Mussolini a Catania - 12
agosto 1937
E anche la geografia. La Sicilia non è più la
remota periferia di un centro lontano, viene promossa «isola
imperiale» e nodo strategico, ponte fra l' Italia e il nascente
impero. Il suo ruolo appare centrale, importante. è necessario
rifondarne il rapporto col fascismo, urge una simbolica rinascita.
Le grandi manovre delle forze armate sono l' occasione giusta e in
Sicilia, nell' agosto del ' 37, ci sono il Re e il principe Umberto.
Ma soprattutto, mai più tornato dal lontano 1924, arriva Benito
Mussolini. La sua visita ha subito il carattere di un' ispezione, al solito punteggiata da numerose frasi lapidarie. L' 11 proclama «sono venuto per constatare quello che si è fatto e quello che resta da fare», il 12 da Catania dice che per la Sicilia non ci sarà nessun regime speciale, «è finito quel tempo»: ma la rassicurazione conserva un tono di sbrigativa minaccia, anche se ormai il Nord e il Sud non esistono e «dopo l' Italia sono stati fatti gli italiani». Nella cronaca del Giornale di Sicilia leggiamo della «impetuosa accoglienza» di Catania e della «fervida atmosfera di attesa» di Palermo; sempre il 12, anche il Re e il principe Umberto sono in Sicilia, appena arrivati alla stazione di Palermo.
Ma naturalmente il duce li surclassa, nello spazio che gli dedicano i giornali e nel crescendo degli aggettivi. Il 13 Mussolini è a Siracusa, protagonista non solo di un' esaltazione collettiva ma di un riscatto plurisecolare. Compiaciuto, riflette che «bisogna risalire al primo impero di Roma, all' epoca di Augusto, per ritrovare uno spettacolo come quello che offre l' Italia in questa epoca così ardente di passione». Poi annuncia che i diritti mediterranei dell' Italia saranno riaffermati nel discorso di Palermo, la «capitale» che nel frattempo inganna l' attesa con notturne gare automobilistiche sul monte Pellegrino. Il giro siciliano di Mussolini è anche un frenetico valzer di inaugurazioni: un padiglione, una scuola, un reparto, un' officina, la Sicilia sembra essersi risvegliata come un immenso cantiere. Il dittatore appare instancabile, ma cominciano ad arrivare le navi scuola giapponesi per le grandi manovre e l' atmosfera di sagra paesana subito si smorza, freddi e rabbiosi all' improvviso sembrano levarsi venti di guerra.
La stampa crea l' attesa attorno al discorso di Palermo, «avvenimento mondiale più che italiano che indicherà la nuova atmosfera europea». Nel frattempo, il 15 Mussolini è ad Enna «prolifica e laboriosa», poi trionfa fra i contadini di Vittoria e Gela. Può constatare soddisfatto come i lavori per l' aeroporto di Comiso, «sentinella avanzata del Mediterraneo», stiano alacremente procedendo. Il 17 è a Trapani, subito dopo a Caltanissetta. Il 18 si concludono le grandi manovre e il duce è a Marsala, naturalmente «nello scenario suggestivo dell' epopea garibaldina». Cresce l' attesa per il discorso di Palermo, dove Mussolini arriva il 19. Si reca al Policlinico, edificato dopo la sua visita del 1924. Accompagnato dal Magnifico Rettore e da tutto il Senato accademico si sofferma nel reparto di patologia, mostra di apprezzare un metodo autarchico per la cura della malaria - punture di adrenalina, che il professore Maurizio Ascoli inietta nella milza dei malati - «che promette di liberare l' Italia dall' oneroso acquisto dei sali di chinino all' estero». A Palazzo dei Normanni, nella Sala Gialla, gli viene consegnato il dono della città: un' aquila imperiale in argento dorato, e il messaggio del Podestà è tutto un rievocare le antiche glorie della Roma imperiale. Del resto quel dimenticato podestà non è certo un originale, le vittorie di Roma sono la retorica ufficiale del regime. E quell' anno, al Festival del cinema di Venezia il premio per il miglior film lo riceve Scipione l' Africano. Arriva il momento del tanto atteso discorso. Alle 17,45 di venerdì 20 agosto, radiotrasmesso dal Foro italico in tutta la penisola e anche all' estero, il discorso di Mussolini è breve, centrato su due temi: il ruolo della Sicilia imperiale e la difesa dell' impero. è impossibile tacere l' esistenza dei soliti «problemi siciliani», ma il duce manda un eloquente messaggio «ai superstiti antifascisti che girano per il mondo: la Sicilia è fascista fino al midollo!». Sarà la perfetta identità fra l' isola e il fascismo a risolvere ogni residuo problema a cominciare dal più grave, quello dell' acqua. Nella Sicilia diventata centro dell' impero il villaggio rurale liquiderà il latifondo, ci saranno strade e i contadini saranno lieti di vivere nella terra che lavorano, come ovunque nel mondo. Nessun nemico oserà sbarcare nell' isola imperiale, tutto andrà per il meglio. A essere veramente ostile è la Francia, con l' Inghilterra ci sono state solo delle incomprensioni, su cui bisognerà mettersi d' accordo, «si aveva dell' Italia una concezione superficiale e pittoresca, di quel pittoresco che io detesto». Rassicurazioni e minacce si alternano, nello stile tipico di tutti i dittatori. Mussolini rivendica il legame con Berlino, se il mondo vuole stare in pace con l' Italia deve tener conto dell' impero e dell' asse Roma-Berlino. Altrimenti, «l' Italia fascista ha tali forze di ordine spirituale e materiale che può affrontare qualunque destino!».
Con vigore fascista, anche da Palermo il duce
stava spingendo l' Italia verso il baratro della guerra.
collezione Franz Cannizzo
L'ARCHITETTURA FASCISTA A CATANIA. di Rosangela Spina http://www.editorialeagora.it/rw/articoli/132.pdf
ALCUNI ESEMPI IN CITTA'
INDUSTRIA DI CALZATURE EGA (ex) Sorge nel cuore del centro storico ,in via della Mecca di fronte le Terme della Rotonda, un edificio chiuso da anni che fu un tempo un calzaturificio .La struttura che versa in totale degrado preda di vandali e incivili, era nata intorno al 1949 ,edificio fabbricato su progetto degli ingegneri Ugo Faro e Giovanni Aiello . Ma la fabbrica non ebbe grande durata e già negli anni sessanta la struttura fu acquistata dai salesiani proprietari della chiesa, oratorio e campetto di calcio interno con ingresso da via Teatro Greco (istituto San Filippo Neri).La struttura fu adibita a palestra di judo nel piano inferiore e cappella interna il piano superiore ma pare sia andata distrutta negli anni settanta da un incendio e non più recuperata
la Casa del Balilla, in Via Plebiscito.
L'OPERAZIONE HUSKY (cane da slitta)
Il 10 luglio 1943 ha inizio l'operazione Husky, la più grande operazione anfibia della storia: sette divisioni vengono fatte atterrare simultaneamente (in Normandia, un anno dopo, ne furono impiegate solo cinque). Gli Alleati incontrano una scarsa resistenza sulle spiagge tra Gela, Licata e Siracusa e le truppe che invadono il suolo italiano hanno a che fare in prevalenza con i soldati italiani della 6ª armata, male armati e ancor peggio equipaggiati, supportati da un numero esiguo di forze tedesche. Nello stato maggiore tedesco e, ancora di più, in Adolf Hitler prevaleva la convinzione che le truppe americane e inglesi sarebbero sbarcate in Sardegna e in Grecia.
Addirittura la Luftflotte 2, comandata dal feldmaresciallo Von Richthofen era stata spostata dalla Sicilia in Sardegna, proprio in virtù di questa errata valutazione strategica. E tutto ciò nonostante i ripetuti appelli dello stato maggiore italiano a quello tedesco per rinforzare il presidio siciliano. L'isola sarebbe stata l'obiettivo principale delle armate americane e inglesi per colpire immediatamente il "ventre molle dell'Asse". L'uso indiscriminato dei bombardamenti sulle città fu una delle caratteristiche più crudeli della seconda guerra mondiale. Nell' incontro di Casablanca Roosevelt e Churchill decisero, tra l'altro: "una campagna aerea con un'offensiva di bombardamenti più intensa possibile... mirando soprattutto a ridurre a pezzi, oltre le fabbriche belliche, il morale della popolazione civile". E così fu. Da quel momento per la gente non contò più nessuna ideologia, ma la sola sopravvivenza. Dopo ogni raid aereo, le persone si sentivano svuotate, sconfortate, prive di risolutezza. Nei primi giorni di luglio in Sicilia erano presenti circa 260.000 soldati; 175.000 italiani e 28.000 tedeschi tra le truppe combattenti, gli altri addetti ai servizi. La situazione drammatica delle difese dell'isola era già stata evidenziata dal generale Roatta, predecessore di Guzzoni al comando militare dell'isola.
Parlando del prevedibile sbarco alleato, Roatta disse che: "[la difesa costiera] non è in condizioni di impedire lo sbarco, ma solo in misura di ostacolarlo, di ritardarlo e di contenere per un tempo più o meno lungo l'avversario sbarcato". Anche la superiorità aerea alleata era fuori discussione. Infine un altro problema era rappresentato dalle divergenze tra il comando italiano in Sicilia e quello tedesco. Le truppe tedesche erano, in teoria, agli ordini del generale Guzzoni, ma in pratica il comandante italiano dovette indire numerosissime riunioni con gli ufficiali tedeschi che, ancora dubbiosi sullo sbarco in Sicilia, erano comunque discordi sulle località siciliane in cui sarebbe avvenuto quello che per loro restava un ipotetico sbarco. L'unica conclusione a cui poté giungere il generale Guzzoni fu che lo sbarco sarebbe stato, eventualmente, contrastabile solo quando si fossero palesate le vere intenzioni degli alleati. Nelle prime ore del 10 luglio 1943, forze britanniche, canadesi e americane unite assalirono otto spiagge sul litorale sud-est delle dieci mila miglia quadrate di litorale dell'isola. Nel campo della tecnica degli assalti anfibi, "Husky" introdusse un'intera nuova gamma di strumenti per lo sbarco. Fu anche la prima volta che gli alleati facevano uso su grande scala delle truppe trasportate su aerei ed alianti. Questo tipo di sbarco fu però un vero disastro, sia per il fuoco da terra che per la scarsa preparazione dei piloti per questo genere di compiti . La Sicilia segnò anche l'ingresso in Europa dell'esercito statunitense nella seconda guerra mondiale. Combattendo a fianco dei più esperti veterani inglesi del deserto, il soldato americano mostrò ciò che poteva fare. L'operazione Husky si sviluppò in due tronconi:- La 7ª Armata americana del Gen. George S. Patton che, sbarcando nel Golfo di Gela, puntò verso nord- ovest, alla conquista di Palermo per poi ripiegare a oriente lungo la costa settentrionale verso Messina. -
L' 8ª Armata britannica del Gen. Sir Bernard Montgomery, che sbarcò nell'estrema punta sud-orientale e da lì risalì verso nord, occupando Siracusa e Catania, per poi ricongiungersi con gli americani a Messina. Gli alleati conquistarono la Sicilia in trentotto giorni e ciò portò alla destituzione di Benito Mussolini e alla resa dell'Italia. Tuttavia fu una vittoria deludente, una "vittoria amara" per gli anglo-americani. Da una parte per via delle ingenti perdite evitabili, subite con le cadute in mare dei paracadutisti, e dall'altra perché non erano riusciti ad impedire la fuga in Calabria dell'esercito tedesco.Una delle cause del mancato coordinamento tra gli inglesi e gli americani fu la rivalità tra il generale inglese Montgomery ed il generale americano Patton. Quest'ultimo, per non sentirsi relegato a un ruolo secondario, invece di accorrere in aiuto a Montgomery, bloccato da una accanita resistenza tedesca a Catania, preferì passare alla storia come il liberatore di Palermo, andando a "liberare" dei territori che ormai erano già stati abbandonati dall'asse. Così, non trovando alcun ostacolo a Messina, le truppe tedesche riuscirono a ritirarsi senza problemi.Alcuni storici sostengono che a causa delle ingenti perdite subite a Gela da parte degli americani, in contrasto con la quasi passeggiata nel siracusano degli inglesi, Patton si infuriò e per ripicca non appena seppe che Montgomery aveva trovato una feroce resistenza sul Simeto, esclamò che era venuto il momento per gli inglesi di "conquistare l'onore in campo con i loro morti" e preferì andarsene in tutt'altra direzione lasciando gli inglesi al loro destino invece di accorrere in loro aiuto.
IL PONTE A PRIMOSOLE. LA SCOMMESSA DI
MONTGOMERY SU CATANIA
Per il 12 luglio fu chiaro a Kesserling e Guzzoni che la 6a Armata
non aveva altra scelta che quella di mettersi in difesa. Solo la
Sicilia orientale doveva essere mantenuta, quella occidentale doveva
essere abbandonata. Guzzoni pianificò di ridurre il suo fronte ad
una linea che attraversasse l’angolo nord orientale dell’isola. Le
forze già in contatto con il nemico dovevano ritirarsi nella metà
orientale di questa linea da Catania a Nicosia mentre quelle che si
ritiravano da Palermo dovevano occupare la metà occidentale da
Nicosia a Santo Stefano nella costa settentrionale.
Innanzitutto, quando l’ordine fu dato, i 30 ‘ Corps ’ dovevano
ancora prendere Vizzini; mentre la 45a Divisione era a circa 90 Km
dalla strada in discussione; era pronta per colpire a Vizzini ed in
una posizione migliore rispetto ai 30 ‘ Corps ’ per prendere
Caltagirone. Adesso erano stati costretti ad abbandonare l’attacco.
Inoltre, poiché a loro non era concesso di usare la strada statale
124 per i loro spostamenti verso ovest, essi dovettero ritornare
alle loro spiagge per ottenere il loro nuovo settore.
Quando Vizzini finalmente cadde e i canadesi, il 15 luglio,
iniziarono la loro avanzata lungo la strada statale 124, essi furono
trattenuti a Grammichele. Nuovamente, sebbene si trovasse in
perfetta posizione per sostenere i canadesi, l’artiglieria americana
non poté fare nulla perché aveva ricevuto severe istruzioni di non
sparare entro un miglio dalla strada, per timore di colpire
accidentalmente gli inglesi.
I sopravvissuti si divisero in piccoli gruppi e presero la strada
verso sud.
Poco dopo, la 50a divisione raggiunse il posto. Essi erano stati
nuovamente trattenuti per tutto il giorno, questa volta a Lentini.
Fortunatamente i tedeschi che si ritiravano in fretta non avevano
avuto il tempo di distruggere il ponte e gli inglesi furono in grado
di riprenderselo intatto. La notte prima a 10 miglia a nord, la 1a
Brigata paracadutisti inglese si era lanciata intorno al ponte Primosole sul lato verso il fiume Simeto.
Dei 19 alianti, solo quattro
atterrarono vicino al ponte. Su di un totale di 1.856 solo 295
uomini raggiunsero l’obiettivo, ancora queste truppe catturarono il
ponte ed occuparono il terreno al di sotto di esso. I carri che, dopo l’alba, cercarono di rafforzarli furono abbattuti dagli 88mmche facevano tiro al bersaglio. Per tutto il 16 valorosi combattimenti corpo a corpo infuriarono tra i vigneti e gli aranceti a nord del fiume.
Nella notte tra il 16 e 17 luglio, la 6a e 9a ‘ Durhams ’ passò attraverso lo stesso guado. Le posizioni dei
tedeschi furono rafforzate anche dall’arrivo del 4° Reggimento ‘
Fallschirmjagen ’ che era piombato lì quella notte. La terribile
battaglia continuò per tutto il 17. http://www.primopachino.it/sbarco/index.htm
L'assalto degli Arditi al ponte Primosole per contrastare l'avanzata degli Inglesi La Sicilia, 15 Luglio 2013
In occasione del 70° anniversario dello sbarco in Sicilia la sezione Anpd'I di Catania, da sempre attenta al ricordo dei sui caduti e delle battaglie che hanno visto protagonista la Folgore, come a El Alamein e ai Piani dello Zillastro, ha organizzato anche qui in Sicilia una manifestazione a ricordo dei caduti dell'estate del 1943. Nell'operazione «Husky» le forze paracadutiste, anche se non italiane, ebbero un ruolo importante e non dobbiamo dimenticarci, che proprio le zone intorno al vecchio ponte Primosole, fuorno una vasta drop zone con lancio di guerra sia da parte dei Diavoli verdi tedeschi, inviati in supporto alle proprie truppe di instanza all'aereoporto di Catania, immediatamente dopo le prime notizie dello sbarco, e sia da parte dei Diavoli rossi inglesi, che scelsero inconsapevoli la medesima zona lancio. Ma mentre tutti conoscono questi eventi non tutti sanno del ruolo che ebbero in quei giorni gli Arditi, che si diedero da fare per contrastare, come solo loro sapevano fare, l'avanzata inglese nella Sicilia orientale e proprio al ponte Primosole si distinsero per il loro coraggio. Visto che oggi gli eredi di quei soldati sono quelli appartenenti al IX reggimento colonnello Moschin, quindi quei reparti delle forze speciali punta di diamante della Brigata Folgore, la sezione, ieri, si é raccolta nel loro ricordo nei pressi del monumento italiano del nastro azzurro al Ponte Primosole, monumento che é stato adottato dai soci che si impegneranno anche a tenerlo pulito, nel decoro che questi luoghi meritano. Questo momento ha assunto particolare valore perché ha permesso di ricordare degli uomini e delle azioni che le memorie storiche tendono ad omettere e che difficilmente si trovano nelle pubblicazioni straniere o vengono normalmente attribuite ai tedeschi e solo pochi storici locali ne parlano. Nella cerimonia é stata ricordata l'azione, per cui gli Arditi del II battaglione del X reggimento con 3 compagnie di stanza ad Acireale passeranno alla storia, e cioè l'assalto al ponte di Primosole compiuto la notte del 14 luglio 1943. I paracadutisti inglesi, con l'operazione «Marston tonight», avevano occupato il ponte mentre poco piú a nord, protetti dal fosso Buttaceto, i tedeschi e gli italiani resistevano. Ma dell'azione degli Arditi così lo storico Tullio Marcon ne riporta i fatti: «Un paio di camionette del II battaglione Arditi, con comando ad Acireale, al comando del sottotenente Donìa si trovava in perlustrazione già alle 21,30 sulle rive del fiume Simeto. Il reparto godeva di una certa fama presso i tedeschi, che chiesero così a Donìa di aiutarli a riprendere il ponte. Donìa chiamato per radio il maggiore Marcianò che lasció subito il comando di battaglione, si diresse su Primosole alla testa di 3 pattuglie della 113ª compagnia, ognuna con 2 camionette ed un totale di 56 uomini armati di mitragliatrici e coraggio da vendere. Alle 01,45 le 6 camionette (al comando del capitano Paradisi) imboccarono il ponte a tutta velocità percorrendolo in un baleno e raggiungendo l'altra parte dove stava l'avanguardia inglese, che in preda al panico si diede alla fuga verso il Bivio Jazzotto (dove stava il grosso della brigata). La reazione inglese peró non tardó ad arrivare e fu particolarmente violenta a colpi di mortaio, riuscendo così a distruggere 4 delle 6 camionette. Gli Arditi, circondati, non smisero mai di sparare all'impazzata, quindi a bordo delle 2 camionette superstiti tornarono verso le proprie retrovie. L'azione duró 1 ora e 40 minuti, procuró al nemico numerose perdite assicurando al battaglione tedesco la ripresa del ponte di Primosole, infatti gli inglesi furono ricacciati indietro, al bivio Jazzotto. Il bilancio di quell'azione fu di 5 Arditi morti, 4 feriti e 16 dispersi". (T. Marcon, "Assalto a Tre Ponti, da Cassibile al Simeto nel Luglio 1943", Ediprint 1993). Vi furono 2 medaglie d'oro al valor militare alla memoria, il tenente Duse e l'Ardito Maccarrone, 2 medaglie di bronzo al valor militare per C. M. D'Amico e l'ardito Basso, mentre tra i sopravvissuti ebbero l'argento il capitano Paradisi, i tenenti Taini e Friozzi e l'ardito Gironi mentre il bronzo venne assegnato al sottotenente Bartolozzi, il S. M. Badalamenti, i sergenti Olivati e Castoldi e gli arditi Furlan e Napolitano. Proprio per ricordare questi momenti é stata organizzata una marcia della memoria, dal Ponte dei Malati quindi seguendo il vecchio tracciato della SS114 che attraversa le colline di San Demetrio si é raggiunto il Bivio Jazzotto per finire presso il monumento dei caduti italiani al Ponte Primosole dove si é svolta la celebrazione realigiosa celebrata dal cappellano militare del 62° reggimento Sicilia della caserma Sommaruga, nonché cappellano dell'Anpd'I, don Alfio Spampinato che ha ricordato lo spirito dell'Ardito con il motto «Ardito! Il tuo nome vuol dire coraggio, forza e lealtà; la tua missione è vincere, ad ogni costo».
LE DEVASTANTI INCURSIONI ALLEATE
L’organizzazione delle forze aeree alleate era molto frazionata in ragione delle aree operative e del tipo di impiego dei velivoli. In Italia operavano contemporaneamente velivoli appartenenti ai segg. comandi: M.A.A.F. (Mediterranean Allied Air Force); N.A.S.A.F. (Northwest African Strategic Air Force); D.A.F. (Desert Air Force); N.A.T.A.F.(Northwest African Tactical Air Force); N.A.T.B.F. (Northwest African Tactical Bomber Force); N.A.C.A.F. (Northwest African Coastal Air Force); M.E.A.C. (Middle East Air Command); M.A.S.A.F. (Mediterranean Allied Strategic Air Force); T.B.F. (Tactical Bombing Force). Inoltre le unità venivano di continuo aggregate o spostate a fronte dei determinati momenti tattici e strategici, per un totale di 2.600 e 2.900 aerei !
Le tecniche usate per il bombardamento erano le stesse che diedero
la vittoria agli Anglo-americani nei più disparati teatri, però
questa volta si fece un uso massiccio di bombe a grappolo, cioè
bombe che collegate assieme garantivano una distruzione totale degli
obbiettivi grazie a più deflagazioni. Vennero utilizzati bombardieri
sia leggeri - medi - e pesanti, mentre i caccia della difesa aerea
servivano per garantire la superiorità aerea del cielo nemico e la
scorta agli incursori. Tutti i capoluoghi di provincia furono rase
al suolo migliaia i morti tra civili e militari una vera e propria
strategia del terrore, e furono interessate anche le piccole isole a
sud della Sicilia.
GLI INCUBI NOTTURNI DEI CATANESI
Il B-17, la fortezza volante.
Il più famoso bombardiere degli Stati Uniti usato durante la seconda guerra mondiale. Nel link una pagina dedicata e tutti i siti web dedicati a questo aereo militare protagonista di molte battaglie aeree della seconda guerra mondiale. Storia, fotografie, caratteristiche tecniche, disegni, armamento del B 17 http://www.toflyintheworld.com/aerei/aer_ITA/WWII%20ITA/aeri_USAb17.htm
Operazione Husky 70 anni dopo. Le iniziative in programma a Catania di Giuliana Avila
Il 10 luglio 1943 avvenne l’operazione Husky, lo sbarco in Sicilia, imponente operazione militare del secolo scorso, prima dello sbarco in Normandia, undici mesi dopo. Quest’anno, dopo ben 70 anni, viene commemorata con un’iniziativa storico-culturale in molti luoghi della Sicilia. Tante le iniziative anche a Catania. Il Museo storico dello sbarco in Sicilia 1943, fu ideato e realizzato a Catania, al centro fieristico ‘Le Ciminiere’ di viale Africa, da Nello Musumeci, ex presidente della Provincia Regionale di Catania. “Abbiamo ricordato una pagina decisiva della nostra storia, reso omaggio ai caduti su entrambi i fronti, in gran parte giovanissimi, e evidenziato il contributo di sangue di migliaia di civili, spesso dimenticato – racconta Musumeci – Ricordo ancora le polemiche sterili di certi pacifisti, quando fu inaugurato nel 2001. Io non sono pacifista, ma pacifico e proprio al valore della pace sono dedicate due frasi del Papa, all’ingresso e all’uscita del Museo”. Il Museo ha sempre avuto notevole successo e nel 2012 ha contato 20.615 visitatori, dei quali 2.028 stranieri, 3.335 visitatori italiani non siciliani e 15.271 alunni e docenti in visita scolastica. LE INIZIATIVE - A Catania, mercoledì 10 luglio alle ore 9,30 si terrà a Le Ciminiere il convegno “Sicilia 1943, operazione Husky” e nella stessa location si potrà ammirare la mostra-concorso internazionale di modellismo storico ospitata dall’11 al 21 luglio. Dal 10 luglio, all’interno de la Galleria del Credito Siciliano di Acireale, si terrà la mostra fotografica “Phil Stern, Sicily 1943”, con ben 70 sue immagini e un centinaio provenienti dall’Imperial war museum di Londra. “Stern, che sarà presente alla mostra, ha accolto con grande disponibilità il nostro progetto di una mostra con le sue foto, a condizione che “facessimo presto”, riferendosi alla sua età – ha ricordato lo storico Ezio Costanzo – che illustrerà gli scatti dell’allora giovane fotoreporter arruolato nei Rangers, che, pur vivendo il dramma della guerra, riuscì ad immortalare con grande anima artistica le bellezze della Sicilia, soprattutto del territorio di Licata (dalle Due Rocche a Torre di Gaffe). Proprio a Licata Stern, nelle sale di Palazzo La Lumia, quartier generale delle truppe americane durante l’operazione husky, incontrerà dopo ben 70anni il Barone La Lumia, allora bambino, e ritornerà nei luoghi dell’occupazione anglo-americana che segnarono il suo sbarco in Sicilia. Stern, dopo la guerra divenne famoso per i famosi ritratti dei grandi personaggi del cinema americano come Marilyn Monroe e Marlon. “Il Museo catanese dello sbarco all’interno del centro fieristico ‘Le Ciminiere’ – ha detto il vicepresidente dell’Ars Salvo Pogliese – e i bunker, rifugi, cimiteri di guerra sono un itinerario capace di interessare e emozionare. Perché ricordare la guerra permette di capire il valore assoluto della pace. Sono stati inviato in tutto il mondo oltre 30.000 pieghevoli in tre lingue con il programma delle manifestazioni, alle associazioni d’arma e degli ex combattenti proprio come strategia di promozione turistica.Un’iniziativa che ci aiuterà a recuperare la memoria di quei giorni senza le lenti deformanti della storiografia ufficiale e che può creare le premesse per un “circuito della memoria”.
Lo sbarco dei canadesi 70 anni dopoA piedi da Pachino il 10 luglio e per venti giorni seguiranno i sentieri battuti dai soldati nell'estate del 1943. Saranno in 562, uno per ogni soldato vittima dei combattimenti nell'Isola. Torneranno sui passi dei loro padri.
Anna Rita Rapetta
Roma. Cammineranno, come hanno camminato i
loro soldati. Partiranno a piedi da Pachino il 10 luglio e per
venti giorni seguiranno i sentieri battuti dalla 1° Divisione di
Fanteria canadese nell'estate del 1943 per onorare la memoria
dei combattenti e dei caduti durante la Campagna di Sicilia, nel
corso della Seconda Guerra Mondiale.
La campagna di Sicilia impose un elevato tributo di sangue alle forze anglo-statunitensi: circa 22.000 tra morti, feriti e dispersi più 20.000 ammalati di malaria. I tedeschi subirono circa 10.000 perdite, tra morti e prigionieri e gli italiani ebbero 5.000 morti e 116.000 prigionieri (cifra che indica l’inizio della dissoluzione dell’esercito).L’avvio della campagna d’Italia con l’invasione della Sicilia determinò avvenimenti politici che cambiarono la situazione politica dell’Italia: la caduta del fascismo del 25 luglio 1943 ed il conseguente arresto di Mussolini. Questo determinò, il 3 settembre 1943, la firma dell’armistizio tra l’Italia e gli anglo-americani. La pubblicizzazione dell’armistizio, avvenuta l’8 settembre successivo, determinò: l’invasione tedesca dell’Italia, la liberazione di Mussolini - prigioniero al Gran Sasso- da parte dei tedeschi, la sua traduzione in Germania, il suo ritorno in Italia il 23 settembre. Tutto ciò che successe poi si sa è stato raccontato da cronisti molto più blasonati di noi, in questo scenario siciliano comunque, secondo il nostro modesto parere, non ci furono ne vincitori ne vinti, ne liberatori e liberati, soprattutto perchè il prezzo pagato da persone innocenti fu alto molti ne piangono le conseguenze ancora oggi, chi vide i propi padri, madri, sorelle, amici, scomparire in un attimo, una pagina scura della II Guerra Mondiale, che va sicuramente ricordata.
ADRANO
CENTURIPE
CARLENTINI
MILITELLO
TRECASTAGNI
CATANIA Eugenia Corsaro, eroina catanese della Resistenza 12 enne invisibile che sabotava la Luftwaffe nazista CRONACA – Il partigiano originario di Linguaglossa Nunzio Di Francesco, sopravvissuto al campo di concentramento di Mauthausen, la definiva «la più giovane martire italiana». È stata giustiziata dai soldati nazifascisti mentre tentava di tagliare i fili della corrente elettrica alla base aerea Gerbini di Catania
«La più giovane martire della Resistenza italiana». Nunzio Di Francesco, partigiano originario di Linguaglossa, usava queste parole per definire la piccola Eugenia Corsaro. L'uomo, un sopravvissuto al campo di concentramento di Mauthausen, ha fatto la sua esperienza durante la guerra di liberazione nelle brigate Garibaldi in Piemonte fino alla cattura da parte dei nazisti. Nel suo racconto, affidato ad Angelo Sicilia, direttore artistico della Marionettistica popolare siciliana di Palermo e autore dell'opera Testimonianze partigiane, c'è la storia della Resistenza catanese. Una storia in cui Eugenia, uccisa a dodici anni dai soldati nazifascisti e quasi estromessa dalla memoria, occupa un ruolo di rilievo al pari di eroine come Graziella Giuffrida e Salvatrice Benincasa. «Essendo piccola di statura - racconta Sicilia - Eugenia Corsaro era quasi invisibile alle sentinelle naziste. Il suo compito era quello di tranciare dei fili elettrici che portavano la corrente all'aeroporto militare Gerbini di Catania». Erano gli anni Trenta e l'Isola si trovava sotto la piena occupazione nazifascista. La base aerea Gerbini era stata ricavata dalla Regia aeronautica tra i campi agricoli della piana di Catania, a una ventina di chilometri dal capoluogo etneo. Da qui durante la guerra si alzavano in volo gli aerei della temuta Luftwaffe tedesca per le azioni militari su Malta e contro le navi britanniche. A quei tempi la Resistenza siciliana contava già diversi gruppi organizzati. Uno di questi era proprio attivo nella zona della base aerea con diverse opere di sabotaggio ai danni dell'avamposto nazifascista messe a segno spesso da Corsaro, che a soli 12 anni riusciva a staccare la corrente dell'aeroporto. Durante una di queste operazioni, tuttavia, Eugenia è stata scoperta dai nazisti che, dopo averla catturata, la giustiziarono sul posto. «Un atto eroico da parte di uno dei tanti personaggi sconosciuti che la nostra storia ci riserva» lo definisce Sicilia. Una rappresentante di quella Resistenza che prese le basi proprio dall'Isola, grazie anche al sacrificio di tanti cittadini. «Sappiamo da fonti scritte e orali che i nazisti causarono centinaia di stragi nell'Italia continentale - conclude lo scrittore - ma in realtà la stagione delle stragi la iniziarono in Sicilia. La divisione corazzata Goering, che causò decine di eccidi, specie in Toscana, cominciò questo tragico rituale in Sicilia. A Mascalucia, con quattro civili uccisi e a Castiglione di Sicilia, dove i morti furono sedici». E ancora prima dello sbarco degli alleati tante furono le ondate di arresti e deportazioni «al confino e sulle isole, come a Ventotene o addirittura in Africa. E tanti i sacrifici di piccoli eroi comuni come Eugenia». GABRIELE RUGGIERI 25 APRILE 2016
Le forze da sbarco, precedute da uno sfortunato lancio di
paracadutisti (nessuna delle unità scese nel luogo stabilito e molti
parà vennero catturati; inoltre 23 dei 144 Dakota, lungo la rotta di
ritorno, sorvolarono le navi alleate e vennero abbattuti perché
scambiati per bombardieri dell'Asse) erano protette e scortate da
una formidabile flotta combinata.
La flotta alleata contava quattro navi da battaglia (Nelson, Rodney, Warspite e Valiant, quest'ultima appena rientrata in servizio dopo l'attacco di Alessandria), più altre due di riserva ad Algeri ("Forza Z" con le corazzate Howe e King George V), le portaerei Formidable e Indomitable, gli incrociatori Orion, Newfoundland, Mauritius e Uganda, gli incrociatori contraerei Aurora, Penelope, Euryalus, Cleopatra, Sirius e Dido, e 27 cacciatorpediniere. Le forze di appoggio diretto contavano 2 monitori, l'incrociatore Dehly, 8 cacciatorpediniere, 4 cannoniere, 5 mezzi da sbarco trasformati in batterie galleggianti, e 6 mezzi da sbarco con lanciarazzi. La US Navy per parte sua schierava cinque incrociatori (USS Boise, USS Savannah, USS Philadelphia, USS Brooklyn e USS Birmingham), oltre a 25 cacciatorpediniere e a un monitore britannico. Da notare anche la presenza tra queste forze di unità appartenenti a paesi occupati, come Olanda e Grecia. Con l'appoggio di queste forze le prime truppe toccarono terra nelle prime ore del 10 luglio.
"Il cielo si oscurò e le orecchie fischiavano!"
di Ino Biondo
LO SBARCO: GLI USA E LA MAFIA
Nei primi dieci mesi di guerra i sommergibili tedeschi affondarono
nei pressi delle coste dell'Atlantico cinquecento navi statunitensi;
era chiaro che venivano riforniti di viveri e di nafta da spie e
traditori; marina e controspionaggio si dimostrarono impotenti. Il
controspionaggio ebbe l'idea di ricorrere ai servigi della mafia,
con la mediazione di Salvatore Lucania (detto “Lucky Luciano”) che
stava scontando una condanna a 15 anni. I fratelli Camardos e Frank
Costello, con la loro organizzazione mafiosa, riuscirono dove le
strutture ufficiali avevano fallito: I'attività filo-nazista fu
stroncata.
I 70 anni dello Sbarco. Convegno e mostra fotografica di Phil Stern per celebrare l'anniversario
Le sorti della II Guerra Mondiale furono decise, settanta anni addietro in Sicilia. Il 10 luglio per ricordare quell'epica stagione viene organizzato un convegno di illustri storici alle Ciminiere a corona del quale nella Galleria del Credito Siciliano, ad Acireale, sarà ospitata una mostra di foto d'epoca scattate da Phil Stern, allora giovanissimo corrispondente di guerra, poi divenuto famosissimo come fotografo di Marilyn Monroe e Frank Sinatra. Sarà presente lui stesso: nonostante i suoi 93 anni, vuole ripercorrere i luoghi di quelle giornate ormai leggendarie (la mostra sarà poi visibile alle Ciminiere da metà dicembre per tre mesi). Una folla di altre iniziative tra pubblico e privato si svilupperanno sul medesimo tema e se ne è parlato ieri mattina, sempre alle Ciminiere nel corso di una conferenza stampa condotta dal giornalista Daniele Lo Porto. Salvo Pogliese, vice-presidente dell'Ars e promotore dell'iniziativa, ne ha condensato la valenza che riguarda la storia passata, ma anche l'economia attuale. «Il Museo storico dello sbarco attivo a Catania da dieci anni, è il secondo al mondo, per estensione tra quelli dedicati alle memorie militari e copre lo spazio di appena 38 giorni con una massa imponente di documenti. Sul piano economico però il numero di visitatori del nostro museo è assai inferiore a quello anche di musei analoghi di rango ed estensione assai limitata». Dunque bisognerà collegare il nostro Museo dello sbarco con altre iniziative, di indagine storica, editoria, collezionismo, di percorsi della memoria, che sfruttino a pieno le immense potenzialità di cui disponiamo, e di questo sviluppo si colgono i primi frutti. Ne hanno sottolineato i dettagli Nello Musumeci, che come presidente della Provincia dieci anni fa ne disegnò il piano e le intenzioni; Antonella Liotta, attuale commissario straordinario alla Provincia, Angela Mazzola (assessore comunale) assicurando il sostegno al programma; lo storico Ezio Costanzo, autore di decisivi saggi in materia, annunciando le nuove prospettive di studio; Riccardo Tomasello e Augusto Guzzardi, presidenti di organizzazioni private che hanno collaborato al programma e Ornella Laneri che come presidente della sezione Alberghi e Turismo della Confindustria siciliana ha generosamente finanziato il pellegrinaggio siciliano di Phil Stern.
Lo stupore giovanile dietro l'obiettivo di un mitico fotoreporter di guerra Molti pensano che la storia sia una serie di date e di battaglie. Sbagliano. La storia siamo noi. Lo si capiva ieri: si parlava di fatti lontani, ma la storia palpitava nelle persone. L'esperto di storia militare siciliana Ezio Costanzo, direttore di una collana editoriale primaria nel panorama internazionale, ha ricordato Phil Stern, il mitico reporter dello Sbarco. Allora il fotografo aveva 23 anni e con lo stupore della sua giovinezza in mezzo agli altri giovani che sfidarono la morte (e diecimila ci rimisero la vita) osservava con stupore il mondo siciliano: apparentemente diverso dal suo. Incontra un contadino e come prova di amicizia accenna un saluto nella nostra lingua ricavandolo dal frasario fornito alle truppe. Piccole frasi sgangherate. Ma il siculo risponde con frasi rotonde e ben tornite, con inconfondibile accento americano. Il contadino era veramente siciliano, ma era partito dall'Isola ai tempi della fame, aveva impiantato una stireria nel Bronx e dopo alcuni decenni, messa assieme una piccolo fortuna era ritornato nell'Isola, indistinguibile dagli altri siciliani, ma con una bella casa. Un incontro amichevole in tempo di guerra come quelli descritti da Omero? Sì. I contadini fraternizzavano con i Gmen, ne facilitavano le mosse, perché erano paisà: si ritrovavano al di qua dell'Oceano. Nei rapporti ufficiali si trovano ipotesi di connivenze mafiose, di accordi a tavolino che forse non furono immaginati da chi non sapeva spiegare altrimenti la familiarità tra "occupatori" e "occupati". Guardando le foto di allora i volti dei contadini e dei ragazzi con il mitra in mano, certo capiremo assai più che dai teoremi di chi non è mai vissuto nel Bronx o in un paesino siciliano e non sanno quanto si somiglino. Mentre si parlava di queste cose un attento ascoltatore, appassionato di storia siciliana mostra un libriccino con il diario di Nino Bolla, maggiore degli Alpini, nato a Saluzzo comandante della batteria che inchiodò per diversi giorni l'avanzata inglese sul Simeto. Ogni giorno una paginetta di prosa asciutta, senza enfasi guerresca, con la consapevolezza che sulle campagne circostanti, fino alle colline di Motta, si stava decidendo il destino del mondo. Quel libretto, tanto istruttivo fu stampato fortunosamente nel '61: ne è rimasta solo qualche copia nelle biblioteche, e invece dovrebbe essere letta in tutte le scuole per capire senza preconcetti la storia. Il maggiore alpino era stato un eroe della I Guerra Mondiale, nelle dolorose giornate dell'Adamello. E poi si fa avanti un giovanotto dalla sgargiante maglietta rossa, con sopra vistosamente stampigliato "80". È la sua età: all'epoca dello sbarco era un ragazzino. Ha una mano amputata: gliela portò via una bomba in quel luglio di 70 anni fa. Gli Americani dapprima pensarono a un attentato, e si prepararono al contrattacco: poi capirono e soccorsero il ragazzino sanguinante. Lo portarono all'ospedale di campo dove i chirurghi gli amputarono un arto ma gli salvarono la vita. Lì il bambino vide il generale Patton che rimproverava un soldato fifone. Nella guerra ci sono uomini: quando c'è il pericolo si spaventano: se sopravvivono sono felici per sempre e quel giovanotto di 80 gagliarde primavere ha sciolto un inno alla gioia: La vita è bella, l'amore è la felicità». Sergio Sciacca - La Sicilia, 29/06/2013
Sotto le bombe del '43 quegli esami superati a tavolino Il 16 aprile 1943, per trenta studentesse del Liceo Cutelli, fu un giorno "storico". Catania, in quei giorni, viveva la eco e le devastazioni della guerra. «Gli aerei alleati arrivano in stormi così fitti da oscurare il sole, molti palazzi sono rasi al suolo e si contano centinaia di morti e migliaia di feriti; troppo rischioso mandare gli studenti a scuola, cosicché le autorità decidono di chiudere anticipatamente l'anno scolastico e di considerare validi per la promozione i voti conseguiti nel secondo quadrimestre». Così, ricorda quei giorni, la signora Maria Maltese Midolo, una delle studentesse della III liceale, sez. A, insieme a Maria Borzì, Agata Giuffrida Finocchiaro (madre della senatrice Anna), Emilia La Ferlita, Grazia Pitrè, Maddalena Politi Asmundo e Pina Verdirame Cutrona. E i suoi ricordi, arrivati con una mail alla nostra redazione, qualche giorno fa, grazie alla solerzia del figlio, che ha voluto raccontarci i suoi ricordi, sono, per un giorno ridiventati il suo presente, quando le sette signore, ormai ottantottenni, hanno deciso di vedersi per una rimpatriata di classe, l'11 giugno. Un incontro davvero significativo, che la signora Maria, al telefono, ci ha raccontato così: « Non ci riconoscevamo più, e dopo 70 anni è comprensibile. L'incontro è tutto merito di Maria Borzì, l'unica nubile del gruppo, che ha fatto l'investigatrice, e conoscendo un po' tutte noi e in particolare la mamma della senatrice Finocchiaro, ha deciso di rintracciare le superstiti. Siamo ormai una decina su trenta, di quella classe femminile del Cutelli». Nella mail si legge ancora: «Per noi studentesse della 3° A del Liceo Classico niente esami di maturità, niente patemi d'animo e soprattutto niente "notte prima degli esami"». E in effetti la signora Maria ci confessa la gioia, nell'apprendere la sospensione delle lezioni: «Eravamo felici, un po' perché non ci rendevamo conto, un po' per incoscienza; anche dopo la notizia ci riunivamo e scherzavamo. Nonostante tutto lo ricordo come uno dei periodi più belli della mia fanciullezza, perché si era così spensierati! Ricordo ad esempio che quando c'era la ronda tedesca, di nascosto noi seguivamo i soldati, senza pensare al pericolo; eravamo sfollati, e in maggioranza ragazzetti, a San Nullo e ci divertivamo la sera a riunirci e scherzare; tra noi c'era pure un ragazzo che aveva preso ad un soldato tedesco un paio di anfibi chiodati, particolarmente rumorosi, per cui spesso si correva nei vicoli più nascosti per evitare di essere scoperti. Io a 17 anni sono stata costretta a lavorare in ufficio con mio padre. Poi decisi di prendere la laurea e di insegnare, e così ho fatto per tutta la vita». I ricordi di Maria Borzì sono più nitidi, nomi, dettagli, la violenza del bombardamento dove anche la madre è rimasta sepolta per un'ora, fino a quando scavando non sono riusciti a tirarla fuori; ci confida: «Ho mantenuto i rapporti con tutte le mie amiche, forse perché restando nubile sono stata sempre molto più tenace con i miei affetti. Ricordo anche il grande dolore per il prof. Barletta, che ci aveva avuto come alunne al ginnasio, ucciso dagli inglesi, dopo che i tedeschi ci avevano buttato fuori dal liceo, ed eravamo stati costretti a rifugiarci prima al convitto diocesano, poi presso le suore di via Caronda. Avremmo preferito fare cento esami piuttosto che vivere questa esperienza». Nei ricordi sia dell'una, che dell'altra, dopo una vita passata a crescere figli e nipoti, o semplicemente a preparare i loro alunni alla vita, il rimpianto per quella mancata "notte prima degli esami" è vivido e costante, per questa ragione, nella loro lettera, come anche al telefono ci hanno raccomandato un "in bocca al lupo" speciale per quanti siederanno da lunedì di fronte alla commissione, pronti a sostenere il primo esame della vita, consapevoli di quanto il ricordo di chi l'ha fatto, ma anche il rammarico per chi, in quei tristi giorni, ne è stato privato, possa lasciare la lezione più importante di tutte: "gli esami passano, alcuni non li supererai, altri non li affronterai, ma il peso delle esperienza e delle amicizie riempirà il corso di tutta la tua vita", e dopo 70 anni, il loro esempio lo dimostra. Samantha Viva - La Sicilia 30/06/2013
Il 13 e 14 luglio solenne commemorazione del 70° dei bombardamenti. Il ricordo dei bombardamenti a Paternò. Con le solenni manifestazioni commemorative del 13 e 14 luglio a ricordo del 70° Anniversario dei bombardamenti su Paternò l’Amministrazione Comunale, di concerto con l’Assessorato alla Cultura e la Presidenza del Consiglio, ha inteso ricordare una delle pagini più drammatiche della storia della città: l’estate del ‘43, come ci testimonia l’omonimo, bellissimo libro che Ezio Costanzo consegnò alla memoria della Città e alle nuove generazioni nel 2001. A 70 anni dai quei tragici eventi bellici, Paternò, Città insignita nel ’72 con la Medaglia d’Oro al Valore Civile, non ha dimenticato i suoi morti e la sua distruzione, ne fanno fede le testimonianze ancora vivide di chi porta nel corpo e, soprattutto, nell’animo le tracce indelebili di quella tremenda guerra: la stratificazione dei ricordi dei tragici eventi del 14 e 15 luglio è diventata parte integrante dell’identità cittadina, una banca della memoria collettiva che in questo lungo arco di tempo ha contribuito a mantenere vivo in ognuno il ricordo di quella terribile estate. Era un caldo pomeriggio, intorno alle ore 14 del 14 luglio, inaspettati quanto cruenti bombardamenti da parte degli anglo-americani si abbatterono su Paternò causando la morte di circa trecento inermi cittadini e la distruzione di interi quartieri della città. Paternò era diventato un obiettivo strategico degli Alleati in quanto Centro dei Comandi Tedeschi ed Italiani e la sua conquista una tappa d’obbligo per arrivare a Catania. A meno di 24 ore dal bombardamento del 14 luglio, e fino al 5 agosto, la città fu nuovamente martoriata da una nuova ondata di bombardamenti che contribuì a compiere l’opera di morte e distruzione della città. Dalle macerie delle case venivano estratti centinaia e centinaia di morti, una stima approssimativa parlò di tremila, addirittura di cinquemila morti; i feriti, circa un migliaio, trovarono ricovero presso l’ospedale S.S. Salvatore, altri vennero collocati nell’ospedale da campo che fu approntato presso il Giardino Moncada, la villa comunale; la gente, in massa, sfollava verso la vicina Ragalna e le campagne vicinori, accolta con generosità dagli abitanti di quei luoghi. Il Giardino Moncada, fu teatro di uno dei più efferati eventi di quei terribili giorni: l’incendio dell’ospedaletto da campo ivi impiantato, sembra intenzionalmente voluto dalle truppe tedesche in ritirata, dove perirono centinaia di feriti civili e militari. Per onor di cronaca è giusto registrare che la tesi dell’incendio si contrappone con quella che, invece, l’ospedale bruciò in conseguenza dei bombardamenti. Nell’ immane rogo, trovò la morte anche un eroico frate cappuccino, padre Vincenzo Ravazzini, che, piuttosto che fuggire da quell’inferno, restò fino all’ultimo a portare conforto ai feriti. E a lui la Città, nella persona del Sindaco Mauro Mangano, nella solenne cerimonia religiosa del 14 luglio celebrata proprio alla Villa Comunale, ha inteso esprimere la propria eterna gratitudine deponendo una corona d’alloro sulla stele che ricorda il suo martirio. Sui fili della memoria si intrecciano decine e decine di testimonianze di quanti allora bambini o giovinetti vissero quei tremendi eventi e a tutt’oggi ne rappresentano la memoria vivente. Una storia in cui convivono orrore e nobili sentimenti è quella raccontata dalla signora Agata Di Bella di 86 anni , allora una bellissima sedicenne , che avvalora la tesi dell’incendio doloso all’ospedaletto: “Ricordo ancora lucidamente il 14 luglio del ’43, quando la nostra casa, sita in Via Altarino presso u’paisi novu.fu bombardata. In verità- racconta la signora- l’evento poteva essere, in qualche modo, arginato in quanto i Comandi italiani la mattina del 14 luglio fecero cadere da un aereo su Paternò dei volantini in cui si preannunciava l’imminente bombardamento della città. Ma la gente non diede la dovuta importanza al pre-allarme in quanto Paternò non era considerata una zona strategica e gli allarmi passavano addirittura inosservati da noi cittadini. Quel giorno mio padre era al lavoro e a casa c’eravamo io con le mie due sorelline più piccole e mia madre la quale , per sicurezza, pensò bene di preparare sotto il grande letto matrimoniale una sorta di rifugio ottenuto accatastando “trispiti”, tavole di legno e materassi e questo espediente ci salvò la vita. Quando i primi soccorsi arrivarono ai loro occhi si presentò uno spettacolo agghiacciante: la nostra casa, colpita dalle bombe, era crollata! Fummo miracolosamente salvate da sotto le macerie grazie al fatto che io mi misi disperatamente a scavare e all’improvviso una mano macchiata di sangue, la mia mano, sbucò fuori dai cumuli di pietre e detriti e indicò ai soccorritori che sotto le macerie c’era gente ancora viva! Poiché riportammo varie ferite, venimmo ricoverate all’ospedaletto da campo approntato alla villa comunale, dove prestava servizio un giovane carabiniere che si innamorò… di me! E a questo dolce sentimento la mia famiglia deve la vita: il carabiniere, avendo saputo che l’ospedale sarebbe stato bruciato ci aiutò a scappare e grazie a questo coraggioso, nobile gesto oggi sono qui a raccontarvi la mia testimonianza di quella indelebile, terribile estate del ’43!” Agata Rizzo http://www.lalba.info/2013/07/ricordati-a-paterno-i-tragici-eventi-dellestate-del-43/
I "NGLISI" - GLI ALLEATI A OGNINA IL 4 AGOSTO 1943
La borgata di Ognina non fu risparmiata dai bombardamenti alleati, anche per la vicinanza della cosiddetta «batteria di Borgetti», situata nell'area dell'attuale piazza Nettuno. Essa era costituita da quattro cannoni antiaerei da 75 mm posti a difesa della parte nord-orientale della città: deposito locomotive F.S., Guardia-Ognina, S. Giovanni li Cuti, Rotolo, Borgetti, Porto Ulisse, Ognina, «Carabiniere». La borgata, passaggio obbligato delle truppe alleate, subì un tremendo scossone quando i tedeschi (già in ritirata verso nord), per tentare di rallentare l'avanzata degli anglo-americani, fecero saltare il ponte della statale 114, che era costruito al limite nord della piazza Mancini Battaglia. Innocente e inconsapevole co-protagonista dell'avvenimento fu l'allora tredicenne Matteo Tudisco (meglio conosciuto come «Matteu d'a za' Vita»), che nel pomeriggio del 4 agosto 1943 aiutò i due artificieri tedeschi incaricati di minare il ponte e la stessa piazza Mancini Battaglia, che, per ragioni di sicurezza, venne presidiata per impedirne l'attraversamento a chicchessia. Sopra il ponte venne collocato esplosivo di vario tipo e nelle buche scavate qua e là sulla piazza vennero, invece, sistemate delle mine anti-uomo.I punti del piazzale dove erano state collocate le cariche, che dovevano esplodere al passaggio del nemico, furono coperti in modo approssimativo con del terriccio. La notte del 4 agosto, poco dopo le ventiquattro, una spaventosa esplosione devastò il cavalcavia, creò un profondo avvallamento lungo la statale e arrecò gravissimi danni alle abitazioni della borgata; i sassi sparsi intorno dallo scoppio mascherarono viepiù i punti della piazza dove era stato posto il detonante. Qualche giorno dopo, preceduta da un mezzo che la proteggeva, una colonna alleata giunse all'imbocco sud della piazza. E avrebbe sicuramente subito serie conseguenze se Matteo, casualmente sul posto e a conoscenza dei fatti, non avesse, con ampi gesti e parole - accompagnati da qualche «bum-bum» - fatto capire il pericolo che la colonna correva. Dal mezzo in avanscoperta scesero immediatamente due ufficiali che, prendendo Matteo sottobraccio, si fecero indicare i punti dove erano state sotterrate le mine. II ragazzo, anche se impaurito, con grande precisione indicò loro dove erano state collocate le cariche esplosive, salvando così la colonna da gravi rischi. Per questo meritevole gesto Matteo venne quasi sommerso di biscotti e cioccolata. _________________ da "Luci della scogliera"
3 AGOSTO 1943, PEDARA E MASCALUCIA. INIZIA LA RESISTENZA AI TEDESCHI.
La sparatoria durò circa quattro ore. Armi di vario tipo, munizioni
e camionette furono catturate ai tedeschi.
L’insurrezione contro i tedeschi in
difesa della roba, di Salvatore Scalia
Si cominciò di buon mattino con il tentativo di due tedeschi di
impadronirsi di un autocarro a cui, prudentemente, era stata tolta
la batteria. L’intervento del soldato Francesco Wagner, originario
di Mantova e addetto alla fotoelettrica antiaerea collocata tra
Mascalucia e Gravina, fece fallire la! requisizione. Più tardi fu
egli stesso derubato della moto Gilera in d! otazione, ma andò a
recuperarla con le armi in pugno. Poi fu assassinato da un tedesco,
sorpreso a rubare, che stava portando in caserma senza averlo
disarmato.
La mediazione
del maresciallo Francesco Gringeri e del comandante dei vigili del
fuoco Orazio Szmankò evitarono che il paese fosse messo a ferro e a
fuoco. Restarono nella memoria i nomi di quanti si distinsero quel
giorno: Sebastiano e Francesco Sottile, Andrea Consoli, Ascenzio
Reina, il parroco Arcangelo Longo, il barbiere Gaetano Fragalà e il
pompiere Tommaso Nicolosi che disarmò un ufficiale tedesco. Quella
pistola il figlio Severino la conserva ancora. In seguito l’unico a
essere riconosciuto come l’eroe della giornata fu il soldatino
ventunenne Francesco Wagner. Per anni mani pietose portarono fiori
alla sua tomba nel cimitero di Mascalucia.
Giunto a Barriera, Giuseppe Catanzaro venne però arrestato e condotto al comando difesa Porto che si trovava nell'ex residenza benedettina. Ad attenderlo ci fu il generale Passalacqua ed altri ufficiali. All'accusa di aver distrutto mezzi bellici dinanzi al nemico, in quello che a poco a poco andava assumendo sempre più i contorni di un processo sommario, Catanzaro oppose una disperata quanto inutile difesa. In breve tempo, si passò alla fucilazione.
di Salvatore Nicolosi da "Immagini di Catania" di Consoli-Nicolosi - raccolto in "Barriera-Canalicchio. Storia, evoluzione e immagini di un quartiere" di Santo Privitera
Sicilia, 10 luglio 1943: e se la strage l’hanno fatta i Liberatori? Le stragi dimenticate.
10 luglio Sicilia, 1943. I civili vengono fatti
allineare a bordo strada, un sergente imbraccia un mitra e li
falcia. Cadono in 37. Ma il fucilatore non è il solito tedesco con
il tipico elmetto grigio calcato sugli occhi. E’ un G.I. americano,
di quelli che al ritmo dello swing liberavano l’Europa regalando
cioccolata, gomme da masticare e Lucky Strike alle popolazioni
affamate e sinistrate dai bombardamenti. Quella strage non fu un
caso isolato. Anzi. Ma per l’Italia fu un caso dimenticato. Finché
il nipote di uno di quei 37 sfortunati «italian sons of bitches» non
si è improvvisato storico… Oltre alla strage di contadini di cui faceva parte il nonno dell’autore, nel libro si racconta che furono trucidati dagli americani soldati italiani presi prigioneri. Eccone una sintesi. Nei pressi dell’aeroporto di Biscari, il 14 luglio, il capitano John Compton (comandante di una compagnia di fanteria) «ordinò di uccidere i prigionieri», un gruppo di trentasei italiani, «parecchi dei quali indossavano abiti civili.
«Lo stesso giorno un’altra compagnia di fanteria
catturò quarantacinque italiani e tre tedeschi. Un sottufficiale, il
sergente Horac T. West, ricevette l’ordine di scortare trentasette
italiani nelle retrovie perché fossero interrogati dal Servizio S-2
del Reggimento. Dopo circa un chilometro e mezzo di strada, il
sergente ordinò al gruppo di fermarsi e di spostarsi verso la
carreggiata, dove i componenti furono allineati. Spiegando che
avrebbe ucciso quei «sons of bitches», il sergente si fece dare un
fucile mitragliatore Thompson dal suo caporalmaggiore e,
freddamente, eliminò gli sventurati italiani».
IL FRONTE DELLA SETTIMA ARMATA U.S.A. AD OVEST
Licata, la prima città conquistata dalle truppe Usa La Sicilia, Mercoledì 10 Luglio 2013
Alle ore 2,30 del 10 luglio 1943 venne dato l'allarme navale quando da Licata a Scoglitti, si presentarono in formazione 945 navi della ottava flotta americana, giunte dalla Algeria, dalla Tunisia e da Malta. Tra esse 5 incrociatori, 48 cacciatorpediniere, 11 tra posamine e dragamine, 87 unità da combattimento di vario tipo, 94 unità ausiliarie e da trasporto e rifornimento, 700 navi e mezzi da sbarco, di cui 190 grandi, soprattutto Lsi e Lst e 510 di minori dimensioni, soprattutto Lci e Lct. Afferivano tutte alla Western Task Force, il gruppo ovest dell'operazione Husky. I convogli della Joss Force, diretti alla volta di Licata, partirono da Biserta (Tunisia) e comprendevano 2 incrociati, 9 caccia torpediniere, 1 nave comando, 8 dragamine, 33 navi pattuglia e 202 mezzi da sbarco. Stipati nelle navi ben 27.650 uomini della Task Force 86 americana del generale Lucian Jr. Truscott, tra i più giovani generali dell'esercito americano, con vice il generale di brigata William W. Eagles, comprendente la 3a Divisione di Fanteria, la 2a Divisione corazzata del generale Hugh J. Gaffey, il 3° battaglione rangers, il 4° tabor marocchino, 126 muli e 117 cavalli. Le operazioni navali sono dirette, al largo tra Licata e Gela, assieme al generale George Smith Patton Jr che guida la 7a armata americana (3 divisioni di fanteria, in tutto 26 battaglioni, una divisione corazzata e 3 battaglioni Rangers) e che assumerà la direzione delle operazioni terrestri, dal vice ammiraglio Henry Kent Hewit che si trova a bordo della Monrovia, al comando del capitano di fregata T. B. Brittain, mentre le attività navali nella zona Joss sono coordinate dal contrammiraglio Richard L. Conolly dalla nave Biscayne, una unità di appoggio idrovolanti, al comando del capitano di fregata R. C. Young, all'ancora a 2,5 miglia dal porto di Licata. L'obiettivo è l'occupazione del territorio di Licata, con una tattica a doppia tenaglia, dal fronte costiero Gaffe-Due Rocche, con il porto, la città e la pista di volo della piana. Alle 22,30 del 9 luglio, il cacciatorpediniere Bristol, al comando del capitano di corvetta J. A. Glik e con 276 uomini di equipaggio, e il pattugliatore Pc-546 avevano già guidato le imbarcazioni ad assumere la posizione assegnata. Alle 23,30 le unità da combattimento sottoposero la costa e il semicerchio collinare che al di là del Salso chiude la Piana di Licata, ad intenso bombardamento con salve di potenti cannoni da 6 e 5 pollici. Alle ore 01,00 del 10 luglio il generale Alfredo Guzzoni dichiarò lo stato di emergenza ed ordinò di far brillare le ostruzioni, le banchine portuali e gli ormeggi dei porti di Licata e di Porto Empedocle. I vari gruppi di attacco della Joss Force si schierarono ciascuno di fronte al settore di sbarco assegnato da est ad ovest di Licata. Alle ore 03,00 i rangers del 3° battaglione, furono i primi a toccare terra alla Poliscia. Dopo aver zittito il fuoco di difesa italiano, avanzarono verso est e, dopo aver superato le deboli linee di difesa, imboccata la strada San Michele, procedettero verso Licata. Alle 03,40 la seconda ondata agli ordini del col. Brady, che incontrò sulla serra Mollachella l'eroica e vana resistenza di un tenente italiano, rimasto ignoto. A partire dalle ore 06,05 vennero sbarcati senza problemi i carri e i veicoli. Il Bristol, alle ore 05,45, mise fuori uso il treno armato 75/2/T della R. Marina che si trovava a protezione del porto. Alle ore 07,35 i fanti del 2° battaglione di Brady, conquistato il castel Sant'Angelo, ammainarono il tricolore issato sul pennone della torre e innalzaro no, al suo posto, la bandiera americana a stelle e strisce. Sulla "spiaggia blu", zona Punta Due Rocche-settore 70 est, lo sbarco avviene in più ondate. Alle ore 03,15 con la prima ondata, coordinata dal capitano di corvetta A. C. Unger, toccò terra il 2° battaglione del colonnello Rogers, Alle 06,27 sbarcano i carri armati, tutti del tipo Sherman, del 66° reggimento corazzato della divisione del generale Hugh Gaffey e si dirigono subito verso Gela. Alle ore 07,50 sbarcano anche gli agenti della Centrale Italiana dell'Oss (Office of Strategico Services) che nel 1945 si trasformerà in CIA, coordinati da Max Corvo, nome in codice Maral, 23 anni che stabilisce il gruppo al castello di Falconara, Alle ore 03.40, iniziò l'attacco del Gruppo Salso alle spiagge Plaia e Montegrande- settore70 ovest (spiaggia gialla). Alle ore 04,45 tutti gli uomini del 1° battaglione, al comando del maggiore Leslie A. Printchard, del 15° Reggimento di Fanteria del col. Charles E. Johnson erano già sulla spiaggia. Alle 9,30 il 1° battaglione di fanteria dopo aver guadato il fiume Salso, marciò con movimento avvolgente su Licata e si congiungerà con il con il 2° battaglione di Brady sbarcato a Mollarella. Nel settore 73-Gaffe (piaggia gialla), margine sinistro di tutto il fronte d'attacco, dove l'arenile è stretto e ghiaioso e il fondale insidioso per le tante fosse e gli scogli affioranti, lo sbarco fu particolarmente difficile. La prima ondata del Gaffi Attak Group, coordinato dal capitano di corvetta Samuel H. Pattie, che costituisce l'avanguardia del 1° battaglione d'assalto agli ordini del tenente colonnello Roy E. Moore, toccò terra alle ore 04,10, ma si trovò davanti ad un intenso fuoco di artiglieria pesante Alle 11,30 la città era in mano agli americani e dal Palazzo di Città, diventato sede comando dell'Amgot, sventolavano le bandiere americana e inglese. Licata fu il primo paese italiano a cedere nella mani degli americani ed ospitò il quartiere generale del gen. Truscott. Da qui l'avanzata per la conquista della Sicilia occidentale. Calogero Carità L'otto luglio bombardata Agrigento La Sicilia, mercoledì 10 Luglio 2013 Nel corso dei tre anni di guerra soprattutto vennero colpite Licata e Porto Empedocle, sedi portuali, mentre Agrigento venne risparmiata fino all'8 luglio 1943 quando comparve sui cieli del capoluogo una formazione di aerei americani dalla parte di Punta Bianca alle ore 18. I velivoli, giunti sulla città, sganciarono un nutrito grappolo di bombe ancor prima che venisse suonato l'allarme. Fu un po¬meriggio terribile. Gli ordigni caddero sull'ospedale psichiatrico andando a colpire gli uffici e l'alloggio del direttore amministrativo dott. Raimondo Diana. Questi fu sbalzato via dall'abitazione e venne poi trovato abbracciato ad un albero, mentre sotto le macerie, sprofondato nelle caldaie, venne successivamente rinvenuto il corpo martoriato dell'economo rag. Vincenzo Pinto. In quell'occasione rimase ferito anche l'aiuto economo, mentre alcuni malati di mente, approfittando della confusione, riuscirono a scappar via ma vennero ripresi poco tempo dopo. Ma la tragedia doveva ancora verificarsi. Infatti tre giorni dopo, il 12 luglio, lunedì di San Calogero, verso le 9 del mattino una nutrita formazione di bombardieri americani B26 Marauder del 319° bombardment group, partita da Djeida in Tunisia giunse sopra le teste degli agrigentini volando con il sole alle spalle per rendere più difficile il compito della contraerea. Si disposero a croce e poi una vera e propria pioggia di bombe cadde sul centro cittadino dal viale della Vittoria fino all'Addolorata e nella zona più a monte. L'abitato venne letteralmente devastato. Tutta l'area corrispondente all'odierno centro storico venne colpita. Il ricovero antistante la chiesa di San Girolamo, nella omonima via, costruito in tufo arenario e con materiali estremamente friabili, non resse alle esplosioni e crollò sotto il peso delle case soprastanti. Anche in questa zona vi furono parecchi morti. Case distrutte e parecchi morti anche in vicolo Bombace, nella via Botteghelle e nella via Neve. Inoltre i quar¬tieri di via Duomo, di San Michele, di via Garibaldi e la via Porcello (dove si ebbero pure alcuni morti e feriti) subirono gravi danni a causa delle bombe sganciate dai velivoli, mentre dal mare le navi americane facevano anch'esse fuoco contro la città: dopo il monitore Abercrombie, si avvicendarono gli incrociatori Brooklyn e Birmingham ed altri cacciatorpediniere. Ma quale fu il bilancio di questa incursione? A tutt'oggi non è facile dare una risposta. Non esiste un elenco ufficiale dei morti, nessun archivio è in grado dopo 60 anni di dare una risposta precisa a questo interrogativo. Dagli atti di morte dell'ufficio anagrafe del Comune e dal registro dei certificati necroscopici dell'Asl numero 1 è stato ricavato l'elenco che si pubblica in altra parte di questa pagina. L'Unpa (Unione Nazionale Protezione antiaerea) peraltro l'11 agosto del 1943 comunicò di aver recuperato i corpi di tutte le persone segnalate come disperse ad eccezione dei professori Contrino e Sciascia e dello studente Maggio. Di quest'ultimo però esiste all'anagrafe l'atto di morte, per cui la salma evidentemente venne ritrovata. Altre vittime furono provocate dalle bombe inesplose nelle settimane, nei mesi e addirittura negli anni successivi, specie tra i ragazzi i quali imprudentemente le utilizzavano per giocare o le maneggiavano quando le rinvenivano. Ovviamente non si trattò soltanto di bombe di aereo, ma in genere di ogni tipo di ordigno. Basti pensare che almeno sei persone persero la vita nelle settimane immediatamente successive all'arrivo degli americani proprio per lo scoppio di ordigni esplosivi. In ogni modo, andati via gli aerei, Agrigento presentava un aspetto drammatico: i morti giacquero per parecchi giorni, talvolta due o tre settimane, tra le macerie rendendo l'aria maleodorante, vecchi e bambini morivano di fame, parecchia gente era rimasta senza una casa. I corpi appena recuperati venivano sistemati ed allineati provvisoriamente all'aperto nel piazzale antistante il cimitero. In quel sito l'ufficiale di anagrafe provvedeva al triste ufficio del riconoscimento delle salme che avveniva con l'intervento dei parenti sopravvissuti i quali, straziati dal dolore, identificavano i loro congiunti. La sepoltura ebbe luogo in fosse scavate appositamente dall'impresa Capraro. Per 21 corpi il triste adempimento ebbe luogo a spese del Comune dato che le famiglie avevano perso tutto con il crollo della loro casa sotto la pioggia delle bombe. Parecchi di questi corpi, nell'inverno successivo vennero poi dissepolti per ricevere una sistemazione più dignitosa nelle rispettive tombe di famiglia. Per tutte queste vittime il 28 agosto nella chiesa di San Domenico ebbe luogo, d'intesa con le autorità militari Alleate, un solenne funerale cui partecipò tutta la cittadinanza agrigentina. Ci furono naturalmente anche dei feriti, ma anche di questo non esiste una documentazione esaudiente. L'ospedale conserva una ventina di cartelle cliniche redatte nel reparto di chirurgia: sono i casi più gravi, quelli che hanno richiesto il ricovero. Si tratta nella maggior parte di persone asfissiate provenienti dal rifugio di San Francesco d'Assisi. Altri 18 ricoveri si riferiscono a militari feriti nei combattimenti avvenuti nelle vicinanze. Impossibile stabilire invece quanta gente passò dai posti di pronto soccorso: nell'unico registro esistente nell'archivio dell'ospedale civile per il periodo luglio 1943, ben conservato e senza manomissioni, non risulta nulla per oltre 15 giorni. Probabilmente nel caos di quel periodo non venne annotato alcun intervento eseguito. salvatore fucà
Storia di Marcellino, scampato alle bombe La Sicilia, Mercoledì 10 Luglio 2013 RIBERA. La città viene bombardata nell'aprile del 1943 dagli aerei americani. Le bombe colpiscono il paese quasi disabitato, uccidono alcune persone tra cui una donna che viaggiava con il suo bambino di tre anni e che era diretta a Palermo. La donna viene ritrovata tra le macerie, ma del ragazzino nessuna traccia. Il bambino viene dato per morto, ma un militare italiano lo ritrova per caso, lo porta con sé in provincia di Siracusa dove viene rintracciato dopo dieci anni in un orfanotrofio dal fratello e dalla sorella più grandi. Oggi ha 74 anni, è circondato dall'affetto di ben sette figli, vive da pensionato a Brescia e vuole tornare a Ribera per piangere sulla tomba della madre. I protagonisti della vicenda - ricostruita dallo storico e ricercatore riberese Mimmo Macaluso - sono Teresa Lo Iacono di 29 anni, palermitana, e il suo bambino più piccolo Marcellino Bruscino la cui storia si intreccia con altri due figli della donna, con il bombardamento di Ribera e con il ritrovamento del piccolo, oggi nonno, a Brescia. Mimmo Macaluso, con la preziosa collaborazione del capitano dei carabinieri Carmelo Mirinnino, ha ricostruito la tragica storia attraverso anche la stampa del 1953 e un articolo della giornalista Liliana Corsi. I fatti prendono il via ad Ancona dove risieda Teresa Lo Iacono, a 29 anni già vedova di un ferroviere, con i tre figli Enrico, Rita e Marcellino. Per paura dei bombardamenti sulla cittadina portuale dell'Adriatico, la donna decide di portare i due figli più grandi, Enrico e Rita, dai suoceri a Napoli e il più piccolo Marcellino dai suoi genitori a Palermo. In Sicilia il viaggio per la donna si fa drammatico perché gli aerei alleati bombardano la linea ferroviaria Messina Palermo e il treno viene deviato prima su Catania e poi su Agrigento. Il passaggio su Ribera è obbligatorio per tornare a Palermo, attraverso Castelvetrano, ma ancora i bombardieri danneggiato la linea ferrata a scartamento ridotto Ribera-Sciacca e il treno viene fermato nella città della arance dove si svolge la tragedia. I riberesi, per il continuo arrivo delle bombe dal cielo si rifugiano in campagna e nella galleria ferroviaria di Santa Rosalia, Teresa Lo Iacono, con gli altri passeggeri, si ritrova al centro della cittadina rimane con il piccolo Marcellino, sotto le macerie delle case colpite dagli aerei nemici che non colpivano obiettivi militari, ma la popolazione civile. La donna muore sotto le macerie e il bambino risulta disperso. Invano le ricerche dei riberesi e dei militari. Agli altri due figli della donna a Napoli viene comunicata la morte della madre e il mancato ritrovamento del fratellino. Iniziano le ricerche e si apprende che il piccolo Marcellino è vivo. A Ribera un militare lo ha estratto dalle macerie, lo ha portato in ospedale per la cura delle ferite e lo ha accolto nella sua famiglia a Siracusa. L'uomo si divide dalla consorte e il destino di Marcellino diventa prima un orfanotrofio di Solarino e poi, nel 1947, la "Casa del buon fanciullo" di Siracusa. Nel 1952 il bambino viene adottato da una famiglia della città aretusea. Nello stesso anno, tra Natale e Capodanno, dopo estenuanti ricerche, Marcellino ritrova il fratello Enrico e la sorella Rita che correvano da anni da una caserma all'altra dei carabinieri in tutta la Sicilia. Oggi Marcello Bruscino ha 74 anni, vive da pensionato con i suoi sette figli a Brescia e, rintracciato telefonicamente da Mirinnino e da Macaluso, ha espresso il desiderio di volere tornare a Ribera per portare un fiore sulla tomba della giovane mamma.
Metti un bagno sulla spiaggia dello Sbarco del '43 La stagione estiva coincide, come ogni anno, con il periodo migliore per lo sviluppo turistico e balneare di Licata. La città si anima di vita e si ritrova lungo i ventiquattro chilometri delle sue spiagge e nel suo mare. Il tratto costiero che dalla Playa porta a Torre di Gaffe nella bella stagione rappresenta il punto nevralgico di una città che sta tentando in tutti i modi di darsi una vocazione turistica. È da leggere in quest'ottica il notevole incremento nella costruzione di lidi balneari e strutture ricettive sorti praticamente in tutte le spiagge licatesi negli ultimi decenni. Mollarella, La Rocca, Pisciotto, Marianello sono solo quattro degli arenili licatesi più rinomati e che fanno registrare ogni anno un numero di presenze di bagnanti elevatissimo. A fruire maggiormente delle bellezze marine licatesi sono ovviamente i residenti in città, ma l'arrivo dell'estate porta a Licata anche molti residenti nell'hinterland attratti dalla possibilità di fare il bagno nelle acque licatesi o di prendere una tintarella. Il turismo estivo è indubbiamente fonte di reddito importante per la città con numerosi lidi balneari che sfruttano al massimo (in alcune estati più lunghe del solito anche per cinque mesi) le temperature alte per affittare sdraio e ombrelloni oltre ai classici casotti. C'è poi al vaglio un'idea, strettamente connessa alle spiagge licatesi, per dare il «la» alla nascita di un museo dello sbarco alleato. Gli arenili licatesi hanno infatti anche una valenza storica non indifferente essendo state il primo sito toccato durante l' «Operazione Husky» quando, nella notte tra il 9 e 10 luglio, la Settima Armata statunitense comandata dal generale Patton diede il via alle operazioni di sbarco nelle spiagge prestabilite. Alle 2,57 nella spiaggia di Mollarella e Poliscia toccarono terra i primi carri armati americani che sarebbero poi risaliti lungo tutta la Penisola per liberare l'Italia. Tornando alla descrizione degli arenili, da oriente verso occidente sono rinomate e frequentatissime le spiagge di Poggio di Guardia e della Playa. Attraversato il fiume Salso e la grande zona portuale, si passa dalla bellissima e lunghissima baia di Marianello, famosa anche per i caratteristici calanchi di natura argillosa, per arrivare via mare alle Balatazze, insenatura famosa per gli scogli piatti che affiorano dal mare, e ancora Lavanghe, Nicolizia e Caduta. Si arriva poi alla sabbiosa Baia di Mollarella, spiaggia frequentatissima e ricca di stabilimenti balneari, che termina con la rocca di Mollachella, penisoletta sul mare, unita alla terraferma da una lingua di sabbia, attraverso la quale si arriva alla Poliscia. Da qui, dopo un intermezzo di scogli, ci si tuffa nel mare di San Nicola, con la caratteristica rocca che prende il nome del Santo e la bellissima e lunghissima spiaggia del Pisciotto che termina sotto la Torre di Gaffe. Il litorale di Licata si presenta ampio bellissimo e variegato, i visitatori ne rimangono attratti per il mare pulito, per la bellezza delle spiagge e per il fascino delle coste frastagliate dominate dalle colline che fanno da contorno a un panorama invidiabile e da valorizzare al meglio. Finora le bellezze naturali non sempre hanno fatto da volano per l'economia e solo negli ultimi anni il mirino di investitori e imprenditori si è puntato sulla città con l'apertura di un imponente villaggio turistico e di alcuni alberghi di prestigio in zona Playa. La bellezza del mare e della costa licatese è sotto gli occhi di tutti e chi viene a trascorrere le proprie vacanze in città va via sempre con il proposito di tornarci in futuro. La valorizzazione delle risorse naturali deve necessariamente essere la base dello sviluppo turistico e di conseguenza economico di una città che, sfruttando un clima favorevole e mite anche in inverno, dovrebbe poter mantenersi di turismo praticamente per tutto l'anno. La Sicilia - 30/06/2013
Sicilia 1943, l’ ordine di Patton: «Uccidete i prigionieri italiani» di Gianluca Di Feo – “Corriere della Sera” 23 giugno 2004
«Il capitano Compton radunò gli italiani che si erano arresi. Saranno stati più di quaranta. Poi domandò: “Chi vuole partecipare all’esecuzione?”. Raccolse due dozzine di uomini e fecero fuoco tutti insieme sugli italiani». «Il sergente West portò la colonna di prigionieri italiani fuori dalla strada. Chiese un mitra e disse ai suoi: “E’ meglio che non guardiate, così la responsabilità sarà soltanto mia”. Poi li ammazzò tutti». E’ una piccola Cefalonia: le vittime sono soldati italiani che avevano combattuto con determinazione. I carnefici non sono né delle SS né della Wehrmacht: sono fanti americani. Quella avvenuta in Sicilia tra il 12 e il 14 luglio 1943 è la pagina più nera della storia militare statunitense. Una pagina sulla quale gli storici negli Stati Uniti discutono da un lustro, mentre nel nostro Paese la vicenda è pressoché sconosciuta. Nelle università del Nord America ci sono corsi dedicati a questi eccidi, come quello tenuto a Montreal sul tema «Dal massacro di Biscari a Guantanamo». E negli Usa in queste settimane gli esperti di diritto militare valutano le responsabilità dei carcerieri di Abu Ghraib anche sulla base delle corti marziali che giudicarono i «fucilatori di italiani». Perché – come risulta dagli atti di quei processi – i soldati americani si difesero sostenendo di avere soltanto eseguito gli ordini di George Patton. «Ci era stato detto – dichiararono – che il generale non voleva prigionieri». I fatti Nessuno conosce il numero esatto di uomini dell’Asse uccisi dopo la resa. Almeno cinque gli episodi principali, con circa duecento morti. Di due, quelli avvenuti nell’aeroporto di Biscari, nel Ragusano, si conosce ogni dettaglio. Nel massimo segreto, nell’autunno 43 la corte marziale Usa celebrò due processi: il sergente Horace T. West ammazzò 37 italiani, il plotone d esecuzione del capitano John C. Compton almeno 36. Gli atti del tribunale recitano: «Tutti i prigionieri erano disarmati e collaborativi». Altri due eccidi sono stati descritti da un testimone oculare, il giornalista britannico Alexander Clifford, in colloqui e lettere ora divulgate. Avvennero nell’aeroporto di Comiso, quello diventato famoso mezzo secolo dopo per gli euromissili della Nato. All’epoca era una base della Luftwaffe, contesa in una sanguinosa battaglia. Clifford disse che sessanta italiani, catturati in prima linea, vennero fatti scendere da un camion e massacrati con una mitragliatrice. Dopo pochi minuti, la stessa scena sarebbe stata ripetuta con un gruppo di tedeschi: sarebbero stati crivellati in cinquanta. Quando un colonnello, chiamato di corsa dal reporter, fermò il massacro, solo tre respiravano ancora. Clifford denunciò tutto a Patton, che gli promise di punire i colpevoli. Ma non ci fu mai un processo e il cronista si è rifiutato fino alla morte di deporre contro il generale. Infine l’ultima strage nella Saponeria Narbone-Garilli a Canicattì contro la popolazione che la stava saccheggiando. Secondo i resoconti stilati in quei giorni confusi del 43, la polizia militare Usa dopo avere intimato l’alt ed esploso dei colpi in aria, sparò una raffica sulla folla uccidendo sei persone. Ma i verbali scoperti nel 2002 dal professore Joseph Salemi della New York University – il cui padre fu testimone oculare dell’eccidio – riportano il racconto di alcuni dei soldati americani presenti: «Appena arrivati, il colonnello urlò di sparare sulla folla che era entrata nello stabilimento. Noi rimanemmo fermi, era un ordine agghiacciante. Allora lui impugnò la pistola ed esplose 21 colpi, cambiando caricatore tre volte. Morirono molti civili: vidi un bambino con lo stomaco sfondato dalle pallottole». L’ordine Ma gli atti dei processi per «i fatti di Biscari» accreditano la possibilità che le vittime siano state molte di più. Tutti i crimini sono stati opera della 45ma divisione di Patton, i «Thunderbirds»: reparti provenienti dalla Guardia nazionale di Oklahoma, New Mexico e Arizona. Vengono descritti come cow boy, con elementi d’origine pellerossa. Ma presero parte con coraggio ad alcune delle battaglie più dure del conflitto. Quello sulle coste siciliane fu il loro battesimo del fuoco: avevano l’ordine di conquistare entro 24 ore i tre aeroporti più vicini alla costa, strategici per trasferire dal Nord Africa gli stormi alleati. Invece la disperata resistenza di due divisioni italiane e di poche unità tedesche li fermò per quattro giorni. Molti G.I. persero il controllo dei nervi. Ed erano tutti convinti che il generale Patton avesse ordinato di non fare prigionieri. Decine di soldati, graduati ed ufficiali testimoniarono al processo: «Ci era stato detto che Patton non voleva prenderli vivi. Sulle navi che ci trasportavano in Sicilia, dagli altoparlanti ci è stato letto il discorso del generale. “Se si arrendono quando tu sei a due-trecento metri da loro, non badare alle mani alzate. Mira tra la terza e la quarta costola, poi spara. Si fottano, nessun prigioniero! E finito il momento di giocare, è ora di uccidere! Io voglio una divisione di killer, perché i killer sono immortali!». L’orrore Il primo a scoprire e denunciare gli eccidi fu il cappellano della divisione, il colonnello William King. Alcuni soldati americani, sconvolti, lo chiamarono e gli indicarono la catasta dei corpi crivellati dal sergente West: «E’ una follia – gli dissero -, stanno ammazzando tutti i prigionieri. Siamo venuti in guerra per combattere queste brutalità non per fare queste porcherie. Ci vergogniamo di quello che sta accadendo». King corre a cercare il comando del reggimento. Ma lungo la strada per l’aeroporto vede un recinto di pietra, probabilmente un ovile, pieno di italiani catturati. Recita il verbale del cappellano: «Quando mi sono avvicinato, il caporale di guardia mi ha salutato: “Padre, sei venuto per seppellirli?”. “Cosa stai dicendo?”, replicai io. Il caporale rispose: “Loro sono lì, io sono qui con il mio mitra Thompson, tu sei lì. E ci hanno detto di non fare prigionieri”». A quel punto King sale su un masso, chiama tutti gli americani presenti e improvvisa una predica per convincerli a risparmiare quegli uomini: «Non potete ucciderli, i prigionieri sono una fonte preziosa di notizie sul nemico. E poi i loro camerati potrebbero vendicarsi sui nostri che hanno preso. Non fatelo!». Altrettanto drammatica la testimonianza del capitano Robert Dean: «Venni fermato da due barellieri disarmati. Mi dissero: “Abbiamo due italiani feriti, mandate qualcuno ad ammazzarli”. Io gli urlai di curare quei soldati, altrimenti gliela avrei fatta pagare”». La condanna Fu proprio la volontà del cappellano King a far nascere i due processi sui massacri di Biscari. King raccontò tutto all’ispettore dell’armata – figura simile ai nostri pubblici ministeri -, che fece rapporto a Omar Bradley. La corte marziale contro il sergente West si aprì a settembre. L’accusa: «Omicidio volontario premeditato, per avere ucciso con il suo mitra 37 prigionieri, deliberatamente e in piena coscienza, con un comportamento disdicevole». I fanti italiani – poco meno di 50 – erano stati catturati dopo un lungo combattimento in una caverna intorno all’aeroporto di Biscari. Il comandante li consegnò al sergente con un ordine ritenuto «vago» dai giudici: allontanarli dalla pista dove si sparava ancora. Nove testimoni hanno ricostruito l’eccidio. West mette gli italiani in colonna, dopo alcuni chilometri di marcia ne separa cinque o sei dal resto del gruppo. Poi si fa dare un mitra e conduce gli altri fuori dalla strada. Lì li ammazza, inseguendo quelli che tentano di scappare mentre cambia caricatore: uno dei corpi è stato trovato a 50 metri. Davanti alla corte, il sergente si difese invocando lo stress: «Sono stato quattro giorni in prima linea, senza mai dormire». Dichiarò di avere assistito all’uccisione di due americani catturati dai tedeschi, cosa che lo «aveva reso furioso in modo incontrollato». Il suo avvocato parlò di «infermità mentale temporanea». Infine, West disse ai giudici: «Avevamo l’ordine di prendere prigionieri solo in casi estremi». Ma la sua difesa non convinse la corte, che lo condannò all’ergastolo. La pena però non venne mai eseguita. Washington infatti era terrorizzata dalle possibili ripercussioni di quei massacri. Temeva il danno d’immagine sugli italiani – con cui era stato appena concluso l’armistizio – e il rischio di ritorsioni sugli alleati reclusi in Germania. Si decise di non mandare West in una prigione negli Usa ma di tenerlo agli arresti in una base del Nord Africa. Poi la sorella cominciò a scrivere al ministero e a sollecitare l’intervento del parlamentare della sua contea. Il vertice dell’esercito teme che la vicenda possa finire sui giornali. Il 1° febbraio 1944 il capo delle pubbliche relazioni del ministero della Guerra sollecita al comando alleato di Caserta un «atto di clemenza» per West: «Non possiamo – è il testo della lettera pubblicata da Stanley Hirshson nel 2002 – permettere che questa storia venga pubblicizzata: fornirebbe aiuto e sostegno al nemico. Non verrebbe capita dai cittadini che sono così lontani dalla violenza degli scontri». Così dopo solo sei mesi, West viene rilasciato e mandato al fronte. Secondo alcune fonti, morì a fine agosto in Bretagna. Secondo altre, ha concluso la guerra indenne. L’assoluzione Invece il 23 ottobre 43 il capitano John C. Compton non cercò scuse: davanti alla corte marziale disse solo di avere obbedito agli ordini. Nel processo fu ricostruita la battaglia per la base di Biscari, combattuta per tutta la notte. C’era una postazione nascosta su una collina che continuava a bersagliare la pista. E una mischia feroce, con tiri di mitragliatrici e mortai, senza una linea del fronte. L’unità di Compton aveva avuto dodici caduti in poche ore. A un certo punto, un soldato statunitense vede un italiano in divisa e un altro in abiti «borghesi» che escono da una ridotta: sventolano una bandiera bianca. L’americano si avvicina e dalla trincea alzano le mani circa quaranta uomini. Cinque hanno giacche e maglie civili sopra i pantaloni e gli stivali militari. Il soldato li consegna al sergente ma arriva il capitano. Compton non perde tempo: dice di ucciderli. Molti dei suoi si offrono volontari: sparano in 24, esplodendo centinaia di pallottole sul mucchio degli italiani. Il numero esatto delle vittime resta incerto ma l’inchiesta si conclude con l’incriminazione del solo ufficiale per 36 omicidi, scagionando i suoi subordinati. E Compton in aula dichiara che l’ordine era quello, che doveva uccidere i nemici che continuavano a resistere a distanza ravvicinata. Inoltre precisa che quegli italiani erano «sniper», termine traducibile come «cecchini» o «franchi tiratori», e quindi andavano fucilati: una linea difensiva che sarebbe stata suggerita dallo stesso Patton. «Li ho fatti uccidere perché questo era l’ordine di Patton – concluse il capitano -. Giusto o sbagliato, l’ordine di un generale a tre stelle, con un esperienza di combattimento, mi basta. E io l’ho eseguito alla lettera». Tutti i testimoni – tra cui diversi colonnelli – confermarono le frasi di Patton, quel terribile «se si arrendono solo quando gli sei addosso, ammazzali». Alcuni riferirono anche che Patton aveva detto: «Più ne prendiamo, più cibo ci serve. Meglio farne a meno». Compton fu assolto. Il responsabile dell’inchiesta William R. Cook fu tentato di presentare appello: «Quell’assoluzione era così lontana dal senso americano della giustizia – scrisse – che un ordine del genere doveva apparire illegale in modo lampante». Ma nel frattempo Cook era caduto al fronte. Ironia della sorte, si crede che sia stato colpito da un cecchino mentre cercava di avvicinarsi a dei tedeschi con la bandiera bianca. La sua assoluzione è però diventato un caso giuridico, che ha cominciato a circolare tra il personale della giustizia militare statunitense dopo la fine della guerra. Un precedente «riservato» anche per evitare che influisca sui processi ai criminali di guerra nazisti. Poi nel ’73 una traccia nei diari di Patton pubblicati da Martin Blumenson e nell’83 la prima descrizione completa nell’autobiografia del generale Omar Bradley. Oggi alcuni storici americani – assolutamente non sospettabili di revisionismo – ritengono che sulla base della sentenza Compton andavano assolte le SS fucilate per gli omicidi di prigionieri americani. E mentre negli Stati Uniti da 25 anni si pubblicano studi sul «massacro di Biscari» e le sue ripercussioni – il primo nel 1988 fu di James J. Weingartner, l’ultimo nel 2002 è stato di Hirshson – nel nostro Paese la vicenda è stata sostanzialmente ignorata. Vent’anni fa nel volume dello statunitense Carlo d’Este sullo sbarco in Sicilia, tradotto da Mondadori, la questione era relegata in un capoverso. Poi, ultimamente due introvabili scritti di storici siciliani e una pagina nel documentato volume di Alfio Caruso. Mai però un iniziativa per ricordare quei soldati, rimasti senza nome. Mentre persino Biscari non esiste più: oggi il paese si chiama Acate. Gianluca Di Feo Fonte: visto su DISINFORMAZIONE.IT http://www.disinformazione.it/generalepatton.htm
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A 1943 – I MASSACRI DIMENTICATI COMPIUTI DAI FANTI AMERICANI E L’ ORDINE DEL GENERALE PATTON: «UCCIDETE I PRIGIONIERI ITALIANI» Sicilia 1943, l’ordine di Patton: «Uccidete i prigionieri italiani» di Gianluca Di Feo – “Corriere della Sera” 23 giugno 2004
I massacri dimenticati compiuti dai fanti americani tra il 12 e il 14 luglio. «Il capitano Compton radunò gli italiani che si erano arresi. Saranno stati più di quaranta. Poi domandò: “Chi vuole partecipare all’esecuzione?”. Raccolse due dozzine di uomini e fecero fuoco tutti insieme sugli italiani». «Il sergente West portò la colonna di prigionieri italiani fuori dalla strada. Chiese un mitra e disse ai suoi: “E’ meglio che non guardiate, così la responsabilità sarà soltanto mia”. Poi li ammazzò tutti». E’ una piccola Cefalonia: le vittime sono soldati italiani che avevano combattuto con determinazione. I carnefici non sono né delle SS né della Wehrmacht: sono fanti americani. Quella avvenuta in Sicilia tra il 12 e il 14 luglio 1943 è la pagina più nera della storia militare statunitense. Una pagina sulla quale gli storici negli Stati Uniti discutono da un lustro, mentre nel nostro Paese la vicenda è pressoché sconosciuta. Nelle università del Nord America ci sono corsi dedicati a questi eccidi, come quello tenuto a Montreal sul tema «Dal massacro di Biscari a Guantanamo». E negli Usa in queste settimane gli esperti di diritto militare valutano le responsabilità dei carcerieri di Abu Ghraib anche sulla base delle corti marziali che giudicarono i «fucilatori di italiani». Perché – come risulta dagli atti di quei processi – i soldati americani si difesero sostenendo di avere soltanto eseguito gli ordini di George Patton. «Ci era stato detto – dichiararono – che il generale non voleva prigionieri». Nessuno conosce il numero esatto di uomini dell’Asse uccisi dopo la resa. Almeno cinque gli episodi principali, con circa duecento morti. Di due, quelli avvenuti nell’aeroporto di Biscari, nel Ragusano, si conosce ogni dettaglio. Nel massimo segreto, nell’autunno 43 la corte marziale Usa celebrò due processi: il sergente Horace T. West ammazzò 37 italiani, il plotone d esecuzione del capitano John C. Compton almeno 36. Gli atti del tribunale recitano: «Tutti i prigionieri erano disarmati e collaborativi». Altri due eccidi sono stati descritti da un testimone oculare, il giornalista britannico Alexander Clifford, in colloqui e lettere ora divulgate. Avvennero nell’aeroporto di Comiso, quello diventato famoso mezzo secolo dopo per gli euromissili della Nato. All’epoca era una base della Luftwaffe, contesa in una sanguinosa battaglia. Clifford disse che sessanta italiani, catturati in prima linea, vennero fatti scendere da un camion e massacrati con una mitragliatrice. Dopo pochi minuti, la stessa scena sarebbe stata ripetuta con un gruppo di tedeschi: sarebbero stati crivellati in cinquanta. Quando un colonnello, chiamato di corsa dal reporter, fermò il massacro, solo tre respiravano ancora. Clifford denunciò tutto a Patton, che gli promise di punire i colpevoli. Ma non ci fu mai un processo e il cronista si è rifiutato fino alla morte di deporre contro il generale. Infine l’ultima strage nella Saponeria Narbone-Garilli a Canicattì contro la popolazione che la stava saccheggiando. Secondo i resoconti stilati in quei giorni confusi del 43, la polizia militare Usa dopo avere intimato l’alt ed esploso dei colpi in aria, sparò una raffica sulla folla uccidendo sei persone. Ma i verbali scoperti nel 2002 dal professore Joseph Salemi della New York University – il cui padre fu testimone oculare dell’eccidio – riportano il racconto di alcuni dei soldati americani presenti: «Appena arrivati, il colonnello urlò di sparare sulla folla che era entrata nello stabilimento. Noi rimanemmo fermi, era un ordine agghiacciante. Allora lui impugnò la pistola ed esplose 21 colpi, cambiando caricatore tre volte. Morirono molti civili: vidi un bambino con lo stomaco sfondato dalle pallottole». Ma gli atti dei processi per «i fatti di Biscari» accreditano la possibilità che le vittime siano state molte di più. Tutti i crimini sono stati opera della 45ma divisione di Patton, i «Thunderbirds»: reparti provenienti dalla Guardia nazionale di Oklahoma, New Mexico e Arizona. Vengono descritti come cow boy, con elementi d’origine pellerossa. Ma presero parte con coraggio ad alcune delle battaglie più dure del conflitto. Quello sulle coste siciliane fu il loro battesimo del fuoco: avevano l’ordine di conquistare entro 24 ore i tre aeroporti più vicini alla costa, strategici per trasferire dal Nord Africa gli stormi alleati. Invece la disperata resistenza di due divisioni italiane e di poche unità tedesche li fermò per quattro giorni. Molti G.I. persero il controllo dei nervi. Ed erano tutti convinti che il generale Patton avesse ordinato di non fare prigionieri. Decine di soldati, graduati ed ufficiali testimoniarono al processo:
«Ci era stato detto che Patton non voleva prenderli vivi. Sulle navi che ci trasportavano in Sicilia, dagli altoparlanti ci è stato letto il discorso del generale. “Se si arrendono quando tu sei a due-trecento metri da loro, non badare alle mani alzate. Mira tra la terza e la quarta costola, poi spara. Si fottano, nessun prigioniero! E finito il momento di giocare, è ora di uccidere! Io voglio una divisione di killer, perché i killer sono immortali!». Il primo a scoprire e denunciare gli eccidi fu il cappellano della divisione, il colonnello William King. Alcuni soldati americani, sconvolti, lo chiamarono e gli indicarono la catasta dei corpi crivellati dal sergente West: «E’ una follia – gli dissero -, stanno ammazzando tutti i prigionieri. Siamo venuti in guerra per combattere queste brutalità non per fare queste porcherie. Ci vergogniamo di quello che sta accadendo». King corre a cercare il comando del reggimento. Ma lungo la strada per l’aeroporto vede un recinto di pietra, probabilmente un ovile, pieno di italiani catturati. Recita il verbale del cappellano: «Quando mi sono avvicinato, il caporale di guardia mi ha salutato: “Padre, sei venuto per seppellirli?”. “Cosa stai dicendo?”, replicai io. Il caporale rispose: “Loro sono lì, io sono qui con il mio mitra Thompson, tu sei lì. E ci hanno detto di non fare prigionieri”». A quel punto King sale su un masso, chiama tutti gli americani presenti e improvvisa una predica per convincerli a risparmiare quegli uomini: «Non potete ucciderli, i prigionieri sono una fonte preziosa di notizie sul nemico. E poi i loro camerati potrebbero vendicarsi sui nostri che hanno preso. Non fatelo!». Altrettanto drammatica la testimonianza del capitano Robert Dean: «Venni fermato da due barellieri disarmati. Mi dissero: “Abbiamo due italiani feriti, mandate qualcuno ad ammazzarli”. Io gli urlai di curare quei soldati, altrimenti gliela avrei fatta pagare”». Fu proprio la volontà del cappellano King a far nascere i due processi sui massacri di Biscari. King raccontò tutto all’ispettore dell’armata – figura simile ai nostri pubblici ministeri -, che fece rapporto a Omar Bradley. La corte marziale contro il sergente West si aprì a settembre. L’accusa: «Omicidio volontario premeditato, per avere ucciso con il suo mitra 37 prigionieri, deliberatamente e in piena coscienza, con un comportamento disdicevole». I fanti italiani – poco meno di 50 – erano stati catturati dopo un lungo combattimento in una caverna intorno all’aeroporto di Biscari. Il comandante li consegnò al sergente con un ordine ritenuto «vago» dai giudici: allontanarli dalla pista dove si sparava ancora. Nove testimoni hanno ricostruito l’eccidio. West mette gli italiani in colonna, dopo alcuni chilometri di marcia ne separa cinque o sei dal resto del gruppo. Poi si fa dare un mitra e conduce gli altri fuori dalla strada. Lì li ammazza, inseguendo quelli che tentano di scappare mentre cambia caricatore: uno dei corpi è stato trovato a 50 metri. Davanti alla corte, il sergente si difese invocando lo stress: «Sono stato quattro giorni in prima linea, senza mai dormire». Dichiarò di avere assistito all’uccisione di due americani catturati dai tedeschi, cosa che lo «aveva reso furioso in modo incontrollato». Il suo avvocato parlò di «infermità mentale temporanea». Infine, West disse ai giudici: «Avevamo l’ordine di prendere prigionieri solo in casi estremi». Ma la sua difesa non convinse la corte, che lo condannò all’ergastolo. La pena però non venne mai eseguita. Washington infatti era terrorizzata dalle possibili ripercussioni di quei massacri. Temeva il danno d’immagine sugli italiani – con cui era stato appena concluso l’armistizio – e il rischio di ritorsioni sugli alleati reclusi in Germania. Si decise di non mandare West in una prigione negli Usa ma di tenerlo agli arresti in una base del Nord Africa. Poi la sorella cominciò a scrivere al ministero e a sollecitare l’intervento del parlamentare della sua contea. Il vertice dell’esercito teme che la vicenda possa finire sui giornali. Il 1° febbraio 1944 il capo delle pubbliche relazioni del ministero della Guerra sollecita al comando alleato di Caserta un «atto di clemenza» per West: «Non possiamo – è il testo della lettera pubblicata da Stanley Hirshson nel 2002 – permettere che questa storia venga pubblicizzata: fornirebbe aiuto e sostegno al nemico. Non verrebbe capita dai cittadini che sono così lontani dalla violenza degli scontri». Così dopo solo sei mesi, West viene rilasciato e mandato al fronte. Secondo alcune fonti, morì a fine agosto in Bretagna. Secondo altre, ha concluso la guerra indenne. L’assoluzione Invece il 23 ottobre 43 il capitano John C. Compton non cercò scuse: davanti alla corte marziale disse solo di avere obbedito agli ordini. Nel processo fu ricostruita la battaglia per la base di Biscari, combattuta per tutta la notte. C’era una postazione nascosta su una collina che continuava a bersagliare la pista. E una mischia feroce, con tiri di mitragliatrici e mortai, senza una linea del fronte. L’unità di Compton aveva avuto dodici caduti in poche ore. A un certo punto, un soldato statunitense vede un italiano in divisa e un altro in abiti «borghesi» che escono da una ridotta: sventolano una bandiera bianca. L’americano si avvicina e dalla trincea alzano le mani circa quaranta uomini. Cinque hanno giacche e maglie civili sopra i pantaloni e gli stivali militari. Il soldato li consegna al sergente ma arriva il capitano. Compton non perde tempo: dice di ucciderli. Il numero esatto delle vittime resta incerto ma l’inchiesta si conclude con l’incriminazione del solo ufficiale per 36 omicidi, scagionando i suoi subordinati. E Compton in aula dichiara che l’ordine era quello, che doveva uccidere i nemici che continuavano a resistere a distanza ravvicinata. Inoltre precisa che quegli italiani erano «sniper», termine traducibile come «cecchini» o «franchi tiratori», e quindi andavano fucilati: una linea difensiva che sarebbe stata suggerita dallo stesso Patton. «Li ho fatti uccidere perché questo era l’ordine di Patton – concluse il capitano -. Giusto o sbagliato, l’ordine di un generale a tre stelle, con un esperienza di combattimento, mi basta. E io l’ho eseguito alla lettera». Tutti i testimoni – tra cui diversi colonnelli – confermarono le frasi di Patton, quel terribile «se si arrendono solo quando gli sei addosso, ammazzali». Alcuni riferirono anche che Patton aveva detto: «Più ne prendiamo, più cibo ci serve. Meglio farne a meno». Compton fu assolto. Il responsabile dell’inchiesta William R. Cook fu tentato di presentare appello: «Quell’assoluzione era così lontana dal senso americano della giustizia – scrisse – che un ordine del genere doveva apparire illegale in modo lampante». Ma nel frattempo Cook era caduto al fronte. Ironia della sorte, si crede che sia stato colpito da un cecchino mentre cercava di avvicinarsi a dei tedeschi con la bandiera bianca. La sua assoluzione è però diventato un caso giuridico, che ha cominciato a circolare tra il personale della giustizia militare statunitense dopo la fine della guerra. Un precedente «riservato» anche per evitare che influisca sui processi ai criminali di guerra nazisti. Poi nel ’73 una traccia nei diari di Patton pubblicati da Martin Blumenson e nell’83 la prima descrizione completa nell’autobiografia del generale Omar Bradley. Oggi alcuni storici americani – assolutamente non sospettabili di revisionismo – ritengono che sulla base della sentenza Compton andavano assolte le SS fucilate per gli omicidi di prigionieri americani. E mentre negli Stati Uniti da 25 anni si pubblicano studi sul «massacro di Biscari» e le sue ripercussioni – il primo nel 1988 fu di James J. Weingartner, l’ultimo nel 2002 è stato di Hirshson – nel nostro Paese la vicenda è stata sostanzialmente ignorata. Vent’anni fa nel volume dello statunitense Carlo d’Este sullo sbarco in Sicilia, tradotto da Mondadori, la questione era relegata in un capoverso. Poi, ultimamente due introvabili scritti di storici siciliani e una pagina nel documentato volume di Alfio Caruso. Mai però un iniziativa per ricordare quei soldati, rimasti senza nome. Mentre persino Biscari non esiste più: oggi il paese si chiama Acate.
Gianluca Di Feo
«Carabinieri massacrati, denudati e uccisi e uno fu gettato nel pozzo» L'appello a Napolitano perché si renda onore ai morti La Sicilia, 7 Luglio 2013 - Maria Concetta Goldini
Gela. La guerra, da qualunque parte la si guardi, porta con sé sempre esperienze tragiche, lacrime e dolore. Sono passati settant'anni dallo Sbarco degli Alleati ed in varie parti della Sicilia, a cominciare da Gela che ne fu il teatro principale, si sono organizzate manifestazioni per ricordare quell'episodio storico che diede inizio alla liberazione dal nazifascismo. E' trascorso dunque un tempo ragionevolmente lungo per rivedere senza retorica quella pagina di storia e chiarire fatti ed episodi rimasti, volutamente o no, avvolti da una coltre di nebbia e silenzio. Uno di quelli che tenta da tempo a rendere meno zuccherose le pagine della storia di quell'estate del 1943 è lo storico e giornalista napoletano Fabrizio Carloni, che da anni conduce ricerche sullo Sbarco. Alcuni giorni fa lo scrittore ha inviato una lettera al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ricordando le pagine oscure di quei giorni che ha contribuito a svelare con le sue pubblicazioni. In particolare, la cattura e la fucilazione di otto carabinieri italiani in servizio al presidio di Passo di Piazza, ad otto chilometri da Gela, lungo la strada che porta a Vittoria. Uno solo uscì indenne da quella strage compiuta dagli americani: si chiama Antonio Cianci, è pugliese e all'epoca aveva 21 anni. Ed ecco come Cianci ha raccontato l' episodio nel libro di Carloni "Gela 1943": «Ero sul tetto del casolare e vidi arrivare degli uomini - ricorda Cianci -: ebbi la sensazione che l'elmetto del gruppo di soldati che si avvicinava fosse tedesco. Erano le 6 o le 7 del mattino. Avevo l'ordine, nel dubbio, di sparare e mirai ad uno del gruppo e lo uccisi. Reagirono. Loro con i mitra e noi con il moschetto. Gli americani puntarono sul casale tutte le artiglierie navali che avevano lungo la costa. Il vicebrigadiere Carmelo Pancucci, di Agrigento, dopo una coraggiosa resistenza, ci ordinò di stendere delle tovaglie bianche. Uscimmo disarmati verso il cortile. Gli Alleati sentirono rumore da un locale attiguo alla caserma dove vivevano dei contadini e, pensando forse che c'erano altri militari e che li avevamo traditi, cominciarono a sparare verso di noi. Feci finta di essere colpito e mi gettai a terra. Dopo mezz'ora portarono tutti i feriti in un luogo di campagna poco distante. Restammo lì per tre giorni al freddo e poi ci imbarcarono per l'Algeria. Da allora di quell'episodio non ho parlato a nessuno. Una strage in barba alle convenzioni internazionali». Carloni e Cianci sono stati sentiti alcuni mesi fa dal procuratore militare di Napoli, Molinari, che ha aperto un'inchiesta per l'ipotesi di reato di omicidi compiuti ai danni di civili con efferatezza e per futili motivi. Un reato che non va in prescrizione: ma dopo 70 anni trovare prove e testimoni non è semplice. Carloni non si è fermato. Per i suoi libri e per dare una mano all'indagine ha continuato a cercare testimoni della strage di Passo di Piazza e ha trovato proprio di recente uno dei contadini che abitava vicino al casolare usato come presidio dai carabinieri. «Il contadino ha aggiunto un particolare agghiacciante alla strage - racconta lo scrittore -: vide che tre carabinieri furono massacrati di botte e denudati. Poi uccisi. Uno fu buttato nel pozzo. Credo che questi carabinieri meritino il giusto riconoscimento per il loro sacrificio. Ho saputo ora che a Sommatino sarà dedicata una lapide ad uno di loro, il carabiniere Michele Ambrosiano, morto a 40 anni. Qualcosa si muove, soprattutto dopo la lettera al presidente Napolitano che mi ha risposto con molto garbo e disponibilità». «Chiedo a lei, così attento, al di là delle ideologie, alla dignità della nostra Patria, se sia possibile continuare ancora nella totale dimenticanza degli assassinati nell'area di Gela», ha scritto Carloni, che continua ancora a cercare in Sicilia testimoni capaci di ricostruire gli episodi bui dello Sbarco. Intanto, a Gela l'opinione pubblica si presenta divisa sull'opportunità di celebrare l'avvenimento storico. L'amministrazione comunale, con alcune associazioni, ha organizzato un imponente cartellone di manifestazioni che culmineranno il 10 mattina con la simulazione dello Sbarco. A contorno, sono previste mostre fotografiche, convegni, trekking sui luogi dello sbarco. Il sindaco Angelo Fasulo ha conferito la cittadinanza onoraria a Phil Stern, il re della fotografia in bianco e nero. E' famoso come fotografo dei divi: è l'unico che abbia potuto fotografare Marilyn Monroe nuda. Ma il mestiere lo ha imparato qundo, ventenne, fotografò ogni attimo dello Sbarco a Gela, dove ora è ritornato a 93 anni. Ma queste manifestazioni ed iniziative non sono gradite ai giovani del locale Comitato No Muos, che hanno messo su un "controprogramma" di tre giorni e hanno dato appuntamento per il 10 mattina sul Lungomare di Gela ai No Muos siciliani per disturbare la simulazione dello sbarco. Perciò sono pronte a scattare adeguate misure di sicurezza. Il 10 luglio del 1943, da qualsiasi angolatura lo si guardi, fu uno di quei giorni che non si possono dimenticare. Gela fu teatro di un'imponente operazione militare che ha riguardato tutta la Sicilia e ha dato il suo contributo in termini di vite umame per la libertà dal nazifascismo. Quelli erano però giorni di guerra, l'Husky era un'operazione bellica e gli Alleati non erano certo venuti a fare una passeggiata in Sicilia.
Come furono salvate le reliquie di Sant'Agata a Fleri
leggi il libro di Antonio Patanè
Patton e Montgomery. La guerra di due Primedonne
http://www.wikisicily.com/pelligra/storia/L%27invasione-della-Sicilia.html
in Memoria di
.. Graziella Giuffrida
Randazzo, la
Cassino di Sicilia
Questa storia ebbe inizio tanti anni or sono, era il mese di Luglio
del 1943, l'alba del dieci vide il più potente convoglio che mai
fino allora avesse solcato il Mediterraneo, sbarcare i propri mezzi
sulle spiagge di Gela, Licata e Capo Pachino. Si trattava della
Settima Armata alleata agli ordini del Generale Eisenhower che in
seguito sarebbe divenuto Presidente degli Stati Uniti. Direttamente
sottoposte a lui le rispettive armate: l' Ottava Armata inglese
comandata dal Gen. Montgomery e la Quinta Armata americana comandata
dal Gen. George Patton. Agli inglesi fu affidato il compito di
avanzare in direzione di Siracusa Catania e giungere a Messina, le
forze americane dovevano invece avanzare attraverso il centro
dell'isola, conquistare Palermo e infine raggiungere Messina. La
conquista della Sicilia non fu cosi facile come descritta nei libri
di scuola e si concluse con la occupazione di Messina il giorno 17
agosto da parte delle truppe del generale Patton. Una volta sbarcate
le forze americane avanzarono sulla direttrice Mazzarino - Troina –
Randazzo, dove ebbe luogo una delle battaglie più cruente della
campagna di Sicilia; le truppe tedesche, ben decise a consentire il
graduale abbandono dell'isola al grosso del loro esercito, si erano
attestate in posizione vantaggiosa sulle alture intorno alla città e
con l'ausilio dei loro pezzi da 88 e della contraerea, cominciarono
a far strage degli avamposti alleati.
Al suono della sirena, che preannunciava l’imminente arrivo delle
fortezze volanti, la gente si nascondeva dove poteva. In particolare
per evitare di essere colpiti dalle numerosissime schegge vaganti
causate dalle esplosioni, ci si rifugiava all’interno dei tini dei
palmenti, molto più sicuri di altri luoghi. Ci si nutriva con quanto
si era riuscito a portare da casa e con quel poco che la natura e i
pochi animali ti offrivano, (Latte di capra e di pecora, bacche,
qualche raro frutto di bosco). Parecchi civili trovarono la morte
sotto i bombardamenti, in quanto presuntuosamente vollero rimanere
nella città, rifugiandosi nelle chiese che pensavano non sarebbero
state colpite. Le cattedrali di San Nicola e San Martino, così come
tante altre piccole chiesette della città, invece non vennero
risparmiate e subirono la stessa sorte delle abitazioni private. La
perdita del patrimonio artistico e monumentale fu enorme, ben il 75%
del patrimonio immobiliare venne abbattuto e con esso tutti i tesori
d’arte che vi erano contenuti. La forte resistenza Italo-tedesca
costrinse il generale Omar Bradley a creare un diversivo aggirando
le forze dell'asse con un percorso attraverso le montagne verso
Cesarò e monte Pelato, in una marcia piena di difficoltà per la
natura impervia dei luoghi. Il due di Agosto il Gen. Bradley ed il
Gen. Eddy presentarono, il loro piano ai "GO-Devils" del Colonnello
De Rhoan comandati dal Maggiore Charles Fort (s3), ed essi
segretamente iniziarono la loro azione nel cuore dei Nebrodi la
notte del 5 agosto.
Questa strada divenne
tristemente famosa col nome "The death road". Le mine tedesche erano
poste alla distanza una dall'altra di circa 20 yard e coordinate per
esplodere insieme ad altre mine anti tank da un meccanismo, tutto
ciò costrinse le truppe americane ad abbandonare la strada
principale per lunghi tratti ed ad aprirne di nuovi.
Medaglia d'argento al merito civile conferita alla città di Randazzo dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi:
«Comune, occupato per la posizione strategicamente favorevole dall'esercito tedesco, fu sottoposto per trentuno giorni, tanto da essere definito "la Cassino di Sicilia", a violentissimi bombardamenti che provocarono numerose vittime civili e la distruzione dell'intero abitato. Ammirevole esempio di spirito di sacrificio ed amor patrio.»
IL MUSEO DELLA
SBARCO 1943 A CATANIA, VIALE AFRICA.
STORIA
Nel suo continuo svolgersi, Il Museo ripercorre le tappe degli
scontri di guerra che si svolsero soprattutto nella Sicilia
occidentale come Gela, Augusta, Agira, Floridia, Troina, Ponte di
Primo Sole, Catania, Messina.
I LIBRI SULLO SBARCO IN SICILIA
Gran parte delle foto di questa pagina provengono da LA GUERRA A CATANIA di Salvatore Nicolosi - Tringale Editore (1983)
ALTRI VIDEO
Buona parte delle foto proviene dal libro"La guerra a Catania" di Salvatore Nicolosi - Tringale editore
«Robert Capa sapeva che cosa cercare e che cosa farne dopo averlo trovato. Sapeva, ad esempio, che non si può ritrarre la guerra, perché è soprattutto un'emozione. Ma lui è riuscito a fotografare quell'emozione conoscendola da vicino»
Parte della famosa immagine sottostante è di Robert. Gli chiedo scusa se l'ho stravolta.
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