In Sicilia i colori e gli odori
dell'estate insieme alla delicatezza del pesce, e quindi ai filetti
di acciughe in olio: al naturale, al peperoncino, al prezzemolo, con
capperi, con mandorle, con pomodoro secco, e poi, la neonata in
olio, neonata piccante, bottarga intera e macinata, uova di tonno in
olio, tonno in olio, sgombro in olio, pesce spada in olio, acciughe
salate in latta.
Nel mare siciliano, vengono
pescati facilmente: seppie, calamari, triglie, merluzzi, marmore e
non mancano orate e dentici, sogliole e spigole; senza contare tutta
quella serie di pesci che portano il nome di murene, palombi,
gronghi, vope, razze, rombi, che fanno felici schiere di golosi
amatori.
Pochissime calorie e tanto gusto,
sono queste le caratteristiche dei prelibatissimi frutti di mare
siciliani. Inseparabili compagni delle mangiate estive. Cozze,
vongole, ostriche, fasolari, cappesante, murici, noci di mare ce n’é
per tutti i gusti. Per chi ama i piatti semplici, ma anche per i
palati più ricercati.
Tra i tanti frutti di mare che si
possono trovare nelle pescherie siciliane, le più richieste sono le
vongole e le cozze.
Se l'ostrica è la regina dei
frutti di mare, in Sicilia le principesse sono le echinoderme,
meglio conosciute come ricci di mare. Il sapere popolare dice che si
può mangiare solo la femmina, in realtà i ricci sono ermafroditi.
Tra i tanti molluschi che si
possono acquistare ci sono, però, delle specie protette, di queste è
vietato il prelievo, si tratta delle mandorle di mare e dei datteri.
Nel risotto, lessi e scoppiati, o
nella classica zuppa o nell'amato spaghetto allo scoglio, i frutti
di mare si presentano con un gusto e una fantasia unici. Ma sono
ottimi anche accompagnati da un crostino di pancarré imburrato. Con
una salsina francese o semplicemente con il limone e un po' di pepe
nero è un altro ottimo modo per apprezzarli.
l mitilo della “Gallia”, un
mollusco celebre pescato ed allevato quasi in tutto il mondo: la
cozza
La cozza, conosciuta in buona
parte d’Italia anche come Muscolo, e’ un mollusco lamellibranco,
capace di assorbire l’ossigeno tramite delle branchie a lamelle. La
cozza e’ costituita da un gusci esterno formato da due valve,
composto da carbonato di calcio.
Normalmente
di colore nero, la cozza presenta la parte interna delle valve di
colore argento o madreperlaceo.
Grazie ad una cerniera a tre o
quattro denti le valve sono tenute insieme. L’animale che invece
vive all’interno del guscio, la cozza vera e propria, puo’
presentare colori differenti. Essendo il mollusco a sessi separati,
il maschio dopo la
maturità e’ colorato di bianco sporco, le femmine invece sono di
colore arancione.
Grazie ad un filamento (bisso)
formato da fibra, la cozza si lega a substrati sia fissi che mobili
dove vivrà tutta la vita in colonie. Tale filamento a Taranto
(patria italiana delle cozze) e’ conosciuto come “ZOCA”.
La riproduzione avviene
nell’ambiente esterno, quando lo sperma raggiunge le uova rilasciate
in acqua. Una volta sviluppate, le larve si legano a substrati dove
vivranno per circa 4 anni (durata media della vita).
http://www.ilgiornaledeimarinai.it/la-cozza/
Le vongole sono una dei Frutti di
Mare più amati dai buongustai. Sono vendute in tutta Italia con il
loro nome comune, anche se in diverse regioni d’Italia prendono
l’appellativo regionale; molto spesso incontriamo questi nomi nella
letteratura dialettale: ricordiamo il nome Lupino (Campania) o
Cucciula, Cuppe (Sicilia), Biberassa (Veneto), Liberazza (Friuli
Venezia Giulia) e così via…
Possiamo in ogni modo distinguere
due tipi di vongole, quella tradizionale, comune e quella chiamata
vongola verace.
La vongola comune è un mollusco
con una conchiglia esterna formata da due parti totalmente uguali e
separate dette valve. L’intera conchiglia è costituita da carbonato
di calcio che viene estratto dall’animale dall’acqua di mare. Le due
valve sono di forma generalmente triangolare e di solito
arrotondata. Sono costituite nella parte esterna da delle piccole
costole concentriche incrociate da strie radiali sottili e
irregolari. Le due valve sono tenute insieme da una cosiddetta
cerniera, formata da incastri con tre denti e con dei legamenti.
All’interno invece la valva è
liscia e proprio qui si attaccano i muscoli adduttori del mollusco.
Nella parte molle, gli organi interni (branchie, cuore, centri
nervosi, muscoli, organi riproduttivi, stomaco, intestino…) della
vongola sono racchiusi da una specie di mantello.
La colorazione della conchiglia è
di solito grigio-bruna, con alcuni raggi striati, punteggiati o
composte da righe frammentate di colore più scuro. All’interno
invece è bianca o anche giallastra con piccole sfumature brunastre o
violacce nella parte superiore. La vongola comune non raggiunge una
dimensione molto ampia, in media misura circa 3 centimetri mentre al
massimo può arrivare anche i cinque centimetri.
La vongola verace si distingue da
quella comune in genere per le dimensioni più elevate; faremo una
descrizione più minuziosa dell’animale per rendere palesi anche le
distinzioni più sottili.
Al contrario della vongola comune
le valve hanno forma ovale squadrata e non presenta dentellature sul
bordo. All’esterno è costituita da cerchi radiali o concentriche che
terminano sulla parte superiore della conchiglia con una sorta di
ispessimento chiamato umbone. All’interno anche qui troviamo una
valva liscia. La colorazione esterna è di solito biancastra o
addirittura bruno chiara (solo raramente giallastra), con alcune
macchie e possibili striature più scure. La colorazione interna è
sempre biancastra anche se la presenza della caratteristica macchia
violacea nella parte superiore è possibile e non certa. Di solito le
dimensioni sono molto più grandi rispetto ad una vongola comune. Può
raggiungere i sette centimetri mentre la grandezza standard si
aggira sui cinque centimetri.
Le vongole sono acquistabili
senza alcun problema in pescheria e possono essere di mare o di
allevamento. Da ricordare che è sempre preferibile comperare delle
vongole ancora vive anche se è possibile anche trovarne di
surgelate. Prima di cuocerle è necessario spurgarle in acqua salata
così da espellere la sabbia in eccesso prima di metterle in padella.
http://www.fruttidimare.net/tutti-i-frutti-di-mare
realizzazione e
foto di Michela Becciu |
Gli spaghetti alle
vongole sono un piatto napoletano a base di pasta e
vongole. Come molti altri piatti della tradizione
partenopea, dello stesso piatto esistono più versioni:
rossa e bianca, esiste anche la versione senza vongole,
che altro non è che spaghetti aglio e olio (Aglio e
Uoglie) detti anche alla Borbonica.
La pasta può essere
vermicelli, spaghetti o linguine e va cotta al dente e
poi mantecata in padella nel sauté di vongole, infine si
completa il piatto con prezzemolo tritato fresco. I
pomodorini, cotti e un po' appassiti, sono opzionali. È
possibile condire gli spaghetti con Peperoncino.
L'ingrediente
principale tradizionale dei "veri" spaghetti a vongole è
la vongola verace (Ruditapes decussatus), che non va
confusa con la vongola filippina (Ruditapes
philippinarum), spesso chiamata verace nei mercati del
nord italia, che è ormai quella maggiormente diffusa sul
mercato, ed il lupino (Chamelea gallina).
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Capasanta o Cappasanta. Le
capesante, nome volgare di Pecten Jacobaeus, sono dei molluschi
bivalve a struttura inequivalve. Sono anche conosciute con il nome
di cappasanta, pellegrina oppure conchiglia di San Giacomo.
Come la maggior parte dei
“molluschi con conchiglia” presenta due valve, una inferiore e una
superiore; la valva inferiore, che poggia sul fondo, è di colore
chiaro e di forma molto convessa, mentre al contrario quella
superiore è pianeggiante e di un colore bruno.
La conchiglia può raggiungere le
dimensioni di 14 centimetri circa. All’esterno la valva è costituita
da piccole costole, più o meno 15, che si irradiano fino alla
cerniera.
Il mollusco sebbene dalla
morfologia tipica, possiede una rara particolarità: è munito di
occhi detti catadiottrici elementari, ossia che funzionano per
riflessione.
La capasanta è un essere vivente
ermafrodita e la riproduzione del mollusco avviene tra i mesi di
maggio e giugno. Il suo habitat ideale in Europa è il Mar
Mediterraneo, mentre nelle regioni del nord, come Normandia,
Bretagna, Scozia , Irlanda ed Inghilterra, la varietà comune non è
stata in grado di attecchire, contrariamente a quella chiamata
Pecten Maximus.
In Italia quindi è possibile
reperire la capasanta in quasi tutte le città di mare: sono più
popolose le zone che presentano un fondale arenoso o sabbioso, ricco
di detriti.
Gli esemplari più giovani di
capasanta vivono ancorati al fondale marino tra i 25 e i 200 metri
di profondità: sono appigliati tramite dei filamenti (un po’ come le
cozze).
Gli esemplari adulti invece hanno
la facoltà di spostarsi liberamente lungo il fondale, aprendo e
chiudendo le valve per permettere la fuoriuscita dell’acqua che
consente all’animale una sorta di locomozione.
Dal punto di vista gastronomico e
nutrizionale, possiamo dire che la capasanta è un mollusco molto
apprezzato sia cotto che crudo. Nonostante il gusto particolare
delle sue carni, soprattutto crude, si sconsiglia vivamente di
consumarle senza una previa cottura a causa di motivi igienici e
sanitari.
E’ possibile trovare il mollusco
in quasi tutte le pescherie ed è possibile incontrare la varietà
nostrana (quindi del Mar Mediterraneo) e quella atlantica la quale,
se da una parte è considerata molto più economica, dall’altra
presenta un sapore meno incisivo. Da preferire i molluschi che sono
aperti già a metà, puliti quindi parzialmente dalle impurità e dalla
sabbia marina.
Se la capasanta è fresca allora
si presenterà di un colore abbastanza vivo (quindi bianco candido o
arancione brillante), se al contrario è stata pescata da alcuni
giorni sarà caratterizzata da dei colori spenti e grigiastri. Da
evitare esemplari con il guscio rotto. Se preferite il prodotto
congelato, sarà possibile trovarlo nelle migliori pescherie, ma è
chiaro che non manterrà lo stesso caratteristico aroma.
Per pulire le capesante, nel caso
in cui questo non fosse già stato fatto dalla pescheria, si dovrà
aprire il guscio, staccare la parte molle, lavarla ben bene ed
asciugarla. Il guscio può essere lavato (di solito con una paglietta
di ferro) e conservato per realizzare delle bellissime decorazioni
da portata.
Per avere ulteriori informazioni
riguardo ricette tipiche della tradizione italiana, vi invitiamo a
cliccare sulla sezione dedicata.
http://www.fruttidimare.net/tutti-i-frutti-di-mare
Le ostriche sono i Frutti di Mare
più conosciuti e apprezzati al mondo. Da sempre conosciuto come
ostrica, questo genere di molluschi bivalvi è chiamato in termini
scientifici Ostrea. Ha una conchiglia tondeggiante ricoperta da
alcune lamelle squamose ondulate. Andiamo però a scoprirla nelle sue
caratteristiche morfologiche più particolari
Il mollusco si trova all’interno
di una conchiglia
costituita da due valve non simmetriche che possono raggiungere una
dimensione di 20 centimetri. Di solito questi animali vivono in
colonie decisamente numerose ad una profondità di circa 40 metri;
abitualmente sono attaccate alla parete di uno scoglio dalla parte
della valva sinistra, che può essere riconosciuta dall’altra per una
forma decisamente più grande e convessa. L’ostrica può vivere in
diversi habitat.
Nei nostri mari è presente nella
zona settentrionale dell’ Adriatico (è diffusa in quantità maggiore
l’ostrica comune, anche chiamata Ostrea Edulis), mentre nell’Oceano
Pacifico è possibile trovare le cosiddette ostriche perlifere.
Queste ostriche, chiamate scientificamente Pinctada Margaritifera,
sono conosciute sin dai tempi antichi per il prezioso tesoro che
custodiscono! Ma come si sviluppa una perla all’interno di questo
mollusco? Se l’ostrica si trova a contatto al suo interno con un
agente esterno (che può essere un granello di sabbia entrato per
caso, o un elemento introdotto dall’uomo) comincia a secernere del
carbonato di calcio e una sostanza organica chiamata conchiolina, al
fine di espellere questo oggetto estraneo. Questo processo in realtà
non determina l’espulsione, ma in alcuni casi, le sostanze secrete
dall’organismo, unitamente all’acqua, tendono a cristallizzarsi
intorno a quel nucleo estraneo, fino alla formazione di cerchi
concentrici e alla perla.
Gastronomicamente parlando, la
più pregiata tra tutte è l’ostrea edulis più tondeggiante.
Nonostante questo, in quasi tutti i ristoranti si trovano le
ostriche definite portoghesi o giapponesi (varietà chiamate
rispettivamente Crassostrea angulata e Crassostrea gigas) le quali
posseggono una forma decisamente più allungata e ovale.
Il miglior modo per consumare
un’ostrica è mangiarla cruda. Di solito, freschissima (addirittura
ancora viva), appena la conchiglia viene
aperta deve essere ben spruzzata con del succo di limone. In questo
modo costituisce uno degli antipasti più prelibati e pregiati del
mondo. Ovviamente da non perdere è l’accostamento ad un vino
altrettanto pregiato, come lo champagne francese.
In Italia questi Frutti di Mare
possono avere successo anche se consumati cotti, specialmente al
forno oppure al graten.
Ricordiamo che nelle pescherie è
consigliabile l’acquisto di confezioni perfettamente sigillate, non
è consigliabile l’acquisto di ostriche sfuse.
http://www.fruttidimare.net/tutti-i-frutti-di-mare
Il mollusco conosciuto da tutti
con il nome di Fasolaro in realtà è scientificamente nominato come
Callista Chione. Si tratta di un mollusco costituito da un guscio
composto da due valve. La forma del mollusco è molto simile a quella
di una vongola, infatti le valve sono ovali pressoché di grandezza e
morfologia identica l’una dall’altra.
Il guscio è robusto, liscio e di
una colorazione brunastra con striature tondeggianti nella
superficie esterna che rappresentano le fasi di crescita della
conchiglia nel tempo.
L’interno delle valve invece è
completamente bianco e lucido, la consistenza è simile a quella
della porcellana. La parte molle, oltre che esser composta da vari
organi interni, presenta una sorta di piede che fuoriesce spesso
dalle valve, che permette all’animale dei movimenti semplici come ad
esempio quello di seppellirsi sotto la sabbia.
Il mollusco che si trova
all’interno della conchiglia presenta una colorazione alquanto
particolare, che tende dal bruno al rosso intenso. È lungo circa 10
centimetri.
Generalmente vive nei fondali
sabbiosi a circa 15 o 20 metri di profondità: è diffusissimo sia
nell’Oceano Atlantico sia nel Mar Mediterraneo. È possibile pescarne
in grandi quantità nei fondali sabbiosi dell’alto Adriatico, del
Tirreno laziale e delle isole britanniche.
Il tipo di pesca che viene
utilizzato per raccogliere i fasolari è quello definito a rastrelli
o a turbo soffiante. Nonostante questo, è molto diffuso anche
l’allevamento (per saperne di più visita la sezione dedicata
all’acquacoltura).
Il fasolaro è un frutto di mare
che va acquistato ancora vivo, per garantirne la completa
freschezza. La conchiglia deve essere decisamente chiusa, se le
valve sono aperte allora vuol dire che l’animale è già morto e
quindi da non acquistare.
Da ricordare che più la taglia è
grande più le carni saranno più dure e legnose, quindi è
consigliabile scegliere i fasolari dalle dimensioni più ridotte.
Prima di cucinare questi ottimi frutti di mare sarà d’obbligo
metterli a mollo in acqua fredda salata (con del sale grosso), per
permettere lo spurgo dalla sabbia che si trova al suo interno.
Una volta terminato questo
procedimento, si andrà alla pulitura, che è oltretutto simile a
quelle delle ostriche.Per sgusciarli nel miglior modo prima della
cottura, usate un coltello robusto per incidere il muscolo che si
trova vicino al callo e che tiene la conchiglia chiusa. Staccate il
mollusco dalla conchiglia e sciacquatelo bene da qualsiasi impurità.
Dividere anche il piede rosso dalla sacca della sabbia. Se avete a
che fare con un fasolaro molto grosso, e quindi avete timore che le
carni si presentino abbastanza dure, potete prendere un batticarne
per renderle più delicate e morbide.
http://www.fruttidimare.net/tutti-i-frutti-di-mare
I Cannolicchi anche conosciuti
con il nome di Cannelli sono dei frutti di mare con la
caratteristica forma allungata. Possono avere diversi nominativi a
seconda delle regioni italiane in cui ci troviamo, tra i nomi
dialettali più fantasiosi troviamo “Manego de Coutelo” in Liguria,
“Manico de Coltel” in Friuli Venezia Giulia, “Arrasoias” in
Sardegna.
Il Cannolicchio è considerato un
mollusco bivalve che vive in posizione verticale di solito infossato
nella sabbia. Esistono due varietà di questa specie (farellidi e
Solenidi) che in comune hanno ovviamente la forma caratteristica
della conchiglia: tutti arrivano a misurare tranquillamente i 17
centimetri. La varietà chiamata dei Solenidi ha la conchiglia
liscia, molto delicata, tubiforme ed equivalve troncata alle due
estremità.
Dalla estremità superiore sporge
un grosso piede, al contrario dall’estremità inferiore fuoriescono i
sifoni. Grazie a questi sifoni, i cannolicchi riescono anche a
nutrirsi, inalando delle piccole particelle alimentari dall’acqua.
La caratteristica singolare di
questi molluschi è l’habitat! Infatti essi si trovano sotto il
fondale sabbioso dove riescono a scavare delle gallerie fino ad un
metro di profondità! In queste gallerie i Cannolicchi possono
rifugiarsi in caso di estremo pericolo. Il colore della conchiglia è
giallastra brillante con alcune piccole striature violacee.
Pescare questi molluschi è
estremamente semplice, il metodo più rapido è quello di farlo
direttamente a mano, data la notevole facilità nel riconoscerli sul
fondo sabbioso proprio per la loro forma caratteristica. I pescatori
più esperti a volte utilizzano anche un attrezzo da scavo, simile a
quello utilizzato per vongole e telline, bisogna però in questo modo
agire molto velocemente perché l’insabbiamento del cannolicchio è
veramente molto rapido.
La pesca professionale fa uso di
turbosoffianti; si sta sviluppando in questo ultimo periodo
l’allevamento, soprattutto in Spagna (in Italia i prodotti sono
totalmente pescati).
Potrete trovare questi frutti di
mare nelle pescherie più fornite di tutte le città italiane. Deve
essere commercializzato da vivo e per verificare questo particolare,
basterà toccare il piede che sporge: se l’animale è vivo, tenderà
subito a ritrarlo.
Visto l’habitat di questo
mollusco, sarà necessario spurgarlo per alcune ore e lavarlo molto
bene per eliminare tutta la sabbia all’interno.
Le preparazioni migliori sono in
forno gratinati o con la pasta: per scoprire ricette tipiche della
tradizione culinaria italiana vi consigliamo di cliccare sulla
sezione dedicata.
http://www.fruttidimare.net/tutti-i-frutti-di-mare
La patella è un mollusco
con una sola valva (gasteropode), provvisto di un grosso piede a
ventosa che si fissa sul substrato roccioso in maniera talmente
salda da risultare praticamente impossibile da strappare.
Esistono in tutti i mari del mondo circa 200 specie distinte di
patelle, ma nel Mediterraneo ne sono presenti solo alcune.
La più comune è la Patella coerulea con una conchiglia a cono, base
molto larga e vertice aguzzo, che negli esemplari più grandi puo'
apparire arrotondato a causa dell'erosione dovuta al moto ondoso.
Le altre specie reperibili in Mediterraneo sono la Patella aspera,
la P. ferruginea, la P. safiana e la P.lusitanica.
Si assomigliano più o meno tutte, con la conchiglia dal bordo quasi
circolare e l’apice che, a seconda della specie, risulta più o meno
arrotondato.
Da questa sorta di vertice, si
irradiano verso il bordo basso delle striature molto evidenti.
Compiendo piccolissimi spostamenti sulle scogliere in cui vive,
“bruca” i microscopici ciuffetti di alghe.
Le nostre coste abbondano di
patelle, ma ad un occhio poco esperto potrebbero passare
inosservate, poiché il colore della conchiglia è uguale a quello
della roccia dove il mollusco vive.
La patella sceglie un sito dove
vivere e riesce a scavarsi nella roccia una sorta di nido circolare:
una piccola depressione con un bordo che aderisce perfettamente
all’orlo della sua conchiglia.
Infatti la patella conduce la sua esistenza quasi sempre nella zona
di marea, quindi resta all’asciutto nelle fasi di bassa marea, per
poi venir sommersa quando il livello del mare sale nuovamente.
Nei periodi di bassa marea essa aderisce alla roccia in maniera così
perfetta da conservare acqua all’interno della conchiglia e riuscire
a sopravvivere fino a che la marea non sarà di nuovo alta.
Se non esistesse una tenute
ermetica fra conchiglia e substrato roccioso, cio' non sarebbe
naturalmente possibile; una volta immerso, invece il mollusco
allenta un po’ la presa e compie addirittura dei piccoli
spostamenti.
La patella si raccoglie
utilizzando una robusta lama di coltello nei momenti di alta marea,
cioè quando il mollusco non esercita il massimo della pressione sul
substrato roccioso; la lama va infilata subito sotto la conchiglia.
Le patelle non sono molluschi molto richiesti nella nostra
gastronomia, né rappresentano un prodotto commerciale, non si
trovano infatti sui banchi del mercato. È questo il motivo per cui
le patelle abbondano lungo i nostri litorali senza che la loro
densità accenni a diminuire.
Le carni sono buone e gustose anche se un po’ dure.
è un mollusco bivalve
dalla conchiglia più o meno triangolare a valve leggermente
disuguali e dalla forma alquanto appiattita. La parte anteriore è
rotondeggiante, più lunga di quella posteriore che è tronca ed
obliqua, la faccia esterna delle due valve presenta striature
longitudinali di accrescimento (più marcate sulla parte anteriore) e
linee radiali molto sottili.
Il bordo interno è dentellato sulla parte ventrale, ad eccezione
delle estremità. La colorazione è bianco giallastra, violacea o
brunastra con zone radiali più scure, l’interno è biancastro con
ampie zone violacee.
La tellina si nutre filtrando l’acqua e trattenendo per mezzo di
branchie a rete, piccolissimi organismi, particelle di detriti e
particelle organiche in genere.
La riproduzione avviene da novembre ad aprile e gli esemplari adulti
possono raggiungere i 3 cm di lunghezza, più frequenti però attorno
ai 2 cm.
Una tellina di aspetto molto simile è Donax semistriatus, più
allungato, che non raggiunge le dimensione del Donax trunculus e che
possiede, nella zona mediana posteriore, linee concentriche e linee
radiali che formano una sorta di reticolo.
Dove vive:
La tellina è una specie molto comune nel Mediterraneo,
soprattutto nel Tirreno, ma anche nel Mar Nero, nell’Atlantico
orientale e nel Mar Rosso. Vive infossata nella sabbia delle zone
litorali, fino ad una profondità di circa 15 metri ma è più
abbondante nei primi 3-4 metri vicino alla costa.
Il mollusco, che dispone di un piede a forma di ascia, riesce a
penetrare facilmente sotto il primo strato del fondo sabbioso (pochi
centimetri) e qui staziona estroflettendo verso l’alto due sifoni:
uno inalante l’altro esalante.
Si trova quasi sempre in colonie.
Come si consuma: Le
telline devono essere vendute vive, il loro stato di conservazione
si valuta prendendo in considerazione la reazione dell’animale agli
stimoli. Quando le telline muoiono le valve si aprono e rimangono
aperte. Non acquistate telline se non sono ben chiuse e neppure se
presentano una piccola fessura tra le due valve e non si chiudono
toccandole.
Le telline devono essere commercializzate chiuse in sacchetti di
rete, con indicata la data di confezionamento.
Una volta venivano vendute mantenendole vive in vaschette con acqua
di mare, ciò è contrario ad alcune norme sanitarie per la tutela del
consumatore.
Le carni della tellina sono consumate sia crude che cotte, il pregio
principale delle telline è la dolcezza e la delicatezza delle loro
carni. Per le piccole dimensioni si prestano bene come condimento
per diversi tipi di pasta.
http://www.supercozza.it/det_articolo.asp?idpage=3&id_articolo=15&nome_articolo=Tellina
LA PESCA DELLE TELLINE (I COZZULI
DI CATANIA).
Con una certa periodicità,
stimata intorno a quindici - venti anni, si osserva il cosiddetto
fenomeno della "buona annata".
Si ricordano, nel nostro golfo,
quella dei merluzzi, degli sgombri e, ancora più ricorrente, delle
alici.
I nostri pescatori ricordano
anche quella delle "cozze rosse" e dei "granchi americani" -
comparsi misteriosamente ed altrettanto misteriosamente scomparsi -
per averne fatto una pesca eccezionale.
Poiché cozze e granchi erano
commestibili, ed anche di sapore gradevole, data la grande
abbondanza, si vendettero a buon mercato, a danno della pesca
abituale praticata con "lacciare"
e "tattaruni".
Se in questo caso però il danno
fu soltanto di natura economica e fu compensato dalla maggiore
vendita di cozze e granchi, quanto, invece, accadde tre anni
addietro, e che vide protagonisti due tipi di molluschi da un lato e
dall'altro gli operatori del settore, causò danni di natura
ambientale.
I molluschi di cui si parla sono: "i
muccuni" e "'i còzzuli di Catania"; gli operatori sono "i cuzzulara", cioè
gli "eroi" che si immergono dalla cintola in giù (espressione che
richiama alla memoria quella dantesca "dalla cintola in sù" , stando
a mollo per ore e ore. Essi adoperano attrezzi ("'ngegni") molto
semplici che lasciano sicuramente passare le telline più piccole e
catturano solamente quelle medio-grandi, per consentirne così la
naturale riproduzione.
Come già accennato, circa tre
anni addietro, si verificò nella nostra Plaia una vera e propria
invasione di "muccuni" - uguali
a quelli che qualche volta si possono vedere frammisti alle telline
- i quali, insidiando prima e aggredendo poi la conchiglia, ne
succhiavano la carne come un vero e proprio parassita può fare,
provocandone in tal modo lo sterminio.
Le telline scampate si portavano,
per istinto di conservazione, verso la spiaggia e così, quando le
mareggiate le spingevano sulla battigia, morivano assieme agli
aggressori.
Conclusasi l'invasione, i marinai
ritengono che i killers rimasti, non trovando più cibo a
sufficienza, abbiano "fatto passa" (si siano spostati) verso altri
lidi.
Sembra però che non tutto è
andato perduto, perché le poche e piccole telline rimaste,
proliferando, riporteranno - almeno in parte - l'equilibrio
compromesso, sia pure stentatamente. Compromesso perché - dicono 'i
cuzzulara" - con la realizzata sistemazione idraulica del Simeto, le
acque del fiume vengono raccolte nelle dighe per essere utilizzate
in agricoltura. Di conseguenza, in assenza delle grandi piene di un
tempo, al fondo marino viene a mancare il benefico humus, costituito
dalle sostanze organiche che il fiume strappava alla terra e
riversava in mare.
Si è detto stentatamente perché,
come sappiamo, un fattore di rallentamento della crescita delle
telline è costituito dagli scarichi industriali che interessano la
costa dalla foce del Simeto fino a Catania.
Crescita, invece, quasi del tutto
normale le telline sembrano avere dal fiume S. Leonardo fino ad
Agnone, dove mancano elementi di ostacolo al loro sviluppo regolare.
_____________________
tratto da "Il Golfo di Catania
e i suoi pescatori" di Pippo Testa e Mimmo Urzì - Edizioni Greco,
Catania - 1992
lumachino di
mare (Nassarius mutabilis) è un piccolo gasteropode, che
può raggiungere i 3,5-4 centimetri. La taglia minima del prodotto
commerciale è di 2 centimetri. La conchiglia è globosa ad andamento
spiraliforme, con apertura di forma semicircolare; una parte del
labbro è dentellata e il canale sifonale molto ampio. La superfi cie
esterna è liscia, contraddistinta da una colorazione giallastra con
striature irregolari più scure di colore bruno-rossastre. Diff uso
in tutto il Mediterraneo nei fondali di tipo sabbiosi-fangosi a
profondità comprese tra i 2 e 15 metri, è particolarmente abbondante
nell’Adriatico centro-settentrionale.
Di giorno vive infossato lasciando sporgere verso l’esterno il
sifone e le antenne sensoriali utilizzate per la ricerca del cibo,
mentre nelle ore notturne è solito procurasi il cibo strisciando sul
piede.
E’ un detritivoro, che si nutre
prevalentemente di carne. Ha sessi separati e la riproduzione
avviene tra la fi ne dell’inverno e l’inizio della primavera; la
fecondazione è interna e le uova dopo un primo stadio di sviluppo
vengono deposte in capsule ovigere attaccate ad un substrato solido
come rami sommersi, conchiglie e pietre.
La pesca del lumachino si
concentra lungo la costa dell’Adriatico settentrionale, ed è svolta
con attrezzi da posta fi ssi, ossia con dei piccoli cesti di rete
con struttura metallica. Sfruttando la biologia del lumachino, cheè
un animale carnivoro e necrofago, i pescatori sono soliti porre
all’interno come esca pesce azzurro, cefali o altro. Da qualche
anno, l’attività di pesca è sospesa nel periodo estivo, un “riposo
biologico” per consentire una miglior crescita/sopravvivenza a
giovanili e adulti. I cestini vengono fi ssati su un cavo ad una
distanza variabile da 5 a 10 metri l’uno dall’altro a formare dei fi
lari di 20 – 30 trappole. L’innesco con esca nuova e il controllo
per prelevare il pescato avvengono contemporaneamente, di norma ogni
24-48 ore. La stagione in cui le carni sono migliori è quella
inverno-primaverile, da gennaio a maggio.
www.stradadelpesce.it
La conchiglia è di circa 6–8 cm,
munita di prolungamenti spinosi e dalla forma rigonfia allungata in
una estremità del sifone, che invece è lungo e dritto.
La superficie esterna è rugosa e
percorsa da numerosi cordoncini spirali irregolari. La colorazione
esterna varia dal giallo al bruno, lo stoma è ovale, dentellato sul
margine esterno, dal giallo all'arancio. È una specie comune su
fondali sabbiosi, fino ad un massimo di 100 m. Questa specie è
predatrice necrofaga.
Durante il periodo riproduttivo
(giugno-luglio) non è raro osservare gruppi numerosi con esemplari
di sesso differente che si accoppiano. Gli individui di questa
specie sono ermafroditi proterandri, ovvero prima sono maschi e poi,
all'occorrenza, diventano femmine. Le uova vengono deposte sulle
rocce delle scogliere organizzate in una massa biancastra più o meno
gelatinosa.
Cenni storici[modifica | modifica
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Dal mollusco si ricava la porpora
reale, secreta da una ghiandola, dal colore violaceo e il cui
utilizzo riguardava la colorazione delle stoffe.
Da ogni mollusco si può estrarre
solo una goccia e quindi le sue applicazioni erano molto onerose,
come è confermato anche dalle testimonianze scritte, basti pensare
all'Iliade, secondo la quale solo le principesse potevano indossare
i veli di porpora.
La pesca del murice era talmente
pregiata da sospingere i fenici ben al di là delle Colonne d'Ercole,
facendoli arrivare fino alle Canarie.
In un primo tempo il centro di
smistamento della porpora fu Tiro, ma dopo il suo declino Cartagine
divenne il luogo più importante di produzione. Proprio da qui
raggiunse Roma, dove divenne uno dei simboli della magnificenza
imperiale.
Una testimonianza ci viene da
Plinio il Vecchio che descrive compiutamente la conchiglia.
« Le porpore vivono al massimo
sette anni. Si nascondono, come i murici, all'inizio della canicola
per trenta giorni. In inverno si riuniscono e, sfregandosi tra di
loro emettono un particolare umore mucoso. Nella stessa maniera
fanno i murici. Ma le porpore hanno in mezzo alla bocca quel fiore
ricercato per tingere le vesti. Qui si trova una candida vena con
pochissimo liquido, da cui nasce quel prezioso colore di rosa che
tende al nero e risplende. Il resto del corpo non serve a niente. Si
cerca di catturarle vive, perché gettano fuori questo succo insieme
alla vita. E si estrae dalle porpore più grandi dopo che viene tolta
la conchiglia, mentre le più piccole vengono frantumate vive con la
mola, in modo da fargli espellere quel liquido.
Il migliore dell'Asia è quello di
Tiro; di Gerba quello dell'Africa, e sulla spiaggia del mare di
Getulia; in Laconia quello d'Europa. Di questo sono ornati i fasci e
le scuri Romane, e sempre questo dà maestà alla giovinezza.
Distingue il senatore dal cavaliere; è utilizzato per placare gli
dei, e fa risplendere ogni veste: nei trionfi è mescolato all'oro.
Per questo sia scusata la follia della porpora. Ma da dove
provengono i prezzi delle conchiglie, che hanno cattivo odore nel
sugo, un colore grigiastro austero e simile al mare in tempesta?
La lingua della porpora è lunga
quanto un dito e con essa si nutre forando le altre conchiglie:
tanta è la durezza dell'aculeo. E si uccidono con l'acqua dolce, e
perciò si immergono in un fiume: altrimenti una volta prese, vivono
cinquanta giorni con la loro saliva. Tutte le conchiglie crescono
molto rapidamente, e specialmente le porpore: raggiungono le loro
dimensioni in un anno. Vi sono due tipi di conchiglie che producono
il colore detto porpora e quello detto conchilio (la materia è la
stessa, ma diversa la combinazione). La conchiglia più piccola è il
buccino, così detta per la sua somiglianza alla tromba, con cui si
suona: e da qui l'origine del nome, per la rotondità della bocca,
incisa nel margine. L'altra è chiamata porpora, ha un rostro
sporgente a forma di cunicolo e un'apertura laterale. In più ha
spine simili a chiodi fino all'apice della spira, con circa sette
aculei per giro, che non ci sono invece nel buccino: ma entrambi
hanno tanti giri quanti sono i loro anni. Il buccino aderisce ad
alcune pietre e si raccoglie fra gli scogli.
Le porpore vengono chiamate anche
pelagie. Ce ne sono molti tipi, che si diversificano per
l'alimentazione e per il substrato dove si trovano. La lutense si
nutre di fango mentre la algense di alghe, entrambe sono di
scarsissimo valore: migliore è la teniense, che si raccoglie negli
scogli; ma anche questa è troppo leggera e liquida; la calcolense
prende il nome dai sassi del mare, incredibilmente adatta alle
conchiglie in genere e soprattutto per le porpore; la dialutense si
chiama così perché si nutre in substrati di vario genere. Le porpore
si prendono con strumenti simili a nasse, piccoli e con maglie
larghe, gettati in profondità. Essi contengono come esca delle
conchiglie chiuse e robuste, come i mitili: queste, mezze morte, ma
ritornate in mare, rivivono aprendosi rapidamente e richiamano le
porpore, che le penetrano con le loro lingue distese; ma quelle,
stimolate dall'aculeo, si chiudono e stringono le lingue: così le
porpore vengono tenute penzolanti per la loro avidità. »
fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Bolinus_brandaris
Il tempo del mauro ... perduto
Il periodo è questo,
ma bisogna sapere dove andare e, nonostante ciò, essere fortunati.
Poter gustare il "mauro" - o "u mauru", in dialetto catanese - è
infatti ormai talmente raro da essere una delizia da veri gourmet.
Si tratta di un'erba marina dai lunghi filamenti callosi, un'alga
commestibile che fino a qualche decennio fa cresceva spontaneamente
lungo le coste laviche catanesi e della Sicilia orientale, ma che
adesso è quasi scomparsa a causa dell'inquinamento.
Inutile chiedere alla Pescheria e nei ristoranti di pesce di Piazza
duomo o di Acitrezza; a restare legati a questa specialità sono
alcuni ristoratori lungo la Timpa ed a Stazzo (nei pressi di
Acireale), e giusto un paio di commercianti della zona di Ognina, a
Catania.
"Ogni venerdì me lo porta un vecchietto - spiega Tino, titolare di
una rivendita di frutti di mare in piazza Mancini Battaglia - che lo
raccoglie insieme a suo figlio in una località vicino Acireale.
Trovarlo è così difficile che neanche lui vuole far sapere dove
riescono a prenderlo".
Un "segreto
professionale" che, tuttavia, non turba la serenità del rivenditore
e dei suoi clienti: "Credo sia una località poco inquinata -
continua Tino - perché so che per crescere ha bisogno di acque
limpide". Magari, perciò, si chiude un occhio su tracciabilità e
sicurezza alimentare, ma volentieri si apre la bocca per assaggiare
una prelibatezza tipica che rischia l'oblìo: "La domenica è già
terminato - prosegue il commerciante - perché ho dei clienti
affezionati che vengono qua apposta".
Come ogni sciccheria marinara, di solito si consuma crudo:
"Cinquanta anni fa mia mamma se lo mangiava a mare mentre lo
raccoglieva - ricorda Tino - ma c'è chi lo preferisce condito con
sale e limone, o chi lo salta in padella".
Sono questi i mesi migliori in cui tentare la fortuna: l'alga trova
il suo habitat ideale da aprile a giugno. Una vaschetta da 100
grammi costa più o meno tre euro. Ben 30 euro al chilo, ma vale per
la memoria.
Francesca Marchese
http://www.cronachedigusto.it/i-nostri-consigli/dove-mangio/3124-la-curiosita-il-tempo-del-mauro-perduto.html
"CAPIDDUZZU"
O "MÀUTIZZO" . Si
presenta a carattere cespuglioso e con proliferazioni di natura
coriacea. Il colore marrone è quello predominante.Gicartina Teedii,
(Roth) Lamo-roux. Si presenta, a differenza del "màuro", con
proliferazioni sottili. Il verde intenso è il colore prevalente.
'U MAURU - L'ALGA
SICILIANA PERDUTA
'U Mauru è un'alga
rossastra e coriacea che cresce tra Acireale e Catania.
Una volta era un piatto tipico della zona, ora è
praticamente scomparsa. E' stata per molto tempo la
merenda dei pescatori che rientravano dalle battute di
mattina. La strappavano dagli scogli, la condivano con
limone e sale e se la mangiavano lì, a bordo, prima di
rientrare a riva. Oggi però non è più così facile
trovarla sugli scogli vicino la riva. Spesso a prenderla
ci vanno i sommozzatori che, il più delle volte, tornano
a mani vuote. E così la tradizione del Mauru sta
scomparendo alla velocità della luce: resiste in sparuti
ristoranti e trattorie in un tratto che va da Acireale a
Catania. Meno di 20km di costa in tutto. 'U Mauru prende
la sua radice da màguru in siciliano e a sua volta dal
latino macer, letteralmente magro, povero. Il nome
scientifico dell’alga sarebbe Chondracanthus teedei. Il
primo a parlarne è Friedrich Traugott Kützing, dottore
in filosofia, che nel 1847 afferma di averlo trovato sia
nel mare Adriatico che nel Mediterraneo. In realtà oggi
sappiamo della sua presenza anche in Giappone,
Portogallo, Spagna e in alcune isole dell’Oceano
Pacifico. Rimane comunque un’alga piuttosto rara.
“A seconda del periodo
il sapore cambia tantissimo,” mi spiega il ristoratore,
appassionato di Mauru, che si va a prendere da solo.
“Agosto non è il periodo migliore, anzi: non è proprio
periodo. La stagionalità del Mauru va da marzo a giugno
e, più si va avanti, più saprà di iodio e assumerà un
colore rosso.” Il Mauru nella pasta con i frutti di
mare, però, era una bomba: un po’ di cottura attenua
parecchio il sapore — un sapore che, sappiatelo fin da
ora, rimane in bocca per ore.
Per crescere il Mauru
ha bisogno di particolarissime condizioni, la prima
delle quali è l’acqua pulitissima. “Il Mauru cresce dove
l’acqua salata incontra acqua dolce in mare e solo dove
è pulita,” mi spiega il ristoratore anonimo che mi fa
assaggiare il Mauru e che ne è un esperto. “Inoltre
cresce su scogli di origine vulcanica. Capisci bene che
sono condizioni difficili da trovare.” Quindi: se mai
mangerete del Mauru, sappiate che difficilmente sarà
cresciuto in condizioni ambientali avverse. O non lo
trovereste proprio. È selvatico, cresce spontaneo e
l’opinione comune —soprattutto fra i pescatori — vuole
che il mare sia ormai irrimediabilmente inquinato. Il
che lo avrebbe reso poco disponibile e soprattutto, come
mi ha spiegato il pescatore Giambattista Guarrera: “Le
alghe trattengono l’inquinamento, per questo potrebbe
essere pericoloso.” Poi c'è da tenere in considerazione
la non tracciabilità, che non è cosa da poco.
Infine il fattore più
pittoresco: alla fine 'sto Mauru è illegale sì o no? Qui
potrebbe c’entrarci solo il “sentito dire”: non c’è al
momento un solo documento che lo indichi come specie
protetta (male), né uno che ne sancisca l’illegalità.
“Quando non lo trovo lo acquisto tranquillamente,” mi
dice il ristoratore - che però non vuole parlare al
telefono di certi dettagli, alimentando ancora la
leggenda popolare. “Basta una licenza di pesca generica
e specificare la zona in cui si è preso.” Il problema
non è che faccia male, anzi, hanno pure scoperto che è
un ottimo antifungino e antivirale. Il problema è che
non ce n’è proprio più in quel tratto di costa. Tanto
che, se lo trovate, il prezzo è di circa 30 euro al
chilo.
(Andrea Strafile)
è un animale marino erbivoro, che
appartiene al Phylum degli Echinodermi (la parola deriva dal greco e
significa “pelle con spine”) e vive sui fondi dei mari: è un animale
poco mobile. Presenta un rivestimento esterno ruvido e spinoso detto
dermascheletro, formato di piastrine calcaree unite insieme e
contenute nello spessore della pelle. Sulle piastrine si articolano
gli aculei e, attraverso piccoli fori, vengono astroflessi i
pedicelli ambulacrali: tubicini che terminano con delle ventose e
permettono al riccio di muoversi. La respirazione è essenzialmente
cutanea, ma sono presenti anche piccole branchie vicino alla bocca.
I ricci di mare sono piuttosto
bizzarri e si possono presentare sotto tante forme e colori diversi,
e vengono tutti raggruppati nella classe degli Echinoidei. Si
distinguono in RICCI REGOLARI e IRREGOLARI.
I Ricci Regolari sono i più
comuni, sono diffusi ovunque e sono muniti di aculei: il
Paracentrotus è di colore variabile dal bruno al viola ed è
commestibile.
I Ricci Irregolari hanno il corpo
ovale, vivono infossati nel detrito o nella melma, il loro scheletro
mostra sulla parte superiore una figura a stella che rappresenta il
sistema locomotorio trasformato. Hanno aculei molto corti e fragili
che formano una sorta di manto peloso attorno all'animale.
Il riccio di mare è molto usato
come antipasto, crudo. Il suo impiego è altresì noto come condimento
nei famosi “spaghetti ai ricci di mare”.
Le spine del riccio di mare
possono pungere, provocando dolore e bruciore. Gli aculei sono
fragili e molto spesso si spezzano all’interno della pelle; non
iniettano veleno, ma la puntura è dolorosa e s'infetta facilmente.
Ricci di mare: usa garze imbevute
di acqua e aceto
I ricci solitamente vivono su fondali rocciosi poco
profondi, in nicchie riparate scavate negli scogli. Se si
calpestano, le spine, che sono fragili, si possono spezzare e
rimanere conficcate nella pelle. Sono dolorose e fastidiose, quindi
è consigliabile rimuoverle, meglio se con una pinzetta o con un ago
sterile, cercando
di non spezzarle. Se non ci si riesce è possibile provare, dopo aver
lavato e disinfettato la zona colpita, a bagnarla con garze imbevute
di acqua e aceto (scioglie i residui di spina). Oppure puoi provare
con un impacco di pomata di ittiolo, che ne favorisce l'espulsione.
Comunque, se non vengono espulse, possono essere disgregate e
assorbite dai tessuti stessi.
Si appresta l’estate e ciò
significa non solo mare e ferie, ma anche pesca ricca e mangiate di
pesce fresco: una delle specie marine più consumate nelle regioni
del Sud Italia è il ricco di mare (Paracentrotus lividus),
particolarmente apprezzato dai consumatori e dai turisti.
Spaghetti con le uova, a
crudo con un pò di pane casereccio, i ricci sono buonissimi, ma
anche una specie protetta: attualmente la normativa comunitaria ( in
particolare il D.M. 12 gennaio 1995 che disciplina la pesca del
riccio di mare -Gazz. Uff. 25 gennaio 1995, n. 20-) prevede il
fermo biologico, alias il divieto di raccolta e di consumo, nel
periodo dell’anno che va al 1° Maggio al 30 Giugno (è il periodo
della fecondazione della specie).
E anche quest’anno la pesca del
riccio sarà vietata, sia a scopo commerciale che sportivo, pena la
confisca del pescato, degli attrezzi e multe da mille a 6mila euro.
La raccolta di esemplari sotto
misura comporta anche una denuncia penale. La taglia minima di
cattura, infatti, non deve essere inferiore a 7 centimetri di
diametro totale, compresi gli aculei.
Si ricorda inoltre che la
pesca del riccio nel restante periodo dell’anno (dal 1° Luglio al 30
Aprile) è circoscritta ai casi di immersione e di pesca manuale,
tramite asta a specchio e rastrello; i
professionisti possono raccogliere fino ad un massimo di mille
esemplari al giorno, gli sportivi non più di cinquanta.
http://www.giornalesiracusa.com/notizie/2015/04/29/pesca-del-riccio-inizia-il-fermo-biologico
Mentre
procediamo più verso nord, l'odore di «viddulidda» e di «evva 'i
ciàuru» si fa più intenso che mai. Così il nostro «Bastiano» coglie
lo spunto per raccontarci che alcuni «trezzoti» raccolgono, per
mestiere, queste erbe profumate, rivendendole alle «case del pesce»,
e che «Janu lupu» e «Araziu fulinia» sono i più classici
rappresentanti di questo commercio. Ci dice pure che tempo addiestro
c'era un «rizzaru» («Còcimu Valastru»), chiamato «'u cavaleri d'i
rizzi», perché i suoi ricci erano «chini comu l'ova, e no nni
sbagghiava mancu una!»
da "Luci
sulla scogliera" di Testa e Urzì - Edizioni Greco in Catania
Quando per “’i saddara” non era
consigliabile “andare con la tratta”, cioè d’inverno, alcuni di loro
esercitavano un’attività che oggi viene praticata solo dai
subacquei: la pesca dei ricci.
Plinio, nella sua Naturalis
Historia, dei ricci: "hanno degli aculei al posto dei piedi. Per
essi procedere significa rotolarsi in cerchio, e così
se ne trovano spesso con gli aculei consumati. Tra questi si
chiamano echinometri quelli che hanno aculei lunghissimi e gusci
molto piccoli. E non tutti hanno lo stesso colore verde.
Intorno a Torone (in Calcidica)
ne nascono bianchi, con gli aculei piccoli. Le uova di tutti sono
amare, cinque di numero. Dicono che essi presagiscono le tempeste
marine e che le aspettano afferrando delle pietruzze in modo da
dare, col peso, stabilità al loro corpo che è mobile; non vogliono
consumare, avvoltolandosi, le spine. Non appena i naviganti vedono
ciò, subito fissano le imbarcazioni con parecchie ancore».
Il tipo di riccio localizzato da
Plinio nella Calcidica cresce anche nel tratto di mare fra
"l'Armisi" (stazione F.S.) e Capo Mulini e viene chiamato "rizzo
monaco" o "rizza carusedda".
Quanto asserito dallo storico sul
sapore amaro di tutte le uova dei ricci, può essere condiviso solo
in parte, anche perché siamo confortati dalle testimonianze di
alcuni nostri pescatori, i quali, in una delle loro "missioni" in
Calabria, esattamente nei pressi di Tropea, riscontravano con
sorpresa che il sapore delle uova dei ricci del luogo era
effettivamente amaro.
Le uova, invece, dei ricci delle
nostre coste non lo sono affatto; anzi i ricci, più che frutti di
mare, si potrebbero considerare dei veri e propri dolci di mare, in
particolare quelli che hanno le uova di colore rosso. Probabilmente
Plinio verificò
quanto riferito in una zona dove il cibo dei ricci produce sostanze
amarognole.
La pesca di cui si parla aveva un
fascino particolare soprattutto in relazione all'attrezzo che veniva
usato per la cattura dei ricci, il cosiddetto "scùpulu" (specifica
funzione dell'ngegnu). Si trattava di una pietra calcarea a forma di
ciambella scanalata alla quale venivano legati numerosi fasci di
vecchia rete. Nella sua parte superiore la ciambella recava una
lunga e robusta corda che, dalla barca, veniva manovrata in modo che
gli anzidetti fasci di rete scopassero il fondo alla ricerca dei
ricci. La pesca si effettuava quasi esclusivamente di notte, perché
è di notte che i ricci si muovono alla ricerca del cibo.
Quando la pesca dei ricci veniva
praticata da marinai professionisti, si incontravano quotidianamente
carovane di pescatori (trezzoti e ogninesi) che, a piedi, si
spingevano fino a Catania per la vendita del pescato, riposto nel
classico cesto con manico detto "panaru".
Dato che ogni "mestiere" ha avuto
quasi sempre un suo "personaggio", anche fra i vendi-tori di ricci
ve ne era uno che viene ricordato per la sua simpatia e per quanto
era solito fare. Egli, come tutti gli altri, si recava a piedi da Acitrezza fino a Catania con il suo fardello sulle spalle. Essendo
persona dotata di una grande resistenza, per il suo incedere, per la
forte andatura e per il fatto che al ritorno fosse il solo a
servirsi di un mezzo pubblico che, a quei tempi, giungeva fino ad
Acireale, meritò il nomignolo di "Sani 'u tram".
Il riccio più conosciuto è il
Paracentrodus lividus che vive sugli scogli, o entro cavità da esso
stesso scavate , coi cinque denti appuntiti che formano la
cosiddetta "Lanterna di Aristotele" .
_____________________
tratto da "Il Golfo di Catania
e i suoi pescatori" di Pippo Testa e Mimmo Urzì - Edizioni Greco,
Catania - 1992
A Catania le grandi patelle reali
madreperlacee, dette "occhi di bue" alle quali, anche dai sub, viene
data un'implacabile caccia, tant'è che il prezzo al chilogrammo
ormai supera cifre esorbitanti. Il mollusco viene consumato crudo,
ma più spesso arrostito sui carboni e condito col salmoriglio.
Lo squisito abalone e il
rischio del divieto assoluto di pesca
LIVORNO. Dal primo
febbraio in Sudafrica scatterà il divieto di pesca degli abaloni,
quelle che noi chiamiamo orecchie di mare, considerati una
squisitezza ed un potente afrodisiaco nel sud-est asiatico, dove
vengono importati in gran quantità, e per questo ormai ridotti
alla prossima estinzione.
Il divieto di raccolta e
pesca degli abaloni era stato annunciato nel novembre 2008 dal
ministro dell’ambiente e del turismo sudafricano Martinis van
Chalky, che nello spiegare la misura assolutamente necessaria
disse: «Sfortunatamente, siamo al punto che la pesca dell’abalone
selvatico non si può più giustificare, dato che la sua esistenza
si è ridotta ad un livello che la risorsa è minacciata di
estinzione».
Negli anni ’60 del secolo
scorso in Sudafrica si pescavano 2.800 tonnellate all’anno di
abaloni, nel 1970 vennero introdotte le quote fino ad un massimo
di 700 tonnellate all’anno, che vennero ulteriormente ridotte
nel 1995, fino ad arrivare nel 2006 e nel 2007 a 125 tonnellate.
Ma questo non ha impedito la raccolta illegale di queste grandi
orecchie di mare che sul mercato cinese, durante le festività
del nuovo anno, raggiungono i mille dollari al chilogrammo.
Per questo nel 2007 il
governo di Tshwane (come si chiama oggi Pretoria) ha chiesto al
Cites di introdurre questi molluschi nell’Appendice III delle
specie commerciali minacciate, richiedendo l’embargo di vendita
internazionale per gli abaloni sudafricani pescati illegalmente
e non certificati. Il Sudafrica ha anche iniziato un
pattugliamento delle coste per impedire la raccolta di frodo dei
molluschi, un’attività che impegna 170 uomini ed una ventina di
imbarcazioni, elicotteri ed aerei da ricognizione, con un costo
per le casse pubbliche di 3,2 milioni di dollari all’anno.
Ma neanche questo è riuscito
a fermare i bracconieri e lo stock di abaloni del Sudafrica è
calato drasticamente. Sfogliando i registri di confisca Cites si
scopre che gli abaloni pescati illegalmente sono moltiplicati in
maniera esponenziale tra il 1996 e il 2006. Nel 2007, è stato
confiscato almeno un milione di orecchie di mare sudafricane,
per un valore di circa 20 milioni di dollari, probabilmente solo
una piccola parte del traffico abusivo.
Ma le perplessità sul divieto
assoluto di pesca non convince tutti, nemmeno esperti ed
ambientalisti. Secondo quanto ha detto al The Cape Times una
ricercatrice dell’unità di valutazione ambientale
dell’università di Città del Capo, María Hauck, la sospensione
della pesca degli abaloni potrebbe provocare addirittura un
aumento della loro raccolta illegale.
«Il governo – spiega la Hauck
– ha alienato i diritti legali dei possessori di licenze, mentre
avrebbe dovuto allearsi con loro per gestire le risorse».Il
problema è infatti cosa faranno (e come reagiranno) le 800
persone che lavorano legalmente nel settore e che fanno un
fatturato annuo di 21 milioni di dollari. Con la ricercatrice
concorda addirittura Markus Bürgener, di Traffic, un network
mondiale sul controllo del commercio di risorse naturali al
quale aderiscono anche Cites e Wwf. «Se non si danno a questi
pescatori altre opzioni percorribili per potersi sostenere –
spiega Bürgener – il pericolo è che qualcuno tra loro ricorra
alla raccolta illegale. Questo è il lavoro che conoscono
meglio».
Il governo sudafricano pensa
di inserire i pescatori di abaloni nell’industria turistica, in
particolare nelle attività di whale-watching, ma anche di
realizzare, con un investimento di 15 milioni di dollari, 6
impianti di acquacoltura per allevare abaloni. Ma l’allevamento
in mare degli abaloni richiede 5 o 6 anni per raggiungere la
taglia commerciale (7 o 800 grammi) e anche se impianti del
genere esistono già in Sudafrica ed esportano oltre 180
tonnellate di prodotto all’anno, questa pratica presenta molti
rischi, ha alti costi di partenza, richiede personale
specializzato. Inoltre, è energivora ed ha bisogno di essere
supportata da generatori autonomi, perché in caso di
interruzione di corrente le orecchie di mare iniziano a morire
già dopo la prima mezz’ora. Ma l’acquacoltura pare l’unica
soluzione reale per allentare la pressione sugli abaloni
selvatici e salvarli dall’estinzione, impiegando le abilità dei
pescatori per distoglierli dalla cattura illegale di questi
molluschi.
Fonte: Greenreport
VARI
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