La miniminagghia è un indovinello, un gioco, un divertente passatempo. Potrebbe definirsi un cruciverba moderno, che diventa un vero e proprio rompicapo. ... Si tratta di na'dumanna di quattru righi, tanti voti abbastanti vaga, di cui lu litturi o chiddu chi ricivi la dumanna, havi a pruvari a nzirtari la risposta giusta. Pò èssiri anticchia schirzusa, ma nurmalmenti lu ndrizzu dâ dumanna è accussì vagu ca è assai difficili a nzirtarila; e sulu stu fattu cci basta p'èssiri nu passatempu divirtenti. Si chiama indovinello pi taliani e "riddle" pi ngrisi. (DA WILKIPEDIA)
C'era na vota un re bafè , biscottu e minè. Chi non ha mai sentito questa simpatica filastrocca ? Si tratta di una tra le più antiche e carine filastrocche siciliane, ben nota in tutta la nostra Isola. Spesso il testo varia, secondo la zona geografico-linguistica, incrementata anche con espressioni locali, talora ambigue o licenziose. Questi giochi di parole semplici facevano divertire parecchio nelle feste siciliane bagnate da abbondante vino. Vale la pena tentare una spiegazione a proposito dell’intercalare bafè, viscotta e minè, poi variamente modulato secondo strane rime baciate, insolite e bizzarre. Si parte da uno stranissimo re, che la fantasia popolare sembra aver creato come oggetto di scherno. Poco autoritario, poco determinato e soprattutto pronto a invalidare un bando regale, per motivi di opportunità familiare, reagendo anzi in un modo grossolano e plateale, nel mandare a… (al diavolo) il fituso pretendente della figlia. Più di un re simile nella storia siciliana c'è stato. Quello che si avvicina di più al personaggio della filastrocca potrebbe essere il famoso re arabo Miramolino , che tra l'altro aveva una figlia bellissima che amava tanto La principessa Nevara Mentre la parola bafè potrebbe risalire al francese bafuè, le cui pronunce sono pressoché analoghe e soprattutto di uguale significato. Il verbo di riferimento è bafuer 😊 irridere, canzonare, beffeggiare). Anche il nostro lessico locale possiede l’antico termine bafù, come attributo di ironia e dileggio dal quale deriva il termine abbuffuniari . Ed è ancora la lingua francese ad essere presente in questa filastrocca: è la volta dei baffi che caratterizzano l’aspetto del re. In particolare, i famosi “baffi ritti verso l’alto” riportati su disegni e immagini stilizzate, che mettono in ridicolo certi personaggi del primo medioevo. L’antico francese le denominava bigottes emmenèes (bigott emmnè), mentre bigottes emmêlées (bigott emmélè), erano detti i baffi “arruffati, incolti”. Ma nel caso nostro si tratta senz’altro di baffi “aguzzi”, accuratamente tirati all’insù che portavano pure i pascià arabi. Sappiamo bene che molte espressioni straniere entrate a diretto contatto col nostro linguaggio, sono state variamente alterate o modificate per essere adattate alle usanze locali e alle loro esigenze espressive. Nessuna meraviglia quindi se questa definizione, adattata al linguaggio siciliano, possa essere diventata “viscotta e minè”, d’altra parte, le uniche parole “caserecce” che trovano assonanza con i bigott emmnè, non potevano essere altro che i biscotti a punta (ad esempio quelli di mandorla, che sono a forma di cono). Anche l'uccello bafegghiu potrebbe derivare il suo nome dall'uccello afelio , un pennuto che come dice il nome secondo leggenda migrava nel punto più lontano della terra ogni anno , risultando quindi impossibile la sua cattura. Del resto la presenza di un uccello , con i doppi sensi che porta e le invenzioni verbali come bafigghia , biscotta e minigghia rendono la filastrocca tra le più divertenti della cultura siciliana. a cura di Ludum Scienze Center Catania. Ecco il testo completo:
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RE BAFE', VISCOTTU E MINE'
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C'era 'na vota un Re, bafè viscottu e minè, c'aveva 'na figghia bafigghia, viscottu e minigghia. |
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Sta figghia bafigghia viscottu e minigghia aveva n'aceddu bafeddu viscottu e mineddu |
Allura l'aceddu Bafeddu viscouttu e mineddu scappau bafau, Viscottu e abbulau! |
Ciancieva sta figghia, bafigghia viscottu e minigghia, vuleva l'aceddu bafeddu, viscottu e mineddu. |
Allura lu re, bafè, viscottu e minè, dissi: a cu' potta l'aceddu, bafeddu viscottu e mineddu |
ci rugnu me figghia, bafigghia viscottu e minigghia. |
Vinni vavusu, viscottu e minusu, puttau l'aceddu bafeddu viscottu e mineddu |
Ora ma runa a so figghia, bafigghia viscottu e minigghia? |
Pigghiatilla sta figghia Bafigghia viscottu e Minigghia. |
Iddi furunu filici e cuntenti ..... e nuautri arristamu 'ca sputazza n'de renti! |
Le tavole sono del pittore naif Gaetano Calogero (Catania, 1932), "il pittore di San Cristoforo" noto per il suo particolare apprendistato artistico: decoratore edile, impiegato nel restauro di chiese, egli ha avuto modo di osservare l'iconografia sacra, e, ispirandosi a quei modelli "alti", ha poi realizzato pitture votive di tipo popolare. Ma Calogero predilige anche la riproduzione dell'ambiente urbano. Questa fonte iconografica ispira la mostra ai Minoriti (visitabile sino al prossimo 13 maggio), intitolata "Com'erano, e sono, i quartieri di Catania", che permetterà di ripercorrere con la memoria le immagini dei rioni e degli antichi mestieri. "La pittura di Gaetano Calogero è un documento per la città, perché rappresenta luoghi che ormai forse non esistono più".
Fin
da ragazzini l’occasione del “gioco” si presenta sotto forma di “bische
volanti” sparse in piazze, mercati e agli angoli delle vie: con un paio di
dadi , una rudimentale roulette o un mazzo di carte, e l’aiuto di un “compare”,
iniziano i ragazzi al brivido del gioco.
Lasicilia.it
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La leggenda della Fonte di Aretusa
Aretusa era una delle ninfe che
stavano nell'Acaia (Grecia). Era ritenuta una ninfa bella, sebbene non
avesse mai aspirato ad avere la fama d'essere bella, anzi arrossiva
delle sue doti fisiche, e, se piaceva se ne faceva una colpa. |
Il Vicerè e la Baronessa verso la fine del XVI secolo divenne viceré ,don Marcantonio Colonna.Quando giunse a Palermo era già anziano;ma si innamorò perdutamente della nobildonna Eufrosina Valdaura moglie del nobile Calcerano Corbera e baronessa del Miserendino.Il marito e il suocero se la presero a morte con il viceré e durante un ricevimento pronunciarono minacce nei suoi confronti.Fu uno sbaglio.Il viceré temendo per la sua vita,non volle correre rischi e prese i suoi provvedimenti.Anzitutto fece arrestare il suocero della baronessa per debiti non pagati,che,detenuto nel carcere della Vicaria,morì in breve tempo.Restava ancora il marito.Un bel giorno fu invitato per una gita di piacere che si fece su di una galera del viceré e fece scalo a Malta.Un bel mattino il Corbera fu trovato ucciso.Dopo un breve periodo di lutto la baronessa celebrò i suoi amori con il viceré,che fece arredare alcune stanze su porta Nuova per i loro incontri amorosi e,per manifestare il suo amore,regalò al popolo una grande fontana nei pressi di piazza Marina,adorna di sirene,putti e creature marine dove spiccava l’immagine di una sirena bellissima che dai seni stillava acqua per gli assettati.In quella sirena tutti riconobbero l’effige della baronessa Eufrosina del Miserendino. |
Jana da Motta. nel 1409 la vedova Bianca di Navarra divenne Vicaria del regno,e l’anziano conte di Mòdica,Bernardo Cabrera,avrebbe voluto prenderla in sposa,per aumentare il suo potere,dato che era già Gran Giustiziere del Regno.La regina Bianca,però,non voleva sentirne;e allora il conte la inseguì per tutto il regno;la regina esausta si rivolse al suo fedele ammiraglio Sancio Ruiz de Livori,che catturò il focoso Giustiziere,e lo fece rinchiudere mel castello di Motta;dove al danno della prigionia si unì la beffa che ai suoi danni ordì una giovane donna di Motta Jana,che era una fedele e astuta damigella di corte della regina Bianca. D’accordo con l’ammiraglio Sancio,e ottenuto il permesso dalla regine,Jana si travestì da paggio,e si fece assumere al servizio del conte,entrando nelle sue grazie,e convincendolo a tentare un’evasione per riprendere i suoi tentativi di sposare la regina Bianca.Il conte abboccò all’amo;e una notte,fattolo travestire da contadino,la diabolica Jana lo fece calare da una finestra del castello,sostenendolo con una corda;ma ad un certo punto,Jana mollò la corda,e il povero conte cadde dentro una grossa rete,a bella posta preparata,dove rimase tutta la notte al freddo;e al mattino fu beffato dai contadini,che lo presero per un ladro,e lo derisero. Jana,riprese le sue vesti femminili,e rivelatasi chi era,lo fece inviare prigioniero al Castello Ursino di Catania,dove sbollirono definitivamente i suoi ardori per la regina Bianca. |
La Madonna dei Mirti. nella campagna di Villafranca Sicula (AG) esiste una chiesetta dedicata alla Madonna dei Mirti,la cui origine è spiegata da un’interessante leggenda locale.Un vecchio frate stava rientrando dalla questua al suo convento di Bugio,recando sul suo asinello due quadri sacri,di cui uno raffigurava la Madonna.Quando fu nei pressi del convento,si accorse di aver perduto il quadro che raffigurava la madonna:Subito tornò nei suoi passi,e ritrovò il quadro lungo la strada,dentro un cespuglio di mirti.Tornato al convento,raccontò agli altri frati la strana avventura che gli era capitata;ma,quando volle mostrare loro il quadro della Madonna,il quadro scomparve per la seconda volta;e fu ancora una volta ritrovato dentro il cespuglio di mirti,lungo la strada per Villafranca.Si capì allora che la Madonna voleva essere onorata proprio in quel punto;e così sorse la chiesetta campagnola della Madonna dei Mirti di Villafranca Sicula. |
Il clima della Sicilia Il racconto mitologico afferma che un giorno di primavera il Dio Plutone, re del mondo sotterraneo e fratello di Giove, sbucò in Sicilia dal lago di Pergusa; e rimase colpito dalla visione che apparve ai suoi occhi: in mezzo ai prati, la giovane Proserpina, assieme alle ninfe che la accompagnavano, raccoglieva fiori variopinti e profumati. Vederla, innamorarsene e rapirla, fu tutt’uno per Plutone; e se la portò giù agli inferi. Il ratto fu cosi subitaneo, che nessuno seppe dare indicazioni alla madre Cerere, che per tre giorni e tre notti ricercò Proserpina, per tutta la terra, facendosi luce di notte con un pino da lei divelto e acceso nel cratere dell’Etna. Alla fine dei tre giorni d’inutili ricerche, Cerere si adirò e cominciò a far soffrire gli uomini, provocando siccità, carestie e pestilenze. Gli uomini allora si rivolsero a Giove, supplicandolo di trovare una soluzione; e Giove risolse il problema, decidendo che Proserpina stesse per otto mesi, da gennaio ad agosto, sulla terra assieme alla madre; e per quattro mesi da settembre a dicembre, sotto terra col marito Plutone, determinando così l’alternanza di due sole stagioni nel clima della Sicilia. |
Billonia Personaggio popolare e pittoresco della Catania a cavallo tra due secoli, il XIX e il XX. Era una donna minuta, tutt’altro che sgraziata, era "la fioraia della Villa, sfiorita per conto suo, ma con la camicetta ostinatamente sfavillante di dorati lustrini" (Domenico Magrì). Andava anche su e giù per via Etnea "con i fasci di fiori di campo, le margherite, le rose, che offriva alle coppiette di fidanzati sperando di ricevere una ricompensa, e di sera si piazzava davanti ai teatri" (Pietro Nicolosi). In fondo, era un’immagine gentile con i suoi coloratissimi costumi ricchi di nastri, un’immagine che sotto i lustrini tentava di nascondere un’immensa povertà. Ma c’era anche un pizzico di femminile civetteria in quello strano abbigliamento! Andava spesso in giro con la madre "ma gli stenti le avevano rese uguali e sarebbe stato difficile capire, a vederle, chi di esse fosse la più vecchia" (Giuseppe Toscano Tedeschi). D’inverno trascorrevano gran parte delle giornate sui gradini della chiesa di San Biagio, in piazza Stesicoro, ma d’estate si trasferivano al giardino Bellini, sempre popolato di catanesi che accorrevano ad ascoltare i concerti della banda: e lì Billonia poteva raggranellare qualche soldino in più. Poi la madre morì, e poco dopo scoppiò il primo conflitto mondiale: "e, mentre il mondo dava addio ai divertimenti e alle spensieratezze di un tempo, neanche Billonia, la semplice e inutile fioraia, travolta dai tempi e dalla guerra, ebbe più motivo di sopravvivere"(Pietro Nicolosi). Nessuno la vide più. |
La leggenda della messa interrotta. Una strana leggenda è legata alla distruzione di Gulfi (Rg) nel 1299;e dice che i soldati francesi penetrarono nella chiesa dell’Annunziata,uccidendo tutti i fedeli che vi si erano rifugiati,e perfino il sacerdote che aveva in mano il calice per l’Elevazione,interrompendo la messa nel suo momento più solenne;e andarono a godere dei frutti del loro saccheggio,bivaccando per tutta la notte.Senonché alla mezzanotte precisa,si sentì sonare messa nella chiesa dell’Annunziata;ed ecco apparire il prete col calice in mano,seguito da tutti i fedeli che con lui erano stati assassinati.Spinti da una forza misteriosa,tutti i soldati francesi,li seguirono in chiesa,dove la messa riprese,dal punto preciso dove era stata selvaggiamente interrotta ;e,alla fine,un turbine impetuoso scosse con violenza la chiesa,e fece aprire una voragine,dove precipitarono tutti i soldati francesi,e il pavimento si richiuse su di loro. |
Perchè
la Sicilia si chiama così?
Il nome dell'isola è molto antico, risale
alla colonizzazione greca, che iniziò nell'VIII secolo a.C ; il popolo
più antico stanziato nell'isola fu quello dei Sicani, che abitava
originariamente la parte orientale dell'isola, finchè, nel II millennio
a. C. una popolazione certamente indoeuropea, quella dei Siculi, non
sospinse i Sicani verso l'interno dell'isola. I Greci chiamarono i
Siculi "Sikeloi",e l'isola cominciò ad essere chiamata
"Sikelia". La Sicilia è forse la terra più suggestiva ed
emozionante del Mediterraneo dove s'incontrano miti, leggende e
tradizioni millenarie che ne hanno fatto una delle culle della civiltà.
E' difficile poter affermare di conoscere a fondo questa splendida isola
di luce e natura. Più spesso se ne ha un'immagine stereotipata o da
cartolina per turisti mordi e fuggi. Sin dall'antichità più remota la
Sicilia è stata il teatro di ambientazione dei miti e delle leggende
delle civiltà mediterranee sui quali poi si sono sovrapposte le
tradizioni religiose. Attraverso queste nostre pagine, seppur riduttive,
desideriamo trasmetterVi il desiderio e la volontà di percorrerla in
lungo e in largo, di parlare con la sua gente, di ammirare e toccare i
suoi numerosi monumenti. La Sicilia è unica, come unico è il suo
popolo che ha saputo custodire e conservare la sua precisa
individualità culturale attraverso i secoli e attraverso le varie
dominazioni, dai Fenici, ai Greci, ai Bizantini, agli Arabi, ai
Normanni, agli Svevi, agli Angioini, agli Aragonesi, agli Spagnoli, ai
Sabaudi, agli Austriaci ed ai Borboni. Questa terra di cultura e di
gentilezza, è aperta a tutti i suoi visitatori con l'incanto della sua
eterna bellezza, con la maestà della sua storia, con lo splendore della
sua arte, con la magnificenza dei suoi monumenti, e sopratutto con la
cordialità del suo popolo. |
Il fiume di latte presso Catenanuova (En) ,in contrada Cuba,esiste ancora un’antica masseria,che nei tempi passati fungeva anche da albergo,e da stazione di posta,per chi si recasse a cavallo o in lettiga da Enna a Catania.Una lapide,posta sotto il balcone,ricorda che in quella stazione di posta pernottarono un re e una regina nel 1714,e un grande poeta tedesco nel 1787,Wolfgang Goethe,col suo compagno di viaggio,il pittore Crisoforo Kneip.Vale la pena di raccontare perché vi si sia fermata a pernottare una coppia regale nel 1714:ciò fu dovuto al marchingegno ideato dal cavaliere Ansaldi da Centùripe,che era il proprietario della masseria-albergo,e nutriva un grande desiderio di ossequiare personalmente il re Vittorio Amedeo II di Savoia,re di Sicilia dal 1713,che con la regina Anna d’Orlèanns si stava recando da Palermo a Messina,per tornare in Piemonte.Quando il corteo reale stava per giungere alla sua masseria,il cavaliere Ansaldi diede ad i suoi dipendenti uno stranissimo ordine;quello di versare nel torrentello vicino,tutto il latte che avevano munto quel giorno.Quando le avanguardie del re arrivarono al torrentello,si fermarono,perché non credevano ai loro occhi:davanti a loro c’era un fiume di latte! Esterrefatti ,corsero a comunicarne notizia al re,che,incredulo,volle assaggiare:e dovette riconoscere che i suoi cortigiani non avevano preso un abbaglio.Si fece avanti allora il cavaliere Ansaldi;il quale spiegò loro che egli era ricorso a questo espediente,per avere l’onore di ossequiare personalmente i reali di Sicilia;e,poiché si era già fatta sera,li pregò di pernottare,con tutto il loro seguito,nella sua masseria;e l’invito fu gradito al re,che al momento della partenza nominò l’Ansaldi,inventore del fiume di latte,Capitano onorario delle Guardie reali. |
Padre Celestino era un monaco di casa ripostese, in pratica di quelle persone che pur essendo laiche, fanno vita religiosa.Dei giovinastri locali, sapendo che padre Celestino, pur essendo "monaco di casa" era benestante, decisero di mettere le mani sul gruzzolo, ma non con una rapina o un atto di violenza, bensì in maniera del tutto "religiosa".Pertanto, una notte, si travestirono da angeli, con le camicie da notte lunghe fino ai piedi, e con le ali di cartone appiccicate alle spalle, scoperchiarono le tegole della casetta dove abitava padre Celestino, e gli calarono un paniere attaccato a una corda, mentre cantavano: <<O padre Celestino dice il buon Gesù/prima manda il gruzzoletto /e dopo sali tu!>>.Il povero "monaco di casa", nella sua ingenuità, abboccò all’amo; raccolse subito tutti i soldi che aveva, li mise nel paniere, si inginocchiò con le mani in croce, e….rimase aspettando. Passò del tempo; e quando quei bravi giovani pensarono che era di nuovo venuto il momento di ritentare l’impresa, rifecero tutto come la prima volta; si vestirono da angeli, calarono il paniere, cantarono la canzone; ma questa volta la canzone la sapeva anche padre Celestino; il quale, quando i presunti angeli finirono di cantare, rispose a sua volta, e con la stessa intonazione: <<O angeli beati/dite al buon Gesù/che mi ha fregato una volta/e non mi frega più!> |
Un santo straordinario il Santo Patrono di Noto è il piacentino Corrado Gonfalonieri, che si ritiro a vita eremitica a Noto, dove visse dal 1343, fino alla morte, avvenuta nel 1351.tra i suoi miracoli, c’è quello di avere allargato la sua grotta a forza di spallate; onde ancor oggi i Retini dicono nelle difficoltà: <<E chi sono io, san Corrado, che allargò la sua grotta a forza di spalle?>>.E le campane delle chiese, alla sua morte, il 19 febbraio 1351, suonarono da sole, per annunziare il trapasso; per cui i Retini lo considerarono santo prima ancora della canonizzazione pontificia; e pertanto incorsero nella censura della Curia romana, da cui furono liberati soltanto da papa Paolo III nel 1544, quando la Congregazione dei Riti ne autorizzò ufficialmente il culto come Beato; e papa Urbano VIII lo canonizzò nel 1615. |
La bella Angelina , la sua leggenda per spiegare il toponimo del comune di Francavilla di Sicilia (ME), una leggenda popolare racconta di una nobile fanciulla francavillese, Angelina, di cui si era innamorato il delfino di Francia; il quale, durante il Vespro, venne a rapirla nottetempo, per questo Angelina raccomandava alla sua fedele ancella Franca di vegliare (Franca, vigghia!), per essere pronte al momento dell’atteso segnale di partenza.La leggenda, in realtà, non è che un tentativo di spiegare etimologicamente il toponimo di Francavilla, che in siciliano suona appunto Francavigghia. |
La leggenda dei due fratelli per spiegare l’origine del monte Mojo (che si trova in provincia di Messina),che ha l’aspetto di un moggio,o di un immenso cumulo di grano,una leggenda locale parla di due fratelli,di cui uno era cieco,e l’altro era un volgare profittatore;il quale,al momento della spartizione del grano trebbiato,riempiva il moggio completamente quando toccava a lui,e lo capovolgeva,riempiendolo dal fondo,quando toccava al fratello cieco;e per di più gli faceva passare sopra la mano,per fargli capire che il moggio era ben colmo;e il fratello cieco,passando la mano sul misero mucchio,diceva:<<Se non vedo io,vede per me Iddio!>>.E il Signore ci penso lui,a fare le giuste vendette;perché,quando fu terminata la fraudolenta spartizione,una spaventosa folgore bruciò il fratello ladro,e trasformò l’enorme mucchio di frumento nel monte Mojo,che ancora si vede. |
La leggenda de la Zisa a Palermo,nel quartiere Olivuzza,c’è un grandissimo palazzo che assomiglia a un castello ed è chiamato La Zisa.In questa Zisa c’è una grande entrata,è fatta d’oro ed elegantemente affrescata;nel centro sta una fontana di marmo dalla quale sgorga acqua limpida e fresca,e nella quale si riflettono i mosaici dorati delle pareti.Alla Zisa c’è un incantesimo per via di un grande tesoro nascosto di monete d’oro. A tenere l’incantesimo,a guardia del tesoro,ci stanno i Diavoli,i quali non vogliono che sia preso dai Cristiani.Questo palazzo fu infatti costruito al tempo dei pagani, e sì ci custodivano i tesori dell’imperatore. All’entrata della Zisa ci sono dipinti dei diavoli:chi va a guardarli nel giorno della festa dell’Annunziata (25 di marzo) vede che essi muovono la coda,storcono la bocca,e non si finisce mai di contarli. C’è chi dice siano tredici, chi quindici, chi di più.Sono diavoli, ed appunto per questo non si fanno mai contare.Anche le monete non si sa quante siano e nessuno è mai riuscito a prenderle.Ma un giorno forse ci riuscirà a sciogliere l’incantesimo e allora finirà tutta la miseria di Palermo.E’ per questo che, quando una cosa non si può sapere con esattezza, si dice: <<E chi su, li diavuli di La Zisa>>! |
La storia di Mata e Grifone A Messina viveva una bella ragazza dalla grande fede cristiana, figlia di re Cosimo II da Casteluccio; il suo nome Marta in dialetto si trasforma in Matta o Mata. Verso il 970 dopo Cristo il gigante moro Hassan Ibn-Hammar sbarcò a Messina, con i suoi compagni pirati e incominciò a depredare nelle terre in cui passava. Un giorno il moro vide la bella fanciulla e se ne innamora, la chiede in sposa ma ottiene un rifiuto. Ciò provocò l'ira del pirata che uccise e saccheggiò più di prima. I genitori, preoccupati, nascosero Marta, ma il moro riuscì a rapirla con la speranza di convincerla a sposarlo. Marta non ricambiava il suo amore trovando nella preghiera la forza a sopportare le pressioni del moro. Alla fine, il moro si converte al cristianesimo e cambia il suo nome in Grifone. Marta apprezza il gesto e decide di sposarlo. La tradizione ci tramanda che furono loro a fondare Messina. |
Gli
scongiuri del popolo siciliano
Tra le credenze popolari c’è la convinzione che dei poteri
soprannaturali possono difendere e proteggere e per questo esistono vari
scongiuri: contro il malocchio, contro varie malattie come quelle degli
occhi e quelle esantematiche dei bambini, contro gli animali nocivi e le
tempeste e per le questioni amorose. Buona parte di queste credenze
popolari sono oggi raccolte nel Museo Etnografico Siciliano a Palermo,
Museo fortemente voluto da Giuseppe Pitrè. |
L'isola
Ferdinandea Fra
Pantelleria e Sciacca nel 1831 spuntò un’Isola vulcanica.I fenomeni
eruttivi si presentarono a metà luglio per cessare nei primi di agosto
quando l’isola raggiunse il suo massimo sviluppo. Nella parte nord
c’era il cratere con due bocche eruttive dalle quali uscivano i
materiali vulcanici. L'eruzione durava da mezz'ora ad un'ora ed era ad
intermittenza. Cessata l'eruzione, le due bocche del cratere si
riempirono di acqua marina formando due laghetti. L'analisi di questi
laghetti dimostrò che erano formati da acqua marina con sali ferrosi ed
idrogeno solforato. All'isola furono dati vari nomi (Sciacca, Nertita,
Corrao, Hotham, Giulia, Graham, Ferdinandea), ma ebbe una breve vita
perché, flagellata dalle onde, scomparire negli abissi. |
Gole
dell'Alcantara V'era un
tempo in cui il fiume Alcantara scorreva placido in un letto tranquillo,
senza scosse o ripide o Salti. E rendeva fertile la valle. Gli uomini
però erano malvagi: si danneggiavano tra loro e non rispettavano la
natura. Nella valle vivevano due fratelli che coltivavano insieme un
campo di grano. Uno
dei due era cieco. Al momento di spartire il raccolto il contadino sano
prese il mojo e si accinse a dividere il grano. Una misura per sè e una
per il fratello. Spinto dalla malvagità, però, si riservò gran parte
del raccolto.Un'aquila che volava sopra il loro campo vide e riferì
tutto al Signore che scagliò un fulmine contro l'imbroglione,
uccidendolo. Il fulmine colpì anche il mucchio di grano ingiustamente
accumulato che si trasformò allora in una montagna di terra rossa dalla
quale, sbuffando, usci un fiume di lava che arrivò fino al mare.
Leggenda tratta dal libro Al Qantarah |
Leggenda
del vascellazzu Grazie
ai Vespri siciliani Messina e Palermo si liberano dal dominio Angioino
chiamando come re della Sicilia, nell’ordine, Pietro III d' Aragona,
Giacomo e Federico II d'Aragona. Prima della pace di Caltabellotta, gli
Angioini cercarono di riconquistare le città perdute, soprattutto
Messina. Roberto D'Angiò, per conquistare tale città, mandò il suo
esercito a Catona e assediò Reggio Calabria, in modo da bloccare gli
aiuti per Messina che al momento era governata da Federico II D'Aragona.
La città soffriva una grossa crisi alimentare. Nicolò Palizzi suggerì
di andare da Alberto da Trapani, già considerato Santo per dei grandi
prodigi che aveva effettuato. Il giorno seguente, Federico II e la sua
corte si diressero alla Chiesa del Carmine in cui Sant'Alberto celebrava
la messa. Egli cominciò a pregare ed alla fine delle sue preghiere una
voce dal cielo gli confermò che le sue preghiere erano state esaudite:
si videro arrivare tre navi i cui equipaggi scaricarono del grano. I
messinesi si convinsero che le navi fossero state mandate dalla Madonna.
L’evento determinò la nascita della tradizione del
"vascelluzzo". Tutti corsero ai piedi del Santo per
ringraziarlo, lui li benedì e lì esortò a credere in Dio e nella
Madonna della Lettera. Qualche giorno dopo arrivarono altre quattro navi
cariche di vettovaglie. Roberto d'Angiò capì che non poteva più
sconfiggere la città per la fame e si convinse ad arrendersi e stabilì
un trattato di pace con Federico II D'Aragona La leggenda narra che in
quei giorni accadde un altro prodigio: una signora vestita di bianco
passeggiava sugli spalti delle mura con lo stendardo di Messina, un
francese lanciò una freccia contro di lei ma la freccia ritornò
indietro. Anche in questa occasione la Madonna della Lettera difese
Messina. Sant'Alberto morì nel 1307. Quando Federico II fece alloggiare
i suoi cavalli nel convento del Carmine, trasformando in stalla la
chiesa in cui era il Santo era sepolto, un male misterioso portò alla
morte i cavalli ed i soldati. Aprendo la tomba di Sant'Alberto, questi
fu trovato in ginocchio per chiedere la punizione per i profanatori. |
Il
ratto di Proserpina |
Le
donne di fora Chi voleva in casa una donna di fora doveva, prima della mezzanotte, ardere dell'incenso, foglie d'alloro e rosmarino. Le donne di fora non si lasciano vedere da nessuno, ma il loro passaggio è rivelato da sentori e da rumori impercettibili. Si vuole che le prime donne di fora ricevettero la potenza direttamente dal demonio, a cui per contratto diedero l'anima. La credenza vuole che le doti di una donna di fora devono essere la bellezza, il senso della giustizia, la virtù del silenzio e dell'ubbidienza |
Conte
di Cagliostro ( |
Lu
fusu di la vecchia (TP) |
La
cripta dei Cappuccini ( |
Origine
dei Pupi siciliani |
Il
fantasma del Teatro Massimo di Palermo
|
I
Beati Paoli ( I
membri di questa setta Furono giustizieri o sicari? Certamente l’uno e
l’altro contemporaneamente. Giustizieri, quando operarono per
vendicare delitti impuniti ed impedire soprusi; sicari, quando invece si
prestarono ad eseguire vendette personali o allorché si servirono
dell’alone di mistero che li circondava e dell’indubbio favore
popolare per compiere delitti comuni. Dalle scarse fonti a nostra
disposizione non possiamo fornire notizie per documentare
attendibilmente il loro operato, in ogni modo possiamo affermare che
questa setta sicuramente esistette, e costituì un vero e proprio
tribunale di giustizia, protettrice dei deboli e degli oppressi. La
setta agiva nell'ombra e nella massima segretezza per proteggere i
deboli e gli oppressi utilizzando un vero e proprio tribunale. Solo il
Marchese di Villabianca nei suoi " Opuscoli palermitani" cita
la setta segreta con il suo tribunale e i luoghi dove agiva. In questi
diari hanno attinto diversi autori tra cui il Linares ed il Natoli.
Quest'ultimo scrisse tra il 1909 e 1910 un romanzo d'appendice che era
regalato dal Giornale di Sicilia ai propri lettori. Il quartiere Capo,
intricato da ampie cavità sotterranee che fanno parte di un vasto
complesso cimiteriale cristiano. Il luogo dove si riuniva la fratellanza
dei Beati Paoli si trova nei pressi della chiesa di Santa Maruzza e il
vicolo degli orfani. La leggendaria grotta dei Beati Paoli, che fa parte
di un complesso di cavità di quello che era il letto naturale del fiume
Papireto, è ricavata nella sua sponda di sinistra in un grosso blocco
di calcarenite. Nei secoli, la grotta fu interessata, ora come luogo di
riunioni segrete (secondo quanto tramandatoci dalle tradizioni), ora
come immondezzaio privato, sfruttando la preesistenza dell’ipogeo, ora
come rifugio durante le incursioni aeree della seconda guerra mondiale. All'antro,
accessibile da nove gradini, si perviene attraverso un piccolo ingresso
che dà sul vicolo degli orfani dove sorge una vasca seicentesca con un
ninfeo in pietra lavica, alimentata da una vecchia torre d’acqua.
Accanto a lei, alla profondità di tre metri e mezzo, c’è un cunicolo
che porta ad altre due grotte, che sicuramente custodiscono nuovi
misteri. Durante i lavori di pulitura, sepolte nel terriccio che
ricolmava l’ingrottato, sono stati trovati diversi oggetti di
differenti epoche, ma la cosa che ha suscitato scalpore è il
ritrovamento di un puntale conico di ferro che altro non è che un
portafiaccola da parete, per il quale bisogna stabilire il periodo a cui
risale. Quest’ultimo ritrovamento richiama certamente a presupposti
sull’esistenza dei sectarij. Ma a dir del Villabianca alla fine del
settecento di quella terribile organizzazione “se n’era già perduta
la semenza”. Il Comune di Palermo, ha iniziato il recupero di tutta la
zona che interessa il complesso di palazzo Blandi, in vista d’inserire
il tutto in un nuovo itinerario nel circuito cittadino. Il percorso
potrebbe comprendere l’area che riguarda l’antico letto che solcava
il fiume Papireto, iniziando con la visita alle catacombe paleocristiane
del IV-V sec. dopo Cristo, proseguendo con la visita d’alcune cripte e
finendo con la leggendaria grotta dei Beati Paoli. |
Santa
Eustochia (ME) Esmeranda
Calafato nacque nel 1837 da una nobile e ricca famiglia messinese.
Nonostante fosse una ragazza dotata di rara bellezza non si interessava
del mondo, vivendo esclusivamente una intensa vita spirituale.
Nell'adolescenza un giovane signore si innamorò perdutamente della
ragazza e lei, per evitare tentazioni, scappò via di casa e andò in un
monastero, quello di Basicò, dove abbandonò il suo nome per prendere
quello di Eustochia; ma lei desiderava una vita più intensamente
spirituale e, per le sue idee, si scontrò con le altre suore che non la
pensavano come lei. Allora cominciò a chiedere con insistenza dei soldi
ad un ricco zio e, quando finalmente li ottenne, poté fondare il
monastero di Montevergine che ancora esiste nella via Ventiquattro
Maggio. Finalmente soddisfatta, Santa Eustochia visse qui come
desiderava fino all'età di 51 anni. Si
dice che lo spirito della Beata Eustochia avverta le suore della loro
prossima morte parecchie settimane prima: colei che si avvicina al sonno
eterno sente un rumore cupo e particolare: significa che la sua morte è
vicina. |
La
baronessa di Carini ( Nella
realtà, esistono dei documenti dai quali risulta che il Vicerè di
Sicilia, informa, all'epoca, la Corte di Spagna che il Conte Cesare
Lanza ha ucciso la figlia Laura e Ludovico Vernagallo. Questo documento
avvalora l'atto di morte della baronessa, redatto il 4 dicembre 1563 e
che si conserva nell'archivio della Chiesa Madre di Carini insieme a
quello di Ludovico Vernagallo. Non esiste, invece, alcuna prova che tra
Laura Lanza e Ludovico Vernagallo ci fosse qualcosa di diverso
dall'amicizia. Quindi Cesare Lanza di Trabia, complice il genero, uccise
per leso onore della famiglia, la figlia Laura e fece uccidere da un
sicario Ludovico Vernagallo. La
leggenda racconta che fu un frate del vicino convento, infatti, ad
informare il padre ed il marito della sposa, e questi, assieme,
freddamente meditarono e prepararono l’assassinio. Fu preparato
l’agguato e quando l’ignobile spia si accorse che i due amanti
stavano insieme, avvertì don Cesare Lanza, che corse nella stessa notte
a Carini, accompagnato da una sua compagnia di cavalieri, e fatto
circondare il castello, per evitare qualsiasi fuga dell’amante di sua
figlia, vi irruppe all’improvviso, e sorpresili a letto, li uccise.
L’atto di morte di Laura Lanza e Lodovico Vernagallo, trascritto nei
registri della chiesa Madre di Carini, reca la data del 4 dicembre 1563.
Nessun funerale fu celebrato per i due amanti, e la notizia della loro
morte, o per paura o per rispetto, fu tenuta segreta. La cronaca del
tempo lo registrò con estrema cautela senza fare i nomi degli uccisori,
scrive Luigi Maniscalco Basile, senza dire nemmeno che cosa era
accaduto, mentre il Paruta riporta il fatto nel suo diario, così:
"sabato a 4 dicembre. Successe il caso della signora di
Carini". Ma nonostante la riservatezza d’obbligo, la notizia si
divulgò lo stesso ed il "caso" della baronessa di Carini
divenne di dominio pubblico. Il viceré, appena venuto alla conoscenza
dei delitti, immediatamente adottò per don Cesare Lanza ed il barone di
Carini i provvedimenti previsti dalla legge; furono banditi ed i loro
beni vennero sequestrati. Don Cesare Lanza ancora una volta si rivolse a
re Filippo II; spiegò i motivi che lo avevano portato assieme al genero
a trucidare i due amanti ed avvalendosi delle norme, in quel tempo in
vigore, sulla flagranza dell’adulterio, chiese il perdono che fu
accordato. Liberato da ogni molestia, don Cesare Lanza riebbe i suoi
beni; ancora una volta la Giustizia non lo aveva neanche toccato e
giustamente, come scrisse il Dentici, "l’aristocrazia del tempo
era al di sopra delle leggi e della giustizia". Anche il barone di
Carini, marito di Laura, fu assolto con formula piena, e visse
indebitato sino alla sua morte, dopo avere portato al Monte dei Pegni
gli ultimi gioielli della sua famiglia. |
I
nati di venerdì |
Il castagno dei cento cavalli. Celebre per le sue dimensioni è in Sicilia il "castagno dei cento cavalli" situato sulle pendici dell'Etna, nel territorio di Sant'Alfio. Si narra che, nel XVI secolo, Giovanna d'Aragona, sorpresa da un temporale mentre si stava recando a Napoli proveniente dalla Spagna, trovò riparo con tutto il seguito, composto di cento cavalieri, sotto le fronde del grande castagno. Sebbene il tronco principale sia bruciato nel 1923, quel castagno appare ancora gigantesco: i suoi attuali quattro polloni hanno una circonferenza complessiva di 50 metri. |
Artù nell'Etna Lo Re Artù k'avemo perduto, Cavalieri siamo di Bretagna ke vegnamo de la montagna, ke l'omo appella Mongibello. Assai vi semo stati ad ostello per apparare ed invenire la veritade di nostro sire lo Re Artù, k'avemo perduto e non sapemo ke sia venuto. Or ne torniamo in nostra terra ne lo reame d'Inghilterra La poesia, e’ di un autore duecentesco noto come Gatto Lupesco,un nome piuttosto pittoresco che ricordera’ da vicino altre simbologie in italia , legate al mitico rex. La leggenda di Artù nell'Etna è riportata anche negli Otia Imperialia dell'inglese Gervase di Tilbury (XII secolo), il quale l'aveva appresa sul luogo intorno al 1190. La storia della Fata Morgana La leggenda ci tramanda che, dopo aver condotto suo fratello Artù ai piedi dell'Etna, Morgana si trasferisce in Sicilia tra l'Etna e lo stretto di Messina, dove i marinai non si avvicinano a causa delle forti tempeste, e si costruisce un palazzo di cristallo. Sempre in base alla leggenda, Morgana esce dall'acqua con un cocchio tirato da sette cavalli e getta nell'acqua tre sassi, il mare diventa di cristallo e riflette immagini di città. Grazie alle sue abilità, la Fata Morgana riesce ad ingannare il navigante che, illuso dal movimento dei castelli aerei, crede di approdare a Messina o a Reggio, ma in realtà naufraga nelle braccia della fata. |
La Fata Morgana in realtà non è altro che un fenomeno ottico che si ammira spesso nello stretto di Messina e nell'isola di Favignana a causa di particolari condizioni atmosferiche. Guardando da Messina verso la Calabria, si vede come sospesa nell'aria l'immagine di Messina e, viceversa, guardando da Reggio Calabria verso Capo Peloro, si vede nello stretto Reggio. |
La leggenda del cavallo senza testa. Nasce nella Catania del 700. Leggenda ambientata nella Via Crociferi ed in passato residenza di nobili che vi tenevano i loro notturni incontri o intrighi amorosi che dovevano esser tenuti nascosti. Quindi, essi fecero circolare la voce che di notte vagasse un cavallo senza testa, voce che intimorì la cittadinanza ed impediva alle persone di uscire di casa una volta calate le tenebre. Soltanto un giovane scommise con i suoi amici che ci sarebbe andato nel cuore della notte, e, per provarlo, avrebbe piantato un grosso chiodo sotto l’Arco delle Monache Benedettine. Gli amici accettarono la scommessa ed il giovane si recò a mezzanotte sotto l’arco delle monache, e vi piantò il chiodo ma non si accorse di avere attaccato al muro anche un lembo del suo mantello, quindi, quando volle scendere dalla scala, fu impedito nei movimenti e, credendo d’esser stato afferrato dal cavallo senza testa, morì. Pur vincendo la scommessa, la leggenda fu confermata. |
U Liotru - l ’elefante di Catania Il simbolo di Catania dal 1239 è legato ad un’antica leggenda legata alla sua origine. Questa leggenda narra che quando Catania fu abitata per la prima volta, tutti gli animali feroci furono allontanati da un elefante al quale i catanesi, per ringraziamento, eressero una statua, da loro chiamata “liotru”, correzione dialettale del nome Elidoro, un dotto catanese dell’VIII secolo bruciato vivo nel 778 dal vescovo di Catania San Leone II il Taumaturgo, perché, non essendo designato vescovo della città, disturbava le funzioni sacre con magie, tra cui quella di far camminare l’elefante di pietra. Diverse ipotesi sono state fatte per spiegare l’origine e il significato di tale statua, oggi visibile in Piazza Duomo. Di queste ipotesi, due sono meritevoli di menzione: quella dello storico Pietro Carrera da Militello che lo spiegò come simbolo di una vittoria militare dei catanesi sui libici; quella del geografo arabo Idrisi nel XII secolo secondo la quale l’elefante è una statua magica costruito in epoca bizantina per allontanare da Catania le offese dell’Etna. |
Pietra del mal consiglio. Ricorda gli eventi legati alla morte di Ferdinando il Cattolico (23 gennaio 1516), quando il viceré Ugo Moncada rifiutò di lasciare la carica e scatenò una guerra civile partì da Palermo e che funestò la Sicilia per tre anni. A Catania, dove la rivolta aveva numerosi seguaci, i nobili ribelli scelsero per le loro riunioni un giardino nel piano dei Trascini vicino un capitello dorico e un pezzo di architrave, entrambi in pietra lavica.La lotta continuò finche i fautori del Moncada non furono sconfitti. Il nuovo viceré, Ettore Pignatelli, stroncò le ribellioni colpendo direttamente e ferocemente i responabili. Il Senato della città, a ricordo di questi avvenimenti, spostò i due avanzi lavici: il capitello, da allora chiamato "Pietra del mal consiglio" fu innalzato nel piano della Fiera (oggi Piazza Università) mentre l’architrave fu sistemata all’ingresso del palazzo della Loggia. La pietra del mal consiglio nel 1872 fu posta nella corte del Palazzo Carcaci ai Quattro canti. L’architrave si trova nel cortiletto posteriore del teatro Massimo Bellini. |
La grotta delle Palombe o delle Colombe La Grotta delle Colombe si trova a Santa Maria La Scala (frazione di Acireale, in provincia di Catania) e raccoglie due leggende. In base alla prima tale grotta era il rifugio segreto dei due innamorati Aci e Galatea. L'altra racconta la storia della ninfa Ionia che curava dei colombi che ogni inverno si rifugiavano in questa grotta. Purtroppo altre ninfe invidiose ne ostruirono l'entrata facendo morire i colombi e suscitando la disperazione della ninfa che fece crollare la grotta rimanendo seppellita insieme ai suoi amici.
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Il terremoto del 1693 A questo cataclisma sono legate due leggende catanesi: quella di "Don Arcaloro" e quella del vescovo Carafa. La prima narra che nella mattina del 10 gennaio 1693 si presentò al palazzo del barone catanese Don Arcaloro Scamacca una fattucchiera locale che gridò a Don Arcaloro di affacciarsi perché gli doveva dire una cosa di grande importanza. Don Arcolaio ordinò che la facessero salire. La vecchia strega confidò al barone che quella notte aveva sognato Sant’Agata che supplicava il Signore di salvare la sua città dal terremoto, ma il Signore a causa dei peccati dei catanesi rifiutò la grazia. Il Barone si rifugiò in aperta campagna, dove attese che la profezia della strega si verificasse. Un vecchio quadro settecentesco di Salvatore Lo Presti rappresenta il barone con l’orologio in mano in attesa dell’evento. La seconda leggenda è quella del vescovo di Catania Francesco Carafa, capo della diocesi dal 1687 al 1692. La leggenda dice che questo vescovo, mediante le sue preghiere, era riuscito per ben due volte a tenere lontano dalla sua città il terremoto. Ma nel 1692 egli morì e l’anno dopo Catania fu distrutta. L’iscrizione posta sul suo sepolcro ricorda proprio tale evento ed il ruolo incisivo delle sue preghiere. |
Cola
Pesce Quando
crebbe e divenne un ragazzo svelto e muscoloso, la sua gioia era
d'immergersi profondamente nell'acqua e, quando vi si trovava dentro, si
meravigliava anche lui come non sentisse il bisogno di ritornare alla
superficie se non dopo molto tempo. Poteva rimanere sott'acqua per ore e
ore, e quando tornava su, raccontava alla madre quello che aveva visto:
dimore sottomarine di città antichissime inghiottite dai flutti, grotte
piene di meravigliose fosforescenze, lotte feroci di pesci giganti,
foreste sconfinate di coralli e cosi via. La famiglia, a sentire queste
meraviglie, lo prendeva per esaltato; ma, insistendo egli a restar fuori
di casa, senza aiutare i suoi fratelli nella dura lotta per il pane, e
vedendo che egli passava veramente il suo tempo dentro le onde e sotto
il mare, come un altro se ne sarebbe andato a passeggiare per i campi,
si preoccupò e cercava di scacciare quei pensieri strani dalla testa
del figliuolo. Cola amava tanto il mare e per conseguenza voleva bene
anche ai pesci: si disperava a vederne le ceste piene che portavano a
casa i suoi fratelli, ed una volta che vi trovò dentro una murena
ancora viva, corse a gettarla nel mare. Essendosi la madre accorta della
cosa, lo rimbrotto acerbamente: –
Bel mestiere che sai fare tu! Tuo padre e i tuoi fratelli faticano per
prendere il pesce e tu lo ributti nel mare! Peccato mortale è questo,
buttare via la roba del Signore. Se tu non ti ravvedi, possa anche tu
diventare pesce. Quando
i genitori rivolgono una grave parola ai figli, Iddio ascolta ed
esaudisce. Così doveva succedere per Nicola. Sua madre tentò di tutto
per distoglierlo dal mare, e credendolo stregato, si rivolse a santi
uomini di religione. Ma i loro saggi consigli a nulla valsero. Cola
seguitò a frequentare il mare e spesso restava lontano giorni e giorni,
perché aveva trovato un modo assai comodo per fare lunghi viaggi senza
fatica: si faceva ingoiare da certi grossi pesci ch'egli trovava nel
mare profondo e, quando voleva, spaccava loro il ventre con un coltello
e cosi si ritrovava fuori, pronto a seguitare le sue esplorazioni. Una
volta egli tornò dal fondo recando alcune monete d'oro e cosi continuò
per parecchio tempo, finché ebbe ricuperato il tesoro di un'antica nave
affondata in quel luogo. La
sua fama crebbe tanto, che quando venne a Messina l'imperatore Federico,
questi volle conoscere immediatamente lo strano essere mezzo uomo e
mezzo pesce. Egli
si trovava su di una nave al largo, quando Cola fu ammesso alla sua
presenza. -
Voglio esperimentare – gli disse l'Imperatore – quello che sai fare.
getto questa coppa d'oro nel mare; tu riportamela. -
Una cosa da niente, maestà, fece Cola, e si gettò elegantemente nelle
onde. Di
lì a poco egli tornò a galla con la coppa d'oro nella destra. Il
sovrano fu cosi contento che regalò a Cola il prezioso oggetto e lo
invitò a restare con lui. Un
giorno gli disse: -
Voglio sapere com'è fatto il fondo del mare e come vi poggia sopra
l'isola di Sicilia. Cola
s'immerse, stette via parecchio tempo; e quando tornò, informò
l'Imperatore. –
Maestà, – disse – tre sono le colonne su cui poggia la nostra
isola: due sono intatte e forti, l'altra è vacillante, perché il fuoco
la consuma, tra Catania e Messina. Il
sovrano volle sapere com'era fatto questo fuoco e ne pretese un poco per
poterlo vedere. Cola rispose che non poteva portar il fuoco nelle mani;
ma il sovrano si sdegnò e minacciò oscuri castighi. -
Confessalo, Cola, tu hai paura. -
Io paura? – ribatté il giovane – Anche il fuoco vi porterò. Tanto,
una volta o l'altra, bisogna ben morire. Se vedrete salire alla
superficie delle acque una macchia di sangue, vuol dire che non tornerò
più su. Si
gettò a capofitto nel mare, e la gente stava, ad attendere col cuore
diviso tra la speranza e la paura. Dopo una lunga inutile attesa, si
vide apparire una macchia di sangue. Cola
era disceso fino al fondo, dove l'acqua prende i riflessi del fuoco, e
poi più avanti dove ribolle, ricacciando via tutti i pesci: che cosa
successe laggiù? Non si sa: Cola non riapparve mai più. Qualcuno
sostiene ch'egli non è morto e che è restato in fondo al mare, perché
si era accorto che la terza colonna su cui poggia la Sicilia stava per
crollare e la volle sostenere, cosi come la sostiene tuttora. Ci sono anche di quelli che dicono che Cola tornerà in terra quando fra gli uomini non vi sarà, nessuno che soffra per dolore o per castigo. www.colapisci.it |
Peppa 'a Cannunera La
rivolta garibaldina a Catania - L'intervento di Peppa 'a cannunera
salvò l'insurrezione contro i Borbone alla fine di maggio 1860 «Peppa», olio su tela (1865) di Giuseppe Sciuti distrutto nell´incendio del municipio di Catania . La Sicilia, Domenica 30 Maggio 2010
“U sugghiu”: chi è il mostro delle acque siciliane La leggenda lo descriverebbe come una creatura ibrida, un mostro dall’aspetto inquietante che abiterebbe le paludi e le zone costiere della Sicilia. Se immergendovi in prossimità della costa o, ancora, se nuotando spensierati in laghi e acquitrini siciliani, vi capitasse di percepire la strana presenza di una creatura misteriosa alle vostre spalle, potreste esservi imbattuti nel “sugghiu”. Creatura ibrida dall’aspetto temibile e orripilante, questo strano mostro abiterebbe le acque paludose e marine della Sicilia, incutendo timore e latrando come un cane rabbioso. A quanto pare, quindi, il celeberrimo lago di Loch Ness, in Scozia, non sarebbe l’unico a poter vantare la presenza di un enigmatico essere, che, emergendo come Nessie dalle acque, alimenterebbe il mistero e nutrirebbe il folclore locale. Si tratta solo di una leggenda, naturalmente, eppure le voci su questa fantomatica creatura avrebbero assunto nei secoli contorni sempre più definiti, fino a entrare a pieno titolo nel bagaglio di storie popolari e forgiando anche alcuni curiosi modi di dire. La particolarità di quest’essere si celerebbe, innanzitutto, nella sua natura ibrida, che gli conferirebbe un aspetto disgustoso e agghiacciante. Si narra, in effetti, che esso abbia il viso d’uomo, che a tratti somiglierebbe anche a un topo, con occhi feroci e una lunga criniera sul collo. Il suo corpo, poi, sarebbe ricoperto da robustissime squame, che lo renderebbero quasi indistruttibile. Il mostro emetterebbe un terribile urlo, misto al latrato di un cane e al ragliare degli asini, grazie al quale riuscirebbe ad attrarre gli animali intorno a sé per poi divorarli tutti in una volta. Sebbene le voci popolari raccontino di numerosissimi avvistamenti in prossimità delle coste siciliane e nei pressi di zone lagunari e acquitrini, nessuno avrebbe mai avuto il coraggio di affrontarlo, se non un ardito cacciatore, che, tuttavia, avrebbe fallito miseramente. Le dicerie popolari raccontano come i primi avvistamenti del “sugghiu” sarebbero da collocare nel 1800, secolo in cui la misteriosa creatura avrebbe fatto numerose apparizioni tra Messina e Palermo, con precisione lungo la costa tirrenica o, ancora, nei comuni della Valle dell’Alcantara, a Brolo, nei boschi delle Madonie e in alcune contrade palermitane. A nutrire la curiosità e a infittire il mistero sarebbe, tuttavia, un avvistamento ben più vicino nel tempo, risalente alla primavera degli anni Ottanta, quando a Torre Archirafi, in provincia di Catania, alcuni testimoni garantirono di aver visto l’orrendo mostro. Le cronache locali giurarono, in quell’occasione, di aver assistito alla comparsa di un orripilante creatura, giunta lì per divorare un vitello preceduta dal consueto urlo sovrumano. Sono molte, naturalmente, le spiegazioni razionali che potrebbero gettar luce, una volta per tutte, su questo mistero. “U sugghiu”, in effetti, non potrebbe che essere altro che un serpente di considerevoli dimensioni o una grossa iguana non autoctona, abbandonata in Sicilia da qualche viaggiatore ottocentesco. Fatto sta, comunque, che la credenza sul mostro di Loch Ness nostrano è talmente radicata nel folclore locale da aver forgiato persino alcuni modi di dire. Se dovesse capitarvi, quindi, che qualcuno si rivolga a voi, dicendovi “assumigghi a nu sugghiu da Turri”, avrete buone ragioni per offendervi, poiché starà paragonando il vostro aspetto a quello orripilante e sgradevole del mostro.
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C'era una volta una principessa greca di nome Filide che si innamorò di Acamante, valoroso figlio di Teseo. Quando
gli Achei partirono alla volte di Troia anche lui, giovane e forte
guerriero si unì alla spedizione.
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credendo che il suo amato non avrebbe più fatto ritorno dalla guerra. Acamante, però non era morto. Solo innumerevoli traversie ne stavano ritardando il rientro dopo che, caduta Troia, la flotta achea aveva issato le vele per rientrare in patria. Ma quando finalmente giunse era già troppo tardi: la sua amata Filide era già morta. Sulla spiaggia, però, là dove lei aveva trascorso lunghe ore di tristezza e di pianto, Acamante trovò uno snello albero di mandorlo. Preso anche lui dalla disperazione e dallo sconforto, abbracciò ed accarezzò il tronco, perso nel ricordo del suo amore, all'improvviso la pianta si coprì di fiori candidi e profumati.
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