio Dylan era destinato a far conoscere al mondo intero.
Questo
gli permettera' si' di diventare famoso, ma sara', come vedremo, un
marchio quasi indelebile negli anni successivi. In quei mesi, Dylan
canta soprattutto composizioni di Woody Guthrie o comunque nel suo
stile, ed e' questa immagine di nuovo Guthrie, che Dylan ci mostra nel
suo primo LP per la Columbia, BOB DYLAN, che registra grazie a John
Hammond, nel 1962. Solo due canzoni del disco sono sue, una in puro
stile Guthrie, l'altra SONG TO WOODY e' a lui dedicata. Il disco vende
pochissimo e solo la forte influenza di Hammond, rende possibile a Dylan
l'incisione di un secondo LP. Ma Bob cresce in fretta: il suo secondo
album, THE FREEWHEELIN' BOB DYLAN, contiene alcune fra le piu' belle
canzoni di sempre. BLOWIN' IN THE WIND, GIRL FROM THE NORTH COUNTRY, A
HARD RAIN'S A-GONNA FALL, MASTERS OF WAR, DON'T THINK TWICE, IT'S ALL
RIGHT, sono passate alla storia, e Dylan le esegue normalmente in
concerto ancora oggi. Blowin' in the wind, sopra tutte, lancera' Dylan
nell'olimpo dei folk singer, con Pete Seeger, Joan Baez e gli altri
grandi. La consacrazione vera e propria avverra' a Newport nel 1963 dove
Dylan verra' eletto praticamente come il Re del Folk. Vive un amore
molto profondo e contrastato con Suze Rotolo, la ragazza che lo
abbraccia sulla copertina di "Freewheelin'", che si conclude
male, e lascia Bob distrutto. Non sara' l'ultima volta. Seguono anni e
album di grande successo: THE TIMES THEY ARE A-CHANGIN' e' la conferma
di Dylan come cantore della protesta. I tempi stanno cambiando e chi non
puo' stare al passo si faccia da parte; sono canzoni contro la guerra,
contro le ingiustizie sociali, contro i vecchi borghesi bigotti. Ma
anche Dylan sta cambiando. Crescendo si fa piu' introspettivo.
I
suoi testi iniziano a parlare dell'aspetto interiore dell'uomo, oltre
che del suo impegno sociale: ANOTHER SIDE OF BOB DYLAN (Un altro lato di
B.D.) nonostante esca nello stesso anno del precedente, e nonostante sia
ancora una volta suonato da Dylan solo, e' un disco completamente
differente. Non c'e' piu' traccia in queste canzoni dell'impegno sociale
dei LP precedenti. Dylan si guarda dentro e scopre cose nuove. Incontra
i poeti della beat generation, come Ginsberg e Ferlinghetti, che lo
aiutano nella sua maturazione artistica e le sue liriche ne risentono
profondamente. Non tutti i suoi fans capiranno questo cambiamento.
Qualcuno protestera'. L'anno successivo pero' avranno ben altro per cui
protestare: Il nuovo disco BRINGING IT ALL BACK HOME "riporta tutto
a casa". Il ritorno al primo grande amore per il rock 'n' roll.
Dylan si fa accompagnare da un gruppo elettrico nella prima facciata.
Canzoni
come MAGGIE'S FARM, SUBTERRANEAN HOMESICK BLUES, SHE BELONGS TO ME
fondono il ritmo del rock 'n' roll con i testi "impegnati" del
folk. Questa nuova miscela, raggiungera' le vette delle classifiche
nell'interpretazione che i Byrds daranno di Mr. Tambourine Man, e verra'
chiamata, con poca fantasia in realta', FOLK-ROCK. Nella seconda
facciata inanella quattro capolavori di sempre: la gia' citata
MR.TAMBOURINE MAN, GATES OF EDEN, IT'S ALL RIGHT MA e IT'S ALL OVER NOW,
BABY BLUE. Un disco scioccante, ma il meglio deve ancora venire: dopo
una tournee trionfale in Inghilterra, rigorosamente acustica, Dylan
torna in america e si presenta al Newport Folk Festival, tempio della
musica folk, imbracciando una chitarra elettrica accompagnato da un
gruppo rock, e da vita a una delle piu' dirompenti esibizioni dal vivo
di tutti i tempi. "Non lavorero' piu' nella fattoria di
Maggie..." urla Dylan dal microfono, ad un pubblico allibito, che
non sa far di meglio che fischiare e reclamare il "vecchio
Bob" e la chitarra acustica. Ma ormai Dylan e' su un'altra strada,
non si esibira' mai piu' da solo con l'acustica per un intero concerto.
Comincia cosi' un tour che portera' Dylan in giro per il mondo e che
culminera' con gli show alla Royal Albert Hall nel maggio del 1966.
Concerti fantastici che pero' reciteranno sempre lo stesso copione:
entusiasmo nella prima parte con dylan solo sul palco, grida e defezioni
nella seconda con il gruppo.
Nel frattempo escono due dei suoi dischi piu' belli: nel '65, HIGHWAY 61
REVISITED, che contiene canzoni come LIKE A ROLLING STONE, BALLAD OF A
THIN MAN, DESOLATION ROW e l'anno dopo BLONDE ON BLONDE con JUST LIKE A
WOMAN, VISIONS OF JOHANNA, I WANT YOU e molte altre.
Al ritorno dall'inghilterra Dylan e' all'apice della fama e della
stanchezza.
La tensione cresce in modo insopportabile, altre decine di show sono
programmati per l'autunno, Dylan sta immedesimandosi nella figura di
poeta maledetto dei tempi moderni, destinato come da copione a morire
giovane, quando avviene quello che paradossalmente potrebbe avergli
salvato la vita: una mattina di luglio Dylan cade di moto e viene
ricoverato in ospedale. Per piu' di un anno, nel quale viene dato per
morto, o impazzito, orrendamente mutilato, Dylan non si fa vedere in
giro. L'incidente e' stato si' grave, ma soprattutto ha aperto al
cantante un nuovo mondo, fatto di valori diversi. Dylan scopre cosi' la
famiglia (si era sposato in gran segreto nel 1965), si rinchiude con i
suoi amici della Band, in una cantina e registra decine e decine di
canzoni, di cui solo poche vedranno la luce nel 1975 nel doppio album
THE BASEMENT TAPES.
Nel
1968, un Dylan diverso, anche fisicamente, ricompare per celebrare il
suo vecchio maestro Guthrie, in un concerto in suo onore.
Pubblica JOHN WESLEY HARDING un disco di canzoni-parabola, con pesanti
riferimenti alla bibbia, musicalmente molto semplice, un basso acustico,
una batteria la sua chitarra, proprio nell'anno della nascita della
psichedelia, e del nuovo rock che lui stesso aveva contribuito a creare.
L'album fra l'altro, contiene la famosissima ALL ALONG THE WATCHTOWER.
L'anno successivo, vede la collaborazione con Johnny Cash, il cantante
country, accusato di appartenere a quella destra bigotta, che spesso
Dylan aveva combattuto nelle sue canzoni. NASHVILLE SKYLINE e' un disco
in tutto e per tutto country. Dylan si sta borghesizzando: un onesto
padre di famiglia, amante dei dolci fatti in casa e della vita
tranquilla. L'eroe visionario che solo un paio di anni prima calcava le
scene con i capelli lunghi e spettinati, le sue "poesie della
mente", era morto per sempre. Molti fans sono sconcertati, ma molti
di piu' lo seguono nel suo girovagare, tanto che il disco e il singolo
LAY LADY LAY saranno fra i piu' venduti di sempre. Tutto e' pronto per
il rientro in grande stile: un mega concerto al festival dell'isola di
Wight, stelle dell'ultima giornata Bob Dylan & the Band. Dopo piu'
di tre anni un concerto pubblico, dove pero' 200.000 mila fans
assisteranno a una pallida incarnazione del loro idolo. Dylan con la sua
voce "country-style" massacrera' alcune delle sue canzoni piu'
belle. Una delusione.
Dopo
aver ascoltato i nastri del concerto, Dylan decide di abbandonare l'idea
di un tour. Il suo pubblico dovra' aspettare per quasi 5 anni. Il primo
disco degli anni settanta e' probabilmente uno dei piu' controversi
della discografia Dylaniana: SELFPOTRAIT. Una raccolta di brani
originali, di tradizionali come "Blue Moon" o "Let It Be
Me" assolutamente non-Dylaniani, di alcune vere perle come
"Copper Kettle", brani dal vivo dal tristemente gia' citato
concerto di Wight. Greil Marcus sintetizzera' l'umore dei fans con una
recensione che inizia cosi':"Cos'e' sta merda?". Dylan si
giustifichera', prima difendendo il suo disco, poi dichiarando di aver
fatto di proposito un disco orribile, e di averlo fatto doppio per
rincarare la dose: "...volevo fare qualcosa di tanto brutto, che la
gente smettese di comprare i miei dischi...". Non sappiamo se sia
vero o meno, fatto sta che Dylan raggiunse il suo scopo. Riascoltato
oggi, a distanza di tanti anni, "Selfpotrait" e' sicuramente
migliore di quanto la critica sentenzio' nel 1970. Da quel momento in
poi, comunque, non fu piu' un Mida della musica pop. Spaventato da tanta
critica, Dylan si affretto' a far uscire a soli 4 masi di distanza NEW
MORNING, che fu salutato come il migliore album da anni. In realta'
cominciava un periodo di crisi creativa, che durera' circa tre anni, nel
quale Dylan eseguira pochi lavori minori. Apparira' nel 1971 al concerto
organizzato dall'amico George Harrison in aiuto dei popoli del
Bangladesh, fara' uscira una raccolta con pochi inediti e realizzera'
una buona colonna sonora per il film PAT GARRETT & BILLY THE KID di
Sam Peckinpah, nel quale avra' anche un piccolo ruolo. Nello stesso anno
vengono pubblicati una raccolta di testi delle sue canzoni, e quello che
e' a tutt'oggi l'unico libro scritto da Dylan: TARANTULA.
Questo
libro, scritto verso la meta' degli anni sessanta, circolato per anni
nel mercato clandestino, e' un testo di difficile lettura, nello stile
"visionario" di quegli anni, e lo stesso Dylan era poco
convinto della sua pubblicazione. Sconsigliato ai fan di primo pelo. Il
Dylan protestatario fa capolino quando viene pubblicato un 45 giri
dedicato a George Jackson, il leader delle "Pantere Nere",
ucciso in carcere. Il risultato e' una canzoncina innocente proposta in
due versioni distinte. Nel 1973 dopo la decisione di cambiare casa
discografica, la Columbia, pubblica un disco di scarti di Selfpotrait
chiamato DYLAN, e minaccia di farne uscire altri venti in breve tempo,
ma Dylan irremovibile passa alla Asylum. Il disco che esce nel gennaio
del 1974 PLANET WAVES e' il migliore dai tempi di JOHN WESLEY HARDING.
Nello stesso tempo Dylan si imbarca nella sua prima tournee in America
da otto anni. Milioni di persone richiedono i biglietti per questi show
e il tour produce una eco enorme. Ne verra' fuori anche un souvenir, il
doppio album BEFORE THE FLOOD. Il tour attraversa gli stati uniti e il
Canada e si potrae per quasi due mesi. Dopo i primi concerti, ottimi e
variati, Bob si stufa di stare "on the road", la scaletta si
stabilizza e Dylan assume un modo di cantare che verra' detto "da
stadio", cioe' urla a volte piu' che cantare, e su sua stessa
ammissione conclude il tour svogliatamente, non vedendo l'ora di tornare
a casa. A casa l'aspettano pero' i problemi con Sara, la moglie e madre
dei suoi cinque figli. Da questa situazione penosa nascera' quello che
probabilmente e' il disco piu' profondo di Dylan, e senza dubbio uno dei
migliori in assoluto: BLOOD ON THE TRACKS. Praticamente ogni canzone di
questo disco e' un capolavoro. Per la cronaca, il disco sancisce anche
il ritorno alla Columbia, per la quale Dylan incide ancora oggi.
La
pubblicazione di questo album rialza moltissimo le quotazioni di Dylan,
che comincia a farsi rivedere nei locali del Village, come nei primi
anni sessanta. Eccitato da questa "seconda giovinezza" torna
in studio e incide l'album di maggior successo della sua carriera:
DESIRE. Nel singolo HURRICANE dedicato a un campione di pugilato, Rubin
Carter, che stava marcendo in prigione per un omicidio non commesso,
Dylan ritrova anche la sua vena protestataria, per la gioia dei suoi fan
piu' vecchi. I problemi in famiglia sembrano risolti, e Dylan ritrova
tutta l'energia dei suoi momenti migliori. DESIRE e' un successo
assoluto, e Bob decide di fare una cosa che meditava, sin dai tempi del
tour del '66: mette in piedi una specie di carrozzone, chiamando a se'
molti suoi amici musicisti, come Joan Baez, Jony Mitchell, Mick Ronson,
Roger McGuinn e parte per gli states, in una tournee fatta di concerti a
sorpresa, senza battage pubblicitario, in piccole sale di provincia.
Gli
show durano per ore e molte volte il gruppo suona per due concerti
consecutivi, in un giorno. Gran parte del tour chiamato ROLLING THUNDER
REVIEW, viene filmata dalla troupe di Dylan, che utilizzera' poi questi
filmati nel suo film RENALDO E CLARA. Nel frattempo vengono pubblicati i
BASEMENT TAPES. Dylan e' nuovamente all'apice della fama. L'anno
successivo quando la Rolling Thunder riprende il suo cammino, la magia
se ne e' andata. Molti show avvengono in grandi stadi, gli arrangiamenti
sono meno interessanti, molti amici musicistiv non ci sono piu'.
Inoltre, verso la fine del Tour avviene l'irreparabile. Sara scopre il
suo ennesimo tradimento e chiede il divorzio che avverra' l'anno dopo.
La fine del 1976 vede il concerto di addio della Band, il gruppo che dal
1965 aveva legato la sua storia con Dylan. Lo show, che presenta
numerosi ospiti fra cui ovviamente Dylan, viene ripreso dal regista
Martin Scorsese ed esce nelle sale discografiche col titolo di THE LAST
WALTZ. Un triplo LP dallo stesso titolo viene pubblicato in
contemporanea. Dylan, forse per reazione al divorzio, passa tutto il
1977 a montare il SUO film, girato durante il tour del '75. Inframmezza
scene di recitazione, spesso improvvisate, con canzoni dal vivo. Il
risultato e' un film, per lo piu' incomprensibile, di 4 ore di durata:
RENALDO & CLARA. La critica questa volta e' feroce. Dylan si imbarca
nel suo tour piu' lungo: 115 date da Febbraio a Dicembre, dal Giappone
al Canada. Un nuovo gruppo di molti musicisti, fra cui un sax e tre
coriste. Dylan come Presley? Questo e' quello che i critici americani
dicono senza peli sulla lingua. Stessa sorte tocca nell'estate al nuovo
album STREET LEGAL, che nonostante soffra di una produzione frettolosa,
resta per la verita' un ottimo disco.
Da
questo momento la critica si dividera': da una parte gli americani, che
non avranno piu' parole di elogio, fino al 1988; da l'altra il resto del
mondo, che invece, con le dovute eccezioni, apprezzera' i lavori futuri.
In estate torna in Europa e canta dopo 12 anni in Inghilterra e in
Francia, dove nel 1966 era stato tanto duramente contestato. Questa
volta e' tutta un'altra storia. I suoi concerti vengono considerati i
migliori di sempre. La tournee europea si conclude vicino Londra, dove
oltre 200.000 persone assistono a un trionfale concerto all'aerodromo di
Blackbush. Ma il tour non finisce qui: l'ultima parte della tournee
riporta Dylan negli USA, dove come dicevamo la critica, e' molto meno
benevola con lui. Alla fine del 1978, Dylan sta malissimo. Non e' un
problema fisico: qualcosa deve cambiare a livello interiore. Dopo essere
stato ebreo per tutta la vita, cerca nella religione un "riparo
dalla tempesta":si converte al Cristianesimo. Pubblica nel 1979
SLOW TRAIN COMING, il piu' intransigente dei due album
"religiosi". GOTTA SERVE SOMEBODY ottiene un Grammy e l'album
prodotto dall'emergente Mark Knopfler e' un buon successo commerciale.
I
testi pero' sono quasi fanatici e scendono nel cattivo gusto
"...sceicchi che vanno in giro come Re, con buffi gioielli e
l'anello al naso...". Alla fine dell'anno torna in tournee. Nuovo
gruppo e nuove canzoni: per un anno intero, nonostante le pressanti
richieste del pubblico, quando non le vere e proprie defezioni, Dylan si
rifiuta di cantare le vecchie composizioni. Qualcuno fra i vecchi fans
sintetizza cosi' i loro sentimenti: "Va benissimo che Dylan, se
crede si converta al Cristianesimo, ma perche' deve cantarcelo?." I
testi del nuovo LP SAVED sono piu' rivolti alla compassione e all'amore
del prossimo, rispetto al disco precedente. Qui Dylan esplora il
Gospel-Rock con ottimi risultati. Musicalmente e' uno dei dischi piu'
belli, ma i critici non la pensano cosi'. Il pubblico neanche. La
pubblicazione di un disco "live", dai concerti di quel
periodo, viene abbandonata a causa delle scarse vendite. Nel dicembre
del 1980 la visione integralista di Dylan si ammorbidisce, e alcuni
classici entrano in scaletta. Con questo tipo di spettacolo, Dylan
giunge in Europa nel giugno del 1981. E' accolto ancora molto bene e
pubblica in quei giorni, uno dei suoi dischi piu' sottovalutati: SHOT OF
LOVE. Questo disco viene considerato il terzo della "trilogia
religiosa". Mi permetto di dissentire. E' un disco secolare a tutti
gli effetti. Una perla assoluta, EVERY GRAIN OF SAND chiude l'album.
Dylan conclude il "tour evangelico", negli USA nell'autunno.
Ancora una volta la critica americana, stronca questi show, e per la
prima volta in 4 anni Dylan si concede una pausa. "Quando faccio
qualcosa, mi ci calo fino in fondo". Cosi' Dylan si esprime
riguardo al "periodo Cristiano". Nel triennio '79-'81 come
abbiamo visto, Dylan, canto', parlo' predico', di niente altro se non di
Cristo e della salvezza Divina. Combatte' con il pubblico ostile, fece
veri e propri sermoni ai concerti, si immerse
completamente in un mondo spirituale, e non certo per motivi
speculativi. Il periodo "born again", coincide con un calo
netto nelle vendite. Quando nel 1983 usci' INFIDELS tutto questo
sembrava non essere mai esistito. Anzi, una canzone del LP
"Neighborhood Bully" era chiaramente dedicata a Israele.
Dylan era di nuovo ebreo? Da parte sua, defini' gli anni precedenti,
come un periodo concluso, una grande esperienza senza dubbio, ma
"...del resto anche Gesu', aveva predicato per tre anni...".
L'arroganza di questa affermazione e' pari solo alla sua ignoranza. Ma
del resto Dylan e' questo. Una persona che non ha certo paura di fare
brutte figure. INFIDELS resta uno dei dischi migliori degli anni
ottanta, poveri in realta' di grandi prove discografiche del nostro.
Mark Knopfler torna alla produzione, e il risultato e' senza dubbio
piacevole. Nelle sessions verranno registrate una grande quantita' di
canzoni, fra le quali BLIND WILLIE McTELL, che considerata un vero
capolavoro, vedra' la luce solo nel
1991. Nel 1984 inizia da Verona, il
28 maggio per l'esattezza, una nuova tournee europea. Questa volta i
critici hanno ragione di essere insoddisfatti: dopo poche ore di prove,
con una band approssimativa e confusionaria, il risultato e' deludente.
Nel corso del tour, le cose migliorano, ma resta uno degli spettacoli
meno esaltanti della carriera di Dylan. Per la cronaca esegue solo un
paio di brani del periodo "religioso" e con parte dei testi
riscritta. Il disco che ne viene tratto, REAL LIVE, e' ancora piu' opaco
e decisamente non tocca il cuore di nessuno. Il tour si conclude in
Inghilterra e neanche un mese dopo Dylan e' ancora in studio di
registrazione. Nel 1985 Dylan ritorna alla ribalta. Questo e' un anno
veramente importante: vengono pubblicati EMPIRE BURLESQUE il suo nuovo,
discreto album in studio, e BIOGRAPH, una raccolta di ben 5 LP, che fra
l'altro risultera' vendutissima; Dylan partecipa al progetto USA for
Africa e al conseguente LIVE AID, che ha l'onore di chiudere, e dove
davanti a un miliardo di telespettatori, lancia l'idea per il Farm Aid
in aiuto dei contadini americani.
Proprio
in occasione del Farm Aid, Dylan decide di farsi accompagnare da Tom
Petty & the Heartbreakers. Si trovano talmente bene insieme, che
l'anno dopo decidono di andare in tour, prima nell'estremo oriente e poi
negli States.
Dai primi concerti viene tratta una videocassetta chiamata HARD TO
HANDLE. Da questo momento in poi Dylan andra in tour tutti gli anni a
venire. I concerti con Tom Petty, che nella prima parte dell'anno erano
decisamente buoni, divengono molto meno apprezzabili nel braccio
americano della tournee.
Dylan sforza la voce, stona piu' volte. Il suo atteggiamento sul palco
e' arrogante e sprezzante. Forse il giocattolo si sta rompendo. Dylan
trova il tempo per tornare ancora in studio: KNOCKED OUT LOADED, il
disco che mette insieme, e' fra i peggiori di sempre. Solo BROWNSVILLE
GIRL, una ballata di oltre 10 minuti, lo salva dall'anonimato. E'
proprio il momento per recitare una parte in un film. HEARTS OF FIRE e'
stato definito il peggior film rock della storia. Dylan interpreta il
ruolo di un certo Billy Parker, una vecchia rock star-allevatore di
galline, che cerca di conquistare la bella (?) Fiona, una antipatica
emergente stellina, ma che deve contendersi con Rupert Everett, bel
(???) tenebroso, schizzato e paranoico cantante di successo. Con un
finale che ha pochi rivali in banalita', e' veramente un mistero PERCHE'
Dylan abbia accettato di girare questo film. Una porcheria. Ancora
peggio la colonna sonora, a parte una bella cover di THE USUAL di Hiatt.
Nel luglio del 1987, Dylan si unisce ai Grateful Dead per un mini-tour
di sei concerti. Vengono eseguite per lo piu' canzoni mai suonate dal
vivo, molte delle quali volute proprio dai Dead. Questi concerti saranno
fondamentali per la futura carriera di Dylan. "Prima del tour con i
Grateful Dead" dice Dylan, "andavo in tournee ogni due, tre
anni. Poi ho capito che non era piu' sufficiente." Ed e' un Dylan
trasformato, quello che giunge in Europa alla fine dell'estate del 1987.
Una scaletta dinamica (nei primi tre concerti Dylan esegue quasi 50
canzoni diverse), arrangiamenti piu' convincenti rispetto all'anno
precedente. Dylan e' in gran forma, per risparmiare la voce, riduce la
durata degli show a poco piu' di settanta minuti. Questa, purtroppo, e'
l'unica cosa che noteranno molto critici. Ma sono concerti vivi,
originali e ben eseguiti. I problemi vengono dallo studio di
registrazione; il 1988 ci consegna il disco piu' brutto di Dylan: DOWN
IN THE GROOVE. Un accozzaglia di brani originali, fra cui solo SILVIO si
salva, e di cover insignificanti. RANK STRANGERS TO ME e decisamente
bella, tutto il resto decisamente no. Incredibilmente poco per Bob
Dylan. Stranamente proprio quell'anno, Dylan ottiene uno dei suoi
maggiori successi commerciali, anche se non da solo; TRAVELING WILBURYS
VOL. 1, e' il titolo che viene dato al primo lavoro, di questo, neanche
tanto, fantomatico gruppo. George Harrison, Tom Petty, Jeff Lynn, Roy
Orbison, raggiungono Dylan nella sua casa di Malibu e registrano un
divertissement, ironico e piacevole, che conquista la vetta delle
classifiche. Quando dopo la scomparsa do Orbison, i quattro superstiti
nel 1990, cercheranno di bissarne il successo con VOLUME 3, le cose non
riusciranno altrettanto bene. Dopo aver registrato il disco con i vecchi
amici, Dylan inizia un tour che a tutt'oggi lo vede calcare i
palcoscenici di tutto il mondo. Con una band di tre soli elementi, Dylan
ripercorre il suo vasto repertorio, impreziosendolo con cover di brani
tradizionali, con arrangiamenti nervosi e grintosi. I concerti sono un
vero successo, e anche la critica americana ne tesse le lodi. Il piccolo
combo, si dimostra un perfetto strumento nelle mani di Dylan, che l'anno
dopo ne ripropone la formula anche in Europa.
Nell'ultimo
anno della decade, Dylan mette a segno il grande colpo: pubblica OH
MERCY, il miglior album in studio dai tempi di BLOOD ON THE TRACKS. Con
la produzione di Daniel Lanois, mette insieme un disco di grandi
canzoni, che sinceramente sembrava troppo sperare. MOST OF THE TIME, MAN
IN THE LONG BLACK COAT, RING THEM BELLS, non sfigurerebbero in nessun
album del periodo d'oro. Il pubblico purtroppo, non la pensera' cosi', e
Oh Mercy non sara' un successo di vendite. Nonostante cio', o a maggior
ragione, rimane un vero capolavoro "Se verrai a cercarmi quando
avro' 90 anni, probabilmente mi troverai su di un palco da qualche
parte...", cosi' Dylan diceva ad un giornalista qualche anno fa.
Gli anni novanta hanno significato soprattutto concerti per Bob Dylan.
Il tour che era iniziato nel 1988, continua ancora oggi (gli ultimi show
si sono svolti a meta' novembre negli USA): il Never Ending Tour, il
tour senza fine appunto. Se cio' in parte ha limitato l'attivita' in
studio, ha dato modo a Dylan di far conoscere la sua musica alle nuove e
nuovissime generazioni. All'inizio del 1990 comunque, Dylan si reca in
studio per incidere quello che sara' UNDER THE RED SKY. Un buon disco,
completamente differente dal precedente OH MERCY, ma non al suo livello.
Ma l'inizio della nuova decade vede Dylan sul palco di un piccolo locale
di New haven, il Toad's Place, eseguire uno dei concerti che piu' hanno
colpito l'immaginario dei suoi fans: quattro set per un totale di 50!
canzoni e oltre 4 ore di show. E tutto questo a quasi cinquanta anni.
Dylan,
per la prima e unica volta, esegue brani a richiesta fra cui Joey (non
prima di aver fatto notare che il richiedente era gia' stato
accontentato piu' volte). Poi il tour vero e proprio ha inizio: Brasile,
Europa e ancora America del Nord. Nell'ultima parte della tournee,
G.E.Smith il bravo chitarrista, che aveva dato un'impronta decisa al
sound del gruppo, abbandona la band. Dylan inizia una insolita
"prova sul campo" di alcuni chitarristi, facendoli
letteralmente debuttare in pubblico, per testarne le capacita'. In
realta' saranno necessari ben 2 chitarristi per rimpiazzare l'eclettico
Smith. All'inizio del 1991 anche il batterista abbandona. La nuova line
up vede ora J.J.Jackson alle chitarre, un povero rimpiazzo per la
verita', e il ritorno dietro alla batteria di Ian Wallace, che aveva
suonato nel tour del 1978. Questa formazione e' certamente la piu'
modesta dell' intero Never Ending Tour IN febbraio, riceve il Grammy
alla carriera, e in piena crisi del Golfo, si presenta davanti a milioni
di americani, cantando "Masters of War". Nel proseguo del
1991, Dylan accusa un deciso calo di forma, e le sue performance dopo un
discreto inizio a Londra in febbraio, cominciano a peggiorare, fino a
giungere al nadir durante il tour europeo in luglio. Sia il cantato che
la chitarra di Dylan, sono quasi imbarazzanti in certi momenti di questi
show. Le cose migliorano decisamente in autunno, nella fase americana
del tour. In occasione dei 50 anni di Dylan, la Sony pubblica un
cofanetto di 3 cd, contenente solo brani inediti: THE BOOTLEG SERIES
VOL.1-3. L'anno successivo un altro membro si aggiunge alla band di
Dylan: Bucky Buxter e' un polistrumentista di ottima caratura. Il suono
della sua pedal-steel guitar arricchira' da ora in poi il sound del
gruppo, mentre il suo mandolino svolgera' un ottimo contrappunto, nelle
versioni acustiche di molti classici. Il tour fa vela per l'Australia,
poi ancora negli USA, e il livello si alza decisamente rispetto al '91.
Un altro vecchio amico di Bob, Charlie Quintana, si affianca a Wallace
dietro una seconda batteria. Poi l'europa, e Dylan rientra nel suo
"mood" nero. Alterna buone prestazioni, ad altre decisamente
scadenti. Ancora in America: il livello risale. Il 16 ottobre 1992 il
gotha della musica rende omaggio a Bob. Un concerto in suo omaggio viene
organizzato dalla casa discografica, per il suo trentennale nel mondo
della musica. A parte qualche defezione, tutti gli amici sono a
rendergli omaggio, piu' qualche nuova "stellina" che la Sony
spera di lanciare. Lo stesso Dylan, e' coinvolto nello spettacolo.
Il
primo brano che esegue e' "Song To Woody", ed e'
significativo, che nel giorno del suo tributo, lui renda omaggio al suo
vecchio maestro. Bel gesto a parte, la sua performance e' abbastanza
scadente, al punto che il cantato di una canzone deve essere in parte
reinciso in studio. Dall'evento la Sony trarra' mesi dopo un doppio cd
dal titolo THE 30TH ANNIVERSARY CONCERT CELEBRATION. (Pare per motivi
tecnici, ma proprio "Song to Woody" manca l'inserimento
nell'album). Esce GOOD AS I BEEN TO YOU un disco assolutamente
spiazzante. Dylan dopo 28 anni, da solo con la chitarra acustica. Le
canzoni non sono sue, sono tutte dei tradizionali, che Dylan ha
ripescato nel suo immenso archivio. La critica e' entusiasta. Le vendite
ancora una volta... Dopo il tributo, Dylan continua il suo tour. Di
colpo ricomincia a cantare come Dio comanda, e la sostituzione dei due
batteristi con il giovanissimo Winston Watson, produce una carica che
ancora oggi non accenna ad esaurirsi. Il 1993 inizia ancora una volta da
Londra.
Il
nuovo batterista e' una vera forza della natura, ha inventiva e potenza,
e le canzoni di Dylan ne escono rivitalizzate. Gli show americani in
primavera, sono ancora migliori, e cosi anche quelli europei
dell'estate. Dylan inizia a suonare la chitarra solista, un poco
impacciato per dire la verita', e i suoi lunghi fraseggi dilatano le
canzoni a dismisura. Uno show di 14 canzoni si potrae per oltre due ore
e mezza. Esce il secondo capitolo acustico: WORLD GONE WRONG se e'
possibile e' ancora piu' bello del precedente. (Avrebbe potuto essere
registrato con piu' cura, ma tant'e'...). Ancora tradizionali, ma
stavolta l'album ha un impronta decisamente piu' blues. Il tour continua
in America in autunno e a novembre Dylan decide di registrare, come
altri artisti prima di lui, uno show per Unplugged di MTV. Tiene una
serie di quattro concerti gratuiti, in due serate al Supper Club di New
York, e sono quattro concerti acustici bellissimi, che pero' non
vedranno la luce se non su bootleg. Dylan non ne e' soddisfatto. Il 1994
si apre con dei concerti in Giappone, dove pare che Dylan sia realmente
idolatrato. Tornera' piu' tardi quello stesso anno, per una trionfale
partecipazione al GREAT MUSIC EXPERIENCE accompagnato da un'orchestra
sinfonica! Anche il 1994 vede una notevole attivita' concertistica. USA,
poi Europa, ancora America, dove ad Agosto suona anche al nuovo festival
di WOODSTOCK ("solo un altro show, veramente." dira' Dylan).
Ancora novembre e ancora Unplugged. Questa volta in due spettacoli Dylan
riesce a mettere su un cd per MTV. Il risultato, pubblicato su cd e
video VHS, con l'ovvio nome di UNPLUGGED, pur essendo di ottimo,
veramente ottimo, livello non regge il confronto ne' con i concerti del
novembre '93, ne' con le canzoni che Dylan ha scartato da questi due
show del '94.
La
Sony fa anche uscire una raccolta, abbastanza inutile GREATEST HITS
VOL.3, che contiene un solo inedito, Dignity, dalle sessions per
"Oh Mercy", rimaneggiato qui e la' da un nuovo produttore. Lo
stesso Brendan O'Brien che suona l'organo hammond in Unplugged. L'unica
novita' di rilievo nei concerti del 1995, e' che Dylan esegue, prima
quasi l'intero concerto, poi solo alcune canzoni, senza suonare la
chitarra. Con in mano il microfono, e muovendosi con quel suo modo un
poco "legnoso", Dylan accenna anche dei passi di
"danza". Le virgolette sono d'obbligo dato il personaggio. Per
il resto i concerti si mantengono su livelli altissimi. Esce, ed e' un
evento, il CD-ROM multimediale, HIGHWAY 61 INTERACTIVE, che contiene
tantissimo materiale, anche inedito, fra cui alcuni spezzoni di video, e
una discografia con gli album ufficiali e tutti i testi. Muore Jerry
Garcia, il chitarrista-leader dei Grateful Dead, grande amico di Dylan.
"Un fratello maggiore" lo aveva definito. Da questo momento un
riferimento musicale a Garcia non manchera' quasi mai nei suoi concerti.
Nel dicembre Dylan esegue un breve tour con Patty Smith. Nessuna novita'
per i primi mesi del 1996, sia nel livello artistico degli show, che
nella formazione che ormai e' la stessa dalla fine del 1992. E' la band
che ha suonato a tutt'oggi piu' tempo con Dylan. Tony Garnier, il
bassista, ancora oggi nel gruppo, e' con Dylan dal 1989! Si sente in
effetti il bisogno di un cambiamento, prima che lo spettacolo inizi a
ristagnare. Dylan inserisce nuovi brani in scaletta, ma non risolvono il
momento di empasse. Dopo il tour europeo , il batterista lascia la band.
Al suo posto arriva David Kemper, guarda caso gia' batterista del gruppo
di Garcia. Il suo "drumming", decisamente meno incisivo di
quello di Watson, da alle canzoni un colore piu' raffinato ma meno
moderno.
Dopo
la tournee in Giappone del febbraio 1997, anche il chitarrista lascia a
favore dell'ottimo Larry Campbell, anche se la sostituzione e' meno
significativa, dato il ruolo sempre piu' secondario del chitarrista, da
quando Dylan stesso esegue la maggior parte delle parti solistiche.
Questa e' la formazione dei nostri giorni. Da tempo intanto, si parla
della prossima uscita del nuovo disco in studio con brani originali.
Dylan pero' e' ancora in tour: aprile e maggio si segnalano per alcuni
fra i migliori show del never ending tour. Poi all'improvviso si
diffonde la notizia che Dylan e' ricoverato, gravissimo, in ospedale.
Una forma di istoplasmosi ha colpito il suo cuore. Sono momenti
realmente tragici, inoltre, la proverbiale difesa della privacy di
Dylan, non fa filtrare nessuna notizia. Dylan e' costretto ad un lungo
periodo di convalescenza a letto.
Pian
piano cominciano a circolare voci sulla sua possibile guarigione.
Incredibilmente, dopo due mesi, Dylan torna a suonare dal vivo. Ha 56
anni e non intende fermarsi. Fra l'altro gli show sono bellissimi, con
Dylan che a volte sussurra le parole, dando una connotazione quasi
intima alle sue interpretazioni. A settembre Dylan e' davanti al Papa a
Bologna. Poi quattro show in Inghilterra e soprattutto l'uscita dopo
sette anni di un suo disco di nuove canzoni: TIME OUT OF MIND. Un disco
stupendo. Una volta tanto pubblico e critica si mettono d'accordo: vince
3 Grammy e diventa disco di platino. Ancora show in America, fra i
migliori di sempre, chiudono quest'anno cosi' importante per Bob Dylan.
Ha rischiato seriamente di morire, ma e' tornato piu' in forma che mai.
Ed eccoci giunti dopo questa breve, neanche tanto, carrellata sulla vita
di Dylan al 1998. Un altro anno di concerti in tutto il mondo e tutti di
alto livello, del suo tour senza fine. Da poco la Sony ha fatto uscire
il volume 4 della Bootleg Series: il concerto di Manchester del 17
maggio 1966. Il concerto passato ormai alla storia, dove qualcuno dal
pubblico grido' "Judas", traditore. Ebbene, Dylan e' stato
tante cose, protestatario, campagnolo, ebreo, cristiano, folk singer,
cantante rock, country, blues, zingaro, predicatore, reazionario e
innovatore, drogato e vegetariano, padre e marito, amante e rivoltoso,
acustico ed elettrico, commerciale ed elitario, ma senz'altro non e' mai
stato un traditore. E quasi quaranta anni di musica a livelli cosi'
elevati, da essere spesso irraggiungibili, stanno li' con tutta la loro
grandezza a dimostrarlo.
www.angolobiografie.it/d/Dylan_Bob
|
Dalla
pubblicazione dello splendido Time Out Of Mind dato 1997 il mito
dilaniano sembra essere tornato alla ribalta in tutta la sua forza e così
intorno alle pubblicazioni discografiche di Bob Dylan si è avuta una
vera e propria escalation di pubblicazioni editoriali. Districarsi
quindi in questa enorme quantità di libri, dalle
biografie ai saggi
passando per piccoli e
maneggevoli compendi, è cosa assi complessa. Quanti però sono
realmente validi considerando la portata epocale della produzione di Bob
Dylan? I libri sono solo un complemento alla sua produzione e per
conoscere a pieno la complessità del suo songwriting e della sua arte
non si può prescindere dall’ascolto di tutti i dischi, Bootleg Series
compresi. La miriade di libri scritti su Bob Dylan hanno spesso
imprigionato la sua arte in strutture interpretative troppo strette e
spesso soprattutto se letti a molti anni di distanza non hanno retto al
passare del tempo. Pochi sono dunque i libri dilaniani veramente validi,
il resto sono da classificarsi come mere operazioni commerciali o
semplici vademecum per neofiti. Questo breve speciale è l’occasione
per fare il punto sui libri più recenti ma soprattutto su alcune
chicche, in esclusiva per il Popolo Del Blues, da
non perdere assolutamente. Prima di passare però ai libri più recenti
è bene volgere uno sguardo veloce ai libri storici sul menestrello di
Duluth. Tra i libri che non dovrebbero mancare per coloro che vogliono
saperne di più sulla
multiforme vita artistica di Bob Dylan c’è sicuramente, la “Biografia”
di Anthony Scaduto (Arcana editrice, varie edizioni dal ’72 in
poi) e l’ultima “Bob Dylan”di Howard Sounes (Guanda
2002).
Se
la prima documenta dettagliatamente solo i primi anni di carriera, la
seconda è quella più recente e aggiornata la cui pecca principale è
quella di curare solo l’aspetto del gossip mettendo da parte ogni
approfondimento sui dischi e sui testi. In questo senso molto più
completa è “Vita e musica di Bob Dylan” di Robert Shelton
(Feltrinelli 1987) che pur non essendo molto aggiornata, è da
considerarsi come uno dei migliori libri di sempre essendo condita da
spunti di analisi sui testi e da una ricca dose di aneddoti.
Di
non minor valore sono poi “Jokerman” di Clinton Heylin (Tarab
1996), che copre tutta la carriera fermandosi al 1990 e l’introvabile
ma bellissimo “Bob Dylan, profeta, poeta, musicista e mito” di
Alan Rinzler (Sonzogno 1980) che pur contenendo una enorme quantità
di foto inedite, si ferma a Street Legal del 1978.
Salvatore
Esposito
http://www.ilpopolodelblues.com
Un
libro che è diventato leggandario come il protagonista del libro
stesso.
L'introduzione
di Riccardo Bertoncelli.
Quando
nel marzo del 1962 uscì per la Columbia il primo LP di Bob Dylan, ben
pochi videro in quel ragazzotto provinciale e grassoccio l'uomo nuovo,
il profeta, venuto a svegliare Miss Amerika da un torpore secolare.
Eppure la persona decisiva sarebbe stata proprio lui. Bobby del
Greenwich Village, la chitarra intima ed essenziale e il cappelluccio di
traverso, proprio lui con il codazzo di sentimenti e di contraddizioni,
gli enigmi sfolgoranti di una mente come poche.
Ogni epoca ha i suoi protagonisti, e Dylan lo è stato per la nostra: in
assoluto, senza paragoni. Una spanna sopra le comete che hanno sfiorato
e illuminato i cieli dei nostri giorni: irraggiungibile nella sua
complessità. Lui era Dylan: e gli altri erano i comprimari. Nelle sue
spirali una generazione intera vedeva il coraggioso, il predicatore, il
folle, l'assassino del tempo andato: lo stregone. In lui si
riconoscevano in tanti, sull'ondeggiare piano della sua chitarra scarna,
appena sfiorata, nel dialetto contratto e roco di un qualsiasi americano
di provincia, lungo i viottoli della sua protesta ".
Ma una ragione c'era, in fondo a tutto questo: il perché una epoca
intera si rispecchiava, si adagiava, si rifugiava nel suo regno. Bob era
il primo: in qualcosa, in molte cose. Il primo a parlare senza chiedere
scusa, il primo a buttar giù i pulpiti antichi per costruirne di nuovi,
il primo a non offrire zuccherini e falsetti all'Amerika degli anni
caldi, da Cuba in avanti. Il primo a farsi cercare, a non regalare i
frutti conosciuti. A parlare di cose antiche con toni nuovi, e davvero
tali. Un piccolo essere venuto ad inceppare gli ingranaggi di un Sistema
sicuro di sé: a ricordare a tutti che fuori pioveva ed era ora di
bagnarsi insieme, in quelle gocce scomode ma vere.
Cantava come da tempo non si ascoltava più: senza ipocrite finzioni e
formalismi "belli" e inutili. Stordiva con la voce aspra e
nasale, lacerava con gli strumenti intimi, nudi, sei corde e un'armonica
sconnessa. Ma non si fermava lì: andava oltre, incatenando con il suo
linguaggio, con la presenza misteriosa e vivida. Era protagonista sino
all'inverosimile, coprendo senza requie tutte le ottiche da cui era dato
di guardarlo. Uomo, predicatore, musicista. Tremendamente profondo.
Quello che tutti sognavano e che nessuno avrebbe mai avuto il coraggio
di immaginare: il profeta vestito di sacco venuto ad indicare la retta
via, a scomunicare, a umiliare, con il piglio del Giusto, di chi non
ammette repliche ed esitazioni. Anche nei suoi abissi più teneri.
" Se fosse vissuto duemila anni addietro non avrebbe potuto essere
che un profeta. E se oggi è Dylan è solo perché la nostra epoca lo
vuole così" scriverà di lui uno dei tanti storiografi ".
Niente di più vero. Sembrava calato nei tempi con lucida intelligenza,
con una missione da compiere e nient'altro, da-vanti a sé: e anche il
mito, che sin dagli inizi cominciava ad avvolgerlo quietamente, a farlo
trascolorare, pareva logico, inevitabile, doveroso. Solido come nessuno:
diverso. Dylan non era qualcuno da "copiare e basta", un James
Dean, un Elvis Presley, la foto gigante in camera e l'autografo
smozzicato. Ti dava qualcosa di più: molte cose di più. Ti
accompagnava e ti indicava la strada: ti apriva gli occhi, sui "
padroni della guerra , sulla religione come sistema di ipocrisie, Dio
dalla parte di tutti e Hollís Brown a morire in una catapecchia,
nell'Amerika del benessere che se ne frega. Era un'idea in movimento:
era se stesso.
Nessuno riusciva a scorgere più in là di questa visione turbinosa e
immediata: nessuno sapeva distogliere lo sguardo dagli occhi magnetici
di quell'uomo che ipnotizzava. Perché il Dylan sicuro, smagliante,
incisivo, l'uomo con l'ordine rigoroso dei propri sentimenti, con la
freschezza e la forza del proprio canto senza pudori era anche il
supremo personaggio di se stesso. Era Bob Dylan e non Robert Zimmerman:
parte e controparte di una recita incoscia. L'uomo voluto e quello
reale. Il mito e la persona. Un gioco di rifrazioni, facce di una mente
librata per aria che aveva confuso la finzione con la trama vera, il
desiderio di sembrare con la necessità di essere.
Tutto il mondo di Bob, le sue decisioni improvvise, le fughe e i
travagli, l'apatia scossa dal furore, il sottile sarcasmo, va visto in
questa dimensione: nell'ottica impietosa di una genialità perlomeno
strana, il bisogno di rifarsi mille giorni su mille, la necessità di
sfuggire da se stessi per darsi agli altri, con maschere severe ed
affascinanti. Vivendo di se stessi, di riflesso.
Il mito Dylan è tutto qui: si spiega e si morde la coda in questi
concetti. Nella storia programmata e giocata a livello personale, senza
il minimo spazio all'istinto improvviso. Alla spontaneità più
velenosa. E tutto quello che noi pensavamo di lui, della sua sincerità,
del suo meraviglioso regalarsi alla vita era vuoto e castrato, senza
senso. Tutto era già deciso nella sua mente, travestimenti,
meditazioni: crolli e resurrezioni. Bob allampanato con l'ombra di Woody
Guthrie alle spalle, oppure arcigno e riccioluto come un angelo
intellettuale, Dylan giovin signore, aristocratico del vecchio Sud sulla
copertina di Nashville Skyline. Sono i tanti Dylan che Robert Zimmerman
si è regalato e ci ha regalato. Proiezioni del suo protagonista, deciso
a rimanere mito più che rimanere se stesso. Risoluto a giocare le sue
carte magiche appeso al filo in tensione dell'ambiguità,
dell'irrealtà: e in questa visione tutto quello che è stato, la
musica, il messaggio, la sua figura nell'alba incerta del Suono Nuovo,
tutto ha un sapore di miracolo. Di improbabilità. Uno scherzo per noi
stessi. Un sogno. Pensare all'intrico non credibile di una situazione
del genere: a quello che un "attore" sul palcoscenico della
vita è pur riuscito a far scaturire.
Di questa parabola dell'uomo e dell'artista, degli enigmi poderosi, del
labirinto di D3,lanIZimmerman, il libro di Scaduto vuol essere la
narrazione. Scarna e chiara. Non mi piace tessere lodi e tantomeno
giustificare i lavori degli altri: ma credo che pochi libri siano utili
come questo. Necessari ed onesti. Su un altro piano rispetto a tante
" agiografie " che lo hanno preceduto, a tante sublimazioni
letterarie, la vita e gli eroismi del Mito Dylan.
Con quelle storie scalcinate che hanno fatto corona al fenomeno
dell'artista, questa biografia non ha nulla da spartire. Perché qui è
tutto piano, smitizzato, reale: e non c'è posto per l'esagerazione. I
contorni scemano, le folgorazioni diventano attimi. L'epopea si fa
storia viva e pulsante: cronaca. E anche Bob legato a se stesso, al suo
desiderio di essere protagonista, finisce per trasfigurarsi e ritornare
uomo, controvoglia: pieno di incertezze e di piccole meschinità, la
verità dietro la maschera affascinante del profeta sicuro.
Scaduto ha voluto tutto questo con un rigore critico che è solo
onestà, non-ipocrisia. Spogliandosi dei panni comodi degli a priori,
mitizzare il fenomeno o lapidare indiscriminatamente. Limitandosi ad
analizzare senza preconcetti, sino all'atomo, al soffio di vita:
partendo dalla vita e saltando a piè pari la siepe dell'appariscenza. E
quello che ne risulta è una operazione affascinante e nitida: qualcosa
che prende forma nel corso stesso della vicenda, una smitizzazione
venuta da sé, più spietata e precisa di ogni altra. Ma è uno
spogliare l'idolo che lascia aperti mille spazi.
E se Dylan dopo queste pagine non è più il tiratore infallibile, il
paladino degli oppressi, l'onnipotente e il profeta su per i cieli, è
pur sempre se stesso. Una persona, cioè, con una dimensione intera non
riconducibile a nessun esempio. Un uomo con centomila cose da dire.
In fondo non faremo che un cambio: daremo via l'appariscenza, la fiaba
esteriore, la corteccia, e avremo dentro di noi la consapevolezza di
comunicare veramente con lui. Senza pretendere di averlo " capito,
costretto, inquadrato nelle nostre gabbie mentali: ma certi di essere
perlomeno in sintonia, una volta per tutte. Certi di trovare ancora un
milione di sensazioni nel clima tragico di Ballad of a Thin Man,
nell'ironia corrosiva di Rainy Day Women, nella poesia spettrale di All
Along the Watchtower. E se non saranno le medesime emozioni, saranno
certo più ricche, vere, incisive.
Trecento pagine per capire questo: per toglier Bob dalla stanza degli
idoli, di quegli esseri che "hanno sempre ragione / per quello che
fanno e per quello che dicono / intoccabili e presi per buoni, come lui
stesso diceva. E per metterlo invece nella parte migliore di noi, dove i
"nomi" hanno una forma e una storia, e non ammuffiscono e non
diventano vuoti.
E
riescono sempre ad insegnare qualcosa.
ottobre
1972 - RICCARDO BERTONCELLI
I
MIGLIORI LIBRI IN ITALIANO
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The
Bob Dylan Scrapbook: 1956-1966 Robert Santelli:
(Feltrinelli, pp. 64 con cd - €48) |
Like
a Rolling Stone. Bob
Dylan, una canzone, l'America - Greil Marcus:
(Donzelli - € 13,50) |
Diario
del Rolling Thunder - Sam Shepard: (Cooper, pp. 194 - €18,00) |
Bob
Dylan - Di Michele Murrino e Salvatore Esposito
(2005 - Ed.riuniti) |
Bob
Dylan - L'Ultimo Cavaliere - Nicola Menicacci:
(Hermatena, pp. 230 - € 19,00) |
Mr.
Tambourine, Testi e poesie 1962-1985 (Arcana, pp. 1230 - €
27,50) |
QUELLI
SCRITTI
DA DYLAN
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Tarantula (1971) |
Chronicles
- (2004, autobiografia) |
La prefazione di
Anthony Scaduto
Per
un anno ho dovuto dargli la caccia ma alla fine, nel gennaio del 1971,
Bob Dylan, una persona estremamente gelosa della sua vita privata e che
raramente concede interviste, ha finalmente acconsentito a ricevermi.
Voleva sapere cos'ero andato scrivendo su di lui e arrivammo ad un
accordo: gli avrei fatto leggere la prima stesura di questo mio libro e
lui, in cambio, mi avrebbe concesso un'intervista. L'accordo non lo
specificava, ma era sottinteso che non gli avrei concesso alcun
intervento sul mio testo. Quando l'ebbe letto mi chiamò al telefono.
" L'ho letto " mi disse " Alcune cose sono abbastanza
esatte, altre sono molto vicine alla realtà e certe altre sono
esattamente ciò che accadde ". Continuò poi a parlarmi, usando un
tono di voce che usa spesso in occasioni simili e che è come se
parlasse in corsivo: " Non ho nulla da dire su questo libro,
veramente; ma se vuoi posso darti il mio parere. Vorrei soltanto poter
chiarire alcuni punti, questa è una cosa che potrei fare, è una cosa
che ho la possibilità di fare.
Francamente, questo libro non mi ha ferito. Dico, anni fa quando leggevo
quegli aneddoti e quegli articoli su di me in quelle riviste, talvolta
lasciavo che mi ferissero. Ma il tuo libro non mi ha ferito, anzi devo
dire che ho avuto piacere a leggerlo, perché non è una di quelle
tavolate da rivista ".
Andai a trovarlo il pomeriggio seguente; ci sedemmo alla scrivania
piazzata di fronte alla finestra del suo studio, proprio di fronte ad
una frequentatissima strada del Village e siamo rimasti lì a parlare
per più di tre ore. Anzi, in verità fu lui a parlare: fornirmi una
quantità di informazioni personali er aun cosa insolita per un uomo
segreto, mi raconto di come sentì per la prima volta i Beatles e
perché lo aiutarono a passare dalla folk song al rock; e mi aiutò
anche ad interpretare le sue canzoni-poesie parlandomi dei componimenti
scritti tra il 1964 e il 1966. In breve arrivò quasi al punto di
spiegarmi la sua natura. Dylan ha parlato a lungo cercando di farmi
capire cosa e chi lui sia, chiarendomi i suoi pensieri e le sue emozioni
nel corso delle varie crisi che hanno costellato la vita di uno come lui
che, più che una superstar voleva essere un poeta. Poi mi spiegò,
dimenando le spalle e parlando con accenti talvolta appassionati,
perché questo libro l'interessava: "Vedi, io sono un Gemello. Non
che voglia dare una eccessiva importanza a questo fatto, ma i Gemelli
hanno una personalità doppia. Sono freddi e caldi allo stesso tempo.
Questa è una delle mie caratteristiche principali. Ora, in questo
momento, sono caldo " e m'interesso a questo tuo libro e penso di
poterti aiutare. Sei mesi fa non mi sarebbe importato nulla di quello
che facevi. Ora m'importa. Fra sei mesi, magari, non me ne importerà
più nulla. Ma oggi, sento che devo aiutarti ".
Ti ringrazio, Mr. Tambourine Man, di avermi aperto la porta e di avermi
lasciato dare un'occhiata.
La
presente biografia di Bob Dylan, uomo e leggenda, è il risultato di
diverse centinaia di ore passate a conversare con chi lo ha conosciuto,
con chi lo ha amato, con chi talvolta lo ha odiato e talvolta temuto e
con chi, come è successo spesso, ha avuto bisogno di lui. Senza l'aiuto
di queste persone, non avrei potuto scrivere questo libro: è giusto
quindi che le ringrazi. Sono particolarmente grato a: Joan Baez, Suze e
Carla Rotolo, Echo Helstrom. e Terri Thal Vari Ronk. Ma i miei
ringraziamenti vanno anche a: Eric von Schmidt, Dave Vari Ronk, Eric
Andersen, Jack Elliott, Phil Ochs, Manny Greenhill, David Cohen, John
Koerner, Gretel Hoffman Pelto, Ellen Baker, Bob e Sid Gleason, Mikki
Isaacson, Eve, Mac e Peter McKenzie, Mike Porco, Izzy Young, Nat
Hentoff, Pete Karman, Carolyn Hester, John Hammond Sr., Sue Zuckerman,
A. J. Weberman.
Un ringraziamento speciale va infine al mio direttore, Hy Cohen, che ha
avuta tanta comprensione per me e mi ha dato tanti saggi consigli.
A tutti voi, e a quanti ho qui dimenticato pur citandoli nel libro:
l'amore sia con voi.
Anthony Scaduto
MA
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|
Devo
andare, ho un incontro col Papa.
Bologna,
27 settembre 1997.
In
occasione del ventitreesimo Congresso eucaristico, un concerto all’aperto
presso il “Centro Agroalimentare”, al quale assistono trecentomila
persone e duecento cardinali, celebra la visita pastorale di Giovanni
Paolo II alla città che una volta era l’avamposto settentrionale
dello Stato della Chiesa. Una squadra di pop star italiane porge i suoi
omaggi al pontefice, alternando canzoni italiane a cover inglesi e
americane.
Poi
un giovane attore legge il testo di Blowin’ in the wind in italiano,
con un discreto accompagnamento di chitarra in sottofondo. Giovanni
Paolo II, dopo aver seguito il testo su di un foglio che gli è stato
dato, pronuncia un discorso che fa storia negli annali della
dylanologia:
Poco fa un vostro rappresentante ha detto, a vostro nome, che la
risposta alle domande della vostra vita “sta soffiando nel vento”. E’
vero! Però non nel vento che tutto disperde nei vortici del nulla, ma
nel vento che è soffio e voce dello Spirito, voce che chiama e dice “vieni!”.Mi
avete chiesto: quante strade deve percorrere un uomo per potersi
riconoscere uomo? Vi rispondo: una! Una sola è la strada dell’uomo, e
questa è Cristo, che ha detto “Io sono la via” . Egli è la strada
della verità, la via della vita.
Per
la sua esibizione a Bologna, Dylan aveva preparato una scaletta di
cinque brani. Poi gli organizzatori gli dissero che il pontefice era
stanco e che si sarebbe congedato dopo la seconda canzone. Dylan decise
di tagliare due dei pezzi (si dice che una delle canzoni sacrificate
fosse With god on our side, addirittura…), ma cantò A Hard Rain’s
A-Gonna Fall e Knockin’ on Heaven’s Door, forse il momento più alto
dell’intera serata. Poi salì i gradini che lo portavano alla sedia
papale per stringere la mano a Giovanni Paolo II, inciampando un poco e
togliendosi il cappello da cowboy solo all’ultimissimo momento prima
di trovarsi faccia a faccia con il Papa (cosa che lasciò molti senza
fiato), o perché era troppo nervoso o per via del suo sempre
impeccabile, chaplinesco senso del tempo. Dopo che Giovanni Paolo II se
ne fu andato, un Dylan visibilmente sollevato eseguì Forever Young.
E’
riuscito, Dylan, a esorcizzare se stesso? Erano esorcizzati abbastanza,
lui e gli anni sessanta nel 1997? Forse no. Certamente non a sufficienza
per il Papa successivo, Benedetto XVI, che non è mai stato molto
favorevole al theatrum catholicum di Giovanni Paolo II. Nella primavera
del 2007, quando vennero pubblicati i suoi ricordi dell’illustro
predecessore, il giudizio negativo di Joseph Ratzinger a proposito della
parata pop del Congresso eucaristico di Bologna fece il giro del mondo.
A quanto pareva, Benedetto XVI aveva forti ragioni di dubitare che fosse
stata una buona idea quella di permettere l’esibizione di “quella
specie di profeta”, vale a dire Bob Dylan, che aveva un messaggio
totalmente diverso da quello del Papa.
Da
Canzoni d’amore e misantropia (Alessandro Carrera – Ed. Feltrinelli
Le Nuvole)
Per
altre info su quell’evento: http://www.maggiesfarm.it/ppp.htm
|
"Elvis ci ha liberato il corpo, Bob Dylan ci
ha liberato la mente"... (Bruce
Springsteen)
L'unica
volta in Sicilia
TAORMINA
- 29.7.2001 Ha reso omaggio all'Etna, scrutandola e ammirandola, mentre
gustava pennette all'arrabbiata e peperoni, cibi
piccanti per non distaccarsi troppo dalle pietanze messicane delle quali
è un ghiottone. "Ma ha assaggiato anche la pasta alla Norma e gli
involtini di pescespada", rivela Antonio Chemi, proprietario del
ristorante "La Botte" che, sabato sera, ha curato il catering
per lo staff di Bob Dylan. In molti speravano di incontrare l'introverso
artista americano dopo la straordinaria performance al Teatro antico
davanti a oltre seimila spettatori. Ma, ancora una volta, Dylan è
rimasto fedele al suo cliché di artista schivo e antidivo, preferendo
la lussuosa intimità della suite del Timeo alla folla e al chiasso di
un locale.
Alla "Botte" avrebbe trovato Jim Kerr, il cantante-leader dei
Simple Minds, ormai di casa a Taormina. Insieme con uno dei figli del
proprietario del ristorante, infatti, sta per aprire un albergo nella
Perla dello Jonio.
Tutti, ospiti vip e gente comune, affascinati e conquistati dal
"grande vecchio" della canzone americana. Il quale, a onta dei
suoi sessantanni, sul palco si è dimostrato un ragazzino: per
intensità del concerto, per il desiderio di continuare a cambiare e
modificare il suo canzoniere (alcune canzoni erano irriconoscibili).
Piegandosi sulle gambe, suonando la chitarra alla vecchia maniera dei
rockers, soffiando con potenza nell'armonica, dando vita a un set
serratissimo.
Venti, due in più rispetto ai concerti precedenti, le canzoni eseguite.
Ha cominciato in versione acustica con Somebody touched me, per
proseguire con classici come The Times they are a-changin', Desolation
Row, Absolutely Sweet Marie, Simple twist of fate, I'll be your baby
tonight, The lonesome death of Hattie Carroll, Boots of spanish leather,
Don't think twice it's all right, Everything is broken, Just like a
woman, Drifter's escape, Rainy Day Women #12 & 35. Poi, nei bis, ha
dato fuoco alle polveri già surriscaldate con un sequenza al
cardiopalma: Love Sick, Like a rolling stone, One too many mornings, All
along the watchtower (riproposta alla maniera di Jimi Hendrix), Knockin'
on Heaven's door, Highway 61 revisited e, infine, dopo averla nascosta
per oltre un decennio, ha tirato fuori dal cappello magico la
leggendaria Blowin' in the wind (e quante lacrime abbiamo visto scorrere
sulle rughe dei volti dei "ragazzi" degli anni Sessanta).
Scaletta che fedelmente i suoi fans (in particolare Ken Cowley e Ilaria
Gherri) trascrivono, concerto per concerto, sul sito Boblinks.com.
Davanti al calore e all'entusiasmo del pubblico, che al suono di Rainy
Day woman, si era alzato in piedi per stringersi sotto il palco, Dylan
stesso è rimasto meravigliato e non ha potuto, come sua consuetudine,
restare insensibile. Ha salutato, a gesti ha perfino dialogato con i
fans, è rimasto emozionato. "Miracolo" di una notte magica.
Adesso appuntamento all'11 settembre quando uscirà il suo nuovo album
Love and theft (amore e furto): "E' un album per le masse, non solo
per i fan di Dylan", spiega lo stesso Dylan. Dentro ci sono persino
rockabilly e una puntata nel rock duro (Honest with Me).
------------------
curiosità
1)
nell'articolo non è scritto che al suo arrivo all'Hotel Timeo di
Taormina, il Direttore dell'albergo con tutto lo staff tirato a lucido e
schierato per le grandi occasioni, gli andò incontro per salutarlo.
Dylan, con le mani rimaste nelle sue tasche, gli passò vicino e senza
fermarsi mormorò solamente "I Bob", lasciandolo lì con la
mano tesa in avanti. 2) nonostante mi fossi presentato due mesi prima, il teatro era già
esaurito in tutti gli ordini di posti già da un mese. Dopo qualche
tempo seppi che un mio amico faceva l'assistente ai suoni del Teatro
Greco e mi raccontò di come, durante le prove, infilò i microfoni e
altre diavolerie dentro la camicia (pesantissima, sotto un gilet di
pelle) di Dylan. Curioso, gli chiesi "Ma che impressione ti ha
fatto? Non eri emozionato?" Quello, fan di Prince, mi rispose
"Mimmo, nessuna impressione, mi ha solo chiesto di sistemarglielo
più in alto. Mi sono emozionato molto di più una settimana dopo, quando ho
sistemato il microfono sulla maglietta di Sabrina Salerno".
(M.R.)
Il
Bootleg che fu realizzato
Bob
Dylan -
Taormina, Italy -
Teatro Greco July 28, 2001
Dsc
1 1:04:52.27
1.
Somebody Touched Me [0:03:59.52]
2. The Times They Are A-Changin' [0:07:18.10]
3. Desolation Row [0:08:16.32]
4. Absolutely Sweet Marie [0:07:06.64]
5. Simple Twist Of Fate [0:08:15.25]
6. I'll Be Your Baby Tonight [0:05:37.62]
7. The Lonesome Death Of Hattie Carroll [0:06:34.07]
8. Boots Of Spanish Leather [0:06:18.27]
9. Don't Think Twice, It's All Right [0:06:03.62]
10. Everything Is Broken [0:05:21.61]
11. Just Like A Woman [0:06:21.10]
12. Drifter's Escape [0:05:25.74]
Disc
2 1:06:16.49
1.
Rainy Day Women #12 & 35 [0:10:40.57]
(encore)
2. Love Sick [0:05:44.61]
3. Like A Rolling Stone [0:07:22.24]
4. One Too Many Mornings [0:07:31.20]
5. All Along The Watchtower [0:04:50.62]
6. Knockin' On Heaven's Door [0:06:16.69]
7. Highway 61 Revisited [0:06:24.55]
8. Blowin' In The Wind [0:05:37.67]
Bob
Dylan -
Larry Campbell -
Charlie Sexton -
Tony Garnier -
David Kemper
Mister
Tambourine canta a Taormina
Repubblica — 28 luglio 2001
Il
Mito ha quattro suite. Tre se le è riservate al Mazzarò Sea Palace,
un' altra, all' hotel Timeo, la utilizzerà stasera come camerino prima
del concerto, l' evento dell' estate siciliana che lo vedrà alle 21,30
sul palco del Teatro antico. Bob Dylan si concede tutti i lussi di una
star, come se l' attesa per la sua prima volta in Sicilia non bastasse
ad alimentare quel po' di leggenda che mister Tambourine si porta
appresso. A Taormina Bob Dylan è arrivato ieri mattina poco prima dell'
una: il suo aereo personale, proveniente da Napoli, tappa dell' ultimo
concerto, lo ha lasciato all' aeroporto di Fontanarossa e da lì Dylan
con la sua corte di dieci persone ha proseguito a bordo di due pullman
stracarichi di bagagli. Faccia cerea, coi segni del viaggio e della
notte addosso, Dylan si è chiuso in una delle sue tre suite, dalla
quale non è uscito per l' intero pomeriggio. Il folksinger americano ha
prenotato l' intero piano suite dell' albergo, presidiato dagli uomini
della sua security e proibito persino alle cameriere. Niente male la
lista di richieste per pranzi, cene e colazioni: quattro fogli fitti di
specialità cinesi e messicane per un totale di sei pasti al giorno.
Inutile cercare di stanarlo: stasera Dylan arriverà al Teatro antico
direttamente da una scala collegata col Timeo, una scorciatoia già
sperimentata in occasione del Festivalbar da Carmelo Costa,
organizzatore per TaoArte anche di questo concerto. Inutile anche
cercare biglietti, andati esauriti ormai da settimane, e inutile tentare
di fotografare la star: in teatro sono rigorosamente proibite macchine
fotografiche e telecamere. I cancelli del Teatro antico apriranno alle
18,30, le auto saranno bloccate al parcheggio Lumbi ma sarà potenziato
il servizio di bus navetta. Bob Dylan è arrivato a Taormina preceduto
dall' eco del trionfo di Napoli, dove ha cantato davanti a seimila
persone, grosso modo la stessa folla che lo aspetta stasera. Con lui sul
palco ci saranno Tony Garnier (basso), David Campbell (batteria), Larry
Campbell e Charles Saxton (chitarre). La scaletta dovrebbe aprirsi con
una sequela di brani in versione acustica che comprendono due classici
come Mr. Tambourine man, una delle sue canzonimanifesto, e Desolation
row. Il finale è da storia della musica: Like a Rolling Stone, Knockin'
on heaven' s door, fino all' inno ufficiale del popolo dylaniano, quella
Blowin' the wind diventata colonna sonora di una generazione e icona di
una leggenda vivente. Things have changed, canta Bob, le cose sono
cambiate, e sarà anche vero: ma la sua musica, per fortuna, rimane un
album da sfogliare. -
MARIO DI CARO
Bob Dylan celebra il raduno dei reduci
Repubblica — 29 luglio 2001
TAORMINA
- Stivali da cow boy, giacca e pantaloni
neri, camicia tutta abbottonata: alle 9,40 della sera Bob Dylan, il
Mito, appare sul palco del Teatro antico e l' ala sinistra della platea,
che conta un centinaio di americani, va in visibilio. Basta aspettare un
po' e Mister Tambourine si esibisce in un assolo di armonica che dura
cinque minuti buoni. Proprio Dylan che nel 1965 al festival di Newport
sconvolse i puristi del folk presentandosi con una band elettrica,
adesso sembra salvare l' anima alle sue canzoni grazie alla sincerità
della versione acustica, anche se gli arrangiamenti elettrici non sono
del tutto accantonati. Tutt' attorno il palco si consuma la festa del
gran revival dei Settanta. Alle 7 della sera un uomo brizzolato, con la
barba di tre giorni arriva davanti al bar Trinacria. Si ferma e ad alta
voce domanda: «Posso salutare un vero reduce degli anni Settanta?». L'effetto è travolgente: si girano sei uomini (anche loro più o meno
brizzolati) da altrettanti tavolini. Ognuno convinto di essere lui il
«vero reduce» di cui alla domanda. Alle 7 della sera, Bob Dylan sta
ancora giocando ai quattro cantoni in una delle sue tre suite e il suo
popolo di reduci ha tutto il tempo di mangiare una granita o bere una
birra. L' Etna ruggisce dietro il Teatro antico, si intravede il suo
magma maestoso che inquieta e affascina tutti. Compreso il signor Allen Zimmerman che durante il concerto ha dovuto dare le spalle al vulcano
ma, prima e dopo la performance, se l' è goduto fino in fondo. Cioè s'
è fatto recintare una terrazza del Timeo, proprio vicino alla
passerella che lo ha portato dall' albergo al teatro. In quella
terrazza, Dylan s' è gustato l' Etna. In silenzio, senza curiosi né
reduci. Alla bellezza del teatro, hanno detto quelli della sua crew, era
preparato ma al vulcano in eruzione no. Al centro delle due
contemplazioni magmatiche, si è incastonato il concerto. Alle 21,40 il
ritornello "Glory glory" suona come un' adunata intimista per
tutti quelli che dal pomeriggio attendono l' evento e gli inevitabili
evergreen del repertorio li premiano come s' aspettavano e com' era
giusto che fosse. Dylan non può fare a meno di raccontare quello che
succedeva trent' anni fa. Quando un terzo degli spettatori del suo
concerto dietro al vulcano non era nemmeno nato. L' idea di affidarsi a
strumenti acustici anche per altri due suoi, immensi successi come
Knockin' on heaven' s door e l' immancabile Blowin' in the wind, sembra
il modo migliore per raccontare un pezzo di storia che resiste nel
tempo. Anche ai pentimenti e ai ripensamenti di chi visse gli anni
formidabili. «Ho rinnegato tante cose del Sessantotto - dice Paolo
Guzzetta, arrivato da Palermo a metà mattina - praticamente quasi
tutto. Ma Dylan no. Lui è la mia coerenza rivoluzionaria». «Siamo
arrivati a Taormina da Barcellona alle 10 di mattina - racconta, con
finta irritazione Luca Sidonti, 25 anni, una laurea alla Bocconi e un
amico che lo ha precettato per il concerto - Sono un grande appassionato
di Dylan ma saremmo anche potuti andare al mare prima di presidiare il
teatro». Luca si rifarà come buona parte dei reduci, con le birre del
dopo concerto, mentre Bob starà lì, sulla terrazza del Timeo a
contemplare la lava. - MASSIMO LORELLO
|
Non
è stato facile. Queste sono le più fedeli e ricordate, ma chissà quante
altre Telecaster o Gibson
ha
imbracciato lungo il suo
interminabile Never Ending Tour che dura ormai da vent'anni. |
Non
inserisco links che si occupano di testi e accordi per chitarra delle canzoni di
Bob Dylan perchè mi sembrerebbe banale e scontato.
Trovarli
in rete, oggi, è più facile di versarsi un bicchiere d'acqua.
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IL POSTER IN FORMATO A3
No
Direction Home - Martin Scorsese: ''Racconto gli occhi di Bob
Dylan"
"Dice molte cose ma il suo sguardo va altrove"
Bob Dylan raccontato da Martin Scorsese
di ARIANNA FINOS
Due
uomini che hanno fatto la storia del Novecento, nella musica e nel
cinema: sono Bob Dylan e Martin Scorsese. Sono insieme in un dvd di 200
minuti che ripercorrono la carriera del menestrello del rock attraverso
materiali inediti, foto di famiglia, registrazioni dei primi concerti.
A
un incontro alla cineteca di Bologna, che ha seguito per noi Giorgia
Bentivogli, Martin Scorsese ha dato questa definizione al suo
documentario: "Questo film è un atto d'amore".
Il
titolo del dvd - 'No direction home' - è tratto dalla canzone più
celebre di Dylan, 'Like a rolling stone' la prima conosciuta anche da
Martin Scorsese.
MS:
"Il mio obiettivo era trovare una linea narrativa a questo film,
costruirlo come una storia. Io non sono una grande autorità per quanto
riguarda Bob Dylan, infatti la prima canzone che ho ascoltato era 'Like
a rolling stone', quando Dylan era già passato alla sua fase elettrica
e aveva lasciato quella acustica. Non sono un intenditore di musica
folk, né all'epoca ero pianemente cosciente della relazione tra la
politica e la musica folk. Ma dopo ore e ore di visione di questi
materiali inediti, mi sono reso conto che la chiave era cercare di
spiegare questo passaggio tra la fase acustica e quella elettrica: è
stato un tradimento, in un certo senso. Dylan aveva deluso i suoi fan
cambiando genere. Questo è stato il senso della realizzazione del
film".
Come
tutti gli incontri più magici, quello tra Bob Dylan e la sua chitarra,
accadde per caso.
BD:
"Ho iniziato a suonare la chitarra a dieci anni, forse. Ne trovai
una nella casa che comprò mio padre. E trovai anche qualcos'altro:
c'era una grossa radio di mogano. Sopra, sotto un coperchio, un
giradischi. Lo sollevai e sul piatto c'era un disco country con una
canzone intitolata 'Drifting too far from shore'. Mio padre e i suoi
fratelli avevano un negozio di materiale elettrico. Il mio primo lavoro
fu di spazzare il negozio".
Dal
negozio di suo padre al Greenwich Village di New York, Bob Dylan ci
arrivò nel 1961.
BD:
"Scesi dall'auto sul George Washington Bridge e presi la
metropolitana per il Village. Andai al caffé 'Wha?' ad osservare la
gente. Molto probabilmente chiesi dal palco se qualcuno sapeva dove due
persone potevano passare la notte. Ero pronto per New York. Iniziai a
suonare immediatamente e mi resi subito conto che ero nel luogo giusto,
perché i posti dove suonare erano molti".
Anche
per Martin Scorsese, quegli anni al Village rappresentano un'epoca
indimenticabile per una intera generazione. Nei tre anni in cui il
regista ha lavorato al documentario, ha maturato la convinzione che
fosse proprio la magia di quel luogo il segreto dell'epopea degli anni
Sessanta.
MS:
"Ho scoperto che sentivo l'urgenza di dare un senso a quello che
erano il Mid West, New York e il Greenwich Village, in quell'epoca tra
la fine degli anni Quaranta e il 1966. Soprattutto per le giovani
generazioni. Ho cercato di restituire il senso di quegli anni anche
attraverso le sensazioni visive, l'atmosfera: concentrandomi, ad
esempio, su lunghe sequenze di altri musicisti, piuttosto che su una
serie di immagini veloci".
"Quelli,
però, erano anche gli anni della contestazione e della guerra in
Vietnam. Spesso a Dylan, si chiedeva se avrebbe manifestato. Lui
rispondeva ironico: "stasera no, sono occupato".
BD::
"Non avevo risposte a quelle domande. Non avevo niente più di un
qualsiasi altro artista da dire. Ma questo non impedì alla stampa o
alla gente di farmi queste domande. Per qualche motivo, la stampa
pensava che gli artisti avessero le risposte a questi problemi della
società. Ci chiedevano: cosa ne pensi di questo? Ma era assurdo".
Quello
di Martin Scorsese è stato un lavoro lungo tre anni, diventato un film
di 200 minuti. Ma il grande regista italoamericano riesce a riassumerlo
magnificamente in una sola immagine.
MS:
"Alla fine, dopo aver visto sul grande schermo queste dieci ore di
inteviste con Bob Dylan, mi sono reso conto che questo film parla dei
suoi occhi: lui dice molte cose ma si capisce che i suoi occhi vanno
altrove".
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Io
non sono qui |
Hearts of fire |
Masked and anonymous |
No
direction home |
Renaldo e Clara |
Paradise cove |
Pat Garrett e Billy Kid
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Essere
giovani vuol dire tenere aperto l'oblò della speranza, anche quando il
mare è cattivo e il cielo si è stancato di essere azzurro.
Non
criticare ciò che non puoi capire.
Io accetto il caos, ma non son sicuro che lui accetti me.
Il bello della musica è che quando ti colpisce non senti dolore.
Non chiedetemi nulla, potrei rispondere con la verità.
Non ho mai scritto una canzone politica. Le canzoni non possono cambiare
il mondo, ormai ho smesso di pensarlo.
Le critiche non mi importano, io sono le mie parole.
Questa terra è la tua terra, questa terra è la mia terra, certo, ma
tanto il mondo è gestito da coloro che non ascoltano mai musica.
Tu
sollevi la marea su di me ogni giorno ed insegni ai miei occhi a vedere.
Quante
strade deve percorrere un uomo, prima che lo si possa chiamare uomo?
Non
hai bisogno di un metereologo per sapere da che parte tira il vento.
Non
mi ritengo un poeta, perché non uso le parole. Sono un artista del
trapezio.
Bob
Dylan? Sono felice di non essere io!
Non
vi fidate dei bagni senza scritte sui muri.
Per
vivere senza leggi bisogna essere persone oneste.
Tutto
quello che posso fare è essere me stesso, chiunque io sia.
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