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La Fiera dei Morti 2024 si terrà nel parcheggio scambiatore Fontanarossa dell’Amts - CLICCA QUI

Visite ai defunti: ecco come muoversi a Catania. Orari di apertura, trasporti, celebrazioni e circolazione: tutte le informazioni su tre giorni complicati

 

La mappa del Cimitero di Catania

 

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  IL MUSEO MONUMENTALE

DEL CIMITERO DI CATANIA

 

 

 

LA HALLOWEEN DI CASA NOSTRA

Mimmo Rapisarda - novembre 2004

 

La tradizione vuole che nella notte fra l’1 e il 2 novembre le anime dei defunti lascino le loro nicchie e scendano in città a rubare ai più ricchi pasticcieri, mercanti, sarti, per far regali ai bambini dei loro parenti che siano stati buoni nell'anno e che li abbiano pregati. E la preghiera fanciullesca è questa:

"Armi santi, armi santi, sugnu unu e vuatri síti tanti: Mentri sugnu 'ntra stu munnu di guai, cosi di morti mittitimìnni assai.".

In realtà i derubati sono papà e mamma, e i nonni. Ricordo ancora l’operetta che mettevano in scena i miei genitori la notte prima.

Dopo aver acquistato i giocattoli per me e mio fratello già sotto le coperte, i nostri genitori  ci facevano capire che all’ingresso di casa arrivavano i parenti defunti con i doni da mettere ai piedi del letto. Mentre loro attuavano questa recita, noi battevamo i denti dal terrore facendo attenzione a non gridare perché era una mancanza di rispetto verso i morti che, offesi, avrebbero potuto non regalarci proprio niente. Il mio sonno arrivava tardi, memore di quello che dicevano i miei compagni di scuola "Stanotti venunu i parenti motti e ti rattuni i peri!" (stanotte vengono i parenti morti e ti grattano i piedi).

La mattina dopo, al risveglio, con timore mi affacciavo sotto il letto per vedere cosa mi avevano lasciato questi morti. Io ci avrei rinunciato tranquillamente ai giocattoli, sapendo che arrivavano dall’aldilà, ma dovevo farlo.

Impiegavo almeno dieci minuti prima di vedere che c’era sotto il letto. Mi immaginavo di vedere all’improvviso lo scheletro di mia nonna che mi porgeva, sorridente, la pista Politoys dicendomi "ioca, beddu da nanna" (gioca, nipotino bello di nonna tua).

Comunque, anche se ricca di tradizioni, era un’usanza macabra che oggi farebbe imbestialire qualsiasi pediatra o psichiatra infantile. Purtroppo, per ottenere i giocattoli dovevamo superare questa difficilissima prova alla “Dario Argento”. Ma il sadismo dei genitori nel terrorizzarci non si limitava ai giocattoli. Infatti l’indomani, mentre giocavamo, ci facevano mangiare i dolci tipici di questa ricorrenza: le rame di Napoli al cioccolato, i Totò, le n’Zulle e le immancabili "ossa 'i mortu": macabri dolcetti a forma di teschio, tibia, femore di pasta bianca che subito si sfarinava sotto i denti, proprio come ossa calcinate; il tutto deposto su uno strato di pasta croccante e marroncina: la bara!

 

 

Dai ricordi dei miei zii e dei miei nonni, quando ai tempi della guerra e del dopoguerra un giocattolo era considerato un capriccio ed era già un’impresa portare il pane a casa, i doni dei morti ai bimbi erano costituiti soltanto da pere e mele cotte, scarpe, abiti e fucili fatti col cartone. Ed era un sacrificio per i genitori, ma forse era meglio così.

Ma ai miei tempi, l’indomani era già festa! Gli spettri della notte li avevamo già dimenticati e le strade sembravano quelle di Kansas City: spari ovunque, con lo sceriffo (u cchiu spettu) che spadroneggiava sui cowboy “babbi” e le bambine che davano terra da mangiare, a mo’ di pappa, alle loro nuove figlie-bamboline.

Gli odierni sessantenni, ex bambini degli anni Settanta, si ricorderanno certamente della fiera con le ambite  meraviglie che vendevano a Piazza Vittorio Emanuele a Catania, mai chiamata così perché per tutti era “a chiazza de motti” proprio perché lì, nella notte dell’1 novembre, si vendevano i giocattoli per i propri figlioletti.

Allora non esisteva internet, whatshapp, Sky e tutti i marchingegni di adesso. C’era solo la Rai con il primo e il secondo canale; nessun'altra alternativa a parte Carosello, il maestro Manzi, Bice Valori e Bruno Canfora.

Ma c’erano anche i Fort Alamo in miniatura, marines e indiani di plastica, strumenti musicali che non funzionavano affatto e cineprese dal complicato funzionamento che oggi getteremmo nel cestino dopo quattro nanosecondi!

Ah, no, c’era anche il cinema: Dove osano le aquile, James bond, Soldati a cavallo, la battaglia di Inghilterra, Dio perdona io no, Ammazzalo per me, Il massacro di Fort Apache e i capolavori di Sergio Leone. Questo fenomeno  influenzava la società di quei tempi; pertanto, generazioni di bambini, genitori compresi, cercavano di emulare le gesta di Gringo, Rin Tin Tin, James Bond e Patton andando a cercare nelle bancarelle le stesse armi appartenute a commissari sfreccianti su bellissime Alfa Romeo o a pistoleri dal nome strano ma che vivevano a Trastevere. Per questo motivo, la maggior parte dei giocattoli era costituita da una fabbrica di guerra che sparava solo coi mitici .... caps, come li chiamavano a Catania! Erano capsule di plastica contenenti non so quale polvere per far sparare a salve. Caps, gommini o fulminanti!

Quindi, alla festa dei Morti, ai maschietti veniva regalato tutto un corredo da bandito del West con cappelli texani fatti di cartone e poi foderi, cinture finte e pistole, fucili, mitra, soldatini a forma di Tex Willer e fortini che ricordavano il Gen. Custer e Geronimo.

Il 3 si sparava ancora, eccome. Il 4 novembre, invece, era il giorno in cui si visitavano le caserme aperte al pubblico e si faceva addirittura la fila per visitarle guardando in diretta il cambio della guardia. Poi si saliva a bordo delle navi militari che arrivavano al porto per sedersi al sedile del cannoniere o del nostromo. Oggi questa cosa farebbe quasi ridere, ma allora la giornata della Forze armate significava qualcosa. Ma il 4 era anche la giornata particolare che con mio fratello attendevamo con ansia, perché potevamo finalmente prendere possesso dei “doni della nonna”.

Perché solo al 4 novembre? Perché finalmente mio padre sazio delle sue sparatorie. Nei giorni precedenti dovevamo giocare con altro perchè le armi le maneggiava solo lui, consumando strisce e strisce di “caps” e immaginandosi Gringo, James Bond o un agente sovietico (personaggio da lui molto ambito) in film di controspionaggio molto in voga negli anni Sessanta.

Affascinato anche lui dal cinema, si riprendeva i regali che ci aveva fatto - ho il vago sospetto che i giocattoli, alla Fiera dei Morti, se li scegliesse personalmente - e cominciava a sparare, sparare, sparare. Sbucava all’improvviso, inginocchiato, da dietro il letto e ci fulminava alle spalle dicendoci "morite, canaglie!"! Poi ci faceva gli agguati dietro alle porte, come un po’ faceva Sordi quando imitava Jean Gabin in Costa Azzurra. Noi lo guardavamo rassegnati e con gli occhi al cielo, aspettando la consegna delle armi. Niente!

Dopo aver scaricato tutta l'artiglieria, come un bambino vergognato ci riconsegnava l’arsenale, ancora fumante, per farci finalmente giocare. Cazziato da mia madre e appagato dalle stragi consumate nei corridoi di casa, sollevava la bandiera bianca lasciandoci le munizioni rimaste. E lì era un bel guaio, perché i Caps, nei giorni a seguire, diventavano praticamente introvabili! Spariti! Ma chi li costruiva, chi li produceva? Quindi dovevamo far sparare quelle pistole, che poi duravano solo due mesi, cercando di imitare il rumore dello sparo con le nostre bocche.

E’ un rapporto strettissimo quello che lega i catanesi ai propri cari estinti tant'è che per l'occasione in Sicilia viene allestita un fiera ad hoc (fiera dei morti, appunto) dove ci si muove tra bancarelle che offrono merce di scadente natura, ma soprattutto giocattoli per "i picciriddi".

A Catania la chiamano Fiera dei Morti. Un luogo storico che, a dire il vero, è sempre stata a Piazza Carlo Alberto, dove si svolge anche "a fera 'o luni" (fiera del lunedì), quotidiano mercato ortofrutticolo e pescheria all'aperto che tuttora conserva l'antico nome poiché si svolgeva solo di lunedì. Ma non è più la stessa cosa. L’altro ieri ci sono andato e come ogni anno, dopo averla visitata, con delusione mi riprometto di non ritornarci più e invece, come tutti i miei concittadini, ci ricasco.

Ogni 31 di ottobre, frotte di catanesi di qualsiasi ceto sociale si scaraventano in massa alla Fiera dei Morti, una volta ubicata alla Plaja, un’altra volta al porto, un’altra alla Villa Bellini, un’altra all’aeroporto.

Tutti ci vanno con la baldanza di chi sta per fare l’affare della vita ma, puntualmente, trovano le stesse cose presenti in ogni mercatino rionale italiano: romagnoli che cucinano Fiorentine; frittate con l’ultima bistecchiera;  brasiliani che vendono i prodotti dei pellerossa; argentini che vendono dubbi tappeti persiani;  napoletani che vendono DVD e CD contraffatti sparando ad alto volume l’ultimo successo di Nino D’Angelo o di Gigi Finizio.

I catanesi ci stanno bene in quella bolgia e, "calando" dai loro quartieri, sono capaci di girare per più di un’ora per cercare un posto per l’auto, arrendendosi alla fine agli spietati ricatti dei parcheggiatori abusivi. Già stanchi dopo pochi minuti, si infileranno  in quel girone dantesco e puzzolente di patate fritte, olio, pizze a taglio andate a male, ma pieno di croccante "catanesità" all’inverosimile, tanto liotrica che farebbe risvegliare dalla tomba Nino Martoglio per scriverci una delle sue commedie.

Mi avvicino ad una di quelle bancarelle che offrono di tutto, dal Bacardi al panino con mille specialità da farsi venire l’intossicazione. Attendo la mia bevanda e all’improvviso sento in perfetto accento catanese "Ciao m’bare… n’cafè". Mi volto e vedo alle mie spalle due "vu cumprà" senegalesi alti due metri, neri neri, che rivolgono quel "ciao compare: un caffè" al barman. Sentirli parlare in dialetto è davvero uno spasso! Loro lo sanno e lo fanno apposta! Mentre mi appresto a pagare, un gruppo di ragazzi stanno portando alla cassa le vettovaglie per la gita dell’indomani (immancabilmente …. ‘o Milu!). Hanno anche otto ciambelle di pane da più di un chilo ciascuna, i cosiddetti "cucciddati". Scherzando, dico a uno di loro: "Ma a che vi serviranno mai domani tutte queste ciambelle? Quanti siete, una trentina?" E il ragazzo catanese, con una risposta bruciante mi indica le ciambelle e iniziando a contarle dice: "Semu ottu: Iu, Ninu, Arazzio, Melo, Turi, Pippo, Giuvanni e Cicciu."

Nella zona mobili c’è l’antiquario napoletano che cerca di vendere qualcosa di antico, ma non sa chi ha di fronte: "Anticu? Tu si anticu! Chissu vecchiu è!". E ancora: "a n'euru, a n'euru!", che non si capisce se vende a un euro o invoca un'ambulanza per farsi ricoverare alla Neuro.

 

Un altro mobiliere, forte di aver letto da qualche parte le gesta di un certo Napoleone Bonaparte e sapendo di un altro Napoleone III, cerca di spacciare un mobile in stile Napoleone Terzaparte! Gli chiedo la logica risposta alla sua dichiarazione. Mi dice:  “Bonaparte è stato il primo Napoleone, no? Ha fatto bene il suo dovere (da lì "bona") e la sua dinastia non poteva che arrivare alla terza parte, compresa la mobilia del periodo!”. Non fa una grinza!

Più in là scorgo enormi e "distinte" madri di famiglia che vendono giocattoli luminosi fatti in Cina; altre donne bellissime, straniere o autoctone, vendono altra mercanzia dai Camper-Biochetasi-da Zio Mario-da Zio Nino-da Zia Lucia: "Ma u paninu u voli ca rucula o ca maionesi? Ci mettu n’pocu di pocchetta?: - "Ahu, pani di Lintini originali, ah…"s’accomota…" peco, peco!

In un angolino mi accorgo della presenza di una piccola folla. Al centro dell’anello umano tre pellerossa stanno suonando con chitarre e flauti "Let it be" dei Beatles cercando di ottenere, a fine esibizione, delle offerte. Vedendo cosa sono costretti a fare per vivere i veri padroni d’America, mi viene da dire "Guarda come si è ridotto un grande popolo!". Un catanese, a me vicino, continua: "……..e sunavanu macari bella musica!".

Sempre più divertito, mi allontano fra le bancarelle di giocattoli. I bambini davanti a quei balocchi cominciano ad essere sempre più esigenti e si ricordano del prodotto che hanno visto in tv; vogliono questo, vogliono quello (per la verità, già da piccoli hanno le cosiddette "corna") e invece ricevono ceffoni, ne prendono di santa ragione da genitori nervosi.

Fra la frutta e verdura con cartelli che fanno sganasciare dalle risate, tipo "fiche nostrane" su una cassetta di fichi secchi, passa un milanese che chiede a un venditore di lumache "quanto vanno all'etto?" e il venditore "quannu vannu a lettu no' sacciu, ma ogni matina e' cincu i trovu tutti ccaà!" (quando vanno a letto non lo so, ma ogni mattina alle cinque le trovo tutte qua).

 

Non lo fa capire, ma è stanco e nervoso anche il commerciante che cerca di rifilare a una giovane madre la tutina troppo stretta per il bambino. E quando devono "rifilare" qui si raffinano con una sorta di lingua italiana che, a modo loro, li fa apparire più "professionali"……: “signora, guardi che questa tutina la mette pure mio figlio che ha due anni come quello suo…..suo figlio ha fatto due anni l’1giugno? Mio figlio il 3 giugno…. che coincidenza, "se la spaciano" di due giorni!!!!” Si fanno fregare anche con le scarpe "mi stanno un po' strette" e il venditore "signora, poi cedono...", oppure "mi stanno un po' larghe" e il venditore "signora mia, queste si adattano al piede e poi si restringono".

All’incrocio fra il vialetto delle porchette e quello delle sedie in vimini, intere famiglie si ritrovano e si salutano parlando di cassa integrazione, di assegni di assistenza, di TFR, di arrampicate sul campanile della Cattedrale per manifestare contro le autorità, di bivacchi davanti al Municipio perché la fabbrica sta chiudendo. Fra l'ennesima fregatura parleranno del lavoro "in continenti” che ancora consente di sopravvivere. Però, stavolta, loro non vogliono commettere l’errore dei nonni, non vogliono tornare qui in età pensionabile portandosi dietro un cancro ai polmoni beccato nelle fabbriche polentone; se proprio se lo devono beccare, che sia alla pelle per il troppo sole che hanno preso alla Playa...  perchè stavolta vogliono morire qui a tutti i costi, anche mangiando solo pane e cipolla.

Li lascio alle loro speranze:- Ma tu ppi cu voti? - Belluscono….- Ma cchi dici? Non è candidatu o Cumuni….- Turi…. comu si chiama chiddu…..ah… Sciampagnini! Poi si rimettono in cammino alla ricerca delle scarpe giuste che, in ogni caso, dopo due giorni li costringeranno ad una visita podologica.

Abbagliati da tutto quel ben di Dio luccicante, acquisteranno anche altri oggetti inutili che non useranno mai, che non serviranno a nulla e che arrivati a casa si guasteranno. L’affare della loro vita, come ogni anno, non l’hanno fatto. Non fa niente, domattina per le strade non ci saranno più gli spari di una volta ma finestre chiuse dalle quali si intravedono televisori accessi che proiettano silenziosi videogiochi acquistati dai marocchini, che non funzioneranno e che bisognerà riportare per il ricambio. E, inevitabilmente, di nuovo la ricerca del parcheggio, il marocchino che non si trova “picchì su tutti i stissi”, ecc. ecc.

Noi catanesi siamo indistruttibili, inossidabili, ma alla Fiera dobbiamo andarci costi quel che costi, perché ci divertiamo da matti in quella Halloween ambulante in cui tutti, ma proprio tutti, ritorniamo "picciriddi".

Tanto, domani è festa e non si lavora… e dopodomani nemmeno.

(Mimmo Rapisarda)

 

 

 

 

C’era una volta la festività dei Morti.

Sembra l’incipit di un fiaba ma non è così. Non sappiamo nemmeno se ci sarà un lieto fine. Intanto notiamo un progressivo decadimento delle tradizioni legate ai defunti. La festa di Halloween, che si celebra il 31 ottobre e che non c’azzecca niente con i nostri usi e costumi, sembra averla soppiantata. E' entrata a far parte anche della nostra cultura, piace a molti e vengono organizzate numerose feste a tema. Seppure c'è chi storce il naso quando ne sente parlare, Halloween è una tradizione anglosassone che da diversi anni a questa parte è stata accolta anche in Italia come occasione per dare libero sfogo alle più macabre fantasie.

Il mondo cattolico appare impotente di fronte al radicamento di questo “rito carnevalesco” fuori stagione che ormai attira giovani e meno giovani. Cambiano i tempi, cambiano i gusti e le mode. Una volta “i motti” si aspettavano con trepidazione. Quella notte tra l’1 e il 2 novembre era attesa per tutto l’anno. I bambini aspettavano l’arrivo dei regali portati dai defunti, facendo bene attenzione a non aprire gli occhi. In caso contrario, una bella grattata di piedi sarebbe stata per loro la dura punizione.

Un fucile, una bicicletta, un pallone da calcio o un paio di scarpe nuove, per i maschietti erano sempre i ben accetti. Per le femminucce, invece, la bambola, la cucina in miniatura o una gonnellina da indossare la domenica potevano bastare. Negli anni ’60 i mattoncini Lego orientarono i gusti verso scelte più costruttive. “Armi Santi, armi Santi” - ripetevano sottovoce i piccoli in trepidante attesa - “iu sugnu unu/a e vuautri tanti: mentre sugnu ‘nta stu munnu di vai, così di motti mittitimminni assai!”.

I ragazzi oggi reagiscono con sarcasmo quando si parla dei doni “lassati de motti.” Non riescono a comprendere come mai i coetanei di una volta si facessero “‘mpapucchiari” in questo modo dai parenti. “Logicu - dice il più giudizioso - ‘na vota i picciriddi nascevunu ccu l’occhi chiusi e ppi 40 jorna stavunu ‘nfasciati”. Giusta osservazione. E c’è da aggiungere che in età pre-adolescenziale vestivano pure con i calzoni corti.

Oggi ci sembra di vivere in tutt’altro mondo. Resistono solo le abitudini gastronomiche: Ossa ‘i mortu, ‘nzuddi” rami ‘i Napuli, Totò (con la classica glassa bianca o al cioccolato). Mancano “‘i pupi ‘i zuccuru” soppiantati già da tempo dalla frutta martorana (‘a pasta reale).

Andando a ritroso nel tempo, Novembre era “‘U misi ‘de Motti”. Tanto per cominciare, in questo mese dove per “San Martino ogni mosto diventa vino”, erano da evitare i traslochi. Non sappiamo quanti osservano ancora tale usanza ma, secondo i nostri nonni, non portava bene cambiare casa in questo periodo: “I mutticeddi” non ne sarebbero stati affatto contenti.

“Doppu ‘e motti ni parramu” era il comune detto di chi voleva rimandare scadenze e impegni vari. Poi all’arrivo di dicembre, lo stesso diventava: “All’annu novu ni parramu!”

Visto che di morti si parla, si va al cimitero a depositare un fiore sulla tomba dei propri cari ma, nel frattempo, tra un vialetto e l’altro, si trova il tempo per curiosare tra le sepolture. La data di nascita e di morte, oltre alle foto del defunto, sono le prime cose che saltano agli occhi. Ognuno azzarda le proprie considerazioni: “Bihhh! Chistu era giovane: poviru figghiu/a! Eh! ’a motti è crapicciusa: Lassa ‘a vecchia e pigghia ‘a Carusa!”. Diversamente, si va per le spicce: “… Ci vulissimu Campari nuautri!”. Le sorprese sono sempre dietro l’angolo. Capita purtroppo di riconoscere tra quelle foto, amici e conoscenti con i quali si erano persi i contatti.

Gli osservatori più acuti commentano gli epitaffi. In quasi tutte le tombe ce n’è uno. Sono scritte intense, dettate dal cuore e dal dolore; riescono a commuovere anche perché molti di essi contengono teneri messaggi e considerazioni sul senso della vita. C’è di che meditare. “A vita è ‘na livella: nu re, nu magistratu, nu grand’uommo, trasennu stu canceddu ‘a fattu ‘u cuntu ca ‘a persu tuttu: a vita e pure ‘o nuommo (…)” scriveva nel 1964 il grande Antonio De Curtis in arte Totò . Varcando i cancelli del camposanto si ha la sensazione di entrare in una dimensione “altra”. Da qui i tanti suggestivi racconti spiritici sbocciati tra le sepolture.

La Sicilia 2.11.2019

 

 

 

 

 

 

 

 

LA TRADIZIONE E LE LEGGENDE SICILIANE

La festa di Ognissanti fu istituita nell'ottavo secolo da Gregorio II e nel 998 Odilio, abate di Cluny, aggiunse nel giorno seguente la festa di tutte le anime. Il due di novembre, dunque, nei paesi cattolici si commemorano i defunti con messe e processioni e con una serie di rituali.

In Sicilia si chiama "íornu di li morti", o semplicemente "li morti", ed è una ricorrenza molto sentita, differente da provincia a provincia.

A Palermo si va a visitare le Catacombe dei Cappuccini fuori Porta Nuova, dove per antica usanza gli scheletri pendono attaccati alle pareti, esposti agli occhi dei loro congiunti che accendono per loro candele di cera. Ai bimbi palermitani si chiede che quella sera se ne stiano tutti al mercato della Vuccíria; luogo dove una volta si festeggiava l’usanza. E la frase proverbiale "Sapiri la Vucciria" significa sapere che le "cose" dei morti (i regali ai bambini) non son donate dai morti, ma bensì dai vivi, e quindi conoscere quest’inganno significa essere accorto, scaltro e malizioso. Ad Acireale si consumano li favi'n quasuni, cioè fave cucinate in un particolar modo, secondo un antico rito romano in cui il pater familias allontanava le anime dei defunti lanciando dietro di sé delle fave nere.

Ma che aspetto hanno i morti siciliani? Si dice che ad Acireale vestano di bianco avvolti nel lenzuolo e calzino scarpe di seta, forse per eludere la vigilanza dei venditori ai quali andranno a rubare qualche cosa; a Partinico nel solo lenzuolo a piedi nudi e con un grattugia di sotto; a Milazzo col teschio pesante che hanno sul debole collo; a Catania passeggiano in processione per le strade recitando il rosario; in altri comuni etnei camminano con un collo sottilissimo quanto un filo; a Salemi si dice che la messa dei morti sia celebrata tra le ore di mezzogiorno ed il vespro: quando suonano le campane. Chi, tratto in inganno, entra in chiesa e vede il volto cadaverico di un prete, deve fuggire immediatamente facendosi il segno della croce. Altrimenti non sopravvivrà; a Modica si pensava che i morti risorgessero la notte della loro festa e quando canta il gallo per la prima volta escono a schiera dalle sepolture e si ordinano a due a due come nelle processioni e camminano lentamente; a Francofonte credevano che al primo risorgere dicessero "cumanna cumanna!" e subito diventavano vento; ad Erice, rifacendosi ad antichi usi funebri, si credeva che i morti mangiassero; a Messina, invece, gli adulti avevano l'abitudine di andare al cimitero e, seduti vicino alle tombe, mangiare e bere allegramente per poter vivere più lungamente i parenti morti.

Dovunque vadano, si faranno formiche per entrare nelle case dei loro congiunti, per penetrare nelle fessure delle porte in modo che passino i loro doni.

La leggenda dice pure che durante il viaggio dei morti le campane della parrocchia suonano tutta la notte a mortorio, e che le mamme e le nonne, nelle prime ore della sera, trattengono figli e nipoti raccontando loro le geste dei morti. E si celebrano le messe, perché in Sicilia si crede che a celebrare la messa dei morti siano condannate le anime dei preti che ingannarono i fedeli, non celebrando, per avidità di guadagno, le messe per cui avevano ricevuto le elemosine. I siciliani le chiamano appunto "misse scurdate".

 

 

 

Da dove viene la parola "Tabbutu"?

 

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I COSI DE MOTTI - La storia del 2 novembre.


Moltissimi anni fa un padre lasciò la propria casa per andare a lavorare altrove, visto che in paese non c'era abbastanza lavoro per sfamare una famiglia con  quattro figli.
Quando quello più piccolo si ammalò a causa di una malattia a quei tempi incurabile, la mamma fece arrivare la notizia al padre il quale fece immediatamente ritorno a casa.

Non potendo permettersi una carrozza, decise di viaggiare a piedi, anche di notte, per arrivare al più presto a casa e poter pagare, col poco denaro rimastogli, le costose  medicine.

Dopo un giorno di viaggio, già stanco, si trovò a passare dal cimitero del paese proprio nel giorno del 1° novembre. Ricordando il padre defunto, ne approfittò per fargli visita. Era già buio e quasi notte, e mentre pregava sulla tomba del congiunto perchè questi vegliasse sul nipotino morente, trovò un soldatino di legno sulla lapide della tomba e, senza esitare, se lo mise in tasca pensando di donarlo al piccolo in cambio di un sorriso.

Poi la stanchezza ebbe il sopravvento su di lui e lo fece addormentare, ma dopo qualche ora riprese con coraggio e buona lena il suo cammino. Quando a notte fonda arrivò a casa, abbracciò  i suoi figli, la moglie e in particolar modo il suo piccolo malato, mettendogli in mano quel piccolo giocattolo trovato al camposanto sulla tomba del nonno. 

Poi rassicurò la moglie, consegnandole quei pochi denari per procurare al più presto le necessarie cure per debellare la malattia che stava spegnendo il loro ultimo genito.

Era la notte del 1° novembre. Il bambino continuò a dormire col suo giocattolino stretto al petto, ma appena il sole illuminò la sua finestra, nel giorno del due novembre, egli si alzò e cominciò  a correre per casa svegliando tutti, ridendo e cantando.
Quel pupazzetto fece il miracolo. Ricordando ogni anno questa bellissima storia, ecco perchè i catanesi acquistano giocattoli ai propri figli e nipoti proprio nella notte del 1° novembre come tradizionale augurio per farli crescere in buona salute, facendo loro credere che i benefattori siano stati i parenti dall'aldilà.

 

Francesco Raciti

http://raciti.photopoints.com/

 

 

 

Il mese di novembre è sempre stato tradizionalmente un periodo ricco di fiere e eventi particolari in quanto agevolato dalle ricorrenze di Ognissanti e dei Morti che sancivano il riposo dal lavoro e contemporaneamente la fine di un ciclo agrario (con la conclusione delle semine) e un momento di approvvigionamento per affrontare l'inverno.
In Sicilia si credeva che, alla rinascita dei semi, i Defunti tornassero portando con loro fiori per far gioire i viventi e rallegrando i bambini con giocattoli, dolci e frutta secca.
La tradizione narra che nella notte tra 1 e 2 novembre i Morti lascino le loro dimore abituali per trafugare denaro, oggetti e dolci e consegnarli l'indomani ai bambini. L'evento assume pertanto dei processi rituali che coinvolgono le mamme per prime nell'atto di preparare la giusta atmosfera a stimolare nei bambini il senso di rispetto nei confronti dei Defunti insieme all'agitazione e la frenesia che tipicamente riveste il clima festivo.
I Morti assumono tradizionalmente aspetti diversi nei vari paesi siciliani. Ad Acireale giravano avvolti nel lenzuolo bianco, mentre in alcuni paesi etnei si trasformavano in formiche per poter entrare nelle case dei loro parenti da fessure e anfratti per non farsi vedere.

 


Capita spesso che le tradizioni si intreccino e scambino atti e manifestazioni tipiche. Infatti il Pitrè narra che in provincia di Catania, ma anche in altri luoghi siciliani, i bambini lascino le loro scarpe vecchie o le ciabatte in angoli della casa per ritrovare il 2 novembre un paio di scarpe nuove, o le scarpe piene di dolci e giocattoli oppure di cenere e carbone per i monelli, a modificare e anticipare la più nota tradizione che vuole dedicare queste attività alla Befana.

La Fiera dei Morti non è chiaramente realizzata solo con bancarelle e oggetti rivolti ai bambini, bensì come dicevamo è una fiera completa e pertanto è possibile ritrovarvi vettovaglie, indumenti e quant'altro tipico dei mercati. A Palermo veniva spesso dislocata alla Vucciria, tant'è che esiste una frase tipica "Sapiri la Vucciria" ossia conoscere che i regali dei morti non sono donati dai Defunti, bensì dai vivi. Questo detto tipico nasconde l'innocenza dei bambini che seppur a conoscenza dell'accaduto fingono di non "sapiri la Vucciria" al fine di ricevere i regali.
A Catania la Fiera dei Morti è allocata alla Playa, nel lungomare con stands espositivi divisi in settori: alimentare, calzature, abbigliamento, giocattoli, etc­.

Pur non avendo nessun legame con la manifestazione viene da ricordare che la Playa fu scelta quale cimitero pubblico in occasione dell'epidemia di colera del 1837, immediatamente annullata per motivi di igiene pubblica.

Fonte: www.cuoreinsicilia.it

 

Nell'arte funeraria la speranza dei fedeli

La tradizione dei morti che tornano per una notte dall'Aldilà è ancora molto sentita in molti paesi e città della Sicilia. Biscotti e regali vengono lasciati ai più piccoli oppure diventano un omaggio per accogliere i propri parenti in una notte magica e misteriosa

 

La Commemorazione dei defunti (in latino Commemoratio Omnium Fidelium Defunctorum, ossia Commemorazione di Tutti i Fedeli Defunti), anticamente preceduta da una novena, segue di un giorno la festività di Ognissanti del 1º novembre. Il colore liturgico di questa commemorazione è il viola, il colore della penitenza, dell'attesa e del dolore, utilizzato anche nei funerali.

L'idea di commemorare i defunti in suffragio nasce su ispirazione di un rito bizantino che celebrava tutti i morti il sabato prima della domenica di Sessagesima - così chiamata prima della riforma liturgica del Concilio Vaticano II -, ossia la domenica che precede di due settimane l'inizio della quaresima, all'incirca in un periodo compreso fra la fine di gennaio e il mese di febbraio.

Nella chiesa latina il rito viene fatto risalire all'abate benedettino sant'Odilone di Cluny nel 998: con la riforma cluniacense stabilì infatti che le campane dell'abbazia fossero fatte suonare con rintocchi funebri dopo i vespri del 1 novembre per celebrare i defunti, ed il giorno dopo l'eucaristia sarebbe stata offerta "pro requie omnium defunctorum"; successivamente il rito venne esteso a tutta la Chiesa cattolica. Ufficialmente la festività, chiamata originariamente Anniversarium Omnium Animarum, appare per la prima volta nell'Ordo Romanus del XIV secolo.

Nella forma straordinaria del rito romano era previsto che nel caso in cui il 2 novembre cadesse di domenica, la ricorrenza sarebbe stata celebrata il giorno successivo, lunedì 3 novembre. In Italia, benché molti lo considerino come un giorno festivo, la ricorrenza non è mai stata ufficialmente istituita come festività civile.

La pietas verso i morti risale agli albori dell'umanità. In epoca cristiana, fin dall'epoca delle catacombe l'arte funeraria nutriva la speranza dei fedeli. A Roma, con toccante semplicità, i cristiani erano soliti rappresentare sulla parete del loculo in cui era deposto un loro congiunto la figura di Lazzaro. Quasi a significare: Come Gesù ha pianto per l'amico Lazzaro e lo ha fatto ritornare in vita, così farà anche per questo suo discepolo!

La commemorazione liturgica di tutti i fedeli defunti, invece, prende forma nel IX secolo in ambiente monastico. La speranza cristiana trova fondamento nella Bibbia, nella invincibile bontà e misericordia di Dio. «Io so che il mio redentore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere! », esclama Giobbe nel mezzo della sua tormentata vicenda. Non è dunque la dissoluzione nella polvere il destino finale dell'uomo, bensì, attraversata la tenebra della morte, la visione di Dio. Il tema è ripreso con potenza espressiva dall'apostolo Paolo che colloca la morte e la resurre-

02/11/2014

 

 

il cimitero di guerra  Motta Sant'Anastasia

 

 

Mi soffermo sul culto dei catanesi verso i loro defunti, nella generalità dei casi del tutto simile a quello di tanti altri connazionali, ma differente nel sentimento del popolano più genuino che testimonia la sua certezza nell’aldilà attraverso il cordiale incontro col defunto, assai simile a quello che aveva in vita. Mi spiego meglio con un episodio.

Se un primo di novembre di molti anni fa non fossi andato al Cimitero di Catania, non avrei potuto raccontarvi il fatto a cui ho assistito.

 

“Sabbenerrica Papà, sabbenerica Mamà, sugnu cuntenta di viririvi. U sapiti chi successi sta simana? “

Sarina continuava il suo monologo e nel frattempo si affaccendava a mettere ordine, pulire e lucidare le borchie di ottone della lapide di marmo.

Quella discussione in dialetto continuava già da qualche minuto e mi era difficile non ascoltarla.

In settimana era successo che lo zio Tanino, il marito di Carmelina, quella del borgo, era caduto dalle scale e meno male che la signora Santina e suo marito l’avevano preso e non si sa come l’avevano issato e portato a casa! Avevano chiamato il pronto soccorso ed era arrivata l’ambulanza che se l’era portato, a correre a correre, al Garibaldi. E meno male che avevano trovato il dottore Indelicato che s’era dato che fare e gli aveva fatto ingessare la gamba e lo aveva fatto mettere in un letto vicino a un galantuomo che aveva la testa fasciata.

Ma questo era niente perché a Mara ci si erano rotte le acque e aveva partorito un figlio maschio, che ancora Turi non conosceva perché non ne sapeva niente, visto che era in villeggiatura a Bicocca. Che famiglia sventurata! L’avvocato ce lo aveva detto a Turi che era questione di mesi e sarebbe uscito, dopo tutto il giudice l’aveva capito che era stato Mario a provocarlo e quella coltellata che ci aveva dato l’aveva fatto per sbaglio! Lo sapevano tutti che Turi era un bravo giovane.

A proposito, anche Alfio si trovava a Bicocca.

Lo zio Tanino era uscito dall’ospedale e camminava sciancato con il gesso nella gamba e le stampelle e Lupo pareva che piangeva e gli stava sempre accanto. A quel cane gli mancava la parola, come a quella bestia di Antonio, il fratello dello zio Tanino che non aveva detto ne schi e ne scu! Ma guardate che c’è qua: due fratelli che stanno nella stessa casa e non si parlano da tre anni. “Se non fosse stato per quella gran buttanuna di Mariannina, la pace familiare non si sarebbe persa!

Ma sapete come s’è fatta bella Monica, la figlia di Angelina, la nipote di Concetta, quella di Battiati? Oggi preparo le lenticchie e ci metto a cipudda friuta come faceva voscenza.

A proposito quel fituso del piano di sopra continua a sputare dalla finestra e butta la cenere sul nostro balcone. Qualche volta finisce a scerra.

Io non so come devo fare cu sti capiddi, paru ‘na vecchia! Come vi lascio arrivo al Fortino che devo comprare i pospiri di lignu, poi passo dai chianchi e scendo al piano di Sant’Agata, fazzu a spisa a pescaria e m’arricoghiu ca sugnu susuta dai cincu.

Certo che ora fa fresco!

Mamà potete stare tranquilli che la luce l’ho pagata e non vi lascio allo scuro. Ma che siete bella Mamà e anche voi Papà!”

Nel frattempo Sarina aveva finito le pulizie, aveva messo il Sidol e la pezza gialla in un sacchetto di plastica e li aveva conservati nella borsa della spesa. Poi aveva preso la spugna e l’aveva strizzata nella pilozza, aveva messo da parte la cera per lucidare i marmi e raccolto un sacchetto con i fiori rinsecchiti. Aveva conservato tutto nella sporta, abbottonato il cappotto di lana nero sdrucito e si era rassettata i capelli con le forcine. In ultimo aveva sistemato i fiori freschi nei portafiori di rame, uno sputo sulle foto del papà e della mamma e una lucidata con il gomito.

Stette qualche minuto ferma, in piedi, in silenzio e si segnò con il segno della croce.

“Baciamu i manu Papà e baciamu i manu Mamà, ni viremu dumani ca è a festa dei morti.”

 

Giorgio Coniglione

 

 

 

 

Halloween o "murticeddi"?

LA RICORRENZA DEI DEFUNTI
di Gianni Arcidiacono (La Sicilia del 30.10.2006)
La "partita" fra le due feste è aperta. Riuscirà la cupa tradizione irlandese a soppiantare quella siciliana dolce e romantica? La società dei consumi dice sì, ma forse per "il nostro caro estinto" c'è ancora qualche speranza.
Irlanda e Sicilia. Fervono già i grandi preparativi nelle due isole. Riuscirà Halloween a soppiantare e a relegare nel totale oblio la festa dei morti? A ben guardare gli addobbi delle vetrine e a vedere i preparativi che in moltissime scuole si stanno effettuando sembra proprio di sì, ma forse qualche possibilità è ancora data, e probabilmente se si spiegasse chiaramente l'origine delle due feste, la bilancia potrebbe ancora pendere dalla parte della Sicilia. Questo sarebbe il compito principale dei genitori e degli insegnanti, ma anche i nonni e i media, possono fare la loro parte. Vediamo un po' di spiegare sperando di essere d'aiuto e di dare uno spunto per ulteriori approfondimenti. Halloween, festa prettamente irlandese, esportata negli Usa negli anni quaranta dell'Ottocento, risale alle antiche tradizioni celtiche. Per i Celti il nuovo anno cominciava il primo novembre; giorno che segnava la fine dell'estate e l'inizio del buio e freddo inverno. Essi ritenevano che nella notte fra il 31 ottobre e il 1 novembre, tutte le leggi del tempo fossero sospese, permettendo agli spiriti dei morti durante l'anno precedente, di tornare sulla terra in cerca di corpi da possedere per il prossimo anno.
I vivi non volevano essere posseduti, così la notte del 31 ottobre spegnevano i focolari nelle loro case per renderle fredde e indesiderabili, e si travestivano con maschere mostruose, girando per tutto il vicinato e facendo un gran frastuono, di modo da spaventare gli spiriti.
Nel settimo secolo il Papa Bonifacio IV, istituì la festa di Ognissanti il 13 maggio, ma nell'anno 835 Papa Gregorio la spostò al primo novembre, probabilmente per sradicare l'antica festa celtica, che veniva chiamata all-hallows e che da allora si chiamò all-hallows'even, e che nel tempo diventò Halloween. La festa si trasformò, nel mondo anglosassone, in una festa per bambini, che, mascherandosi, andavano in giro, porta a porta, a ripetere il ritornello "Trick or treat?" ossia "dolcetto o scherzetto?". L'origine di tale usanza sembra debba attribuirsi alle leggende che attribuivano alle fate l'uso di fare scherzi pestiferi se non avessero trovato latte e cibo sulla soglia delle case.
Anche la lanterna a forma di zucca, simbolo oggi di Halloween, ha la sua storia.
Una leggenda irlandese racconta che un fabbro di nome Jack incontrò il diavolo nella notte di Halloween. Jack promise la sua anima in cambio di una bevuta; il diavolo accettò e per poter permettere a Jack di pagare, si trasformò in una moneta da sei penny, ma Jack furbamente chiuse la moneta nel proprio borsellino contenente un crocefisso d'argento. Il diavolo non poteva liberarsi, e ottenne la libertà solo dietro la promessa di attendere un anno per reclamare l'anima.
L'anno seguente il diavolo si presentò a Jack, ma questi furbescamente gli chiese di esaudirgli un ultimo desiderio: raccogliergli una mela su un albero; il demonio acconsentì e salì sul melo. Prontamente Jack estrasse il coltello e segnò una croce sul tronco, così il diavolo rimase imprigionato di nuovo. Per poterlo liberare, Jack si fece promettere che il diavolo rinunciasse per sempre ad avere la sua anima. L'anno dopo Jack morì, ma non potè accedere al Paradiso per tutte le
malefatte compiute in vita, così si recò all'inferno, ma il diavolo memore della promessa fatta, lo respinse. Jack non voleva andar via per via del buio fitto, allora il diavolo spazientito gli lanciò un tizzone acceso; per evitare che il vento lo spegnesse, Jack lo pose all'interno della rapa che stava mangiando. Da allora l'anima di Jack vaga per la terra in attesa del giorno del giudizio. Gli irlandesi
chiamano tale figura Jack o' lantern, e la rapa diventò zucca, solo nel 1845, quando a seguito della carestia di patate oltre 700.000 mila irlandesi emigrarono negli Usa, le rape erano difficili da trovare, mentre le zucche erano abbondanti e grandi.
Oggi non solo i bambini ma anche gli adulti amano travestirsi per fare scherzi. Anche questo ha una motivazione. Nei Paesi anglosassoni non esiste la festa di Carnevale, e così si supplisce con Halloween.
In Sicilia invece esiste una gran festa di Carnevale e, come dicevano i romani "semel in anno licet insanire", due volte sarebbe proprio troppo. La notte tra l'uno e il due novembre i nostri cari "murticeddi ", tornano a visitare i proprii cari, e ai bambini portano doni e dolci. La tradizione siciliana è più dolce e romantica, ricorda ai bambini i parenti morti, e fa desiderare la loro visita. Nei tempi andati tutti i bambini, ricchi e poveri, andavano a letto presto e la mattina del due novembre andavano in giro per casa alla ricerca dei doni lasciati dai murticeddi. I più ricchi bei giocattoli e dolci, i meno fortunati un cavalluccio di cartapesta o una formina di mostarda. Le fiere dei morti erano piene di bancarelle ricche di giocattoli e dolci e i bambini pregavano che i loro morticini gli portassero il bene desiderato.
Per l'occasione nella Sicilia occidentale si preparavano Pupi di zucchero, vanto dei maestri pasticceri, oggi difficilissimi da trovare. In Sicilia orientale, invece, rame di Napoli, ossa di morto, n'zuddi, pasta reale e formine di mostarda e di cotognata.
Per tutto si ringraziava i murticeddi, e si andava con animo grato al cimitero per portare loro un fiore. La battaglia non è ancora persa. Non è escluso che la "festività dei morti", possa tornare alle vecchie glorie, e Halloween sia raccontato come fatto di cultura e costume, perché è giusto che ogni popolo debba conservare le proprie usanze e le proprie tradizioni.

 

 

 

 

"Il giorno dei Morti" raccontato da Andrea Camilleri.

 

Un tempo per i Siciliani il giorno dei morti era un giorno davvero speciale, per i bimbi era ricco di attesa e dolci sorprese!

La globalizzazione oramai sta rendendo più onore ad Halloween dimenticando la tradizione che invece ci appartiene e dobbiamo impegnarci a conservare e a tramandare, per questo abbiamo deciso di riportare il testo di Camilleri che racconta la magica atmosfera del giorno dei morti per i siciliani.

Fino al 1943, nella nottata che passava tra il primo e il due di novembre, ogni casa siciliana dove c’era un picciliddro si popolava di morti a lui familiari. Non fantasmi col linzòlo bianco e con lo scrùscio di catene, si badi bene, non quelli che fanno spavento, ma tali e quali si vedevano nelle fotografie esposte in salotto, consunti, il mezzo sorriso d’occasione stampato sulla faccia, il vestito buono stirato a regola d’arte, non facevano nessuna differenza coi vivi. Noi nicareddri, prima di andarci a coricare, mettevamo sotto il letto un cesto di vimini (la grandezza variava a seconda dei soldi che c’erano in famiglia) che nottetempo i cari morti avrebbero riempito di dolci e di regali che avremmo trovato il 2 mattina, al risveglio.

Eccitati, sudatizzi, faticavamo a pigliare sonno: volevamo vederli, i nostri morti, mentre con passo leggero venivano al letto, ci facevano una carezza, si calavano a pigliare il cesto. Dopo un sonno agitato ci svegliavamo all’alba per andare alla cerca. Perché i morti avevano voglia di giocare con noi, di darci spasso, e perciò il cesto non lo rimettevano dove l’avevano trovato, ma andavano a nasconderlo accuratamente, bisognava cercarlo casa casa. Mai più riproverò il batticuore della trovatura quando sopra un armadio o darrè una porta scoprivo il cesto stracolmo. I giocattoli erano trenini di latta, automobiline di legno, bambole di pezza, cubi di legno che formavano paesaggi. Avevo 8 anni quando nonno Giuseppe, lungamente supplicato nelle mie preghiere, mi portò dall’aldilà il mitico Meccano e per la felicità mi scoppiò qualche linea di febbre.

I dolci erano quelli rituali, detti “dei morti”: marzapane modellato e dipinto da sembrare frutta, “rami di meli” fatti di farina e miele, “mustazzola” di vino cotto e altre delizie come viscotti regina, tetù, carcagnette. Non mancava mai il “pupo di zucchero” che in genere raffigurava un bersagliere e con la tromba in bocca o una coloratissima ballerina in un passo di danza. A un certo momento della matinata, pettinati e col vestito in ordine, andavamo con la famiglia al camposanto a salutare e a ringraziare i morti. Per noi picciliddri era una festa, sciamavamo lungo i viottoli per incontrarci con gli amici, i compagni di scuola: «Che ti portarono quest’anno i morti?». Domanda che non facemmo a Tatuzzo Prestìa, che aveva la nostra età precisa, quel 2 novembre quando lo vedemmo ritto e composto davanti alla tomba di suo padre, scomparso l’anno prima, mentre reggeva il manubrio di uno sparluccicante triciclo.

Insomma il 2 di novembre ricambiavamo la visita che i morti ci avevano fatto il giorno avanti: non era un rito, ma un’affettuosa consuetudine.

Poi, nel 1943, con i soldati americani arrivò macari l’albero di Natale e lentamente, anno appresso anno, i morti persero la strada che li portava nelle case dove li aspettavano, felici e svegli fino allo spàsimo, i figli o i figli dei figli. Peccato. Avevamo perduto la possibilità di toccare con mano, materialmente, quel filo che lega la nostra storia personale a quella di chi ci aveva preceduto e “stampato”, come in questi ultimi anni ci hanno spiegato gli scienziati. Mentre oggi quel filo lo si può indovinare solo attraverso un microscopio fantascientifico. E così diventiamo più poveri: Montaigne ha scritto che la meditazione sulla morte è meditazione sulla libertà, perché chi ha appreso a morire ha disimparato a servire.

(da Racconti quotidiani di Andrea Camilleri)

https://siciliaospitalitadiffusa.it/it/il-giorno-dei-morti-raccontata-da-andrea-camilleri

 

 

 

LA FESTA DEI BAMBINI

( La Sicilia , 28.10.2007)

L’attesa.Nella notte tra l’1 e il 2 novembre per i bambini si rinnova la credenza della visita notturna dei Defunti .

Un occhio aperto, l’altro socchiuso. I bambini aspettano incuriositi, finché il sonno non prende il sopravvento.

Nella speranza e nel timore che si riesca a vedere se i defunti ritornano davvero. Già, proprio i morti, che secondo la tradizione la notte tra l’1 e il 2 novembre, in silenzio mentre tutti dormono, entrano in casa, accarezzano e baciano in fronte i propri amati, rimboccano loro le coperte e poi si allontanano, non prima però di aver lasciato tanti doni nascosti per casa: dentro un armadio, sul tappeto o magari sotto il letto, perché la gioia dei bimbi al mattino è proprio quella di cercare i regali che durante la "visita" notturna i nonni, gli zii, i parenti che non ci sono più, hanno lasciato chissà dove per casa.

Il giorno dedicato ai defunti è una festività che in Sicilia si tramanda da generazioni, senza paura, nel tentativo sovente di creare un legame affettivo tra le nuove generazioni e quelle scomparse da tempo, ma rimaste nel cuore di chi resta proprio per essere tramandate. I cari defunti, che nell’immaginario collettivo sono cupi e addolorati, la notte tra l’1 e il 2 novembre si trasformano, diventano sorridenti e, abbandonando per qualche ora le loro eterne dimore, distribuiscono giocattoli, dolci e vestiti ai bimbi.

Nel tempo i doni sono cambiati e così le pistole giocattolo, che i bambini attendevano con ansia, hanno lasciato spazio a playstation, robot, automobiline, trenini elettrici ed interi cantieri in miniatura; le bambine, invece, continuano a trovare le classiche bambole che piangono senza il ciuccio, Barbie, cucine con tutto il pentolame, forni per cuocere i dolci e tanti abiti. La tradizione vuole che poi si vada al cimitero a portare fiori, per ringraziare i propri cari per la loro generosità e a ricordarli come quando erano in vita.

Il giorno dei morti è il giorno che la Chiesa cattolica dedica alla commemorazione dei defunti, ma la festa ha origini antiche, che uniscono paesi lontani per epoche e distanze. La nascita della festività e, soprattutto, il fatto che i festeggiamenti cadano il 2 novembre, non sono casuali. Civiltà antichissime celebravano la festa degli antenati o dei defunti in un periodo che cadeva proprio tra la fine di ottobre e i primi giorni di novembre. Questa data sembra riferirsi al periodo del grande Diluvio di cui parla la Genesi , il Diluvio per cui Noè costruì l’arca che, secondo il racconto di Mosè, cadde nel "diciassettesimo giorno del secondo mese", che corrisponderebbe al nostro novembre. La Festa dei Morti nacque dunque in "onore" di persone che Dio aveva distrutto, per esorcizzare la paura di nuovi eventi simili.

Da qui in poi la storia, che è sospesa tra religione e leggenda, diventa più chiara. Il rito della commemorazione dei defunti sopravvive alle epoche e ai culti: dall’antica Roma, alle civiltà celtiche, fino al Messico e alla Cina, è un proliferare di riti, dove l’unico comune denominatore è consolare le anime dei defunti perché siano propizie per i vivi.

La tradizione celtica fu quella che ebbe maggiore eco. La celebrazione più importante del calendario celtico era la "notte di Samhain", la notte di tutti i morti e di tutte le anime, che si festeggiava tra il 31 ottobre e il 1° novembre.

In epoca cristiana, queste tradizioni erano ancora molto presenti: la Chiesa cattolica faticava a sradicare i culti pagani. Così, nel 835 Papa Gregorio II spostò la festa di "Tutti i Santi" dal 13 Maggio al 1 novembre, pensando in questo modo di dare un nuovo significato ai culti pagani. Nel 998 Odilo abate di Cluny aggiungeva al calendario cristiano il 2 novembre come data per commemorare i defunti.

In memoria dei cari scomparsi ci si mascherava da santi, da angeli e diavoli e si accendevano falò. Riti religiosi che nel tempo si sono mescolati al pagano, dunque, ma ancora oggi durante la notte dei morti, c’è chi lascia sui davanzali un cero acceso, per far "luce" ed accogliere il passaggio dei propri cari. Mentre tra gli anziani c’è ancora chi riesce persino a vedere le anime camminare per le strade, in una notte sospesa tra l’amore e il ricordo.

Lucy Gullotta

QUANDO SI SPARAVANO I "CAPS".

( Santo Privitera - La Sicilia , 1.11.2012)  

Gran parte delle tradizioni legate ai "Morti", sono scomparse. Certi sapori di un tempo, colori e rumori compresi, oggi non si avvertono più. Pensiamo all' "ossa ‘i mottu", gustoso biscotto duro da sgranocchiare; i "pupi di zucchero" che a contatto con la saliva si scioglievano lasciando nella bocca un lieve sapore di cannella. Per non parlare, poi, dei giocattoli fatti trovare in ogni angolo della casa ai bambini. Loro dovevano credere che i regali acquistati da nonni e genitori erano stati i morti a farglieli trovare. Erano Bambole e culle per le femminucce, mentre per i maschietti era diverso. I più virtuosi pregavano perché arrivasse l'automobilina da corsa oppure "l'azzi Band" ("Azzi", da Jazz) cioè la batteria con tanto di piatti, tamburi e bacchette; mentre i più scapestrati sceglievano fucili e pistole. A costo di rimetterci i timpani, sparare era sinonimo di forza da far valere sempre. Questa usanza non c'azzeccava niente con la solennità liturgica della festa; eppure gruppi di bambini sciamavano sparando per le strade, per i vicoli, tra le macchine con queste armi giocattolo (allora prive di tappo) comunque parodia di morte. E' inutile negare che ci si divertiva da morire. "Ma quannu venunu ‘i morti? " si chiedevano i piccoli belligeranti. A partire dalla seconda decade di ottobre, in un crescendo rossiniano, cominciava la musica. Giochi innocenti, certo, che con l'andar del tempo si fecero talmente pericolosi da indurre le autorità a proibirli.
Ma quali furono queste armi e munizioni. I "Fulminanti" erano striscette di carta pirica che a contatto col pistoncino di una semplice pistola di latta, produceva un rumore simile allo sparo. Più tardi avrebbero fatto la loro comparsa i "Caps" piccole capsuline (zincate o in plastica) dal botto rafforzato. Quando intorno agli anni cinquanta nelle sale cinematografiche fecero le prime apparizioni i film Western, il fenomeno toccò il suo apice. I novelli John Wayne e James Stewart, si materializzarono per le strade di Catania e dintorni dandosi battaglia. Ciascuno sognava un fucile o una pistola da esibire prima che sparare. Tra fucili più "gettonati" annotiamo: "Il bengala" (10 colpi a tamburo); "Marines" col suo tamburone che di colpi ne aveva 40; "L'apache" e il "Winchester", quest'ultimo con la classica leva in avanti. E le pistole? C'era proprio l'imbarazzo della scelta. "Susanna", "Cobra", "Jugomatic" ecc. Chi possedeva un fucile ad aria compressa a un solo "micidiale" colpo, si candidava a guidare la combriccola. "Chi fucili hai?... " " ‘N-fucili a aria compressa". Risposta: "Mih.. stai attentu ca chistu astruppia! ". In effetti, qui siamo in ambito più sofisticato. Quest'arma giocattolo sparava proiettili di gomma (Gummetti colorati) in grado di procurare alla vittima forti bruciori con contorno di ematoma. Quando negli anni settata fecero le prime apparizioni le "Lanciarazzi", pistole munite di piccoli razzi dal botto infernale, la suonata cambiò. Il gioco si fece duro, perse la primordiale innocenza e allora il giocattolo si ruppe.
 

Cosi di catania

 Dai finemula, non facemu arririri i polli! Non appartiene alla nostra cultura, forse picchì a mia, oltre a non piacermi, mi fa macari antipatia, ma questo Halloween lo trovo fuori luogo per noi siculi abituati "ca festa de motti". Ieri mi sono imbattuto in "pagghioli" che scimmiottando gli anglofoni erunu appitturati tipu: feriti, ammistuti frischi, e a seguire di vampiri e streghe. La tenerezza che mi hanno fatto ieri notte, quei quattro attempati o diciamo "diversamente giovani", ca facci infarinata e i mussi tingiuti di niuru, si erano messi a discussione con un posteggiatore, rigorosamente abusivo, il quale chiedendo il "pizzeggio" (forma contratta del pizzo dovuto al parcheggio) si sente rispondere dai seguaci "de cucuzzi": non si vergogna addumannarini un euro?, pronta la risposta: "Su ju m'haja vergognari vuatri v'avissura attruvari ‘nputtusu unni ‘ntanarivi". Scontro tra titani!https://www.mimmorapisarda.it/altro/muschi.jpg

Certo ognuno è libero di festeggiare (ma cosa ci sarebbe poi da festeggiare?!) come gli pare. Però se mi viene in mente, così come ci preparavamo alla nostra "notte dei morti" ad essere sincero, un poco di magone mi prende. I grandi ci preparavano con non poco pathos, invitavandoci ad andare a letto presto. Adducevano delle scuse non sempre adatte ad un bambino: "Dormi o i morti stanotte non ti portano i giocattoli" e fino a questo punto, niente di serio, anche se nella mia mente frullava la visione di uno zombie che nella notte entrava nella mia stanzetta barcollando, nel tentativo di lasciarmi il dono. Per vincere l'ulteriore resistenza, si rinforzava la dose con: "Vedi che i morti lo capiscono se dormi veramente o fai finta, t'arattunu i peri e se sei sveglio, ti mettunu a cira ‘nta l'occhi. Se all'epoca c'era telefono azzurro, a me matri c'avissuna ratu trentanni di cacciri. "Dormi! ". E' inutile dire che mi sentivo come in quel passo della Bibbia che recita: "La gazzella giacerà con il leone". Non chiudevo occhio, poi sfinito riuscivo a prendere sonno, agevolando il lavoro dei miei genitori nel posizionare i giocattoli nella stanza. Ma quanto era bello quando l'indomani, alle prime luci dell'alba, ci si svegliava con i primi colpi di pistola che provenivano dalle case vicine.

Ho un ricordo chiarissimo, olfattivo però, l'odore misto dei fulminanti (i caps sparati) ai dolci (rami di Napuli ed ossa di mottu) che pervadeva ogni angolo di casa mia.

Una volta "i motti" mi lassanu un regalo che mi ha lasciato a bocca aperta, il vestito di Toro Seduto, ma quant'era bellu! Tutto in simil-pelle di daino, il copricapo con mille penne e a corredo anche l'ascia di guerra. Non stavo nella pelle, prima di indossarlo però, dovevo mettere la maglia di lana, anche se c'erano 30 gradi all'ombra, per mia madre "quannu traseunu i motti traseva l'inverno", viri chi fissazione, prima a magghia e poi la guerra! Mi vesto, mi pitturo la faccia ed impugno l'ascia, niente e nessuno mi avrebbe fermato, ero un guerriero, la stessa fierezza di un Sioux. Con un urlo disumano mi presento in strada, un solo balzo e sautu da banchina sfidando i presenti. C'era da superare un piccolo problema: "Ero l'unico indiano ‘nta quatteri di cau-boi! " i coppa mi ficiunu fetiri a cani-mottu, mi vendevano come prigioniero da una strada all'altra. Ricordo, vinnunu macari picciriddi di l'autri quatteri pi sassuliarimi. Alla fine della giornata sono stati gli altri bambini a ringraziare i miei per il grosso regalo che gli avevano fatto.

Giornate indimenticabili, ricordi indelebili. Su mi toccu a testa ancora penzu ca c'haju qualche bummulu.

Gino Astorina 

La Sicilia, 02/11/2014

 

 

 

 

 COSA FARE IN CASO DI........ TOCCHIAMO FERRO

 

 

 

Giovanni Verga – da VAGABONDAGGIO (1887)

 

Nella collina solitaria, irta di croci sull’occidente imporporato, dove non odesi mai canto di vendemmia, né belato d’armenti, c’è un’ora di festa, quando l’autunno muore sulle aiuole infiorate, e i funebri rintocchi che commemorano i defunti dileguano verso il sole che tramonta. Allora la folla si riversa chiassosa nei viali ombreggiati di cipressi, e gli amanti si cercano dietro le tombe.

Ma laggiù, nella riviera nera dove termina la città, c’era una chiesuola abbandonata, che racchiudeva altre tombe, sulle quali nessuno andava a deporre dei fiori. Solo un istante i vetri della sua finestra s’accendevano al tramonto, quasi un faro pei naviganti, mentre la notte sorgeva dal precipizio, e la chiesuola era ancora bianca nell’azzurro, appollaiata come un gabbiano in cima allo scoglio altissimo che scendeva a picco sino al mare. Ai suoi piedi, nell’abisso già nero, sprofondavasi una caverna sotterranea, battuta dalle onde, piena di rumori e di bagliori sinistri, di cui il riflusso spalancava la bocca orlata di spuma nelle tenebre.

Narrava la leggenda che la caverna sotterranea, per un passaggio misterioso, fosse in comunicazione colla sepoltura della chiesetta soprastante; e che ogni anno, il dì dei Morti - nell’ora in cui le mamme vanno in punta di piedi a mettere dolci e giocattoli nelle piccole scarpe dei loro bimbi, e questi sognano lunghe file di fantasmi bianchi carichi di regali lucenti, e le ragazze provano sorridendo dinanzi allo specchio gli orecchini o lo spillone che il fidanzato ha mandato in dono per i morti - un prete sepolto da cent’anni nella chiesuola abbandonata, si levasse dal cataletto, colla stola indosso, insieme a tutti gli altri che dormivano al pari di lui nella medesima sepoltura, colle mani pallide in croce, e scendessero a convito nella caverna sottostante, che chiamavasi per ciò « la Camera del Prete». Dal largo, verso Agnone, i naviganti s’additavano l’illuminazione paurosa del festino, come una luna rossa sorgente dalla tetra riviera.

Tutto l’anno, i pescatori che stavano di giorno al sole sugli scogli circostanti, colla lenza in mano, non vedevano altro che lo spumeggiare della marea, quando s’internava muggendo nella «Camera del Prete», e il chiarore verdognolo che ne usciva colla risacca; ma non osavano gettarvi l’amo. Un palombaro che s’era arrischiato a penetrarvi, nuotando sott’acqua, uno che non badava né a Dio né al diavolo, pel bisogno che lo stringeva alla gola, e i figliuoli che aspettavano il pane, aveva visto il chiarore ch’era lì dentro, azzurro e ondeggiante al pari di quei fuochi che s’accendono da sé nei cimiteri, il pietrone liscio e piatto, come una gigantesca tavola da pranzo, e i sedili di sasso tutt’intorno, rosi dall’acqua, e bianchi quali ossa al sole. L’onda che s’ingolfava gorgogliando nella caverna, scorreva lenta e livida nell’ombra, e non tornava mai indietro; come non tornò più quel poveretto che s’era strascinato via. L’estate, nell’ora in cui ogni piccola insenatura della riva risonava della gazzarra dei bagnanti, l’onda calma scintillava, rotta dalle braccia di qualche ragazzo che nuotava verso le sottane bianche, formicolanti come fantasmi sulla spiaggia. - Così quel prete, un sant’uomo, aveva perso l’anima e la ragione dietro i fantasmi delle terrene voluttà, il giorno in cui Lei - la tentazione - era venuta a confessargli il suo peccato, nella chiesetta solitaria ridente al sole di Pasqua, col seno ansante e il capo chino, su cui il riflesso dei vetri scintillanti accendeva delle fiamme impure. Da cent’anni le sue ossa, consunte dal peccato, posavano nella fossa, stringendosi sul petto la stola maculata. Ivi non giungevano gli strilli provocanti delle ragazze sorprese nel bagno, né il canto bramoso dei giovani, né le querele delle lavandaie, né il pianto dei fanciulli abbandonati. La luna vi entrava tacita dallo spiraglio aperto nella roccia, e andava a posarsi, uno dopo l’altro, su tutti quei cadaveri stesi in fila nei cataletti, sino in fondo al sotterraneo tenebroso, dove faceva apparire per un istante delle figure strane. L’alba vi cresceva in un chiarore smorto, che al fuggire delle ombre sembrava far correre un ghigno sinistro sulle mascelle sdentate. Il giorno lungo della canicola indugiava sotto le arcate verdognole, con un brulichìo furtivo di esseri immondi in mezzo all’immobilità di quei cadaveri.

Erano defunti d’ogni età e d’ogni sesso: guance ancora azzurrognole, come se fossero state rase ieri l’ultima volta, e bianche forme verginali coperte di fiori; mummie irrigidite nei guardinfanti rigonfi, e toghe corrose che scoprivano tibie nerastre. Dallo spiraglio aperto nell’azzurro entravano egualmente il soffio caldo dello scirocco, e i gelati aquiloni che facevano svolazzare come farfalle di bruchi le trine polverose e i riccioloni cadenti dai crani gialli. I fiori, già secchi di lagrime, si agitavano pel sotterraneo, come vivi, e andavano a posarsi su altre labbra rose dal tempo; e appena il vento sollevava i funebri lenzuoli, stesi da mani smarrite d’angoscia su caste membra amate, occhi inquieti di rettili immondi guardavano furtivi nelle ossa nude.

 

 

 

Poscia, nell’ore in cui il sole moriva sull’orlo frastagliato dello spiraglio, il ghigno schernitore di tutte le cose umane sembrava allargarsi sui teschi camusi, e le occhiaie vuote farsi più nere e profonde, quasi il dito della morte vi avesse scavato fino alla sorgente delle lagrime. Là non giungeva nemmeno il mormorio delle preci recitate all’altare in suffragio dei defunti che dormivano sotto il pavimento della chiesuola, e i singhiozzi dei parenti non passavano il marmo della lapide. Le raffiche delle notti di fortuna scorrevano gemendo sulla casa dei morti, senza lasciarvi un pensiero per coloro che in quell’ora erravano laggiù, pel mare tempestoso, coi capelli irti d’orrore al sibilo del vento nel sartiame; né un senso di pietà per le povere donne che aspettavano sulla riva, sferzate dal vento e dalla pioggia; né un ricordo delle lagrime che videro forse, nell’ora torbida dell’agonia, e che bagnarono quegli stessi fiori che adesso vanno da una bara all’altra, come li porta il vento. - Così le lagrime si asciugarono dietro il loro funebre convoglio; e le mani convulse che composero nella bara le loro spoglie, si stesero ad altre carezze; e le bocche che pareva non dovessero accostarsi ad altri baci, insegnano ora sorridendo a balbettare i loro nomi ai bimbi inginocchiati ai piedi dello stesso letto, colle piccole mani in croce, perché i buoni morti lascino dei buoni regali ai loro piccoli parenti che non conobbero. - Tanto tempo è passato, insieme alle bufere della notte, e al soffio d’aprile, colle ore che suonano uniformi e impassibili anch’esse sul campanile della chiesuola, sino a quella del convito!

A quell’ora tutti gli scheletri si levano ad uno ad uno dalle bare tarlate, coi legacci cascanti sulle tibie spolpate, colla polvere del sepolcro nelle orbite vuote, e scendono in silenzio nella «Camera del Prete», recando nelle falangi scricchiolanti le ghirlande avvizzite, col ghigno beffardo di tutte le cose umane nelle bocche sdentate.

 

 

Più nulla! più nulla! - Né la tua treccia bionda, che ti cade dal cranio nudo. - Né i tuoi occhi bramosi, pei quali egli sfidò il disonore e la morte, onde portarti il bacio delle labbra che non ha più. Ti rammenti, i baci insaziati che dovevano durare eterni? - E neppure i morsi acuti della gelosia, il delirio sanguinoso che mise in mano a quell’altro l’arma omicida. - Né le lagrime che si piangevano attorno a quel letto, e quel morente voleva stamparsi negli occhi dilatati dall’agonia. - Né le ansie delle notti vegliate in quella stanza già funebre, in quell’attesa già disperata. - Né le carezze con cui il caro bimbo pagava il latte di quel seno e i dolori di quella maternità. - E neppure le lotte in cui l’uno si è logorato. - Né le speranze che hanno accompagnato l’altro sin là. - Né i fiori del campo per cui si è tanto sudato. - Né i libri sui quali si è vissuto tanta e tanta vita. - Né la bestemmia del marinaio che stringe ancora le alghe secche nelle falangi contratte. - Né la preghiera del prete che implora il perdono dei falli umani. - E non l’azzurro profondo del cielo tempestato di stelle; né il tenebrore vivente del mare che batte allo scoglio. - L’onda che s’ingolfa gorgogliando nella caverna sotterranea, e scorre lenta e livida sulla «Tavola del Prete» si porta via per sempre le briciole del convito, e la memoria di ogni cosa.

Ora nel costruire la diga del molo nuovo, hanno demolito la chiesuola e scoperchiano la sepoltura. La macchina a vapore vi fuma tutto il giorno nel cielo azzurro e limpido, e l’argano vi geme in mezzo al baccano degli operai. Quando rimossero l’enorme pietrone posato a piatto sul piedistallo di roccia come una tavola da pranzo, un gran numero di granchi ne scappò via, e quanti conoscevano la leggenda, andarono narrando che avevano visto lo spirito del palombaro ivi trattenuto dall’incantesimo. Il mare spumeggiante sotto la catena dell’argano tornò a distendersi calmo e color del cielo, e scancellò per sempre la leggenda della «Camera del Prete».

Nel raccogliere le ossa del sepolcreto per portarle al cimitero, fu una lunga processione di curiosi, perché frugando fra quegli avanzi, avevano trovato una carta che parlava di denari, e molti pretendevano di essere gli eredi. Infine, non potendo altro, ne cavarono tre numeri pel lotto. Tutti li giocarono, ma nessuno ci prese un soldo.

 

 

 

La festa dei Defunti, regali e dolci per esorcizzare la paura della morte

 

La Commemorazione dei defunti è una ricorrenza che si basa sulla pietà popolare e sulla sensibilità nei confronti dei cari, a cui restiano legati, anche se scomparsi, e ai quali rivolgiamo i nostri sentimenti di affetto e il nostro ricordo. La visita al cimitero e le preghiere sono il modo per essere ancora vicini a loro e per ricordarli nei nostri cuori. Un modo per esorcizzare la paura della morte è quello di festeggiare i nostri cari defunti, ovvero la festa dei morti.

Se la notte delle streghe da poco trascorsa ha riportato in auge scheletri, zucche, pipistrelli, fantasmi e gadget paurosi di tutti i tipi, mentre locali, alberghi e agriturismi si sfidavano a suon di menù a tema, week end dedicati e promozioni - il tutto all'insegna dell'horror, sia per grandi che per piccini -, in Sicilia da giorni c'è un fermento di iniziative in preparazione della festa più tradizionale della nostra Isola, che unisce aspetti relativi al mito, alla cultura, alla religione. La festa dei morti.

E ancora: se nei Paesi anglosassoni si respira l'atmosfera da "dolcetto o scherzetto", nella nostra Isola invece sia l'1 che oggi 2 novembre sono giorni specialei, che rimangono legati alla "Festa dei Morti", quella in cui i parenti ormai defunti fanno visita ai più piccoli e portano loro dolci e regali.

In realtà le due feste sono un po' l'una il rovescio della medaglia dell'altra. Entrambe infatti sono legate con un filo rosso ai defunti, ma se Halloween e tutte le sue tradizioni hanno come obiettivo quello di allontanare i morti - le zucche intagliate con dentro una candela servono appunto per allontanare le anime - per la tradizione siciliana tra l'1 e il 2 novembre è la notte in cui i propri cari tornano dall'Aldilà e vengono in qualche modo festeggiati.

A ben considerare, quindi, i "morti" siciliani sono morti buoni e, come vuole la tradizione, sembra che nella notte fra l'1 e il 2 novembre vadano nelle case dei parenti e lascino doni ai bambini. Anzi sembra che i defunti si risveglino e vadano a rubare dai commercianti dolci, giocattoli, vestiti, ecc., per poi regalarli ai piccoli parenti che sono stati buoni durante l'anno. Invece, per coloro che non sono stati tanto buoni, si suole nascondere le grattugie, perché i morti verranno a grattugiare i loro piedi. I bambini alla mattina trovano tutti questi doni vicino al letto.

Una tradizione questa che è sempre molto sentita e che le famiglie continuano a salvaguardare. Le mamme vanno in punta di piedi a mettere dolci e giocattoli nelle piccole scarpe dei loro bimbi, e questi sognano lunghe file di fantasmi bianchi carichi di regali lucenti, e le ragazze provano sorridendo dinanzi allo specchio gli orecchini o lo spillone che il fidanzato ha mandato in dono per i morti.

 

 

Questo è dovuto alla estrema sensibilità del popolo siciliano che vuole raccogliersi in preghiera per commemorare i defunti ma, nello stesso tempo, vuole non demonizzare la morte agli occhi ingenui dei bambini.

È usanza credere che la notte tra l'1 e il 2 si possano vedere le anime camminare per le vie, in ordine di modo di dipartita: per prima coloro che morirono di morte naturale, poi i giustiziati, poi i disgraziati (cioè per disgrazia), poi i morti di subito (cioè di morte repentina), e così via. I bambini, tutt'oggi sentono questa festività in modo particolare, poiché ricevono ancora i regali (cosi di morti) e poi perché generalmente le scuole sono chiuse.

Come ogni festa in Sicilia, anche questa ha il suo risvolto gastronomico fatto di biscotti e altre dolcezze. Caramelle e dolciumi esistono anche nella tradizione anglosassone ma qui il "dolcetto o scherzetto? ", ripetuto di porta in porta dai bambini nella notte di Halloween, serve a placare eventuali maledizioni ai padroni di casa. Nella tradizione siciliana invece dolci e biscotti sono regali che vengono lasciati dai morti per i propri cari o, viceversa, prelibatezze preparate per accogliere i propri parenti che tornano dall'Aldilà.

E se ad Halloween i morti escono dalle loro tombe e vanno in giro di casa in casa, usanze simili si conservano ancora in alcune parti della Sicilia. Ad Erice, in provincia di Trapani, e a Cianciana, in provincia di Agrigento, i defunti escono dalla Chiesa dei Cappuccini nel primo caso e dal Convento di S. Antonino dei Riformati nel secondo. A Partinico, nel palermitano, i morti indossano un lenzuolo e a piedi scalzi, con torce accese e recitando alcune litanie, percorrono le strade del paese.

 La Sicilia, 02/11/2014

  

 

Il culto a Sant'Orsola

Il fatto che i catanesi chiamino la ricorrenza del 2 novembre "festa dei morti" sta a significare che tale data è ricca di significato religioso cristiano, perfettamente aderente alla denominazione liturgica di "commemorazione di tutti i fedeli defunti".

La coincidenza, quest'anno, con la domenica rafforza tale convinzione anche perché la riforma postconciliare del calendario della Chiesa ne ha permesso la celebrazione festiva. I sacerdoti hanno la possibilità di celebrare oggi tre messe diverse (antico privilegio dei Domenicani di Valencia esteso a tutto il mondo da Benedetto XV un secolo fa durante l'‘inutile strage' della grande guerra) per i fedeli che affollano le chiese e le cappelle cimiteriali delle confraternite per lucrare l'indulgenza plenaria in suffragio dei defunti, con la visita ai camposanti durante l'"ottavario dei Morti", cioè fino all'8 novembre, accompagnandola con le preghiere per le anime sante del Purgatorio, la devota recita delle Lodi e dei Vespri dell'Ufficio dei defunti. In diverse chiese è ancora in uso, durante il rito dell'offertorio eucaristico, "chiamare" i cari defunti a voce alta col proprio nome, accendere un lumino per ognuno e recitare le giaculatorie delle anime purganti secondo la tradizione carmelitana.

I catanesi di una certa età ricordano come la "fiera dei morti" veniva chiamata "piazza dei morti" perché legata all'acquisto dei giocattoli che, nella visita nella notte dei Santi, i defunti donavano ai piccoli parenti.

Nel Seicento si diffuse a Catania il culto delle anime del Purgatorio. La Confraternita di S. Orsola o dei Morti preparava ad affrontare cristianamente la morte e provvedeva alla sepoltura dei poveri abbandonati. La Compagnia dei Morti levava dal patibolo i poveri giustiziati e per le strade più remote li conduceva alla sepoltura presso la chiesa delle Anime del Purgatorio (piazza Palestro).

La chiesa dei Morti fu eretta nel 1416 per il monastero di S. Orsola. Ricostruita dopo il 1693 vi si zelava il culto dei defunti, con pie pratiche di suffragio. Nove giorni prima della commemorazione dei defunti iniziava il Novenario dei Morti e, dopo il 2 novembre, si celebrava l'Ottavario.

La chiesa, proprietà dell'arciconfraternita S. Orsola ai Morti, sorge in piazza Scammacca. Sia il portale che l'interno della chiesa sono ricchi di simboli iconografici che alludono alla morte, al suffragio, alla vita eterna, al culto dei defunti. Ma i catanesi solevano chiamare tale sito "piazza dei Morti", che avrebbe dato il nome alla fiera che si teneva all'aperto nel corso del Novenario, durante il quale si celebravano le Quarantore.

Lì gli uomini di casa compravano giocattoli e dolciumi da nascondere la notte vigiliare, da cui il detto popolare: "u patri accatta, a matri ammuccia e u figghiu ammucca".

Antonino Blandini -  La Sicilia, 02/11/2014

 

 

 

 

In estremo Oriente è simbolo di felicità e prosperità

Una leggenda spiega perché il crisantemo sia diventato il fiore dei morti

 

 È diventato il simbolo del giorno dei morti perché fiorisce in autunno e non era considerato un ... I crisantemi sono considerati portatori di bene, gioia e prosperità in tutto il mondo, mentre in Italia vengono associati al lutto. Questo dipende dal fatto che la festa dei morti avviene in concomitanza con la fioritura dei crisantemi e per questo i fiori sono stati correlati a contesti molto tristi.

In Oriente invece i crisantemi (il cui nome in greco significa "fiore d'oro") sono estremamente positivi: vengono utilizzati per matrimoni, comunioni e compleanni. Il crisantemo è inoltre fiore ufficiale del Giappone tanto che, in suo onore, viene celebrata una festa addirittura dall'imperatore. In Cina (dove lo si coltivava già cinque secoli prima di Cristo) ha un significato felice e festoso.

Ma per quale ragione questo fiore, tanto bello, è diventato il simbolo - prevalentemente nella tradizione italo/europea - del giorno dei morti? La più ovvia è proprio la sua fioritura che avviene nel periodo tardo autunnale. Nei tempi passati non si portavano ai defunti, nei cimiteri, fiori particolarmente ricercati, ma bensì i più comuni, essi dovevano essere semplicemente la testimonianza di un pensiero per l'estinto. Alla luce di questo i fiori più comuni i primi di novembre sono proprio: margherite e crisantemi.

A queste spiegazioni se ne abbina un'altra più poetica: una leggenda che spiega perché il crisantemo oggi sia il fiore dei morti. La storia narra di una povera orfana, che all'inizio di novembre si trovò a vegliare la mamma, gravemente ammalata. Dentro di sé la bambina stava pregando affinché la madre potesse guarire e sopravvivere: ma proprio in quel momento la porta si spalancò, e l'angelo della Morte entrò nella misera stanza. La bambina pianse, scongiurò affinché l'angelo passasse oltre. Questi si impietosì: "Donerò a tua mamma tanti anni quanti saranno i petali del fiore che mi porterai". Ma era novembre, e la brina aveva già imbiancato i campi. La bambina corse fuori casa e iniziò a cercare: trovò solo erbe rinsecchite dal gelo. In un canto un po' più riparato trovò un'umile margherita. I petali bianchi, però, erano pochi, pochissimi: come fare? La piccola ebbe una intuizione: con le dita intorpidite dal gelo iniziò lentamente a dividere per lungo i petali che, così, si moltiplicarono più e più volte. Soddisfatta del suo lavoro tornò in casa, e presentò il fiore all'angelo della Morte. Questi sorrise e uscì dalla casa: la mamma visse ancora per molti anni. Anche la pianta che aveva contribuito a salvarle la vita non morì. Ma la stagione successiva i suoi fiori cambiarono: non più petali pochi e radi, ma tantissimi. Era nato il crisantemo.

La Sicilia, 02/11/2014

 

 

 

 

 

di Melania Mertoli

 

Tra Rame di Napoli, Ossa di Morto e Totò, questa festa rischia di essere un attentato alla nostra linea. Curiosità sulle loro antiche origini

In questo mese, in tutti i bar, panifici e pasticcerie di Catania si possono trovare vere e proprie leccornie, orgoglio della nostra antica tradizione gastronomica. Sono buonissimi, ricchi di sapori e odori. Ma li conosciamo veramente ? Sappiamo da dove derivano e perché si chiamano così ? I più venduti sono Rame di Napoli, seguiti da Ossa di Morto e Totò, ma anche Piparelle e ‘Nduzzi non sono da meno. Cominciamo dai Rame di Napoli. Sono biscotti ricoperti di cioccolato scuro fondente o bianco, eseguiti in due versioni: semplici e ripieni con la marmellata di albicocche. L’ultima versione li vuole con la Nutella all’interno, cosa che potrebbe far perdere il vero gusto ai nuovi conoscitori di questi dolci.

Una curiosità che li riguarda è che, mentre qui a Catania sono ultra conosciuti, a Napoli li sconoscono. Strano, no ? Noi lo abbiamo appurato telefonando alla pasticceria Scaturchio, la più antica della città – risale al 1903 - e chiedendo anche ad alcuni napoletani. Non ne hanno mai sentito parlare. E allora il loro nome da cosa nasce ? “ Da un atto di stupido vassallaggio che noi catanesi abbiamo tributato a Napoli. Per fare onore a questa città, al tempo del regno delle due Sicilie – ci spiega il gastronomo e scrittore Pino Correnti –. Ma Napoli di questo dolce non ne sapeva niente”. La dimostrazione di ciò risiede nel fatto che tutt’oggi nella città partenopea non sanno cosa siano. I “Totò” – diminutivo siciliano del nome Salvatore – sono simili ai Rame di Napoli, ma anziché essere ricoperti di cioccolato fondente, sono ricoperti di cioccolato liquido e hanno una forma diversa.

Passiamo alle “Ossa di morto” - chiamate anche “Pasta di garofano”. Questi biscotti sono formati da una parte chiara e una scura, quest’ultima messa sopra quella chiara, fatta con la stessa pasta e alla quale viene data la forma di piccole ossa una forma diversa.

Gli “’nzuddi”, - “Zulle” nella lingua italiana - di cui ci sono due versioni, con le mandorle, più secche o ricoperte al miele, più morbide. Il loro nome deriva da Vincenzo Bellini come tiene a sottolineare il critico gastronomico Pino Correnti, che facendo ricerche in materia è risalito al periodo in cui il cigno catanese, all’età di 6 anni, “componeva la sua prima cantica, sgranocchiando questi dolci ai quali in seguito fu dato il suo nome”.

 

 

 

Vincinzuddu Bellini è nato il 2 novembre 1801 e a lui, oltre alla pasta alla norma, dobbiamo attribuire anche questo dolce.

La nostra gastronomia offre anche le “Piparelle”, cioè biscotti a forma di fettine di pane, eseguiti con ingredienti naturali quali farina, cioccolato, albumi d’uovo, mandorle e pepe nero, che si possono gustare inzuppandoli nel vino o nel mosto.

Questo è il periodo in cui si preparano anche i “cannistri” - o canestri – che si possono regalare ad amici e parenti, in cui si mettono questi dolci, decorandoli con la frutta martorana, fatta di marzapane. Incredibilmente somigliante a quella vera, viene data loro forma di castagne, nespole, fichidindia, ma anche frutti di mare e pesci, tutti incredibilmente dolci.

Chiudiamo il quadro delle delizie che vengono prodotti in questa ricorrenza con i “Bersaglieri”, biscotti ai quali viene conferita la forma di bastoncini ricoperti di cioccolato e i “Regina”, fatti come i primi, ma ricoperti di glassa bianca.

A buon intenditor, …………….

RAME DI NAPOLI

 

RAME DI NAPOLI (rigorosamente con la S sopra)

Tipico dolce consumato in questi giorni a Catania, in occasione della ricorrenza dei morti. Assieme alle Vincenziane (o n'zudde) è presente in ogni bancone catanese che espone "cosa duci per i picciriddi". Ormai se ne trovano di tutti i tipi: con l'onnipresente pistacchio, la marmellata, le creme di cioccolato o di mandorla sotto una glassa (a Catania chiamata "liffia") ormai di tutti i colori. Ma pochi di questi rispettano una regola fondamentale.

Si chiamano cosi perchè durante il Regno Borbonico unito al regno di Napoli, le monete erano d'oro e d'argento e quindi molto pesanti. Fu allora che si pensò di coniare una moneta piu' leggera fatta di rame, appunto la moneta di rame e il dolce per ricordare il conio borbonico fu un passo davvero breve.

Pertanto, se si vuole rispettare l'originalità di questa creazione dolciaria catanese, è fondamentale aggiungere sulla glassa la lettera "S", simbolo del denaro.

 

 

 

QUELLI STORICI E ORIGINALI IMPONGONO LA "S" SULLA GLASSA DI CIOCCOLATO.

 

 

 

 

 

chi è Rossella Sturiale

 

 

Ossa di mortu, 'nzuddi e rame di Napoli

Nel "cannistru" venivano messi anche totò bianchi e neri, paparelle e dolci di pasta reale

In alcuni paesi c'è la tradizione di imbandire la tavola dove si pongono biscotti e dolciumi

 

 L´idea di commemorare i defunti in suffragio nasce da rito bizantino, che celebrava tutti i morti ... Da metà di ottobre le vetrine delle pasticcerie si riempiono di meravigliosi cesti pieni zeppi di frutta martorana e di vassoi di "ossa di morto". Una gioia per gli occhi, la frutta è talmente bella che sembra vera, e per il nostro palato anche se l'indice glicemico schizza alle stelle!

Come vuole la tradizione siciliana, la sera prima della festa dei morti, i bimbi vanno a letto con la speranza d'essere ricordati da nonni e familiari trapassati. Sul tardi i genitori preparano le "ceste" con i dolci tipici della festa (al posto dei dolci talvolta i bambini ricevono anche in regalo scarpe, maglioni, giocattoli) e li nascondono nei punti più reconditi dell'abitazione.

La mattina del 2 novembre, i bambini s'alzano già pronti per iniziare la caccia al tesoro in giro per la casa, dopo avere recitato la supplica: "Armi santi, armi santi, / Iu sugnu unu e vùatri síti tanti: / Mentri sugnu ‘ntra stu munnu di guai / Cosi di morti mittitimìnni assai".

Nella tradizione, il cosiddetto "cannistru" (cestino), a volte sostituito da una tavola imbandita preparata in ogni casa, viene così riempito della tipica frutta martorana, "ossa i mottu" (ossa di morto), rame di Napoli (biscotti ricoperti di cioccolato fondente o bianco realizzati in due versioni: semplici o ripieni con la marmellata di albicocche o crema di cioccolato), 'nzuddi (biscotti alle mandorle preparati preparati dalle Suore Vincenziane di Catania, ed è proprio da loro che prendono il loro particolare nome: "nzuddo" nel siciliano antico non era altro che il diminuitivo di Vincenzo), taralli e totò bianchi e marroni, anche questi biscotti ricoperti i i primi di zucchero a velo, i secondi di polvere di cacao. Il tutto è poi arricchito da frutta secca di ogni tipo.

In altri centri della Sicilia, invece, si è soliti donare dolci antropomorfi come i pupi ri zuccaru (bambole di zucchero), bambole che si ispiravano generalmente ai paladini di Francia fatte interamente di zucchero e completamente dipinte a mano, le ossa ri mortu, dolci generalmente a forma di tibie umane, e dolci di tradizione popolare come i frutti di martorana.

È poi usanza mangiare fave durante questi giorni di festa. Si consumano le favi a cunigghiu (fave a coniglio), dette in alcuni parti anche favi'n quasuni; esse sono cucinate secondo il rito romano della Lemuria, in cui, a parte che mangiate, le fave nere, nel cui seme, secondo leggenda, si trovavano le lacrime dei trapassati, venivano lanciate a terra dal padre di famiglia per allontanare le anime dei defunti. L'uso delle fave si faceva anche a Palermo al XVIII sec., che però prediligeva e predilige tuttora muffulette schiette omaritate, pane morbido e tondo ripieno, e murtidda nivura e bianca (mirto nero e bianco). In alcune parti della Sicilia, si è soliti accompagnare le fave alle armuzzi, pane antropomorfo raffigurante fino al tronco le anime del purgatorio con le mani incrociate sul petto. L'usanza di cibarsi di pietanze a forma di uomo, o a parti di esso, risale anch'essa ai tempi dei romani, che a loro volta, si cibavano delle maniae, pani fatti a somiglianza del dio del bosco, come rito di propiziazione per la divinità.

Si tratta di un biscotto dal cuore morbido al cacao, ricoperto da una glassa di cioccolato fondente, delicatamente speziato.
Racchiude in se' un misto di aromi e odori che rende davvero speciale questo biscotto, tanto che chiamarlo biscotto mi sembra come sminuirlo, visto che il sapore mi ricorda tanto la sopraffine torta viennese Sacher!
Vaniglia, cannella, chiodi di garofano e un aroma di arancia mischiati al sapore di cioccolato rendono questo dolce particolare e un prodotto di fine pasticceria, che spesso i Catanesi sottovalutano, anche perché il prodotto negli anni ha perso di qualita' : difficile trovare un biscotto morbido ed equilibrato nel sapore, i biscotti usati per l'impasto sono spesso prodotti di scarto, e le rame che da noi si trovano in questo periodo nei supermercati e forni sono prodotti e distribuiti in maniera industriale.
Non si conosce con certezza ne il luogo di provenienza ne la data esatta, ma una cosa certa e' che i Napoletani non ne hanno mai sentito parlare.

  La Sicilia, 02/11/2014

 

 

Solennità d'OGNISSANTI e Commemorazione dei Defunti . " u piatteddu"

...li aveva già comprati e tenuti ancora incartati: soltanto al ritorno dal Cimitero potevano essere visti,ammirati,assaggiati,gustati e in ricordo dei cari defunti....finalmente esauriti con delizia del palato. Dalle nostre parti è tradizione(anzi lo era)recarsi prima al Cimitero a portare fiori ai nostri cari defunti. L'amministrazione curava i trasporti da e per il cimitero,transennava Via Garibaldi,per poter raggiungere Via Acquicella,molto più facilmente e dare la possibilità alle auto di velocizzare il percorso...adesso non più da diversi anni-chissà perchè-Ma la folla che vi si riversa è sempre tanta.Soltanto dopo si potevano aprire le confezioni che ai nostri tempi,contenevano ogni ben di Dio (!) ,ovvero mostarda,rame di napoli,ossa di morto,fichi secchi,mele dell'Etna,cotognata,biscotti di tutti i tipi,leccornie tipiche nostrane,passuluni,viscotta regina,quelli lunghi "cca liffia", i 'nciminati,bersaglieri,totò,angileddi...ma, come in ogni cosa,c'è sempre un ma: bisognava aspettare Mamma che tornando con noi dal Cimitero,doveva preparare "u piatteddu" Si trattava di un gentile omaggio alle comari(di parentela e non),alle vicine ed a chi teneva care(oltre ai propri figli che intanto cominciavano a gozzovigliare,(allungando le manine e via agli assaggi). Operazione quella di Mamma nostra che andava di pari passo con i migliori scenografi,grafici e arredatori del buon gusto. Uno di questa,una di questo,un po' di dolciumi,frutta secca e ecc. ecc.,messi a bella posta all'interno del non dimenticato "piatteddu",facevano davvero bella mostra di sè. Segni di devozione e ringraziamento ma carichi d'affetto e benevolenza a ricordo dei nostri cari defunti,che andavano immediatamente consegnati,adesso definitivamente scomparsi,dimenticati e quasi quasi da dar fastidio,nonostante le ripetute volte che il mio Amico Gianni Sineri,nel corso dei suoi spettacoli,ne rinverdisce le usanze e tradizioni. Una volta mi ricordo che anche la sua mamma Sarina Micalizzi ne fu omaggiata,allorquando abitavano i Sineri in Via Garibaldi,angolo Via Politi,dirimpetto dove risiedevamo noi. Tempi andati,ma sicuramente belli e generosi,carichi di intensità e benevolenza:Altro che FB...le persone si dividevano fatti,racconti,leggende,avvenimenti e cronache parlandone..da balcone a balcone. Auguri ai festeggiati odierni e Buone festività a Tutti.

Piero Privitera

 

 


 

 

Esistono varie ipotesi sulla loro origine, dal nome dato dal pasticcere Napoli inventore di questa ricetta, ad un atto di stupido vassallaggio che noi Catanesi abbiamo attribuito a Napoli e per fare onore a questa citta' al tempo delle due Sicilie, come spiega il gastronomo scrittore Pino Correnti.
Altra ipotesi, sempre collocata al Regno delle 2 Sicilie sotto l'impero Borbonico, e' che con l'unificazione del Regno di Napoli con il regno di Sicilia venne coniata dal re Carlo di Borbone una moneta con la lega del rame, materiale povero che dovette sostituire l'oro e e l'argento.
Cosi' il popolo, riprodusse in cucina le monete di rame, utilizzando ingredienti poveri.
La ricetta e' stata nel tempo modificata e arricchita con aggiunta di uva sultanina, scorzette di arancia candita, nutella, ma l'antica ricetta prevedeva semplicemente: farina, cacao amaro, zucchero, ammoniaca, strutto e marmellata d'arance.
Era usanza prepararli per le festivita' di ognissanti perche', come da tradizione , venivano regalati ai bambini, i cui genitori spiegavano che fossero i regali portati loro dai parenti trapassati, per essere stati buoni durante l'anno.
http://sognidizucchero.blogspot.com/2008/10/tradizione-catanese-le-rame-di-napoli.html

 

 

 

 

http://lafarfalladicioccolato.blogspot.it/2011/11/rame-di-napoli.html

Buongiornoooo!!! Anche se in ritardo di qualche giorno vi posto le Rame di Napoli, un dolce tipico della festa dei Morti, qui a Catania. Diciamo che la vera festa per noi è il 2 Novembre, e non l'1 Novembre tutti i Santi. Qui c'è l'usanza che i proprio cari che ormai non ci sono più portino dei doni ai più piccoli. In genere giocattoli, e si cucinano anche tantissimi dolci. Tra cui le rame di Napoli, gli 'Nzuddi, ossa di morto, nucatoli, sciatori, totò e chi più ne ha più ne metta.
Vi metto qui la ricettina:

 

500g farina 200 gr. di zucchero  2 uova  75 gr. di strutto (sciolto)  50 gr. di burro (sciolto)  un cucchiaio scarso di miele  100 gr. di cacao amaro  chiodi di garofano pestati e ridotti a pezzettini  cannella  vaniglia  100 gr. di biscotti secchi (frollini o tipo saiwa)  5 gr. di ammoniaca latte qb

PER LA COPERTURA:  200g cioccolato fondente   50g burro  un goccio di latte
Mettere i frollini dentro una ciotola con del latte fino a farli diventare una crema. Impastare tutti gli ingredienti come per una normale frolla con le mani.
Soltanto alla fine, aggiungere del latte e mescolare con un cucchiaio di legno fino ad ottenere una consistenza simile a quella della crema pasticcera.

Lasciare riposare per circa 1 ora.
Rivestire una teglia per biscotti con della carta forno (i biscotti non vanno cotti sulla lastra imburrata ed infarinata), disporre l'impasto a cucchiaiate distanziando e dando la forma di un ovale.
Cuocere a 150-160 °C per circa 10/15 minuti.
Lasciare raffreddare.
Fondere il cioccolato con il burro a bagnomaria, deve risultare molto liquido, questo per avere una superficie liscia e in modo che ci sia soltanto un velo di glassa sulla superficie.
Immergere i biscotti capovolti impugnandoli con il pollice e l'indice dentro la glassa, girarli e adagiarli sulla carta per farli asciugare.
Decorare o cospargere con polvere di pistacchi o nocciole (io nocciole ;D)

 

 

 

 

 

'NZUDDI

 

http://lafarfalladicioccolato.blogspot.it/2010/11/nzuddi.html

 

Buon pomeriggio a tutte/i!!! Anche se un pò in ritardo vi presento gli 'Nzuddi non saprei dirvi altro nome...forse potete chiamarli Inzuddi ma sempre non si riesce ad accoppirgli un nome italiano ;D!!! Biscotti tipici della festa dei morti che si accompagnano alle Rame di Napoli e alle ossa dei morti ma anche ai totò e a tantissime altre preparazioni. 

Questa ricetta è diversa da quella che si può trovare, infatti come per tutte le ricette tipiche, ogni famiglia a la sua personale. Finalmente è arrivato il fornoo nuovooo e ovviamente prima di fare il pan di spagna per le mie due torte devo provarlo e riporvarlo per capire le temperatura!!!

Solo altre due paroline su questi biscotti...hanno come agente lievitante l'Ammoniaca. Ha un'odore pessimo soprattutto quando si apre il forno, a me ieri lacrimavano gli occhi...maaa...c'è un ma...appena evapora tutto il puzzo rimane al biscotto quel sapore di "antico", di biscotti della nonna, quei biscotti cotti magari nel forno a legna. Io adoroo i dolci con l'ammoniaca!!! Quindi la promuovo a pieni voti!!!
Ne vengono troppi ma si conservano bene. Fate pure mezza dose, è più che sufficiente.

Ingredienti

1 Kg di farina 00  700 g zucchero  4 uova   cannella   1/2 bicchiere di Vecchia Romagna (Ho messo Calvados alle mele...proverò con marsala la prossima volta)  200 g burro   150 g di mandorle (solo per la decorazione)   10 g di bicarbonato di ammonio (ammoniaca)

Procedimento

Si mescolano farina,zucchero,cannella,bicarbonato di ammonio,poi aggiungere il burro a temperatura ambiente, le uova e il liquore.Impastare per bene e fare delle palline della grandezza di una noce.Mettere sulla teglia (con carta forno) mettere al centro una mandorla e schicciare.Mettere ben distanziati perchè in forno si allargano abbastanza.Stanno in forno per circa 10 min a 180°C (il mio 200°C ma è nuovo e le temperature non sono più quelle a cui ero abituata) fino a che non sono appena dorati.

 

https://www.mimmorapisarda.it/2024/056.jpg

 

'nzuddi e Vincenzo Bellini.

 

Le bancarelle per la festa dei morti in Sicilia si riempiono dei dolci più buoni che le mani e le menti dei pasticcieri nostrani sono riusciti negli anni a elaborare e produrre.

Rame di Napoli , ossa di morto , totò , frutta martorana e altre meraviglie che da sole giustificano la presenza dell'uomo sulla terra come massima evoluzione dei mammiferi.

Ma francamente dobbiamo dire che la fragranza , la croccantezza e al contempo la dolce morbidezza, la stessa consistenza de 'nzuddri fanno di questi gli unici dolci di questo periodo che appagano oltre il palato anche il senso del tatto e dell'udito , in un concerto che coinvolge tutti i sensi.

Questi dolci venivano preparati dalle suore Vincenziane, il nome 'nzuddi deriverebbe dall'abbreviazione del nome Vincenzo che in siciliano sarebbe Vincinzuddu

Traduzione dialettale di “Vincenzi”, sono biscotti secchi profumati con scorza d’arancia e decorati con una mandorla sopra, l’impasto è fatto di: acqua – farina – miele – latte – mandorle e scorza d’arancia.

L'ordine delle vincenziane è ispirato dal santo San Vincenzo de Paoli, nato in Francia, a Pouy, il 24 aprile del 1581 e morto a Parigi il 27 settembre del 1660. Canonizzato nel 1737. L’ordine delle Figlie della Carità risale al 1633 con la collaborazione di Santa Luisa, erano suore non più chiuse nei conventi ma sparse nel mondo a servizio dei poveri.

Sono state le prime suore di congregazioni di vita apostolica a venire in Sicilia nella seconda metà dell’Ottocento.

Catania fu la prima sede siciliana delle vincenziane, chiamate il 19 settembre 1876 dal Beato Dusmet, operarono e ancora operano presso l’ospedale V. Emanuele; poi l’ospedale S. Marta, l’orfanotrofio Pio IX , oltre a numerosi interventi a favore dei più bisognosi sull'intero territorio cittadino.

La loro sede più importante nella città è “La Casa della Carità” sita in via San Pietro, 49 nata nel 1923 per espresso volere della Baronessa Anna Zappalà, presidente dell’Opera di Soccorso Infermi a domicilio, con la collaborazione della leggendaria Suor Anna Cantalupo che si distinse per innumerevoli iniziative nel dopoguerra catanese servizio ai più poveri.

Meno solida è la versione che fa derivare il loro nome da Vincenzo Bellini che all’età di 6 anni, “componeva la sua prima cantica, sgranocchiando questi dolci ai quali in seguito fu dato il suo nome”, e a tale proposito, i catanesi, rifacendosi alla dolcezza dei “N’Zuddi” e al suo derivato nome, soprannominarono Vincenzo Bellini “N’Zuddu” per esprimergli l’ammirazione per la bellezza dei suoi lineamenti e la dolcezza della sua musica.

Pur essendo dei biscotti nati nel catanese sono molto diffusi anche nel messinese

Dopo il terremoto che devastò Messina nel 1908, le suore catanesi donarono dolci e ricetta fino a quel tempo tenuta gelosamente segreta ai messinesi come azione caritatevole.

La versione messinese dei biscotti presenta un volume più generoso e una forma quadrata e vengono preparati durante la festa della Madonna della lettera, patrona della città, il 3 Giugno.

Fate tutto quello che volete per le feste di ognisanti ma non perdetevi i 'nsuddri perchè passerà un altro anno prima di vederli di nuovo sulle bancarelle e il tempo fugge e il futuro è relativo .

Fonti : fdcsanvincenzo.it ; tomarchio.eu ;

 

 

OSSA DI MORTU

 

Questa è la storia di un anziana donna siciliana.
Il suo cortiletto, che ricorda l' aia di un tempo, è adornato da numerosi canneti su cui posano, disposti in maniera precisa e allineata... quasi maniacale, i frutti di un estate ormai passata.
"Conservare" l'abbondanza significa per lei non sprecare nulla ed impiegare il suo tempo, per poi ritrovare sulla tavola d'inverno i sapori del suo orto che ha amorevolmente curato durante l'estate.
Andarla a trovare è sempre un momento speciale... soprattutto per i miei bambini che tornano spesso a casa con un ovetto caldo tra le mani.
La guardo mentre imbottiglia le sue conserve di pomodoro e i miei occhi cadono sulla corona di fichi secchi, talmente bella da sembrare una collana preziosa e sulle formelle di mostarda di fichi d'india anch' esse messe a seccare.

In un angolo vedo un enorme vassoio con dei tocchetti bianchi coperti da velo... per quanto potessi dar sfogo alla fantasia mai avrei potuto immaginare di cosa potesse trattarsi.
Cosi' timidamente chiesi e l'anziana donna, sorridendo e asciugando le mani nel suo grembiule si dirisse dentro casa ed usci' fuori con una scatola di latta.
Apri' la scatola e dentro vidi qualcosa di molto familiare:Biscotti!
Non capendo l'attinenza alla mia domanda ne presi uno e comincia a sgranocchiarlo.
Lei riprese il suo lavoro e con un sorriso come per dire... "Questi ragazzi di oggi!", disse:

- "I biscotti che mangi sono gli stessi che vedi stesi al sole".

I tradizionali biscotti Ossa di Morti sono biscotti fatti seccare al sole?
Capite bene che non potevo andar via senza estorcere la ricetta, troppo particolare troppo strana!

Le ossa dei morti sono dei dolcetti che qui in Sicilia insieme alla rame di Napoli e ai toto' si comprano e regalano durante il periodo della commemorazione dei defunti.
A dire il vero dall'inizio di ottobre si trovano nei forni e dentro le pasticceria ed e' molto facile tornare a casa con un sacchettino pieno di biscottini da sgranocchiare magari d'avanti alla tv proprio come per i pop- corn!
Molto dolci, speziati e croccanti hanno qualcosa che ricorda il torrone... con sopra questo guscio vuoto bianco che quando si addenta si frantuma come vetro.
Non è quindi un caso che girovagando sul web ho spesso trovato ricette che prevedevano meringa e mandorle... ma nella ricettina della vecchina di tutto questo nemmeno l'ombra!
INGREDIENTI 1.200 kg di zucchero 1 kg di farina 00 300 ml d'acqua un cucchiaino di cannella un cucchiaino di chiodi di garofano tritati finemente ( io ho dimezzato gli ingredienti impastando 500 gr. di farina)

PROCEDIMENTO In un pentolino portare quasi a bollore l'acqua spegnere la fiamma e mettere dentro lo zucchero mischiando con un cucchiaio (non otterrete un vero e proprio sciroppo visto che lo zucchero sarà molto di più rispetto all'acqua). Impastare la farina e le spezie con l'acqua e lo zucchero fino ad ottenere un impasto liscio ma ben sodo.
Sul piano infarinato formate un filoncino e tagliate a tocchetti di circa 3 cm o la forma che più vi piace considerando che questa verra' mantenuta durante la cottura.
Io ho decorato ogni tocchetto imprimendo la forma di una forchetta.
A questo punto posizionarli su un vassoio coperto da carta forno e far asciugare al sole per almeno 3 giorni coprendo con del velo. Non dovrete mai girarli. Infornare a 180 c' su carta forno, distanziando bene tra loro, fin quando vedrete uscire dalla base del biscotto lo zucchero sciolto che tenderà a caramellarsi. I biscotti si staccheranno facilmente quando saranno freddi.

Perché succede questa magia? La vecchietta non mi ha spiegato ma per logica mi sembra di aver capito che il sole colpendo i biscotti asciughi quasi pietrificando la superficie mentre la base a contatto con la carta forno anche il terzo giorno risulta essere ancora umida. Durante la cottura lo zucchero tende a sciogliersi e trova come unica via di fuga la base del biscotto lasciando questo scheletro di farina praticamente intatto.
Come risultato un guscio bianco vuoto fortemente aromatizzato alla cannella su una base caramellata che nell'insieme risulta davvero piacevole.

Quindi la meringa su base mandorlata un mito da sfatare o semplicemente ricetta revisionata di qualcosa che all'origine era ben altro?
Una cosa è certa il sapore e la consistenza è proprio quella dei biscottini che ho sempre mangiato, il guscio sopra non mi è mai sembrato una meringa e la base caramellata che si attacca ai denti può davvero trarre in inganno dando l'impressione di star mangiando un biscotto a base di mandorle!

http://sognidizucchero.blogspot.com/2009/09/ingredienti-zucchero-farina-acqua-e.html

 

 

LE PIPARELLE

 

Sono tipiche del messinese
ma di certo le trovi anche qui a Catania nei panifici, sono come i cantuccini ma con l'aggiunta del pepe nero. Io ho trovato questa ricetta presa dal forum del sito Cookaround anche se è fatta per il Bimby. Io non l'ho ancora fatta (il Bimby non ce l'ho quindi mi arranger) ma te la posto lo stesso:

Ingredienti: 500g farina 00, Scorza essiccata di 1 arancia, scorza di 1 limone, 1 chiodo di garofano, 150g di milele, 150g di zucchero, 200g di mandorle tostate con tutta la pelle (anche 300g, diciamo che più se ne mettono meglio è), 2 tuorli, 1 cucchiaino di pepe nero macinato, 150g margarina, 10g bicarbonato

Procedimento: MAcinare nel boccale le scroze d'arancia e limone, il chiodo di garofano, vel 10 30 sec. aggiungere zucchero e milele 5 min 100 vel 3, aggiungere margarina 30 sec vel 3, aggiungere farina, bicarbonato e pepe 2 min vel 6 aggiungere le mandorle tostate e spatolare bene. Formare 2 filoni che andranno posizionati in teglia con cartaforno ben distanziati. Infornare a 160 30 minuti, tagliare tiepidi e rimettere in forno a 150 5 minuti, spegnere il forno e lasciarli raffreddare dentro al forno.
 

LA FAMIGLIA DEI TOTO'

 

 

Il ToTo' (rotondo nero) fu ideato da un pasticciere di nome Salvatore, che dopo aver condito una torta,gli rimase del cioccolato e creo' un piccolo pasticcino al quale diede il suo nome Toto'(Salvatore)

Il Bersagliere (lungo nero) in onore della divisa scura di questo nobile Corpo Militare.

La Regina (lungo bianco) in onore dell'abito regale femminile, fino al 46 a Catania c'era ancora la monarchia

Il ToTò (rotondo bianco) creato non da molto, fu fatto nel dopoguerra  e lo chiamarono Angileddu perche' ricorda la nuvola bianca dove viaggiano gli angeli

(Gianni Sineri)

N'CIMINATI

 

Chissà oggi quanti catanesi conoscono la storia di Aspanu, venditore di ‘nciminati.

La leggenda narra che Aspanu alla fine dell’Ottocento e nei primi anni del ‘900, nel dolce periodo della “Bell’Epoque” catanese, si aggirasse all’interno del giardino Bellini vendendo i cosiddetti ‘nciminati, espressione tipica catanese per indicare delle ciambelline dolci ricoperte di sesamo.

Tutti in città conoscevano l’umile uomo e il suo originale banco di vendita sul ventre rotondetto. Aspanu portava infatti il suo cestello colmo di dolcetti appeso al collo con una cinghia.

Era un uomo senza età né identità, nessuno sapeva niente sulla sua vita privata, non era né troppo giovane né si poteva definire anziano, di bassa statura e con la faccia tonda e liscia, completamente priva di barba.

Aspanu era notissimo in città soprattutto per quella sua suadente cantilena che rivolgeva furbescamente a tutti i bambini che incontrava a spasso con i papà, le mamme e i nonni, per pubblicizzare i suoi dolcetti e attirarli verso il suo banchetto.

Con affetto ed ironia cantava così: “picciriddi, chianciti, chianciti ca poi ‘u papà v’accatta i ‘nsiminati” esortando i bimbi a piangere affinché i loro padri acquistassero le ciambelle ricoperte di sesamo.

Un giorno Aspanu, ormai vecchissimo ma con la sua faccia da eterno ragazzo, così com’era venuto, scomparve nel nulla.

Quel venditore era un uomo senza tempo, che andando beato per i viali del magnifico parco, ci ricorda di una Catania ormai antica ma vera, probabilmente non realmente morta del tutto che sa riconoscersi nella sua semplicità fatta di uomini umili e immersi nei sorrisi altrui.

https://www.peripericatania.it/Storie-di-Catania/aspanu-luomo-senza-tempo/?fbclid=IwAR3MCoHUlSf33YiMYZMj8pabAxhqvfI1tWrU9Awe_Y-FNfTAGDH1TFjpp-k

 

 

 

 

 

Perché il 2 novembre si mangiano i legumi?

Vi sarà sicuramente capitato di trovare, tra le pietanze tipiche del giorno della Commemorazione dei Defunti, anche tanti piatti a base di legumi. In Sicilia è buona abitudine, ad esempio, consumare zuppe e contorni preparati con questi ingredienti. Non tutti lo sanno, ma il motivo che sta dietro questa usanza è molto profondo e affonda le radici nel passato. Ecco, dunque, perché il 2 novembre si mangiano i legumi.

Da sempre, prodotti come ceci e fave si associano al mondo dei defunti. Prima del VII secolo a.C., le popolazioni ioniche credevano che, durante la festa delle Antesterie, i morti tornassero sulla terra. Quella festività si celebrava tra febbraio e marzo e, per permettere ai propri cari di rifocillarsi prima di fare ritorno nell’aldilà, si preparavano grandi pentole di ceci, fave e fagioli. I romani erano soliti mangiare, nel corso dei banchetti funebri, le fave: credevano, infatti, che dentro il baccello giacessero le anime dei morti. 

Per i Romani il “tempo dei trapassati” durava un’intera settimana di febbraio. La Festa dei Morti era molto importante perché “dai morti nasce la vita, come dai semi nasce il frutto”.

Diversi i riti dell’epoca: uno, fatto per chiedere la pace ai morti, consisteva nel cospargere di questi legumi le tombe. Un altro, eseguito per scaramanzia, era realizzato gettandosi le fave dietro alle spalle e recitando le parole: “Con queste redimo me e i miei“. In epoca cristiana, nelle ricorrenze dei Santi e dei Morti, le fave diventarono cibo di precetto nel 928 quando Oddone abate di Cluny ordinò che ogni anno il 2 novembre si commemorassero i defunti con speciali orazioni. Affinché i monaci riuscissero a vegliare l’intera notte in preghiera, l’abate concesse una razione speciale notturna di fave. I riti pagani, dunque, vennero “ereditati” dai cristiani che consumavano fave accanto alle tombe dei loro cari, il giorno del 2 novembre.

Con il tempo, nelle case più umili, si diffuse la consuetudine di cucinare per la Festa dei Morti zuppe e minestre preparate con i legumi. Vi sono moltissimi esempi, in tutta Italia. In Sicilia, nel palermitano, si preparano le “fave a cunigghiu“. Sono un piatto che si può proporre sia con le fave fresche, che con quelle secche non decorticate. I legumi si scaldano e si condiscono con olio, sale, pepe e origano. Il nome deriva dall’usanza di mangiare le fave con le mani, incidendo la buccia con gli incisivi, in modo da fare uscire il frutto, proprio come farebbe un coniglio. Il capofamiglia, in passato, era solito gettare le fave a terra, prima di distribuirle agli altri commensali. In questo modo, allontanava dalla casa le anime dei defunti.

FONTE

 

 

 

Novembre e la Festa dei Morti

 

di Nicola Lupo

 

(le immagine inserite, qui a caso, sono di Turi Salvatore Giordano)

 

 

Essendo ancora in novembre, si potrebbe incominciare, dalle tradizioni popolari sui morti, perché il loro culto era molto sentito e condizionava tutta la vita delle famiglie.
Infatti a cominciare dal lutto, esso incombeva, specialmente nella vita delle donne, le quali dovevano rispettare certe regole fisse che stabilivano i tempi e i modi del lutto stesso, a seconda che si trattasse dei genitori del marito o propri, dei figli o dei cognati, degli zii o dei compari ecc..

C’erano tanti gradi di lutto a seconda della parentela, dell’età e della circostanza in cui era avvenuto il decesso: il lutto stretto era quello che durava più a lungo e con manifestazioni più evidenti: infatti in quei casi gli uomini dovevano indossare il vestito nero,la camicia bianca con bottoni neri, e la immancabile cravatta nera e non dovevano sbarbarsi per parecchi giorni (forse una o due settimane).
Chi risentiva di più del lutto da mostrare erano le donne, le quali dovevano vestire di nero dentro e fuori casa per parecchio tempo, tanto che spesso succedeva che le morti si accavallassero e quindi esse non smettevano di portare il lutto e per adeguare i vestiti dovevano ricorrere alla tintoria che, allora, avveniva in casa: si comprava, da Caponnetto o da altri il tubetto che conteneva il nero, si mettevano i vestiti a mollo nel “lavizzu“, (grande recipiente di rame a bocca larghissima, più del fondo), e lì avveniva la tinteggiatura che, ripetuta nel tempo diverse volte, riduceva le vesti lise e di un colore indefinibile.
Un capo di abbigliamento caratteristico delle donne era “u fazzirittuni” un grandissimo “fazzoletto” che, piegato in due a triangolo, si appoggiava o sulle spalle o sulla testa in modo da coprire tutto il corpo fino alle ginocchia; la stoffa di questo indumento era il cotone, spesso setificato, di colore nero; anch’ esso, quando era stinto, si tingeva come detto sopra, fino a quando non diventava un indistinto color melanzana.
Durante la veglia funebre (detta “u visritu”) si piangeva a voce alta anche con grida di strazio, e cominciava la persona più colpita, per esempio la moglie in caso della morte del marito giovane, la quale ne elogiava i meriti e rimpiangeva la virtù, specie in funzione del mantenimento e dell’educazione dei figli, seguita da parenti, amiche e vicine, che ricordavano, per chi aveva studiato, le “prefiche” delle civiltà precedenti.
Dette usanze antiche venivano ricordate anche dal pranzo che seguiva il funerale: esso era preparato da parenti più lontani o da amici per la famiglia, ma vi partecipavano anche coloro che avevano pianto di più assieme ai familiari del/la defunto/a, che lo gustavano di più in quanto il loro dolere non era sentito al punto da togliere l’appetito.

Passando al ricordo dei parenti defunti esso era strettamente legato a loro; perciò ai figli si parlava spesso di loro, sia che li avessero conosciuti, sia che fossero morti prima; e, quindi, anche i regali si facevano come mandati dalla nonna o dal nonno morto, e in genere, venivano effettuati facendoli trovare, dentro le scarpe, il 2 novembre, commemorativo dei defunti, o quando ricorreva la data della loro scomparsa.
Il 2 novembre sostituiva, infatti, sia Babbo Natale che la Befana e non si conosceva la nuova festa tutta americana Halloween, regalo della globalizzazione. I doni che si facevano trovare ai bambini in occasione della memoria dei defunti erano specialmente i dolciumi e a Bronte i preferiti erano “i crozzi ‘i mottu“, dolcetti durissimi che riproducevano in miniatura teschi e ossa lunghe, che dovevamo ricordare i parenti defunti, ma che i ragazzi mangiavano o per desiderio di dolce, o ricusavano perché mettevano a repentaglio i loro giovani denti.
Il negozio specializzato nella vendita dei suddetti dolci speciali per quella ricorrenza, era la drogheria di don Angelo Caponnetto, che era situata in Corso Umberto I, angolo via Pietro Calanna, cioè vicino alla Chiesa di S. Giovanni e quasi davanti a quella del Rosario.
Il negozio Caponnetto era quasi un bazar, perché vendeva un po’ di tutto e il suo proprietario era un personaggio (4) caratteristico per la sua simpatia e l’aria soddisfatta che aveva acquisito con il raggiunto benessere: infatti col suo negozio aveva sistemato i suoi sei figli, tre maschi e tre femmine: la più grande l’aveva sposata a Maruzzella (5), negoziante di tessuti, le altre due gestivano la casa e il magazzino; i tre maschi andarono via da Bronte e approdarono a Roma dove i primi due ebbero rinomati negozi di abbigliamento in zone prestigiose, come il viale Regina Margherita, mentre il più piccolo, Vittorio (6), mio compagno di scuola anche dai Salesiani di Pedara, diventò maestro elementare e insegnò anche a Roma dove visse e morì.

La visita ai defunti nella prima settimana di novembre allora era un mesto pellegrinaggio, mentre adesso, mi dicono, sia diventato un grande ingorgo di automobili, e ai tradizionali fiori freschi, si sono aggiunte le opere di bene fatte tramite le pie Dame di S. Vincenzo con il cosiddetto “fiore che non marcisce”: cartellino bordato a lutto, a riprova dell’offerta, che si depone o appende sulla tomba del caro estinto con una frase di ricordo e l’indicazione del parente offerente.
Una volta si andava al cimitero il 2 novembre non solo per visitare i propri parenti defunti, ma anche per “vedere” le cappelle e le tombe più caratteristiche. Noi andavamo a visitare la tomba di Maria Brunetti, una giovanissima maestra randazzese che era ospite dei nostri genitori e morì in casa loro vittima della famigerata spagnola, l’influenza che fece molte vittime nel 1916.
Ma curiosavamo fra le altre tombe a caccia di epitaffi curiosi: un noto delinquente ricordato come una persona perbene; un vecchio rimpianto dai genitori, ed altre amenità che suscitavano il riso anche in quel luogo di serena tristezza.
Allora c’erano le cripte nelle chiese, dove venivano sepolti i preti, consuetudine che fu interrotta dalla legge napoleonica che istituì i cimiteri e che ispirò i Sepolcri di Ugo Foscolo.
Celebre e visitata quella della Matrice, dove in un coro come quello che c’era dietro l’altare maggiore, erano sistemati gli scheletri dei preti, vestiti dei paramenti sacri e con un cartiglio appuntato ad una manica, con tutti i dati di riconoscimento.
In noi ragazzi aveva fatto impressione un nome: Cicirello; e quindi il 2 novembre era un susseguirsi di appuntamenti: “oggi andiamo a vedere padre Cicirello!” ed era come volere esorcizzare la paura che incuteva quel lugubre sotterraneo con quella schiera di scheletri che ci terrorizzavano, ma su cui cercavamo di scherzare.

Nicola Lupo Nicola  (bronteinsieme.it)

 

 

LE “COSE” DEI MORTI

(Dialogo popolare fra civitote)

dal "D'Artagnan" di Nino Martoglio (28 ott. 1894).

 

Vincenza la Pupa, Serafina l’avara (civitote) e un commesso di negozio.

Vin.- Oh Fina! Ci vieni in Piazza, a comprare le cose dei morti, per i bimbi?

Ser.- Aspetta, oh, che io te lo stavo dicendo.

Vin.- E andiamocene, va, mettiti in fazzolettone.

Ser.- Andiamocene. Io, la verità giusta, non gli comprerei niente, ma il fatto che gli altri ragazzi, poi, gli mostrano le “cose” e fanno piangere i miei figli, mi obbliga.

Vin.- E già! Non c’è potenza che a forza vogliono trovare le “cose”. Cos’è che compri tu?

Ser. – Gli vorrei comprare una pupetta vestita ad Agatina, un carrettino, o se no l’omnibus a Filippo e qualche paperella con le ruote a Santina.

Vin.- E cose dolci niente?

Ser.- Ma, vediamo. Qualche 200 grammi di pasta di rame. Un po’ di ossa dei morti, che ne so io ora…

Vin.- E quanto hai portato?

Ser.- Aspetta: otto che me li ha dati mio suocero, quattro mia suocera e sono dodici, undici io e sono ventitrè, e cinque che li avevo dentro il salvadanaio e sono ventotto soldi.

Vin.- E con ventotto soldi volevi comprare tutte queste cose? Oh malanova! Va compratene ceci abbrustoliti.

Ser.- Chi l’ha detto? L’anno scorso ho speso tre tarì ed ho riempito una casa.

Vin.- Ebbene ora vedrai. (arrivano da Patriarca e cominciano a guardare. Vincenza compra una cucina, una stanza mobiliata e un servizio da tavola, di latta, per tre lire. Serafina non ha potuto comprare niente perché tutto quello che vuole costa più di ventotto soldi).

Ser.- (al commesso) Scusi. Questo lettino di ferro quanto costa?

Comm.- Due lire.

Ser.- Va, va, va, pazzi siete! E questa pupa?

Comm.- Due e ottanta.

Ser.- Di nuovo? Guarda ch’è pacifico! Tutte le cose due lire, tre lire, quattro e ottanta! Che vi pare che siamo inglesi?

Comm.- Ma insomma, quanto volete spendere?

Ser.- Me la date la pupa per nove soldi?

Comm.- Nossignora, vada altrove.

Ser.- Mezza lira nemmeno?

Comm.- Ma che siete matta?

Ser.- Va, facciamo undici soldi.

Comm.- Impossibile.

Ser.- Allora vi dico l’ultima parola e se mi richiamate nemmeno torno: Dodici soldi.

Comm.- E’ fiato sprecato!

Ser.- Allora andiamocene, Vincenza… (se ne va, ma dopo un po’ ritorna) Tredici soldi e sedici sanari, va, chi ha fatto ha fatto!

Comm.- Allora aspettate che vi servo diversamente (piglia una pupetta piccola piccola con i capelli di stoppa) Questa qua costa cinquanta centesimi.

Ser.- Quanto vedo. Niente, questa non è buona. Allora se me la da gli do otto soldi.

Comm.- ..Beh, vada per otto soldi.

Ser.- (esce il fazzoletto con i soldi legati dentro) Oh, Vincenza, guardami dietro, mentre li conto, prima che mi danno qualche manata e mi rubano i piccioli a tradimento. (conta gli otto soldi e torna a legare il resto) Scusi, questo “lamnibus” quanto costa?

Comm.- Tre lire… ma se ne vuole ce n’è anche da quaranta centesimi.

Ser.- Quanto fanno?

Comm.- Otto soldi.

Ser.- Allora facciamo cinque…sei, va. Che prima che vi persuaderete ci vorrà un anno. L’avete qualche paperella che cammina sola?

Comm.- Sì, ma costa tre lire.

Ser.- Di meno care non ce n’è?

Comm.- Senta, prenda la farfalletta automatica, per sei soldi.

Ser. Per quattro me la da?

Comm.- No, è impossibile.

Ser.- Come! Ho comprato tre cose e per giunta…

Comm.- No, questo è prezzo fisso.

Ser.- (sbrogliando il fazzoletto per la terza volta e contando il resto: otto di pupa, e sei l’omnibus e sono quattordici, e sei sono venti, per arrivare a ventotto quanti me ne restano?

Vin.- Otto.

Ser.- Giusti sono, andiamocene, (al commesso) Niente mi da di buona mano? Ppu! Quanto sono generosi in questo negozio. Ora compro 200 grammi di “cose” di rame, sette soldi, e il soldo che rimane, castagne infornate. E sono completa. (entrano dal dolciere e litigandosi per avere paste di rame in più, la Serafina si fa pigiare dalla gente che le ammaccano la farfalla e l’omnibus, riducendogliele piatti piatti)

Vin.- Oh, cosa son diventati queste cose tue? Un fico!

Ser.- (Accorgendosi del danno) Vih, bellamadre, e come faccio! Un momento, signori miei, non esca nessuno che qui voglio essere pagata di tutte queste cose che mi avete ammaccato! Fetenti, schifosi, e ch’è non ci vedevate, orbi canarii. Ffu! E come faccio! Guarda che danno che mi fecero gli infamoni e sbirri. Vih! Delirio mi piglia! E come faccio?

Vin.- E calma, oramai il fatto è fatto. Alzati andiamocene.

Ser.- Ma come, sette lire di “cosi” dei morti, tutti ammaccati. Qua, voglio essere pagata! Guarda che c’è qua! Pezzi di briganti!

Vin.- E andiamocene ora.

Ser.- Va a prenderla a Malta, anche tu, schifosa. Che anche tu li hai ammaccati! Ora ne devi pagare la metà; otto lire di roba!...

Vinc.- Oh, grandissima donnaccia! Guardate quant’è infamona e ladra. Con una lira che ha speso in tutto, con dodici soldi di danno, sta facendo un casino e vuole essere pagata da me. Ma va a dare i fianchi, mendica avara che non servi. Ffu! Che sembri una civitota. Sciù, sciù, a la facciaccia tua!.

Il boja di Bèthune.

(traduzione di Turi Giordano)