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Una traversa di Via Garibaldi, la via Auteri conduce a sinistra al Castello Ursino, il "segno" per eccellenza del passaggio in città dell'imperatore Federico II di Svevia; gli spazi interni, semplici e razionali come tutta l'architettura sveva, fanno da cornice al Museo civico, ricca collezione che dall'epoca romana si spinge sino al Settecento.

Fu eretto nel 1239, per volontà di Federico II, dall'architetto Riccardo da Lentini. Esso faceva parte di un insieme di fortificazioni a difesa della Sicilia orientale. Fu poi sede parlamentare e residenza dei re angioini ed aragonesi sino al XV secolo. In seguito, dai Vicerè che vi dimorarono, fu parzialmente trasformato in carcere. Tale rimase anche con i Borboni e il governo italiano fino al XIX secolo. Fu restaurato nel 1934.

A pianta quadrata, con torri cilindriche angolari e torri semicilindriche a metà dei lati e circondato da un fossato. Porterebbe il nome di un console romano (Arsinius), oppure quello della famiglia romana degli Orsini, rifugiatasi qui nel Medioevo dopo essere stata cacciata da Roma per essersi schierata dalla parte dei Ghibellini (sostenitori dell'imperatore).

Altre fonti dicono che venne denominato Castrum Sinus (Castello della spiaggia per via dell’allora sua vicinanza al mare), che per corruzione dialettale divenne Castrussìnu, e quindi "Castello Ursino".

 

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Si passò quindi alle rifiniture, ricostruendo finestre arbitrariamente trasformate in balconcini, ricomponendo pezzo per pezzo le linee ogivali delle porte, ripristinando i conci di pietra mancanti, reali zzando intonaci armonizzanti con la patina del tempo, adattando gli ambienti alla funzione di museo, sistemando, infine, l'esterno con il ripristino del medievale fossato, con la sistemazione della piazza e delle strade di accesso.

In definitiva, un'opera notevole, in tutto degna della dimensione storica del maniero, voluto sette secoli prima dal grande Federico, e realizzato a tamburo battente su disegno dell'architetto militare Riccardo da Lentini.

La storia del Castello fu compiutamente delineata da Federico De Roberto che, negli ultimi anni di vita, «posò gli occhi irrequieti sulle mura erte e lisce», contro le quali la lava del 1669 si era rudemente appoggiata come alla parete di una montagna.

Pur dubitando dell'affermazione secondo la quale vi ebbe a soggiornare l'artefice del maniero stesso — rileva il De Roberto  — è storicamente accertato che per oltre un secolo l'edificio tu ad un tempo fortilizio e reggia, sede della Corte, del Governo, del Parlamento. «i Qui pose la sua residenza Carlo D'Angiò: qui , dopo la guerra del Vespro, fermò il suo volo e formò il suo nido l'aquila aragonese. I Re di quella stirpe vivevano e regnavano nel castello catanese, rendevano giustizia nel suo gran cortile, ricevevano nella gran sala dei Parlamenti, pregavano nella cappella di San Giorgio.

 

 

In una di queste sale, la regina Iolanda partorì il principe Luigi, che fu Re di Napoli, e la regina Elisabetta i due principi Ludovico e Federico...»

Ma la gloria del Castello non consiste soltanto nell'avere accolto i primi va giti regali. Le sue sale conobbero avvenimenti politicamente e socialmente significativi come le riunioni dei Parlamenti in generale, la firma del trattato di pace fra il reggente Giovanni e la regina Giovanna di Napoli nel 1347. Le sue sale, inoltre, furono testimoni degli inquieti sonni dei viceré, dei rapimenti di regine e di cortigiane, del doloroso invecchiare dei prigionieri politici.

Questo passato carico di nomi. di date, di eventi ebbe un rude epilogo nel 1831, quando Ì Borboni cancellarono il Castello dal ruolo dei fortilizi e lo spogliarono dei cannoni, delle bandiere, dei privilegi fin allora goduti. Poi, il Comune di Catania le pensò tutte per definitivamente affogarlo nella palude della più mortificante indifferenza.

Nel 1860, il Castello fu destinato a caserma...; "ma la retrocessione non fu accettata da Federico De Roberto, abituato a leggere nel monumenti di Catania con l'abilità e l'emozione di chi sa leggere una lettera attraverso una busta chiusa.

Fu De Roberto a proporre per primo il restauro del Castello e il trasferimento del museo biscariano in quella sede, e Guido Libertini, Vincenzo Finocchiaro e Francesco Fichera Io appoggiarono nella proposta che sembrava irrealizzabile, Infine, sotto la spinta della Società di Storia Patria furono abbattute le ultime remore frapposte dalla burocrazia militare, e i sospirati lavori di restauro potevano cosi essere avviati.

Volgeva il 1932.

da  “CATANIA ANNI TRENTA”  Lucio Sciacca - Cavallotto Edizioni www.cataniaperte.com

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Il castello Ursino, sito in piazza Federico di Svevia, ebbe origine con la costruzione di una 'roche' da parte dei Normanni, per controllare la popolazione musulmana della città. Questa prima fortezza sorse in un luogo diverso da quello prescelto più tardi per l'impianto del Castello, da alcuni studiosi identificato a Montevergini. Di tale fortilizio normanno non restano tracce.

Risale al 1239 l'avvio del cantiere per la costruzione dell'attuale Castello, sotto la direzione dell'architetto militare Riccardo da Lentini, per volontà di Federico II Imperatore di Svevia. Nel 1255 è attestata per la prima volta la denominazione di 'castrum Ursinum'. Il nome "castrum Ursinum" potrebbe essere collegato al "vir consularis Flavius Arsinius", che governò la Sicilia prima del 359 d.C e promosse il restauro del ninfeo di Catania; il ricordo di lui potrebbe essersi conservato nella denominazione dell'area su cui poi sorse il Castello, passando quindi a quest'ultimo.

 

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E' un grande complesso edilizio ad ali con corte centrale. Ogni lato misura m 50 circa. I quattro angoli sono dotati di torri circolari di poco superiori ai 10 metri. Delle torri semicilindriche mediane, solo 2 si sono conservate, ma è certa anche l'esistenza delle altre due. Le mura, realizzate in pietra lavica, presentano spessore di metri 2,50.

L'aspetto esterno del Castello è caratterizzato da numerose aperture in buona parte posteriori al progetto originario. All'interno, originariamente, l'edificio svevo presentava al pianterreno quattro ali edilizie con ambienti a pianta rettangolare coperti ognuno da tre volte a crociera; quattro stanze quadrate, anch'esse coperte da crociere, raccordavano tra loro i saloni. L'aspetto originario si è mantenuto nell'ala settentrionale che conserva integro il trionfo delle cinque crociere. Secondo un recente contributo il progetto originario prevedeva un piano superiore solo sull'aria settentrionale, diversamente da quello che sosteneva Giuseppe Agnello, secondo il quale il piano superiore era stato previsto nel disegno federiciano, realizzato e poi trasformato tra il XV e il XVI secolo.

Il nome molto probabilmente deriva da “Castrumsinus”, che significa “Castello del golfo” oppure da derivazione dall’arabo [dar] al-sina‘a (arsenale), o, una terza opzione etimologica è quella che viene dall’arabo irsa’ (‘ancoraggio’, ‘approdo’). Molto complessa risulta la ricostruzione della linea di costa a sud del Castello a causa della presenza del fronte lavico del 1669 che da sud giunge fino al mare. L’ipotesi più plausibile è che la colata lavica abbia colmato una vasta depressione, come attesta la cartografia dello Spannocchi e del Negro, dove è evidente la presenza di un ippodromo posto al di sopra dell’antico banco lavico dei fratelli Pii, a circa trecento metri dalla porta della Decima.

 

 

L'eruzione del 1669 stravolse l’orografia del luogo su cui sorgeva il castello, colmando il golfo e distanziandolo dal mare. La scelta del posizionamento dell’Ursino si colloca all’interno delle dinamiche territoriali di quel periodo, in cui si assiste alla rivitalizzazione del ruolo economico della fascia costiera e alla difesa dei territori costieri e dei centri demaniali dell’area orientale. Il Castello Ursino concorre, dunque, da un lato ad attuare il programma di difesa del Regno, dall’altro testimonia, insieme al castello di Augusta e Lentini, la presenza capillare dell’imperatore sul territorio con una valenza non solo militare, ma residenziale e di immagine.

L'imperatore aveva pensato il maniero all'interno di un più complesso sistema difensivo costiero della Sicilia orientale (fra gli altri anche il castello Maniace di Siracusa e quello di Augusta sono riconducibili allo stesso progetto) e come simbolo dell'autorità e del potere imperiale svevo in una città spesso ostile e ribelle a Federico.

Intorno al castello si estendeva la Giudecca, con sinagoga, ospedale, botteghe e, fuori la porta dell'Arcurca, il cimitero.

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A proposito della stella (di David) a cinque punte su una finestra del castello Ursino di Catania dobbiamo ricordare che il Pentagramma esisteva in un fregio della sinagoga galilea di Cafarnao (dove Gesù guarì un uomo) riconducibile al II secolo d. C, Gaudioso pertanto ipotizza che nella costruzione del castello Ursino di Catania potevano avere avuto parte attiva maestranze ebraiche e che l’architetto Riccardo da Lentini poteva essere ebreo.

Altro elemento ebraico presente sul castello Ursino evidenziato da Gaudioso è la Menorah, ossia il candelabro a sette bracci sul fronte del lato Nord. Il simbolo della Menorah è nella ricerca della verità, attraverso lo sviluppo armonico delle capacità permeate di pensiero ed azione.

Le 7 luci rappresentano i cicli vitali della terra: la nascita, la crescita ed il declino degli uomini, degli animali e delle piante, legati al ciclo lunare, al ricrescere della luna e nel percorrere il suo ciclo infinito di nascita e di morte nel Cielo. Il suo ciclo è formato di 4 fasi ed ognuna di esse dura all’incirca sette giorni.

(Salvatore Barbagallo - Catania misconosciuta)

 

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La Catania Judaica

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Sulla facciata orientale del castello è visibile una Pentalfa, che non è la "Stella di David", come vorrebbe qualcuno (il simbolo ebraico ha sei punte, e non cinque come la Pentalfa). Accanto all'unica porta d'ingresso è collocata una edicola marmorea, che rappresenta l'aquila sveva che strozza tra gli artigli un agnello (che simbolizza il popolo catanese che aveva osato ribellarsi all'imperatore).

Originariamente sorgeva vicino al mare, che batteva sul lato orientale. La violenta eruzione del 1669 coprì il fossato che lo circondava e lo allontanò dal mare. Sono ancora visibili alcune parti originali del XIII secolo, come la torre di nord-est e la lunga sala occidentale. Le quattro torri degli angoli sono: Torre della Bandiera e Torre del Mortorio a nord, Torre della Scala e Torre del Magazzino a sud. Le due torri più piccole, dette di Santa Croce e di San Giorgio, furono aggiunte nel 1554.

Il castello è oggi Museo Civico ed ospita la collezione prima ospitata dal museo Biscari, quella del monastero dei benedettini e numerose altre collezioni cittadine.

 

 

Del periodo greco e romano, in particolare, il Castello conserva numerose testimonianze. Molto interessanti sono la Statuetta marmorea di Cerere, alcuni pezzi del teatro e dell'anfiteatro, l'unico dei mosaici romani pervenutici, il Ninfeo di Flavio Arsinio, il colossale torso di Giove, la testa di kouros, gli oggetti di arte egiziana in argilla e bronzo. Il patrimonio artistico comprende anche preziose carte miniate del XVI secolo, incisioni, stampe, opere d'arte del Medioevo e del Rinascimento, una Pinacoteca, che vanta opere della scuola di Ribera, di Procaccini, Borremans, Luis de Morales, Luca Giordano, Aniello Ascione, Bernazzano, Niger, Mario Minniti, nonchè un Giudizio Universale del Beato Angelico ed una Madonna con bambino di Antonello De Saliba. Pregevoli le opere dei pittori Van Dyck, Pietro Novelli, Stomer e degli autori catanesi Gandolfo, Attanasio, Rapisardi.

 

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Del Sunt Lacrimae Rerum di Natale Attanasio, che rappresenta quattro pazze in una cappella di manicomio, così scriveva Francesco Fiducia: L'affascinante verso virgiliano scavava nell'anima di lui solchi profondi, rendeva insonne l'artista e dalla lunga e tormentata vigilia non poteva che nascerne un capolavoro. Nel cortile interno del castello sono raccolti sarcofagi, colonne, frammenti architettonici e obelischi dell'antica Catania.

Giovambattista Finocchiaro, presidente della Gran Corte di Palermo, lasciò una preziosa raccolta di quadri alla città etnea, che la custodisce nel castello Ursino. Ma chi era in realtà quel benefattore?
La Sicilia,  19 Maggio 2013 - Salvina Bosco

 

 

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All’origine era sul mare, a sud del porto di Catania, a causa delle trasformazioni morfologiche dovute alle eruzioni dell’Etna del 1669 e al terremoto del 1693 adesso dista da esso un centinaio di metri. Il progetto e la direzione dei lavori furono affidati all’architetto militare Riccardo da Lentini che lo realizzò su quello che allora era un imprendibile promontorio di roccia sul mare, collegata con un istmo alla città ed alle mura cittadine. Probabilmente il nome Ursino, dato al castello, deriverebbe da Castrum Sinus, ovvero il castello del golfo.

 

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L’edificio ha una impostazione rigorosamente geometrica, tipica dei castelli federiciani. I lavori iniziarono tra il 1239-40 e durarono un decennio; la pianta, che si rifà ad esempi arabi dell’epoca delle dinastie califfali, è quadrata con quattro corpi di fabbrica regolari disposti intorno al cortile centrale.

Agli spigoli del castello sono poste quattro torri cilindriche; inoltre due semitorri mediane, sempre cilindriche, sono poste sulla mezzeria di due lati, mentre inizialmente le semitorri erano quattro. Le finestre erano piccole e strombate (stipiti tagliati) per non offrire varchi al nemico, sul lato settentrionale mancano del tutto perché era il più esposto agli assalti.

L’aspetto attuale del castello risale ai restauri effettuati negli anni trenta. Le opere di Riccardo sono definite di stile Gotico; ma è bene notare che si tratta di un gotico ben diverso da quello del nord Italia.

I lavori del Castello Ursino vennero seguiti, pur se da lontano, dallo stesso imperatore Federico, portati a termine negli ultimi anni della sua vita, forse non riuscì a veder compiuta l’opera.

Nel 1838, infine, ebbero inizio i lavori di restauro da parte del Comune e fu scavato un fossato attorno al maniero, fu ripreso il muro di sbarramento, la posa del ponte levatoio, quindi, sistemata la piazza circostante.

Dal 1931 al 1934 vengono realizzati restauri e trasformazione del Castello in museo.

(Salvatore Barbagallo - Catania misconosciuta)

 

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Durante i lavori di restauro e valorizzazione dell’area esterna è stata portata alla luce la cortina difensiva che costituisce parte del sistema di fortificazione costruito a partire dal 1542. L’opera venne realizzata su progetto dell’ingegnere militare Antonio Ferramolino da Bergamo, per volontà e spesa degli stessi cittadini catanesi, al momento in cui il viceré Fernando Gonzaga escluse Catania dal programma di fortificazione delle principali città del Regno di Sicilia.

Il progetto, completa in parte la precedente fortificazione del XIV secolo voluta da Federico III d’Aragona. La cortina difensiva detta “sotto al Castello”, congiungeva i due bastioni di San Giorgio e di Santa Croce sommersi dalla lava del 1669 e dalle sovrastanti costruzioni.

La cinta venne costruita nel 1552 con un sistema di mura a scarpa potenziato da contrafforti che superiormente sorreggevano un tavolato destinato al passaggio delle ronda e delle armi, mentre gli spazi inferiori venivano utilizzati per il ricovero delle munizioni. Ancora parzialmente sepolta dalla lava è la porta detta del Sale, o del Sole, che collegava la spiaggia sottostante al piano delle armi. Di epoca più tarda è la “garitta al passo del castello”

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Con la morte del normanno Guglielmo III, divenne regina di Sicilia sua zia Costanza d'Altavilla, moglie (dal 1185) di Enrico VI, figlio dell'imperatore Federico Barbarossa.

Enrico VI e si accinse a scendere nuovamente in Italia per conquistare https://www.mimmorapisarda.it/ursino/urs47.jpgil trono del Regno di Sicilia (che pretendeva avendo sposato Costanza d'Altavilla); Napoli si arrese subito all'imperatore, il quale proseguì verso la Sicilia, sbarcando con l'esercito a Messina, che fu messa a ferro e a fuoco.

Sibilla cercò in tutti i modi di proteggere almeno Palermo, ma non poté fare nulla; si oppose con coraggio, fin quando la capitale Palermo capitolò e fu conquistata a dicembre; il 25 dicembre Enrico VI si incoronò re di Sicilia e poté annettere il regno siciliano al Sacro Romano Impero. In cambio del trono a Guglielmo e alla madre venne offerta la contea di Lecce, ma pochi giorni dopo (il 28 dicembre) Enrico accusò Sibilla di complotto e fece arrestare lei, suo figlio, le figlie e tutta la nobiltà a loro fedele.

Tre anni dopo Enrico morì, e per un anno Costanza restò sola a governare la Sicilia. Pochi mesi prima della morte incoronò il figlio di quattro anni Federico II, posto sotto tutela papale dalla morte della regina. Aveva così inizio nel 1198 la nuova dinastia degli Svevi in Sicilia. Come reggente, governò la madre Costanza, fino alla sua morte nel 1198.

Federico II nel suo testamento nominava il figlio secondogenito Corrado IV erede universale e suo successore sul trono imperiale, su quello di Sicilia e su quello di Gerusalemme, e lasciò al figlio naturale Manfredi il Principato di Taranto con altri feudi minori, e inoltre la luogotenenza del regno di Sicilia.

Nell'ottobre 1251 Corrado si mosse verso la penisola dove incontrò i vicari imperiali, e nel gennaio 1252 sbarcò a Siponto, proseguendo poi insieme a Manfredi nella pacificazione del Regno. Nel 1253 riportarono sotto il loro controllo le riottose contee di Caserta e Acerra, conquistarono Capua e nell'ottobre infine anche Napoli. Il 21 maggio Corrado morì di malaria lasciando il figlio Corradino sotto la tutela del papa.

Il Papato, che continuava a non vedere di buon occhio l'insediamento della casa imperiale di Svevia promise il regno a Edmondo il gobbo purché occupasse il regno con un esercito proprio. Manfredi grazie però alla fine abilità diplomatica ereditata dal padre, concluse con il pontefice un accordo, che vide l'occupazione pontificia con una semplice riserva dei diritti di Corradino e propri. Manfredi, non ritenendosi sicuro di fronte al papa, arruolò un ingente esercito per muovere guerra all'esercito pontificio, che sconfisse presso Foggia. Nel corso del 1257 la guerra procedette vantaggiosamente per gli Svevi, Manfredi sbaragliò l'esercito pontificio e domò le ribellioni interne.

Diffusasi nel 1258, probabilmente per opera stessa di Manfredi, la voce della morte di Corradino, i prelati e i baroni del regno invitarono Mahttps://www.mimmorapisarda.it/ursino/urs43.jpgnfredi a salire sul trono ed egli fu incoronato il 10 agosto nella cattedrale di Palermo. Tale elezione non venne riconosciuta dal papa Alessandro IV che ritenne pertanto Manfredi un usurpatore. Fra il 1258 e il 1260 la potenza di Manfredi, diventato ovunque capo della fazione ghibellina, si estese in tutta la penisola, la sua potenza fu aumentata anche dal matrimonio della figlia Costanza con Pietro III d'Aragona (1262).

Manfredi venne scomunicato, e nel 1263 il francese papa Urbano IV offrì la corona a Carlo I d'Angiò, fratello del Re di Francia Luigi IX. Questi promosse una spedizione militare per conquistare il Regno. Manfredi venne sconfitto nella decisiva battaglia di Benevento, avvenuta il 26 febbraio 1266.

Il diciassettenne Corradino di Svevia, figlio di Corrado IV di Svevia, tentò di riconquistare il regno nel 1268, ma fu sconfitto nella Battaglia di Tagliacozzo e decapitato.

Nel 1281 rivendicò il titolo Costanza II di Sicilia, figlia dell'ultimo re di Sicilia svevo Manfredi di Hohenstaufen e moglie di Pietro III di Aragona. Dopo i Vespri siciliani divenne regina di Sicilia dal 1282 al 1285, formalmente unitamente al marito, che però dal 1283 rimase in Spagna. Morto il marito nel 1285, la corona siciliana andò al secondo figlio Giacomo I, e Costanza restò al suo fianco, così come al terzo figlio Federico III, cui nel 1291 Giacomo aveva lasciato la luogotenenza del regno, fino al 1296, quando questi divenne re di Trinacria, e l'ultima degli Hohenstaufen lasciò l'isola.

 

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Per volere di Federico II furono costruiti in tutto il suo regno una serie di castelli, particolarmente interessanti proprio per le forme prettamente geometriche volute dallo stesso regnante. In Sicilia essi costituiscono un insieme omogeneo e rappresentativo di edifici che nascono con uno scopo strategico e difensivo, specchio della società del tempo. Essi, infatti, furono destinati  ad una vita militare ma anche culturale che fu ricca e feconda ai tempi di Federico.

I castelli di Federico II nascono come cittadelle fortificate all’esterno  e luminose al loro interno, i più celebri in Sicilia sono: i castelli di Augusta e Milazzo con torri quadrilatere ed i castelli di Catania e di Siracusa con torri circolari.

 

 

Lo storico Kantorowicz scrive (nell'opera citata in nota p.289), che "Durante gli ultimi decenni di regno, Federico si recò una sola volta in Sicilia, a reprimervi la rivolta di Messina (1223)". Nel 1239 Federico dà il via anche a Catania alla costruzione di una fortezza a difesa del porto che poi prese il nome di Castello Ursino; opera di fortificazione documentata dalle cosiddette lettere lodigiane di Federico II, che venne realizzata sotto la direzione del praepositus aedificiorum Riccardo da Lentini. Il castello, che fu iniziato quando già quelli di Augusta e Siracusa erano quasi ultimati, faceva parte di un più generale progetto di fortificazione dei punti strategici dell'intera costa ionica (Cfr. Federico e la Sicilia, dalla terra alla corona, a cura di Carmela Angela Di Stefano e Antonio Cadei, II Ed. Palermo 2000, p. 465 e ss.). I noti rapporti burrascosi fra il papato e Federico II fecero nascere diverse leggende tra le quali quella che vuole che il castello Ursino sia stato voluto da Federico per tenere a bada la popolazione.

fonte wikipedia

 

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L'aquila e la lepre

Sull'aquila, nella nicchia del prospetto Nord, Sciuto Patti vede in allegoria la punizione inflitta da Federico a Catania per la ribellione del 1232. Non è dello stesso avviso Paternò Castello che in questo modo il simbolo potrebbe essere inverosimilmente in­terpretato come l'imperatore ucciso dal popolo.

Ipotizza invece la possibilità che la corda, resa dal tempo invisibile, fosse in effetti "un serpente aggrovigliato, ovvero l'accoppiamento della potenza, dell'altissima dignità imperiale, rappresentata dall'aquila, col serpente segno della prudenza e dell'astuzia".30

L'uccello simboleggia la forza che ispira gli uomini ai discorsi saggi e che permette loro di poter prevedere molte cose prima che si realizzino splendidamente. Rappresenta anche l'anima umana, in quanto indica il desiderio di staccarsi dalla vita terrena e di avvicinarsi alla sfera spirituale. La strozzatura dell'uccello si potrebbe interpretare come la repressione della saggezza o della spiritualità.

http://www.paternogenius.com/

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Riuniti i cittadini più rappresentativi nella Cattedrale rinnovò ancora una volta promesse di perdono e di riduzione delle tasse, ma anche questa era solo una mossa strategica. Pochi giorni dopo, infatti, rimangiandosi la sua parola catturò i capi della rivolta, Martino Malla e Matteo Belloni insieme ai loro complici, e li bruciò vivi nella pubblica piazza, come eretici: in quel momento ribellarsi all'imperatore gli sembrava un delitto equiparabile alla ribellione contro il Papa e la Chiesa. Ugualmente soffocò le rivolte delle altre città che avevano seguito l'esempio di Messina, in primo luogo Catania e Siracusa. Nella città etnea, dopo aver deciso di risparmiare abitanti ed edifici - secondo la tradizione su ammonimento della Santa Patrona S. Agata - dotò l'ingresso della Cattedrale normanna di un portale recante figure e simboli che servissero di monito alla città (attualmente nella Chiesa di S. Agata al Carcere).

http://digilander.libero.it/cataniacultura/139-federico-rivolte.htm

 

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Sant’Agata e il sovrano sottomesso

La tradizione narra che l’Imperatore Federico II di Svevia volle comunque punire i cittadini, facendoli passare sotto un arco di spade, allestito alla Porta di Mezzo (non distante dalla Porta della Decima) presso la chiesa di Santa Maria delle Grazie.

A questa sembra fare eco una piccola icona popolare di incerta datazione e probabile traduzione di un tema iconografico consueto legato al culto di Sant’Agata, quello riproposto dal busto reliquiario del 1376 e più tardi nella fonte Lanaria, su Via Dusmet, situata in vico degli Angeli.

Da esse infatti eredita la corona, la fissità dello sguardo, la foggia dell’abito, la postura delle mani che dovettero reggere i tradizionali attributi (palma del martirio o croce o scettro sulla mano destra, la tavola con inciso l’acronimo m.s.s.h.d.e.p.l. nella mano sinistra) irrimediabilmente perduti.

Sant’Agata viene tuttavia raffigurata per intero piuttosto che nel solo busto, nell’atto di pestare una figura umana maschile ai suoi piedi: secondo alcuni potrebbe trattarsi proprio di Federico II. Le due figure sono inserite in un alveolo arcuato e reso più profondo da una decorazione a scacchiera, circondate da quattro angeli posti agli angoli.

L’atto della soppressione della figura sottostante quindi si integrerebbe con il doloroso episodio narrato dalla tradizione e ricordato nel 1233 da una piccola icona dipinta ed eretta su un muro di un vicolo adiacente alla chiesa di Santa Maria delle Grazie, rappresentante la Madonna delle Grazie con Sant’Agata avvocata dei catanesi, quasi a ribadire la leggenda legata alla frase Noli offendere Patriam Agathae quia ultrix iniuriarum est, in quanto alla fine il sovrano venne sottomesso dal volere della protettrice di Catania, anziché l’Imperatore a soffocare gli intenti ribelli cittadini.

Se l’icona dipinta e appesa nel 1233 non esiste più, la tradizione dovette superare i secoli e tramite l’icona di vico degli Angeli rimarcare e quasi parodiare il gesto di imponenza e monito dell’imperatore.

(Salvatore Barbagallo - Catania misconosciuta)

 

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NOPAQUIE

La leggenda del miracolo di S. Agata che salvò i catanesi dal re e imperatore Federico II di Svevia, figlio della normanna Costanza d’Altavilla e nipote paterno di Federico Barbarossa, riguarda un argomento considerato “leggendario”, ma ancora rimasto quasi avvolto in un enigmatico mistero anche se riveste una notevole importanza per il culto agatino e il patrocinio civico della protomartire concittadina, che hanno lasciato diverse tracce e memorie meritevoli di essere in qualche modo ricordate.

Secondo la tradizione, l’evento “prodigioso” dell’acrostico agatino NOPAQUIE (sciolto in Noli offendere patriam Agathae quia ultrix iniuriarum est, “Non ti rischiare di offendere la patria di Agata perché lei vendica le ingiustizie”) pare sia avvenuto in Cattedrale, durante la celebrazione del “pontificale” presieduto dal vescovo benedettino Gualtiero de Palear (che era stato cancelliere del Regno di Sicilia, nominato dal papa curatore di Federico per controllare il sovrano minorenne, vescovo di Troina e di Palermo), proprio il giorno 5 febbraio 1232, 981° anniversario del martirio di S. Agata e che l’imperatore Federico, dopo aver ritirato l’editto di distruzione della città e di sterminio a fil di spada dei cittadini ribelli, abbia ordinato ai catanesi di fare solo un atto di umiliazione in segno di obbedienza, passando davanti ai militi imperiali sotto il gioco ad una porta stretta, chiamata “Porta di Mezzo”, sull’architrave della quale sarebbero state appese due spade che sfioravano con la punta le teste dei catanesi (una sorta di forche caudine usate dai Sanniti di Gaio Ponzio Telesino allorché nel 321 a.C. sconfissero i Romani).

Presso questa antichissima porta, preesistente all’invasione araba, fu eretta un’edicola votiva ricordo in onore della Madonna, che fu chiamata appunto della “Grazia”, con un’immagine di S. Agata dipinta sul lato destro, cosa che in tempi recenti è stata in qualche modo ripristinata dopo lavori di ristrutturazione della Cappella di via Santa Maria delle Grazie (tra le vie Garibaldi e V. Emanuele), corrispondente all’antico passaggio di collegamento con via Pozzo Canale e sottostante un grande palazzo settecentesco.

 

 

Il prodigioso quadro della Madonna, è pregevole opera su lastra di pietra d’ardesia, dipinta da Antonio Gramignani o dal sac. Francesco Gramignani. Il 15 agosto 1932 il quadro fu portato in solenne processione in occasione della ricorrenza del VII centenario del NOPAQUIE. Questa scritta nel 1296 (46 anni dopo la morte dello “Stupor mundi” fu trionfalmente dipinta nel tetto della Cattedrale normanno-sveva). Nella facciata principale settecentesca del Duomo, ricostruita da G.B. Vaccarini, nell’architrave esterna della porta sinistra si leggono le iniziali N.O.P.AQ.U.I.E..

 

Nè i soli cataclismi naturali la funestarono così nel corso dei secoli; ma gli stessi uomini diedero mano a guastarla. Sesto Pompeo, al tempo del secondo triumvirato, distrusse gran parte dei suoi edifici e rovesciò tutte le mura. Augusto la ristorò e ne fece, per compenso, una delle più fiorenti colonie romane; ma alla caduta dell'Impero i vandali di fuori via e quelli paesani ne buttarono giù i monumenti più insigni; e se Milano fu distrutta da Federico Barbarossa nel 1162, Catania patì poco dopo un eguale destino due volte: la prima ad opera del figlio di lui, Arrigo VI, nel 1194, per essersi dichiarata fautrice di Tancredi, conte di Lecce; la seconda nel 1232, da Federico II, per avere stretto lega con le città guelfe e ricusato di riconoscere l'autorità del Hohenstaufen.

Le storie non dicono se fosse sparso sale sulle rovine catanesi come su quelle della metropoli lombarda; certo però la città fu rasa al suolo, e fu viceversa innalzato il castello Ursino sugli avanzi dell'antica rocca Saturnia, per incutere un salutare timore ai cittadini quando si accordò loro di riedificare le abitazioni — purchè non alte più di due piani, e quindi sottoposte al luogo forte...

 

 

Patto, in verità, inutile, poichè non c'era più pericolo che i Catanesi costruissero grandi palazzi. La paura dei terremoti ne avrebbe già fatta passar loro la voglia, se non avessero poi dovuto astenersene per una più persuasiva ragione: la mancanza dei mezzi.

A poco a poco, nel corso dei secoli, la città aveva perduto l'importanza e la prosperità godute durante l'epoca greca e la romana, quando scrittori come Tucidide, Pindaro e Cicerone ne lodavano la grandezza e la bellezza. Non era stata menzionata da Ausonio insieme con Siracusa, allorchè quest'ultima gareggiava con Atene? Ma gli stessi documenti della prisca gloria, i sontuosi monumenti che l'avevano un tempo decorata, si disperdevano per le concomitanti ingiurie del vulcano e degli uomini; oggi, dopo tanti altri cataclismi e vandalismi, ne resta poco più che il ricordo.

 

da "Catania" di Federico De Roberto                                 

ISTITUTO ITALIANO D'ARTI GRAFICHE — EDITORE 1907

 

Federico, secondo alcune ipotesi, sarebbe stato raffigurato sul bellissimo portale, romanico-pugliese, d’ingresso (autocelebrativo?) del santuario di Sant’Agata al Carcere che fino al 1734 ornava l’entrata principale della Cattedrale. L’architetto canonico Giovambattista Vaccarini lo fece spostare prima presso il palazzo della Loggia (poi degli Elefanti) e nel 1762, donato alla Confraternita del Santo Carcere, fu rimontato e incassato nella facciata barocca della ricostruita chiesa del Santo Carcere. Probabilmente, in origine, il portale medievale (che non presenta nessun simbolo cristiano esplicito) avrebbe decorato, ancor prima del Duomo normanno-svevo, l’ingresso principale di Castello Ursino. “L’osservatore non sprovveduto –scrive don Luigi Minio in <Agata e la sua memoria nella città di Catania> (Arca, 2004)- potrà riconoscere nella saggia barba imperiale lisciata, nella scimmia frustata per non poter inghiottire la palla, nell’orsa col naso informe, nell’aquila strozzata, nell’Idria a molti capi, pure scavezzata e in tanti altri simboli, un pezzo di storia ducentesca, sia pure vista con gli occhi di chi vuol adulare un potente protettore”.

La stessa costruzione, nel 1239, del Castello Ursino, a difesa della città, sarebbe stata attribuita alla decisione di Federico di ammonire e vigilare la condotta dei catanesi.

L’avversione della curia vescovile di Catania -dovuta al fatto che Federico aveva sottratto la città alla giurisdizione feudale-normanna del vescovo-abate-conte per inserirla fra le città demaniali- avrebbe alimentato diverse leggende che denigravano la figura dell’imperatore scomunicato e il potere regio dei successivi sovrani di Sicilia.

La ribellione contro il potere regio, -che avrebbe dato origine all’episodio catanese del NOPAQUIE, raccontato dagli eruditi del Seicento- storicamente è documentata solo per Messina, Siracusa, Troina, Nicosia e Centuripe: la rivolta fu causata dall’enorme aggravio fiscale sopportato dai siciliani per finanziare la guerra di Federico in Germania. Per quanto riguarda Catania, pare che l’imperatore l’abbia fatta radere al suolo e che ne abbia permesso la ricostruzione a condizione che i nuovi edifici fossero costruiti con impasto di fango e con determinate misure.

Antonino Blandini

 

 

 

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VIDEO

 

Nell’Italia meridionale e in Sicilia, l’architettura civile e militare è segnata dalla personalità di Federico II di Svevia  al quale si deve la fondazione di una rete di fortificazioni difensive a controllo del territorio. Ispirati alle costruzioni difensive islamiche e cristiane in Terrasanta. In Italia sono circa 200. Ecco quelli siciliani:

 

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In molte aree della penisola, la frequenza di castelli è di tale portata da fare identificare l’area con lo stesso carattere fortificato delle sue città. Si pensi al complesso tracciato di castelli costieri della sponda adriatica,https://www.mimmorapisarda.it/ursino/urs36.jpg particolarmente maestosi in Puglia (Bari, Trani, Barletta, oltre a quello collinare di Castel del Monte presso Andria); lo stesso in Sicilia, dove il Castello di Augusta e Castel Maniace a Siracusa (ma non sono che due dei molteplici esempi) hanno segnato il rapporto tra la città e il mare.

Gli architetti di Federico si sono ispirati alle costruzioni islamiche e dei crociati in Terrasanta, che dai secoli XII e XIII proponevano un ampio repertorio di tipologie e di soluzioni tecnologiche difensive.

Importante fu anche l’apporto di maestranze cistercensi (architetti, operai e artigiani impiegati nella costruzione delle abbazie cistercensi), abili nell’utilizzare costruzioni su base quadrata. Il loro apporto nella realizzazione degli edifici voluti da Federico II favorì la diffusione in Italia meridionale di tecniche e modelli costruttivi transalpini.

Alle basilari caratteristiche costruttive del romanico, Federico aggiunge nuovi elementi propri del gotico germanico, come frequenti archi ogivali, con elegante ghiera, volte a crociera costolonate, ecc. oltre al recupero di elementi arabi e normanni e soprattutto classici, peraltro diffusi anche a Naumburg e a Bamberga (in Germania), come immagine di propaganda dell’impero.

Nell’Italia meridionale e in Sicilia l’architettura civile e militare è segnata dalla personalità di Federico II di Svevia (1197-1250), imperatore dal 1220 alla sua morte, al quale si deve la fondazione di una rete di fortificazioni difensive a controllo del territorio. Ispirati alle costruzioni difensive islamiche e cristiane in Terrasanta, questi castelli fondono elementi stilistici diversi, tradizionali e nuovi, nel solco della tradizione tipica dei regni normanno e svevo dell’Italia meridionale.

fonte: Istituto Italiano Edizioni Atlas www.edatlas.it

 

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Le fonti non dicono nulla su Catania e sui motivi della sua adesione al moto: se cioè fosse ispirata dal desiderio di maggiori libertà civili, contro i deliberati di Federico dell'anno precedente, o se, invece, rappresentasse il definitivo rifiuto del dominio episcopale. L'imperatore, durante la sua azione repressiva del  1233, risiedette anche a Catania, dove furono sicuramente presi dei provvedimenti, che, però, non sono riferiti dalle fonti.

Pure l'esilio dei capi della rivolta non appare del tutto confermato dalla documentazione, che si riduce a una lettera di risposta dello Svevo del febbraio 1240, inviata da Viterbo al giustiziere della Sicilia citra, con la quale si consente che alcuni catanesi dimoranti ad Augusta si rechino a Catania per riparare le proprie case e curare le proprie vhttps://www.mimmorapisarda.it/URSINO/URS32.JPGigne, con l'obbligo, però, del ritorno ad Augusta dopo la conclusione di tali affari. Non risultano particolari azioni punitive contro Catania, ma, dalla seconda metà degli anni Trenta, importanti iniziative per limitare sempre più le prerogative del vescovado e per inserire i catanesi nel rinnovato sistema politico-amministrativo del Regno, fino all'invio dei rappresentanti della città al parlamento di Foggia del 1240, che dimostra come Catania facesse ormai parte integrante del demanio. Tale avvenimento, in sé poco rilevante, giacché i delegati, lungi dal partecipare attivamente ai lavori, si limitavano a ricevere gli ordini imperiali, dovette sanzionare nell'immaginario dei cittadini il sorgere di un nuovo e promettente ciclo politico-sociale, con il definitivo abbattimento del dominio episcopale, celebrato nel 1241 nell'architrave della chiesa del Sacro Carcere mediante la figura di donna, simboleggiante Catania, che esprime riconoscenza a Federico per averla sottratta al suo feudatario.

La rinascita civile della città, che, per l'introduzione dei nuovi uffici amministrativi, vide il rafforzarsi di un ceto burocratico fornito di una profonda consapevolezza di sé, è poi attestata anche dalla costruzione di Castel Ursino, importante tassello del sistema difensivo fridericiano basato sull'edificazione contemporanea di numerose fortificazioni in Sicilia. Per il suo innalzamento gli universi homines Catanie parteciparono con una contribuzione di 200 onze, dimostrando, con ciò, una certa disponibilità di denaro, indizio di ripresa economica della città.

Il centro etneo rimase fedele agli Svevi, tanto da aderire nel 1267 alla sollevazione di Corrado Capece, suscitata per sostenere, contro Carlo d'Angiò, l'impresa di Corradino. Il fallimento della ribellione non ebbe, comunque, particolari effetti negativi per Catania, che, in epoca angioina, continuò ad ampliare la sfera delle competenze cittadine.

http://www.treccani.it/enciclopedia/catania_%28Federiciana%29/

 

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A Catania Roberto d'Angiò prese possesso del castello Ursino, dove poco tempo dopo nacque Luigi futuro re di Napoli. Il dominio francese degli Angioini in Sicilia, durò dal 1266 per circa un ventennio.

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 Fu uno dei periodi più brutti della storia dei catanesi per l'arroganza e il malgoverno della dominazione francese. Ebbe breve durata e si concluse già nel 1282 con la rivolta dei Vespri siciliani e la conseguente conquista aragonese.

 

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Appena scoppiò la rivolta dei Vespri in Sicilia, la flotta aragonese era già a Palermo e l’occupazione della città da parte di Pietro dava così inizio alla dominazione degli Aragonesi in Sicilia (1282-1516), in quanto lo stesso Pietro era sposato con la figlia di Manfredi, Costanza che era nata proprio nella città etnea.

 

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https://www.mimmorapisarda.it/ursino/regno.gifIL REGNO DI SICILIA, LA PIU' GRANDE ISOLA DEL MEDITERRANEO CHE FECE GOLA A MOLTI

Il regno di Sicilia nasce ufficialmente la notte di Natale del 1130. Un regno che sotto gli Altavilla arriverà a comprendere nella sua massima espansione, Albania, Tunisia, Malta, Cefalonia e Zante. Più tardi arriverà a perdere questi territori, ma in Italia i suoi confini rimarranno immutati per più di 700 anni.

In seguito il regno cambiò di mano prima con gli Svevi del celebre Federico II e poi gli Angiò. Dopo la loro sconfitta, gli Angiò furono particolarmente vendicativi e ridussero molte delle Libertà. Applicarono una tassazione rigidissima e salata nonostante i vari tentativi di mediazione richiesti. Dai siciliani dimostrarono insensibili a qualsiasi richiesta di ammorbidimento e continuarono a spremerli come limoni, con una tassazione altissima e dandosi e soprusi e violenze

Nel 1282 i siciliani ne ebbero abbastanza e a Palermo si scatenò una rivolta a lungo preparata, i cosiddetti Vespri Siciliani, grazie ai quali i siciliani riuscirono a liberarsi degli Angiò e offrirono la corona di Sicilia a Pietro, III d'Aragona che si era schierato con loro e che era molto ben visto dagli isolani perché sua moglie Costanza era una diretta discendente dei Normanni, ai quali i siciliani erano ancora molto legati.

La guerra si concluse solo nel 1302 con la pace di Caltabellotta, nella quale sostanzialmente i contendenti si spartirono il bottino: agli Angiolini andava la parte continentale del regno di Sicilia e agli Aragonesi la parte insulare, ovvero la Sicilia. Di fatto con questa divisione nascevano due Regni separati, ma dato che sia gli angioini che gli aragonesi non rinunciarono mai a riunificare il vecchio regno, entrambi continuarono a chiamarsi regno di Sicilia, il che creava non poche difficoltà alla diplomazia Europea. Per evitare confusione, i due Regni vennero informalmente ribattezzati Regno di Napoli e Regno di Trinacria.

 

 

 

 

 

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All'interno del castello si vissero alcuni dei momenti più importanti della guerra del Vespro. Nel 1295 vi si riunì il Parlamento Siciliano, che dichiarò decaduto Giacomo II ed elesse Federico III a re di Sicilia. Nel corso del 1296 il castello fu preso da Roberto d'Angiò ma successivamente espugnato nuovamente dagli aragonesi. Re Federico abitò a partire dal 1296 il maniero, facendone la corte aragonese e così fecero anche i successori Pietro, di Ludovico, Federico IV e Maria. Inoltre la sala dei Parlamenti fu nel 1337 anche la camera ardente per la salma di re Federico III. Nel 1347 all'interno del castello venne firmata la cosiddetta Pace di Catania fra Giovanni di Randazzo e Giovanna d'Angiò.

Alfonso il Magnanimo riunì il 25 maggio del 1416, nella sala dei Parlamenti del castello i baroni e i prelati dell'isola per il giuramento di fedeltà al Sovrano e fino al 30 agosto vi si svolsero gli ultimi atti della vita politica che videro Catania come città capitale del regno. Nel 1434 lo stesso re Alfonso firmò nel castello l'atto con cui concedeva la fondazione dell'Università degli Studi di Catania.

Nel 1460 si riunirà nel castello Ursino il primo Parlamento del periodo aragonese-castigliano presieduto dal viceré Giovanni Lopes Ximenes de Urrea. Inoltre al suo interno morì nel 1494 don Ferdinando de Acuña viceré di Sicilia. Verrà sepolto nella cappella di Sant'Agata in Cattedrale.

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Il castello Ursino fu dimora reale dei sovrani del casato Aragona di Sicilia (ramo parallelo siciliano del casato di Barcellona) e ospitò tutti i re da Federico III e tutti i suoi discendenti fino al 1415 ospitò la regina Bianca d'Evreux di origine normanna ma ereditaria del regno di Navarra sposa di Martino I di Sicilia (deceduto nel 1409). Ancora ai primi anni del XV secolo l'edificio è circondato dalla città e diverse casupole vi si addossano. Sarà re Martino I di Sicilia nel 1405 a far eseguire lo sgombero dello spazio intorno al maniero per ricavare una piazza d'arme, demolendo tra gli altri il convento di San Domenico, lì ubicato dal 1313.

 

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Il castello, dimora di Maria di Sicilia, fu teatro del rapimento della regina da parte di Guglielmo Raimondo Moncada nella notte del 23 gennaio 1379, per evitare il matrimonio con Gian Galeazzo Visconti. Con l'avvento di Martino I di Sicilia il castello divenne nuovamente corte del regno di Spagna.

Federico III mori presso Paternò, presente la moglie Eleonora, che provvide poi a far portare la salma a Catania. Federico fu sepolto nel duomo catanese, poiché il caldo estivo impediva il trasporto fino a Palermo.

Il passaggio del regno di Sicilia sotto la Dinastia Aragonese ebbe ufficialmente luogo nell’agosto 1282, quando il re Pietro III d’Aragona fu incoronato a Palermo come suo sovrano, col nome di “Pietro I di Sicilia”, insieme alla sua consorte Costanza II, ultima erede del casato Hohenstaufen-Altavilla che aveva governato l’isola.

Costanza era infatti figlia del re Manfredi di Sicilia, al quale gli Angioini avevano tolto il possesso del regno isolano, dopo essere caduto e sconfitto nella battaglia di Benevento del 1266.

 

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Il Re Pietro I aveva infatti appoggiato la rivolta antiangioina dei Vespri siciliani per riscattare i diritti ereditari che la moglie Costanza II vantava, poiché era stata designata erede al trono del padre Manfredi dal cugino il duca Corradino di Svevia, prima che questi fosse fatto giustiziare dal re Carlo I d’Angiò nel 1268.

A Pietro succedette il figlio secondogenito Giacomo I di Sicilia, che nel 1294 con il re francese Carlo II d’Angiò stipulò il Trattato di Anagni, con il quale restituiva la Sicilia agli Angioini, in cambio della sovranità sulla Sardegna e la Corsica, dategli dalla Chiesa.

Il trattato di pace ebbe la disapprovazihttps://www.mimmorapisarda.it/ursino/urs46.jpgone dei siciliani: l’11 dicembre 1295 si riunirono nel Parlamento siciliano a Palermo, conti, baroni, cavalieri e sindaci delle città isolane, che dichiararono decaduto il Re Giacomo ed elessero nuovo sovrano il fratello minore e luogotenente generale del Regno di Sicilia, Federico.

Con Federico III (1273-1337) ebbe inizio il ramo siciliano della Real Casa d’Aragona, sotto il quale ebbero temporaneamente fine le Guerre del Vespro che insanguinavano l’isola, con la Pace di Caltabellotta del 1302, in cui si proclamò Re di Trinacria. A seguito della pace fatta coi reali francesi, sposò la principessa Eleonora d’Angiò, figlia del Re Carlo II d’Angiò, che lo rese padre di nove figli.

Di questi, il primogenito, Pietro II (1304-1342), fu suo successore al trono; il settimogenito Giovanni, marchese di Randazzo (1317-1348), che da reggente del Regno dopo la morte del fratello Pietro II, nel 1348 prima di morire a causa della peste nera, stipulò con gli Angioini la Pace di Catania, con il quale costoro rinunciavano ad ogni pretesa sulla Sicilia.

Successore di Pietro II, fu Ludovico (1335-1355), detto il Fanciullo, divenuto redi Sicilia a soli sette anni. Ebbe come tutori lo zio paterno il Marchese Giovanni e la madre Elisabetta di Carinzia, ed essendo morto giovanissimo senza lasciare eredi legittimi, gli succedette il fratello minore Federico IV (1341-1377), detto il Semplice. Detto Federico, quinto re aragonese della Sicilia, sposò dapprima Costanza d’Aragona, figlia del re Pietro IV, e poi la nobildonna Antonia del Balzo, figlia di Francesco, duca di Andria, ed ebbe una sola figlia legittima, dalla prima unione, Maria.

 

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Gli scontri fra Aragonesi ed Angioini continuano fino al 1347 quando Catania, ancora una volta assoluta protagonista, vede i sovrani avversari riunirsi per stipulare un trattato di pace: l'8 Novembre, presso il Castello Ursino, Giovanna I d’Angiò e il duca Giovanni d'Aragona firmano, sotto la supervisione di Papa Clemente IV, un accordo passato alla storia come la “Pace di Catania”.

 

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Nonostante la pace di Caltabellotta e la Pace di Catania, aragonesi e Angelini continuarono a combattere fino al 1443, quando Alfonso d'Aragona riuscì a sconfiggere gli Angiò ed entrare a Napoli riunificando il regno, anche se Napoli in Sicilia restano però regni separati con proprie istituzioni, leggi e monete.

 

 

 

 

 

 

 

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Dopo la morte nel 1410 del re Martino il Vecchio si aprirono alcuni anni di interregno e la Sicilia fu gestita dalla regina Bianca (seconda moglie di Martino il Giovane a sua volte re consorte della regina Maria di Sicilia) sotto la tutela dei sovrani aragonesi: a causa del compromesso di Caspe la Sicilia, infatti, non fu più un regno indipendente ma il titolo di Re di Sicilia fu acquisito dal sovrano della corona d'Aragona. Massima istituzione, in luogo del re, era pertanto il viceré, nominato dal consiglio di Stato, presieduto dal re, su proposta del Supremo Consiglio d'Italia. I viceré erano spesso spagnoli o comunque non siciliani, anche se non mancarono nel corso dei secoli anche viceré nativi dell'isola.

Questi a loro volta potevano nominare, probabilmente sentiti il re e i vertici delle magistrature siciliane, un presidente del regno, cioè un proprio vicario facente funzioni viceregie in caso di impedimento, prolungata assenza o malattia, e che presiedeva il parlamento dell'isola. I presidenti furono generalmente siciliani ed erano scelti tra i più prestigiosi personaggi ecclesiastici o nobili.

(Wikipewdia)

 

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All'interno del Castello Ursino interno morì nel 1494 il Vicerè di Sicilia, don Ferdinando de Acuña viceré di Sicilia.

Verrà sepolto in Cattedrale, nella cappella di Sant'Agata.

Ciò spiega, proprio di fronte al sacello di Sant'Agata, la presenza del monumento sepolcrale del Viceré rappresentato in ginocchio in atteggiamento di preghiera.  Nella parte superiore del monumento si legge la seguente epigrafe :

Regnando il grande Ferdinando, Re di Spagna e di Sicilia, Viceré di Sicilia Fernando Acuña, fu qui sepolto. Questo monumento di pietà gli è stato innalzato, con le lacrime agli occhi ,dalla sua cara sposa,Maria Avila. Egli di costume era Catone, di cuore Cesare. In lui splendette ogni genere di virtù. Abbi sempre dinanzi agli occhi questo esemplare di virtù così sarai approvato in cielo e in terra.Visse 40 anni. Morì il 2 dicembre dell'anno del Signore 1494. Questo è il sepolcro a splendido ricordo del Buon Don Fernando de Acuña Viceré, il quale servì tanto Dio e il suo Re, da esser degno di fama e gloria.

Alla base del monumento un'altra epigrafe recita: Qui giace Don Fernando d'Acuña Viceré di Sicilia, castigliano per patria, figlio del Conte de Buèdia dell'illustre stirpe de Acuña.Di aspetto e di animo regale, cultore di ogni virtù e di lettere ,strenuo nelle armi. Lo piange la schiera degli onesti e dei dotti e quantunque il suo corpo giace sottoterra, la sua pia anima gode tuttavia la gloria dei beati .

 foto da http://www.flickriver.com/photos/hen-magonza/sets/72157622859898711/

 

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Tra i secoli XV e XVI, il castello divenne residenza dei vicerè spagnoli e visse un periodo di grandi trasformazioni strutturali, soprattutto per iniziativa di Giovanni de Vega: grandi finestre in stile rinascimentale vennero aperte sulla facciata interna del lato sud e furono aggiunte nuove fortificazioni, le più importanti delle quali devono considerarsi i bastioni San Giorgio e Santa Croce.

 

 

Quel che rimane del bastione di San Giorgio. In fondo, la garitta datata tra il 1621 ed il 1637, costruita su proposta dell’ingegnere militare Raffaello Lucadello per il riparo delle sentinelle spagnole.

 

 

 

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Dalla fine del ‘500 il castello entrò in una fase di declino, fu utilizzato come carcere, specie nei locali del piano terra. Alcuni graffiti lasciati dai prigionieri sono visibili sulle pareti della corte interna.

Nel corso del XVII secolo, il Castello Ursino venne utilizzato come sede delle guarnigioni di Vittorio Amedeo di Savoia ed in età napoleonica riacquistò il ruolo di fortezza a difesa della città. A questo periodo risalgono le sopraelevazioni, che interessano tutti i lati della struttura, ad esclusione di quello settentrionale. Ristrutturato, continuò ad ospitare le guarnigioni militari prima piemontesi (1714) e quindi borboniche.

 

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Nel 1818 un sisma danneggiò ancora il castello. Nel 1837 Ferdinando II di Borbone vi stabilì le proprie truppe e ne cambiò il nome in “Forte Ferdinandeo”.

Rimase tuttavia prigione fino al 1838, quando il governo borbonico riconoscendone il ruolo come fortilizio, vi apportò restauri e vi aggiunse nuove fabbriche che finirono con l’occultare sempre più l’originaria struttura sveva. Il castello passò al Demanio Regio nel 1860 e fu utilizzato come caserma fino agli inizi del ‘900.  

 

 

 

 

In Sicilia, non c’erano solo quelli di Montalbano. La tradizione attribuisce a Federico II di Svevia la panatura e la frittura degli arancini, già inventati dagli arabi.

 

 

 

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La storia delle collezioni vede gli albori nel 1826, quando il catanese Giovan Battista Finocchiaro lascia alla città di Catania la sua preziosa collezione di dipinti. Di questa raccolta, comprendente molte tele di scuola napoletana, faceva parte anche la grande tela raffigurante S. Cristoforo, unanimemente riconosciuta al Pietro Novelli. A questo primo gruppo di opere si aggiunge, nel 1866, la raccolta dei PP. Benedettini entrata in possesso del Comune di Catania a seguito dello scioglimento delle corporazioni religiose.

Il Museo Benedettino si forma a metà del settecento per impulso dell'abate Vito Amico, intellettuale tra i più apprezzati del tempo, e del priore Placido Scammacca. Essi raccolgono, nel sontuoso Monastero di S. Nicolò, materiali greci e romani scavati e rinvenuti in città o acquistati sul mercato antiquario di Napoli e Roma, e oggetti portati dai missionari al ritorno dalla Cina e dal Giappone.

 

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Quasi nello stesso periodo in cui i monaci costituivano la loro collezione, il patrizio catanese Ignazio Paternò Castello, V principe di Biscari, formava nel suo palazzo alla Marina un'altra ed ancora più ricca raccolta che fu, a partire dal '700 e per molto tempo ancora, attrattiva per i viaggiatori nella Catania del settecento. Numerose sono le pagine che Goethe e Brydone, dedicarono nei loro resoconti alle raccolte di antichità dei Benedettini e del Principe di Biscari.

A partire dal 1862, iniziarono i tentativi del Comune di Catania per entrare in possesso deMuseo Civico Castello Ursino | IZI Travellla collezione che, dopo la morte del principe Biscari, rischiava di andare dispersa tra i numerosissimi eredi. Solo tra il 1927 ed il 1930, con le donazioni degli eredi e con l'acquisto, da parte del Comune delle quote residue, la collezione entra, finalmente, a far parte del patrimonio del Museo.

Il nucleo principale della raccolta Biscari è costituito da materiali archeologici provenienti dagli scavi eseguiti a Catania e nei fondi di famiglia, nei pressi dell'antica Camarina, nonché da acquisti fatti a Napoli, Roma e Firenze. Tra i pezzi più pregevoli della collezione alcuni splendidi vasi attici, terrecotte arcaiche, ed un cospicuo gruppo di bronzi.

Il patrimonio che si era andato costituendo si arricchisce ancora, fino alla fine degli anni '70, con altri acquisti, donazioni e lasciti che vanno, per lo più, ad incrementare la pinacoteca.

Tra le opere esposte ricordiamo una piccola raccolta di tavolette bizantine, le opere della collezione Finocchiaro: San Cristoforo di Pietro Novelli, Natività di Geraci (copia della Natività di Caravaggio, trafugata a Palermo nel 1969), Morte di Catone di Matthias Stomer., l'Ultima cena di Luis de Morales (sec. XVI), il già citato S. Cristoforo di Pietro Novelli, il Cristo deriso e la Morte di Catone, già attribuito a Gerardo von Hontorst, ma che alcuni esperti ritengono piuttosto debbano essere attribuite al suo allievo, il fiammingo Matthias Stomer.

 http://www.comune.catania.it/la-citta/culture/monumenti-e-siti-archeologici/musei/museo-civico-castello-ursino/la-collezione-civica/

 

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Relazione della dottoressa Bruna Pandolfo e dell'architetto Alberto Di Gaetano)

La complessa opera di restauro e riattamento del castello per adibirlo a Museo Civico fu curata da una Commissione, presieduta dell'archeologo Guido Libertini, di cui faceva parte l'ing. Ercole Fischetti insieme agli architetti Francesco Fichera, Sebastiano Agati e Giuseppe Mancini.

La serie dei castra exempta siciliani ricade sul territorio compreso tra Catania e Siracusa con l'appendice di Gela. Pertanto, la costruzione del Castello Ursino, iniziata da Federico II nel 1239,si inserisce all'interno delle dinamiche territoriali che tendono a rivitalizzare il ruolo economico della fascia costiera.

Il toponimo di origine araba (irsa'yni = due approdi,De Simone) andrebbe riferito alla conformazione della costa a nord e a sud dello sperone roccioso che consentiva ,prima della colata del 1669,un accesso più diretto al mare rispetto al Porto Saraceno.

La costruzione dei castelli di Catania, Augusta e il restauro del castello di Lentini indica l'organicità progettuale del disegno federiciano messo a punto dopo la promulgazione delle Constitutiones. Le diverse fortezze sono accomunate da affinità strutturali e formali, ma vi sono anche differenze funzionali a seconda delle realtà urbane che erano chiamate a presidiare. Esse rappresentano <<la presenza capillare dell'imperatore sul territorio >>(Cadei)

La fabbrica del castello Ursino viene progettata in antitesi rispetto ai due poli urbani della città normanna

la civita (in cui vi sono la cattedrale e il Porto Saraceno a sud-est) e la collina di Montevergine (presidio della parte alta della città e punto di collegamento delle difese urbane da cui si dominava l'ingresso settentrionale).Con quest'atto di grande impatto urbanistico, l'imperatore sancisce la nuova posizione giuridica della città. Il castrum, sede della corte per molti anni (1237-1277),diventa il nuovo centro della vita politica e delle trasformazioni edilizie d'età basso medievale. Non è più il castello arroccato, ma la fortezza urbana che dialoga con la città condizionandone lo schema difensivo. Vi è uno stretto rapporto con la Porta Decima, su cui confluiva il traffico della Piana di Catania e l'asse viario proveniente da Lentini attraverso la Giarretta al Simeto.

 

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Le prime fasi del cantiere sono documentate dalle lettere che l'imperatore indirizza al praepositus castrorum Riccardo da Lentini. Dalle Costituzioni Melfitane emerge il ruolo tecnico del progettista direttore dei lavori, che sceglieva il sito, selezionava il materiale da utilizzare e le dimensioni della fabbrica. A tal proposito, l'imperatore nelle sue lettere chiede <<de longitudine, muri grossitie >> per valutare l'impatto economico dell'opera.

Il tracciato del castrum è perfettamente regolare. Si tratta di un doppio perimetro quadrato di 50 m. con al centro una grande corte aperta. Lungo le mura esterne si innestano 4 torri angolari e altrettante semi-torri mediane. L' impianto prevedeva una sola elevazione, la seconda era prevista solo sull'ala nord.

All'interno, ogni lato è costituito da tre moduli allineati. Le quattro ali si raccordano tramite vani angolari della misura di un modulo, originariamente coperti da volte a crociera da cui si accede alle torri coperte da eleganti volte ad ombrello impostate su mensole decorate.Sul lato nord si possono ancora ammirare le volte a crociera, mentre sui lati est ed ovest sono presenti le volte a botte con profilo ogivale.

La costruzione del circuito difensivo è possibile solo grazie alla documentazione cartografica del '500.

Le trasformazioni cinquecentesche sono localizzate al primo livello delle ali est e sud. Gli interventi che si sono susseguiti tra '700 e '800 hanno prodotto sopraelevazioni e divisioni interne.

Nella prima metà del '900 la Soprintendenza di Catania ha diretto i restauri (1932-'34).Durante questi lavori sono state eliminate alcune strutture cinquecentesche e molte superfetazioni posteriori. È stata ricostruita la torre di sud-est e la scala esterna del cortile interno (detta <<catalana >>).Gli spazi interni sono stati adattati per poter trasferire i pezzi delle collezioni dei Benedettini e Biscari.

Oggi il castrum svevo è sede del Museo Civico etneo. -

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(Dott.ssa Bruna Pandolfo e Arch.Alberto Di Gaetano, da "Cronache castellane)

 

 

 

UN CASTELLO FEDERICIANO COME SEDE DEL MUSEO

 -Documentato è l'inizio dei lavori della costruzione del Castello Ursino per volere di Federico II di Svevia nel dicembre del 1239.Edificio militare, ma con innegabili funzioni residenziali come accadeva spesso nelle architetture federiciane, il castello è l'ultimo della serie di fortificazioni sveve realizzate ex novo - e non su fortificazioni precedenti- in Sicilia, dopo quelli di Siracusa del Marquet ,di Augusta, di Gela e castel Maniace, ancora a Siracusa.

Un gruppo di lettere dello stesso Federico II inviate a Riccardo da Lentini, praepositus castrorum,tra la fine del 1239 e il 1240 documentano la cura nella scelta del luogo, le prime fasi costruttive e il ruolo del praepositus, non solo funzionario regio col compito per soprintendente alle fabbriche ma anche tecnico, architetto e magister.

L' avvio del cantiere di castello Ursino, insieme al completamento degli altri castelli siciliani in quegli anni, era la risposta alle rivolte di numerose città siciliane contro l'imperatore nel 1232,eventi che richiedevano un più deciso sforzo edilizio non più concentrato esclusivamente sulle barriere difensive lungo le coste dell'isola ma esteso alle fortezze urbane in grado di segnare il potere svevo ai confini delle città.

La costruzione quadrata che si sviluppa intorno a una corte centrale con quattro torri cilindriche angolari e torri semicilindriche al centro dei lati è il più chiaro esempio di regolarità e perfezione geometrica, fondata sull'uso di un modulo quadrato, sfruttato nell'architettura federiciana anche per la possibilità di facile esportazione in tutti i territori del regno, con liberi adeguamenti a seconda del sito o delle esigenze locali.

Tale impianto, più che rimandare genericamente alla tradizione tipologica del castrum di origini romane, l'accampamento di impianto quadrangolare che si sviluppava intorno a due assi ortogonali, sembra da ricondurre all'architettura crociata del XII secolo, nota all'imperatore dopo gli anni della campagna in Terrasanta tra il 1228 e il 1229.In quelle architetture si poteva rintracciare allora la più recente rielaborazione del modello del castrum, con planimetrie quadrangolari e disposizione perfettamente simmetrica degli spazi,schema sul quale gli architetti federiciani inserivano l'uso di campate quadrate coperte con crociere, caratteristiche dell'architettura cistercense, nota a Federico che teneva alla sua corte proprio negli anni Trenta monaci dell'ordine.

Dai modelli cistercensi proveniva non solo l'uso del modulo quadrato ma anche la configurazione interna degli spazi e la plastica architettonica da cui traevano spunto le traduzioni federiciane.

I restauri eseguiti tra la fine del 1931 e il 1934 ,proprio in occasione del trasferimento del museo civico nella nuova sede,hanno comportato, al passo con le concezioni del tempo, oggi non più condivisibili, l'eliminazione di quasi tutte le superfetazioni ,comprese quelle cinquecentesche e seicentesche che sarebbero state invece prezioso documento della storia dell'edificio;il completamento in stile di parti perdute del castello;e la costruzione, integralmente ex novo e sul modello dei poco attinenti palazzi siracusani del XV secolo, dello scalone che dal cortile centrale conduce al piano superiore-

(Dal libro "Castello Ursino a Catania "di Barbara Mancuso)

 

 

 

 

 

 

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Capitelli in stile corinzio del III secolo d.C. di provenienza incerta.- Obelisco egizio di granito identificato come una delle mete del circo (l’altra meta, secondo molti studiosi, è l’obelisco egizio posto dal Vaccarini nel XVIII secolo sull’elefante della fontana di piazza Duomo).- Frammenti di pavimentazione in opus signinum.- Antico Vespasiano (orinatoio) di forma quadrata realizzato in pietra lavica con cinque fori circolari per il deflusso.- Sarcofagi di pietra lavica databili tra il IV ed il V secolo d.C..

 

 

A causa della tenacia della pietra lavica e delle rudimentali attrezzature disponibili per la sua lavorazione, alcuni di essi sono completamente privi di fregi, mentre altri presentano solo una decorazione essenziale. Tra di essi ne spiccano due che prendono nome da1l’area cimiteriale in cui sono stati rinvenuti: il sarcofago di via dottor Consoli,

 

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che mostra semplici iconografie (rombi, tondi) ed un incavo rettangolare che accoglieva l’epigrafe in marmo dedicata al defunto; il sarcofago detto della chiesa di Santa Teresa, in cui si vede un portico a tre arcate, tipologia d’ingresso spesso adottata dai primi edifici religiosi cristiani.

http://www.guidoscuderi.it/catania/antica/storia/cast_ursino/

 

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https://www.salvopuccio.com/

 

 

 

 

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Esattamente il 23 aprile del 1669 ,la colata lavica ,iniziata l'11 marzo, dopo aver seppellito numerosi paesi e contrade,raggiunse ,entrando da ovest, il Castello Ursino, lo circondò distruggendo la cinta muraria che lo proteggeva!

La cronaca di quel terribile giorno fu descritta da Tommaso Paternò Tedeschi nel libro pubblicato nel 1669 "Breve ragguaglio degl'incendi di Mongibello avvenuti in quest'anno 1669".

Ancora oggi è possibile osservare il banco lavico che circondò il maniero federiciano

 

 

"Ai ventitre d'Aprile si estrassero dal bussolo i nuovi Senatori e con esso loro tutti gli altri Officiali;e parve allhora ch'entrassero nel governo con buono augurio,perché in quel medesimo giorno entrò il fuoco nel mare,e diede qualche speranza di potersi fare il desiderato porto,con cui si sarebbe risarcito in gran parte il grandissimo danno, che fin hora havea fatto alla Città;ma non sortì l'effetto sin adesso, perché egli il fuoco si dilatò prima quasi in due miglia a larghezza, il cui sinistro corno camminando rasente il Castello, e le mura della marina sopravanzò la loro altezza e ingombrò i due baloardi chiamati San Giorgio e Santa Croce,

 

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Immagine by TAM - Topografia ed Architetture Multimediali per i Beni Culturali

 

i più venne a seppellire sotto le sue rovinose e arsiccie rupi insieme co'l Canale che chiamano del Duca;tutti quei trentasei canali che adacquavano la Città e erano ornamento impareggiabile della marina, alla quale venivano su'l tardi a diportare e Dame e Cavalieri in carrozza e quivi spasseggiando per la secca del molo,a soavi cocenti di rinomati cantori raddolcivano le amarezze de' gravi e serij pensieri:ne mai si fermò, si fù vicino alla porta che pur si chiama de i canali, la quale fu d'uopo all'hora si otturasse con pietre accioche non entrasse per quella a fare oltraggio alla Città:il destro corno verso mezzo giorno intese il corso dove incendè e ville,e giardini ,e horti, e case,e palaggi che adornavano quella riviera. Egualmente poi precipitando nel mare tutta quella gran mole di fuoco si avanzò quasi un miglio per entro a quello senza torcersi tanto, o quanto a man sinistra, dalla qual torcitura se ne sarebbe potuto formar qualche seno ,che da vento Greco e Levante defendesse i navili "

(T.Paternò Tedeschi)

La colata lavica arrivò a pochi metri da piazza Duomo,in via Plebiscito raggiungendo il mare.

Tracce del suo passaggio in questa zona sono ben visibili in alcuni vicoli di via Plebiscito (quartiere Angeli Custodi),in via Vela e via San Calogero all'interno del cortile Gammazita dove è presente il pozzo medievale che fu ricoperto dalla lava ......

 

 

 

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Immagine by TAM - Topografia ed Architetture Multimediali per i Beni Culturali

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La colata lavica del 1669 coprì i bastoni e le basi a scarpa delle torri, ma soprattutto alterò la linea di costa con conseguente perdita della posizione strategica della fortezza. A soli ventiquattro anni dall’eruzione, il terremoto del 1693 danneggiò ulteriormente la struttura facendo crollare le semi-torri ad est, a sud ed il torrione di sud est. Nel XVI secolo venne costruito un bastione detto di San Giorgio a difesa del castello ed eseguite alcune modifiche in stile rinascimentale.

 

 

 

 

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La raccolta di dipinti parte dalla collezione di Giovan Battista Finocchiaro, in possesso del Comune di Catania già dal 1826. In seguito si arricchì delle acquisizioni del patrimonio artistico di chiese e conventi e soprattutto del museo dei Benedettini.

Il patrimonio si intensificò con i contributi delle famiglie Rapisardi, Biscari, Gandolfo, Mirone, Zappalà Asmundo. Le opere che oggi si possono ammirare coprono un ampio arco di tempo che va dagli inizi del XV secolo alla fine dell’Ottocento.

La pinacoteca vanta opere della scuola di Ribera, di Procaccini, Borremans, Luis de Morales, Luca Giordano, Aniello Ascione. Di notevole pregio il Guidizio Universale del Beato Angelico, la Madonna col Bambino di Antonello de Saliba.

Fra la tavole cinquecentesche spicca l'Ultima Cena di Luis de Morales.

Nel gruppo delle opere del XVII secolo sono particolarmente interessanti La morte di Catone, di Matthias Stomer e la Scena allegorica attribuita a Mario Minniti. Di grande impatto il San Giovanni Battista di Pietro Novelli, del quale si conserva anche un San Cristoforo.

Enrico Piraino barone di Mandralisca, stringendosi al petto la tavoletta del Sorriso d'ignoto di Antonello, dalla prora del bastimento che da Lipari lo riportava a Cefalù, osservava i marmi antichi offerti al suo sguardo da una barca che, scivolando lenta, si allontanava dal porto e, mentre si chiedeva a chi quella merce preziosa sarebbe stata consegnata, non poteva fare a meno di desiderare di essere un pirata così " Avrebbe fottuto il Biscari, l'Asmundo Zappalà, l'Alessi canonico, magari il cardinale, il Pepoli, il Bellomo e forse il Landolina". Nel romanzo di Consolo era il 12 settembre 1852.
L'epoca del grande collezionismo privato volgeva al termine mentre andavano affermandosi i progetti per i musei pubblici.

 

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La condivisione delle conoscenze e delle collezioni, cresciute in una gara di emulazione tra privati e conventi, aveva caratterizzato il panorama del secondo Settecento. La circolazione culturale, vivace ed intensa, era passata attraverso le accademie, le case patrizie e i monasteri. Fondamentalmente il prestigio del privato stava nella sua dimensione pubblica.
Altra cosa sarebbe stata la progettazione di istituzioni pubbliche, perché connessa ad un disegno politico complessivo e ad un modello di organizzazione dell'istruzione. Soltanto dopo l'Unità e la soppressione delle corporazioni religiose si porrà imperante il problema di musei statali e civici, ma il percorso ha inizio nel primo decennio del XIX secolo. Nel 1806 a Messina, per iniziativa di Carmelo La Farina, nasceva il Museo civico Peloritano, nel 1814 Giuseppe Emanuele Ventimiglia, Principe di Belmonte destinava alla fruizione una raccolta di cinquantatré dipinti donandola all'Università di Palermo. A Catania nel 1826 si costituiva, con una collezione privata, il nucleo di quella che avrebbe dovuto essere una pubblica pinacoteca.

 

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Quasi cento anni dopo Gioacchino Basile, accennando ai quadri conservati nella casa comunale, ne richiamava l'origine: intorno al 1820 il chiaro cittadino giureconsulto Giovambattista Finocchiaro, presidente della Gran Corte a Palermo, morendo, aveva legato a quel comune la raccolta artistica di marmi, ed alla città nativa, Catania, la bella raccolta di quadri. La consegna era stata curata da Carlo Pio Zappalà, parente del defunto, il quale, dopo laboriose pratiche, finalmente nel 1826 aveva trasferito i quadri a Catania. Basile lamentava che neanche un ritratto ricordava il generoso donatore.
E, in effetti, stupisce che non un elogio abbia ricordato il chiaro giureconsulto. Il nome di Giambattista Finocchiaro non appare tra i soci delle accademie, non si legge, fino a Basile, in nessun saggio, nessuna memoria. I sigilli di ceralacca con le armi della famiglia Finocchiaro, apposti dal patrizio all'arrivo dei quadri a Catania legano la figura ai duchi di S. Gregorio, ma la famiglia nel ramo maschile si era estinta nel 1755.

Collezionista discreto che raccoglie in silenzio e possiede senza scalpore una collezione importante?
Carmelo Ardizzone, qualche anno dopo, aggiunge alla vicenda particolari che incrinano la ricostruzione del Basile, ma non manca di augurare l'istituzione di una galleria col nome del "cittadino filantropo".
Notizie sfuggenti e contrastanti, un grande lascito, vuoti sfuggenti: un gioco irresistibile per chi con le carte ha familiarità.

 

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E, allora, richiamiamo alla memoria vecchie letture, scaviamo negli archivi, prendiamo in prestito descrizioni dei luoghi e del contesto e alziamo il sipario sulla vera storia della collezione Finocchiaro conservata nel Castello Ursino.
"In uno dei più antichi rioni di Palermo a poca distanza della gran Cattedrale c'è una strada senza marciapiedi, stretta e, se bagnata, assai scivolosa, che si chiama via Montevergine" (Fulco Santostefano). In questa strada che negli anni venti del XIX secolo si chiamava ancora Via dei Tre Re, ai margini delle grandi arterie cittadine e dei palazzi del potere e della grande nobiltà, la sera del 3 agosto 1826, il cocchiere Gioacchino Micale e il servitore Francesco Citati, avvertirono un odore più intensamente nauseante provenire dalla casa del "Presidente". Si sarebbero tenuti volentieri a distanza, ma il timore che un pericoloso contagio si diffondesse per il loro quartiere li rese audaci e penetrarono nella minacciosa abitazione. I santi appesi alle pareti seguirono il loro guardingo percorso e, nell'oscurità, la sagoma riversa del vecchio confermò il loro sospetto. Era morto, solo, dodici ore prima e già la morte aveva compiuto il suo lavoro. Corsero al posto di polizia più vicino a implorare che lo portassero via, che liberassero il quartiere di quella presenza che, prima in vita e ora da morto, inquietava le loro esistenze. Il personaggio era noto perché era stato capo della polizia, e dei più rapaci. Liberarsi della salma era facile ma non delle testimonianze ingombranti delle sue prodezze. In molti lo ricordavano "qual commissario del re con uomini d'arme per girare il regno, obbligare i proprietari a rivelare e vendere il grano al prezzo della legge destinato". In molti sentivano ancora i morsi della fame per il frumento che era scomparso, fino a lasciare le campagne senza semina. Avevano ancora negli occhi l'immagine di quell' "ignorante furbo adulatore nemico della nobiltà perché figlio di un miserabile conduttore di mule da soma, che affettava il democratico, senza principi senza morale", cercare delatori, accusare e condannare, quand'era luogotenente Cutò.

 

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I tarocchi

Presso il suo museo è conservato uno dei primi mazzi di Tarocchi, detti appunto i Tarocchi di Castel Ursino. Questo mazzo è attribuito ad Alessandro Sforza e sono ricollegabili a quelli detti "del tipo Ferrarese". Si consideri al riguardo che Alessandro era il fratello di Francesco Sforza ed era duca di Pesaro, città situata non lontano da Ferrara. L’attribuzione ad Alessandro Sforza è però dovuta allo stemma raffigurato sullo scudo del re di Spade.

Questi Tarocchi sono realizzati in cartoncino spesso, ottenuto con l’uso di una pressa e diversi fogli di carta. Una differenza importante con quelli viscontei è l’uso dei risvolti, piegati sul davanti e incollati per la lunghezza del bordo, grazie ai quali il fronte e il dorso delle carte rimanevano uniti.

Le illustrazioni furono ottenute seguendo la stessa tecnica usata per quelli lombardi: una lamina d’oro lavorata con un motivo a punzone veniva applicata sullo sfondo, prima di dipingere le figure in primo piano con colori a tempera.

L’interesse di Federico per la zoologia, l’astronomia, la fisica e matematica si identificava con l’esigenza do conoscere il mondo e scoprire la dimensione che un uomo potesse avere in esso, tendendo ad eguagliare la sua natura con quella di Dio.

La sua personalità fu definita superiorità impressionante, appassionata ed audace, riuscendo ad emergere dalle voci della calunnia dei contemporanei.

 

 

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Il nodo di Salomone

Dal XVI sec. fino al 1838 venne adibito a prigione, in seguito a vasti lavori murari che suddivisero i grandi saloni del pianterreno in un gran numero celle o “dammusi”, che come si può ben immaginare, oltre che buie e malsane finirono per essere infestate da topi ed insetti.

Qui i prigionieri stavano al buio. Queste cellette pare fossero anche popolate da topi, scorpioni e tarantole. Un vero incubo.

E di quei giorni dannati sono rimaste delle testimonianze scritte: chiunque visita il castello può venirne a contatto. Sono centinaia i graffiti presenti sui muri e gli stipiti di porte e finestre. Ma non ci sono solo frasi o numeri (tantissime le date). Ci sono anche simboli come i nodi di Salomone.

Sui muri e gli stipiti delle porte, lì dove era più facile scrivere ed arrivava un pò più di luce, gli sventurati che vi erano rinchiusi tracciarono scritte e disegni che ancora oggi si possono osservare.

Fra le immagini spiccano in primo luogo le riproduzioni di navi dell’epoca, di grandi e piccole dimensioni, e delle mura merlate, con tanto di cannone al momento dello sparo, probabilmente del Bastione di San Giorgio: tutto ciò insomma che i prigionieri riuscivano a vedere del mondo esterno, considerato che fino al 1669, la mole della fortezza era a ridosso del mare.

Altro esempio sono teste e volti generalmente disegnate di prospetto, talvolta con intenzione caricaturale, con i capelli irti. Un’altra serie di immagini riproducono poi disegni geometrici e simbolici: stemmi araldici, croci patenti, come quelle degli ordini monastico cavallereschi, oppure le tre croci del calvario che come le raffigurazioni di cuori, testimoniano il sentimento di sofferenza dei condannati che equiparavano la loro pena a quella del Cristo crocifisso.

La studiosa Marisa Uberti ha identificato all’estremità di ogni braccio della croce dei caratteristici Nodi di Salomone, figure simboliche della letteratura ermetica ed alchimistica del periodo medievale e rinascimentale.

L’intera figura potrebbe costituire un unico grande Nodo salomonicoconcernente la Resurrezione più che la Passione. Ovviamente rimane un mistero chi fu ad inciderla ed a quale preciso scopo.

Numerose sono poi le iscrizioni lasciate sempre sui muri o le porte da prigionieri evidentemente alfabetizzati, molte in dialetto siciliano, talvolta anche in latino. Per lo più l’iscrizione comincia con la data che, di solito, è quella della carcerazione, segue poi il nome e quindi la formula pressoché costante "vinni carceratu". Le iscrizioni recanti la data più antica si trovano nella sala che contiene la Cappella con le camere adiacenti, ma non si risale oltre il 1526.

Non mancano anche sentenze e massime: “...Un tale, sugli stipiti della porta del lato meridionale del cortile, ha voluto accennare alla eterna mutabilità delle sorti umane, e ha scritto: "Mundus rota est", che equivale a dire: Oggi a me domani a te.

Uno di questi amanti delle sentenze fu rinchiuso nella mezza torre di ponente dove riempì addirittura le pareti, intonacate di fresco, con massime chiuse entro rozze cornici.

Al pari di molti altri antichi luoghi di prigionia in tutta Italia, insomma anche il castello svevo di Catania reca ancora le tracce, a volte ironiche, a volte commoventi, di coloro che scontarono la loro pena tra le sue mura.

(Salvatore Barbagallo - Catania misconosciuta)

 

 

 

 

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Etimologicamente un monumento è qualcosa che serve a “ricordare”. Ricordare, significa soprattutto trasmettere alle generazioni future la memoria di luoghi, personaggi ed eventi che fanno parte della Storia – quella con la S maiuscola – quella fatta da Re e Imperatori, eroici trionfi in battaglia e fasti cortigiani. Ma accanto ad essa c’è una storia, ingiustamente definita “minore”, fatta di uomini e di donne che vivono ai margini della Storia con le loro storie di sofferenza e quotidiana lotta per la sopravvivenza.

Castello Ursino nel corso dei suoi quasi otto secoli di Storia, ha raccolto memoria di parlamenti e di leggende, ha ospitato militari e sovrani, ha vissuto rapimenti romanzeschi e furenti assalti, ha respirato il sale del mare e lo zolfo della lava.

Ma al visitatore che oggi percorre le sue sale, Castello Ursino racconta anche altre storie, quelle dei prigionieri che fra il XVI e il XIX secolo furono rinchiusi nei dammusi oscuri e tetri, infestati da scorpioni e pipistrelli, e che incisero le proprie storie sulla pietra, con la forza della disperazione e alla fioca luce della speranza.

A volte sono solo un nome e una data, o un semplice Vinni carceratu. Altre volte la pietra racconta molto di più. Diego La Marca confessa esplicitamente che « si trova in questo carabozzo pur aver fatto un omicidio».

Altri raccontano storie di ordinaria omertà – «Rude mi faciu pi no diri no diponire» – ma un tale Antonino Pulvirenti, nel 1609, dichiara di trovarsi lì «pi no deponiri la bucia».

Altri proclamano la propria innocenza, e di essere stati traditi, come un tale che nel 1595 «patiu a tortu pir unu amicu », o un altro che se la prende con chi lo ha tradito: «Ai timpurariu curnutu».Ma la verità è quella che proclama un prigioniero anonimo: «Iddio mi vede», ed in quell’oscurità si affida alla giustizia divina, l’unica che può far veramente luce sul suo animo, colpevole o innocente che sia.

Poi ci sono coloro che riescono comunque a scherzare, come un tale che prende in giro qualcuno che si è fatto acciuffare: «Carcerato venisti, va ca fusti asinu si». O un altro che non vuol sentirsi rimproverare errori nelle iscrizioni realizzate in quelle difficili condizioni: «Chistu scrittu è fattu allu scuru a chui non ci piaci mi baasa lu culu e cui sei e dici chi non è fattu giustu ci vegna la frevi e puru lu fr…» La speranza, merce pregiata per chi si sente quasi sepolto vivo nell’oscurità del carcere – «Carcera in vita e sepoltura in morti» – e quasi aspetta la morte come una liberazione – «Chi temi fugi et ju la morti chamu». Ma c’è chi alla speranza non rinuncia, come Andrea Bonanno, per cui il carcere è luogo di sofferenza, ma non di morte – «chi si si pati no si mori».

Fra le tante scritte, colpisce quella di un tale Don Rocco Gangemi, per la profondità dell’incisione e i caratteri cubitali con cui scrive, amaramente, «Miseru cui troppu ama e troppu cridi». Nella mezza torre est fu invece rinchiuso un tale Filippo Mancuso, che doveva evidentemente possedere una cultura superiore, e tappezzò i muri della cella con massime latine e citazioni bibliche.

Oltre ai dammusi oscuri delle sale interne, altre celle erano state ricavate nel cortile: lì la vita era certamente più facile, e chi poteva corrompeva i soldati per farsi spostare. Sul portale che immette nella Cappella, troviamo i graffiti più straordinari. Una riflessione sulla vita in carcere, e sulle sue conseguenze:

 

CHISTV E’ VNLOCV MISERV EINFILICI  -     LOCV DI CRVDELTA’ DI VITA AMARA

CHA SI CVNTENPLA CHA SI PARRA E DICI  -  E CHA DISCVNTINTIZZA SI VA A GARA

CHA SI FANV CUNTENTI LI NIMICI  -  CHA PARIA CVI FVRTVNA NO RIPARA

A STV LOCV SI PROVANV L’AMICI  -  E A STV LOCV S’IMPRINDI E S’IMPARA

 

O una poetica, amara, meditazione sulla vita:

ORA CHI PRIVV SV DI LIBERTATI  -  OMNES AMICI MEI DERELIQVERUNT

TANTE AFFANNE E MARTIRI HAI SVDATI  -  ET OMNIA MEMBRA MEA LAXA FVERVNT

TVTTI L’AMICI MEI COMV ET FRATI  -   SICVT IVDAS MIHI TRADIDERVNT

ORA PACENZIA CHISTV CORI PATI  -  NON SINE CAVSA PECCATA FVERVNT

 

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L’autore, tale Giuseppe Privitera, dovette forse conoscere alcune poesie di Antonio Veneziano di cui si riconoscono gli echi, ma soprattutto quelle del menenino Antonio Maura con cui esistono puntuali paralleli. A queste iscrizioni, si aggiungono poi i disegni, in cui la precisione dei dettagli e la forza dell’incisione diventa simbolo delle sofferenze o della speranza di libertà dei carcerati.

Le proprie sofferenze, assimilate a quelle di Cristo nelle numerose croci che riempiono le pareti; fra queste la più interessante è sicuramente la croce, che domina l’interno del grande arco nella parete ovest del cortile, circondata dai simboli della passione e caratterizzata da nodi di Salomone ai vertici.

Ancora più evocativi i disegni alla base del portale della Cappella: una torre con un cannone, forse una rappresentazione del bastione su cui sorgeva il Castello. E poi quattro navi, che a vele spiegate, vanno via verso la sospirata libertà, verso una vita nuova.

Mundus rota est.

di Matilde Russo [pubblicato in Katane, Marzo 2010]

 https://cataniagiovani.wordpress.com/2010/09/30/le-mie-prigioni-catanesi

 

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I fantasmi e le apparizioni

Storia e leggende catanesi spesso si incontrano, si sovrappongono e si influenzano, ridisegnando i confini della verità. E’ quello che succede a Catania, in Sicilia, dove il Castello Ursino di Federico II è da sempre luogo di misteri, apparizioni e fatti inspiegabili. Sembra che la città ormai conviva con gli spiriti vaganti di donne e uomini di altre epoche che in qualche modo hanno fatto parte della storia del Castello. Luigi Pastore ed il suo Mysterious Places, questa volta ci porta proprio lì, nelle sale del Castello alla ricerca di una traccia di quei tempi di soprusi e rivolte spesso affogate nel sangue.

Oggi il Castello è un museo e una pinacoteca e le apparizioni continuano; ne sono testimoni sono soprattutto i custodi e gli addetti ai lavori, ma preferiscono tacere in merito per, a loro dire, non offendere gli spiriti che vagano per le sale.

 

 

E sembra che questa resistenza non sia solo per chi ci lavora; il buon Luigi ci racconta, in camera caritatis, che dopo il trailer del suo speciale, abbia ricevuto qualche esplicita richiesta istituzionale di non pubblicare la puntata: cosa spaventa così tanto i catanesi?

Un passato oscuro avvolge nel mistero quanto accadde dentro quei cortili. Di sicuro le mura, gli stipiti di porte e finestre ed i pavimenti raccontano sofferenze atroci e condanne ingiuste.

Siamo a Catania in piazza Federico II di Svevia, un luogo avvolto dal fascino della storia, fu ultimato intorno al 1250, ma «circondato» anche da diversi racconti che nella tradizione popolare continuano a tramandarsi.

Tuttavia, nulla di assolutamente ufficiale. Chi racconta le esperienze vissute all’interno del castello non vuole lasciare alcuna traccia: nessun video o virgolettato. Tutto viene affidato alle parole, dette, per una sorta di rispetto.

Si dice, tuttavia, come in ogni buon castello che si rispetti, che anche nel Castello Ursino non vi siano solo presenze fisiche e materiali. Sembra infatti che a molti dei custodi siano capitati episodi particolari. Sembra che la notte, dopo le due, si verifichino alcuni strani fenomeni: porte che si chiudono da sole, luci e radio che si accendono e si spengono, strane forze che impediscono i movimenti del corpo.

Ci raccontano poi che la notte, tra le stanze, camminino tanti folletti e che una bambina pianga in un angolo e addirittura al centro del salone d’ingresso ci sia addirittura una tomba. Sui muri della stanza e sulle volte, osservando con attenzione, ecco materializzarsi delle figure, non sono subito chiarissime ma piano piano appaiono.

Sul muro sembra un bambino con le mani tese e sull’altissima volta una figura angelica appena percepibile. Ma non finisce qui, perché guardando attentamente le fotografie scattate durante la visita, sono veramente tante le figure che prendono forma: donne, uomini e perfino uno strano animale simile ad un Gremlins.

Sui muri e gli stipiti delle porte, lì dove era più facile scrivere ed arrivava un pò più di luce, gli sventurati che vi erano rinchiusi tracciarono scritte e disegni che ancora oggi si possono osservare.

Fra le immagini spiccano in primo luogo le riproduzioni di navi dell’epoca, di grandi e piccole dimensioni, e delle mura merlate, con tanto di cannone al momento dello sparo, probabilmente del Bastione di San Giorgio: tutto ciò insomma che i prigionieri riuscivano a vedere del mondo esterno, considerato che fino al 1669, la mole della fortezza era a ridosso del mare.

Altro esempio sono teste e volti generalmente disegnate di prospetto, talvolta con intenzione caricaturale, con i capelli irti. Un’altra serie di immagini riproducono poi disegni geometrici e simbolici: stemmi araldici, croci patenti, come quelle degli ordini monastico cavallereschi, oppure le tre croci del calvario che come le raffigurazioni di cuori, testimoniano il sentimento di sofferenza dei condannati che equiparavano la loro pena a quella del Cristo crocifisso.

In questa serie è compresa forse l’immagine più misteriosa fra tutte, situata sotto il grande arco del cortile, ovvero una grande croce annodata accompagnata dalle figure della scala, dei chiodi, della tenaglia e del martello.

Suggestioni? Illusioni dei sensi? O forse uno di quei tanti fenomeni che la razionalità scientifica ancora non riesce o non vuole comprendere?

All’interno di questo spazio, si sono da sempre tramandati racconti di apparizioni e strani movimenti. C’è chi sostiene che sono soprattutto coloro che lavorano all’interno del castello ad essere testimoni di queste manifestazioni: dalle porte che all’improvviso si aprono alle urla di uomini e donne.

Fino a qualche tempo fa, era possibile trovare un documentario su Youtube realizzato proprio su quanto avveniva all’interno del castello. Secondo quanto si trova in rete, questo video aveva anche alcune testimonianze registrate. Oggi non è più possibile vedere queste immagini. Il file è stato rimosso. Così il mistero rimane.

(Salvatore Barbagallo - Catania misconosciuta)

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Fenomeni di "poltergeist" sarebbero addirittura all’ordine del giorno: le porte si chiudono da sole, le luci si accendono e spengono senza controllo, i dispositivi elettronici mostrano inspiegabili anomalie.

Una delle esperienze più agghiaccianti che si posa vivere all’interno del castello è quella di rimanere bloccati all’improvviso senza riuscire a muovere nemmeno un muscolo, come se delle forze invisibili trattenessero con forza i malcapitati.

Tra i racconti degli abitanti della zona si parla anche di avvistamenti di folletti e creature umanoidi in giro per i campi e nel cortile tra le mura del castello.

C’è chi giura di aver sentito il pianto di una bambina o di aver visto una tomba nel bel mezzo del salone all’ingresso,che appare e scompare al solo voltare lo sguardo.

Pare anche che in alcune stanze ai piani superiori comparirebbero delle figure eteree: la più conosciuta è quella di una nube con le sembianze di bimbo che amerebbe volteggiare sotto la volta più alta del castello.

A testimonianza di queste esperienze paranormali ci sarebbero alcune foto dove si distinguerebbero figure femminili, maschili e addirittura animalesche.

C’è poi un quadro, stupenda opera artistica, ma che suscita inquietudine man mano che lo si fissa: si tratta della “Testa di Ofelia pazza”, risalente al 1865 e dipinta da Michele Rapisardi. L’impressione è che quella donna raffigurata, frutto di abili pennellate e quindi irreale, fissino chi la guarda con sguardo fin troppo reale, quasi a penetrarne i pensieri ed insinuarsi nel suo animo...

(Franz Cannizzo)   a destra, Ofelia pazza da un dipinto di Michele Rapisardi

http://www.ilparanormale.com/fantasmi/i-fantasmi-di-castello-ursino/

 

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FEDERICO, IL FANTASMA BURLONE DEL CASTELLO URSINO.

«SI DIVERTE A SPOSTARE LE TARGHETTE»  di Luigi D'Angelo

 Nell’antico maniero posto nel cuore di Catania si verificano spesso strani episodi: «Potrebbe anche trattarsi di Bianca di Navarra o di una principessa aragonese» confessa Valentina Noto

 Non sono le ombre o le apparizioni a rivelare la presenza di Federico. Il fantasma del Castello Ursino preferisce invertire le targhette delle teche o nascondere una didascalia, giochi innocenti per far parlare di sé e, ogni tanto, rendere la vita difficile ai dipendenti del museo civico. Ispira grande fascino la consapevolezza di una nobile presenza del passato nell’antico maniero federiciano. Chiamiamole naturalmente leggende metropolitane e non fenomeni paranormali, ci aiutano ad alimentare la nostra fantasia e regalare tanta curiosità. A scanso di equivoci.

 «Lo chiamiamo Federico ma potrebbe anche trattarsi di Bianca di Navarra o di una principessa aragonese – rivela Valentina Noto, responsabile amministrativo e coordinatrice delle attività del Castello Ursino – i custodi del museo sono ormai abituati e convivono con le quotidiane stranezze. Sentono spesso strani rumori e avvertono dei passi. Un vigile urbano mi ha detto più volte che non avrebbe più varcato la mattonella dell’ingresso».

 La nascita del Castello Ursino risale al XIII secolo per volontà di Federico II di Svevia e nel corso della sua storia è stato sede del parlamento siciliano e, in seguito, residenza della famiglia reale degli Aragonesi. Una fortezza che custodisce avvincenti trame di storia della nostra isola. Sarebbe così incredibile ospitare una simpatica presenza non “convenzionale”? Provando solo a immaginarla senza l’assillo di dover attribuire ad ogni passaggio una patente di nobiltà scientifica.

 «È un fantasma burlone – sottolinea Valentina Noto – non tollera le invasioni dei visitatori maleducati e fa sentire il suo disappunto (ndr Valentina ride). Un improvviso corto circuito al sistema elettrico o il blocco degli ascensori senza un guasto individuabile. Fatti che si verificano  proprio quando si svolge un evento pubblico.

 

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Un aneddoto che vale la pena raccontare riguarda la sparizione improvvisa di una didascalia. Pensavamo fosse scivolata e ne abbiamo perso le tracce. Dalle immagini delle telecamere non si riscontrava niente e non c’era nessuno nella stanza. Il giorno dopo, inspiegabilmente, l’abbiamo ritrovata in un altro posto dove avevamo già guardato. Alla fine è una simpatica convivenza, anche se la responsabile precedente, andata poi in pensione, sostiene che da quando ha lasciato l’incarico la sua vita è cambiata in meglio».

Il racconto della dirigente del Castello Ursino ha un tono leggero, spensierato, a tratti divertito. Nella consapevolezza di affrontare un argomento che resta immune da rigorose letture tecniche sull’elettromagnetismo o sulla parapsicologia. Perché va preso solo per quello che è: un ponte immaginario tra il passato e il presente.

«Sembra quasi che ci mandi dei segnali – racconta ancora – come in occasione della mostra di Chagall. Una sera è mancata improvvisamente la luce. E non era certo per un sovraccarico del sistema. Forse gli ha dato fastidio la presenza di Sgarbi. Diciamo che se non gli sta bene una cosa, non perde occasione per farlo notare. Ci interroghiamo spesso, ad esempio, su chi sposti di frequente le targhette delle teche. Sembra un dispetto. Potrebbe anche essere il principe di Biscari, del quale ospitiamo tante testimonianze al Castello Ursino. Sarà infastidito?».

http://www.ultimatv.it/2016/11/05/federico-il-fantasma-burlone-del-castello-ursino-si-diverte-a-spostare-le-targhette/

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LO SPARO DEL CANNONE

(da "Una città allo specchio "di Elio Miccichè)

 

-Fin dall'antichità l'uomo ha cercato di addomesticare il tempo. Dove l'agricoltura costituiva la principale risorsa produttiva, il contadino fin dall'alba prendeva la strada dei campi. Se poi d'estate, come sempre accadeva, il sole indugiava al tramonto, la fatica si prolungava qualche ora in più rispetto all'inverno. L' osservazione del cono d'ombra che muta con la posizione del disco solare aveva portato alla invenzione degli orologi solari. Da quel momento si poterono contare le ore e i minuti. Gli orologi solari erano ingombranti e inamovibili. Con l'invenzione di quelli meccanici, e delle comode "cipolle "da panciotto, l'orologio diventò ....mobile. Rimaneva comunque un prodotto egalitario,lungi dal risolvere il generale problema del "segnale orario "destinato alla popolazione, scandito dappertutto col tocco delle campane.

A Catania, oltre alle campane suonava, o meglio tuonava, il cannone del Castello Ursino! A mezzodì in punto, tutti i giorni.

Il 5 settembre 1898 nasceva il "caso cannone ". Tuona oggi,tuona domani, i tremori dell'aria avevano lesionato più o meno gravemente gli edifici adiacenti al castello. https://www.mimmorapisarda.it/ursino/urs25.jpgOnde evitare dispendiose transazioni, il Comune decideva di sospendere gli spari. Dopo quindici giorni di quiete, la cittadinanza entrava in crisi di astinenza e sollecitava l'amministrazione perché individuasse altro locale idoneo alla cannonata.

Il 7 novembre veniva nominata una commissione che,dopo alcune cannonate di prova, decideva la ripresa degli spari con grande sollievo della popolazione.

Il 5 maggio 1899 il cannone taceva nuovamente. Il fatto era grave perché c'era il rischio che perdere un importante servizio di pubblica utilità. Gli orologi meccanici non avevano la stessa precisione di quelli odierni. Uno sparo coincidente con il mezzodì vigente nell'Europa centrale, peraltro identico a quello utilizzato dal telegrafo e dalle ferrovie, avrebbe permesso la regolazione degli orologi. Analizzati i pro e i contro della questione, alla fine si decideva per la ripresa degli spari dal molo vecchio.

Sul "caso cannone " era sceso in campo persino il professor Annibale Riccò,scienziato di fama internazionale e direttore dell'Osservatorio Astronomico della città. Egli sottolineava come lo sparo era sensibile all'udito sulle pendici dell'Etna <<fino alla distanza di più che 15 chilometri e che più lungi, fino all'Osservatorio Etneo cioè alla distanza di 28 chilometri,.....[era] visibile la nuvoletta di fumo >> per tre minuti circa, prima di svanire. Pertanto egli forniva ai catanesi, e agli abitanti dei paesi etnei, una tabella per regolare <<I loro orologi fino a pochi secondi >>di scarto, a seconda della distanza dal molo. Così, ad esempio, chi voleva regolare il proprio orologio da Mascalucia, sapeva che al momento della percezione del "tuono"bisognava collocare le lancette alle ore 12 e passa secondi. Viceversa, per i deboli d'udito ma di buona vista, la comparsa della nuvoletta era il segnale atteso per regolare le lancette. E per coloro che risultavano deboli di udito e vista?Un bel guaio, cannone docet!>>

 

 

 

 

 

 

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Anche le Rockstar amano le foto-ricordo

 

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12 (Sala 2) Statua di Ignazio Patemò Castello (1719-1786), V principe di Biscari, che agli inizi del Settecento effettuò i primi scavi archeologici in città recuperando un gran numero di significativi reperti oggi esposti nel museo civico del castello Ursino. Un tempo questa statua era ubicata al centro della corte interna del museo privato di palazzo Biscari.

17 (Sale 3-4) Epigrafe (II sec. d.C.) che attesta la richiesta di contributo economico da parte di Iulius Paternus, ‘curator operis’ di Catania, agli imperatori Marco Aurelio e Lucio Vero. Da questa epigrafe l’aristocratica famiglia Patemò Castello fece risalire la propria stirpe al periodo romano.  Sculture medioevali e rinascimentali, statua sepolcrale muliebre, figura giacente di gentiluomo, busti del 500 e b600, sarcofago della famiglia Cutelli, frammenti sculture decorative rinascimentali. Sculture medioevali, Cristo benedicente, sculture di Tino da Camaino, lastra tombale di cavaliere crociato, croce cenobina, acquamanile dalla tomba di Eleonora d’Angiò, lapide della chiesa di Nuovaluce, 4 leoni da sarcofago.

11 (Sala 10) - Plinto della fine del II secolo d.C. che venne rinvenuto dal principe Ignazio di Biscari durante gli scavi effettuati nella scena del teatro romano di Catania. Esso presenta, nel prospetto principale, due vittorie inginocchiate davanti ad un’insegna romana. Sul lato destro si vedono invece due barbari presi prigionieri, riconoscibili dai lunghi capelli. Sul lato sinistro infine si riconosce una figura femminile posta davanti ad un trofeo che, secondo alcuni studiosi, potrebbe commemorare la vittoria sulle tribù germaniche dell’imperatore Marco Aurelio o forse di Caracalla (non bisogna infatti dimenticare che il teatro, essendo un luogo pubblico frequentato da migliaia di cittadini, era ritenuto il posto ideale per divulgare le imprese dell’imperatore e per ribadire la superiorità dei Romani sulle tribù barbare che a quel tempo iniziavano a pressare sui confini settentrionali dell’impero).

http://www.guidoscuderi.it/catania/antica/storia/cast_ursino/

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15 - (Sala 6) Cratere attico a colonnette e figure rosse (450 - 425 a.C.) che rappresenta sul lato principale una figura danzante al suono di un flautista; tale scena simboleggia il giro festoso che i giovani greci anticamente eseguivano per le strade della città dopo un simposio, con suoni di flauti e canti (komos). A partire dal VI secolo a.C. il komos si associò al culto di Dioniso, per poi divenire una parte fondamentale della commedia.- Frammento di pavimento a mosaico (330-375 d.C.) con la personificazione del mese di luglio (Iulius), scoperto dal principe Ignazio di Biscari nel balneum di piazza Dante. Un tempo, quando era affisso su una parete del museo privato dei Biscari, tale frammento faceva parte di un pavimento musivo attualmente in fase di restauro.

14 - (Sala 7) - Cratere a calice con la raffigurazione di Perseo che uccide Medusa. Il bellissimo cratere a calice (in cui venivano miscelati acqua e vino) fu ritrovato dal principe Ignazio di Biscari nei suoi possedimenti di Kamarina (Ragusa), un tempo tra le più importanti colonie greche di Sicilia. Realizzato in ceramica a figure rosse dal ceramista greco Mykonos, presenta al centro della scena una figura con calzari alati (Perseo) che tiene nelle mani una falce e la testa recisa di Medusa. A sinistra, si nota un vecchio canuto con barba bianca seduto sul trono (il re Podiette) e dietro di lui un altro personaggio anziano. Alla destra di Perseo notiamo l’imponente e severa figura di Atena con dietro una imprecisata figura di donna. Infine nel retro si vede la figura di Poseidone che corre tra due terribili gorgoni alate (Steno e Curiale, sorelle di Medusa).- Statuette di terracotta dedicate alla dea Demetra che fanno parte della stipe votiva trovata in piazza San Francesco. Questo reperto avvalora l’ipotesi basata sulle fonti storiche dell’esistenza in questo luogo del tempio di Demetra.- Bronzetti d’età greca e romana talvolta provenienti da città sicule già fortemente influenzate dall’arte greca. - Busto di imperatore romano (fine del Il sec. d.C.) probabilmente da identificare con l’imperatore Marco Aurelio.

 

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13 - (Sala 8) - Frammento di colonna istoriata (I-ll sec. d.C.) rinvenuta nei pressi della fontana dei Sette Canali (pescheria) che rappresenta una serie di cavalieri in movimento con, sullo sfondo, le mura di una città fortificata. Sebbene in passato questo reperto sia stata datato al II secolo d.C., studi recenti lo ascrivono al I secolo d.C. per le evidenti presenze di elementi ellenistici, quali la cura nella rappresentazione della roccia sulla quale camminano i cavalieri e la raffinatezza stilistica di ogni altro particolare. La colonna, della quale è ricostruibile il diametro ma non l’altezza, è da immaginare del tutto simile a quelle più famose degli imperatori Traiano e Marco Aurelio che si possono ammirare a Roma.- Colossale torso in marmo bianco (I sec. d.C.) scoperto dal principe di Biscari nell’area del foro romano della città antica, probabilmente attribuibile all’imperatore Tiberio. Notevole il fitto panneggio e la cura dei particolari nel corpo che lasciano intuire come la raffinata arte ellenistica fosse presente a Catania in quanto città di forte tradizione greca.

16  (Sala 9) - Statua del semidio Ercole (fine del Il sec. d.C.) del quale si riconosce il vello leonino sopra il capo; ritrovata dal principe di Biscari nella zona di via Crociferi potrebbe riferirsi all’imperatore Marco Aurelio (l6l-180 d.C.) o forse al suo successore Commodo (180-192 d.C.) che soleva spesso paragonarsi ad Ercole.- Lato corto di un sarcofago (II sec. d.C.) che riproduce una delle scene più belle e drammatiche dell’Odissea: l’accecamento del ciclope Polifemo da parte di Odisseo (Ulisse). Al centro della rappresentazione domina la figura dell’eroe greco sotto cui giace, ubriaco e circondato dagli altri greci, il ciclope Polifemo, che è qui rappresentato con due occhi e non con uno solo perché l’arte ellenistica tendeva tradizionalmente ad evitare la rappresentazione di mostruosità; al centro, in basso, un ariete simboleggia la fuga di Ulisse e dei suoi compagni che si legarono sotto il ventre delle pecore che Polifemo, sebbene cieco, doveva fare uscire dalla grotta per pascolare.- Bellissimo mosaico del IV secolo d.C., rinvenuto nei pressi delle tenne della Rotonda, in cui leggiamo la frase latina Utere feliciter (goditelo al massimo).- Due frammenti marmorei con scene di gigantomachia che provengono dal fregio della scena del teatro romano. Il frammento più lungo presenta due figure di giganti con a lato una divinità femminile in corsa. Quello più piccolo mostra invece due divinità che si scontrano con altrettanti giganti, caratterizzati da piedi a forma di serpente (anguipedi) e dal corpo ricoperto di squame. La gigantomachia, secondo la mitologia greca, narra della lotta voluta dai giganti nel tentativo di sottrarre il potere agli dei dell’Olimpo. - Ariete colossale (II sec. d.C.) proveniente dal balneum di piazza Dante che fa sicuramente parte di un grande gruppo scultoreo a soggetto mitologico, forse il mito di Ulisse.

http://www.guidoscuderi.it/catania/antica/storia/cast_ursino/

 

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Piazza Federico II di Svevia

La piazza Federico di Svevia è pedonale e sono attivati i varchi di accesso. Il nostro Castello Ursino diventerà unico padrone dell’area, liberandosi dalle auto che ne hanno limitato la sontuosità. Ci siamo a lungo confrontati con residenti e operatori commerciali, raccogliendo i loro suggerimenti laddove ci permettessero di migliorare la proposta. Il nostro progetto di trasformare Catania da città turistica a città culturale impone di adeguare la visione del territorio in chiave attrattiva. Solo il favore di un turismo più sensibile alle nostre straordinarie bellezze può generare un miglioramento della nostra economia, spingendoci in una condizione di maggiore competitività.

 

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E per far questo dobbiamo imparare dalle esperienze di quelle tante realtà che hanno trasformato le città in luoghi da vivere e gustare in ogni anfratto, e non da percorrere in auto, o in cui i poli di maggiore attrazione siano asfissiati da veicoli in sosta (spesso vietata) e dal traffico. Pensiamo ai più grandi monumenti del mondo: quel che vediamo è l’inesistenza di veicoli attorno.

Adesso è il momento di crederci. Per incoraggiare maggiori flussi, stiamo pianificando una serie di eventi che consentiranno di scoprire il gusto di avvicinarsi al Castello a piedi, raggiungendolo dalla stazione Metropolitana di piazza Stesicoro, o dalle nuove aree di sosta aperte grazie alla collaborazione di AMTS e dell’Autorità di sistema Portuale (oltre quelle riportate nella grafica AMT ricordiamo i 190 posti disponibili tra l’interno del Porto e gli Archi della Marina). Presto comunicheremo il programma.

Enzo Trantino – Sindaco di Catania

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Piazza Federico di Svevia - Catania .TEL. 095/345830 - ORARIO: 8,30-13.  Visite guidate su prenotazione.

Domenica e festivi chiuso da lunedì a sabato 9.00 - 13.00/15.19.00

 

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Antico Mercato delle Erbe: piazza Federico di Svevia per due giorni cuore di rievocazioni medievali

 

I giochi di fuoco all'imbrunire  hanno coronato, domenica, la chiusura del primo appuntamento con il "Mercato delle erbe. Dal Castrum Sinus al Piano dell'erba” in piazza Federico di Svevia.

Due giorni di storia nella storia, con rievocazioni e riproposizioni in chiave medievale dell'antico “Emporio cittadino”,  tra mercanti e viandanti, giocolieri, musicanti, cucinieri e antichi mestieri, falchi e falconieri, lungo un percorso intriso di suoni, sapori, odori e colori tra i banchi delle maestranze della Catania di un tempo.

Un'iniziativa promossa dall'Amministrazione comunale e dal sindaco Enrico Trantino, che ha mantenuto per sé le deleghe alla Cultura e al Turismo, e che prevede un secondo weekend in chiave settecentesca il 26 e  27 ottobre in piazza Mazzini. Il progetto, ideato da Carmela Costa del Gabinetto del Sindaco, è stato messo a punto con il sostegno dell'assessorato regionale delle Autonomie locali. La realizzazione è  in sinergia con il Teatro Stabile di Catania che, con il direttore artistico Graziano Piazza, ha curato messa in scena e rappresentazioni. Hanno collaborato le associazioni I Batarnù e Casa Normanna.

 

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“Una volta varcato il confine delle strade che portano al Castello Ursino – ha detto il sindaco Enrico Trantino - è stato come se il tempo si fosse fermato, un po' come in un divertente film con Roberto Benigni e Massimo Troisi. Cittadini, turisti e tanti bambini hanno condiviso con gioia momenti  di un vivace e colorato passato, che ritroveremo con tante altre manifestazioni tra due settimane, il 26 e 27 ottobre,  in piazza Mazzini, l'antico piano San Filippo”.

“Le  due giornate – ha sottolineato Carmela Costa, ideatrice del progetto - sono state animate dall'associazione I Batarnu' e Casa Normanna, dal laboratorio didattico creativo sul tema dell'erbario a cura dell'associazione guide turistiche provinciali e da Nadia Ruju, da maestranze e  diverse animazioni, per la gioia di tanti bambini, così come dalla rappresentazione del Teatro Stabile di Catania. Una manifestazione ricca e articolata che ha fatto rivivere e respirare l'atmosfera della quotidianità del tempo”.

https://www.comune.catania.it/informazioni/cstampa/default.aspx?cs=93938

 

Piazza Federico II di Svevia ai primi del secolo scorso

 

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Via San Calogero -

Si racconta che durante i Vespri Siciliani, di riflesso anche a Catania, un soldato francese perseguitò una giovane fanciulla che, tuttavia, rifiutò di piegarsi al volere del soldato in quanto già promessa sposa ad un altro giovane catanese. Cosi, accadde che durante le nozze il soldato francese aggredì la donna, la quale, pur di non piegarsi alle sue minacce, si buttò in un pozzo annegandovi.

Questa è la leggenda del Pozzo di Gammazita – situato a Catania in via San Calogero, nei pressi di piazza Federico di Svevia.

Via Vela

Assieme a Via San Calogero e Via Auteri, Via Vela è uno degli angoli più belli della zona. Merita una sortita, più di un cazzeggio inconcludente.

Si trova ai confini con Via Plebiscito, e passeggiandoci a piedi sembra di respirare gli odori dei mercati angioni, aragonesi, normanni, spagnoli, arabi, greci, cartaginesi, arabi, sabaudi.

Percorrerla di sera mi è capitato durante l'ultima festa del Comune di Catania in zona; è ancora più affascinante, seppur con qualche tavolino pronto ad aprirsi per vendere birra e patatine che non c'entrano proprio niente con gli arcieri di Federico.

continuando, si "cala" alla Pescheria di Catania

Via San Calogero - La scalinata che fa da ponte al vecchio "TRAFORU"

 

 

Palazzo Stidda al vicolo della Lanterna

Dove un tempo si trovava la Giudecca, antico quartiere ebraico, oggi svetta il famoso “Palazzo Stella”, chiamato pure “Palazzu Stidda". In questa affascinante dimora, collocata vicino al cosiddetto “vicolo della Lanterna”, abitava il barone Stella, discendente di una nobile famiglia palermitana.

Le fonti storiche tramandano che si trasferì nel capoluogo etneo intorno all’ Ottocento. L’imponente edificio, datato tra il XVIII e il XIX secolo, sfoggia una particolarità architettonica senza eguali. La maggior parte degli studiosi locali crede che sia stato pianificato in due periodi differenti; alcuni pensano, infatti, che il pian terreno e il primo piano risalgano alla fine del Settecento. Caso differente per il secondo piano, che molti ritengono sia stato realizzato nel 1800.

In ogni caso, la struttura salta all’occhio per la sua originalità; se si osservano i prospetti frontale e laterale sembra di trovarsi al cospetto di una costruzione che rimanda alla forma di una nave. Lo splendore dell’edificio spiccava

maggiormente al calar della sera; gli ex proprietari e fidanzati Giovanni Girbino e Patricia, ambedue artisti, avevano infatti installato un impianto di illuminazione che evidenziava ogni singolo particolare edilizio.

Sappiamo che inizialmente il nome originario era proprio Stella; invece, secondo alcune testimonianze, l’odierno soprannome “Stidda” è stato assegnato proprio ai due artisti che lo acquistarono nel 2001 restituendolo alla bellezza e che ne sono stati proprietari fino a un paio di anni fa. Indubbiamente quest’ultimo appellativo risente molto del dialetto locale e, per tale ragione, a molti appare più pregnante e gergale.

Abbiamo certezza che al primo piano erano presenti gli Atelier degli artisti, sempre affaccendati a lavorare e creare qualcosa di nuovo. Non a caso gran parte delle decorazioni e degli arredamenti attuali sono stati realizzati proprio all’interno di quei

laboratori d’arte, divenendo un vero e proprio regno dell’eco-design.

Il palazzo è articolato in quattro appartamenti dotati di servizi privati e stanze con denominazioni particolari. Le camere più note sono: Amuri, Incanto, Odissea e Ammiraglia. In aggiunta, ciascuna di esse ospita spaziosi balconi e ampie terrazze ove potersi affacciare e respirare i profumi di gelsomino e zagara, tipici della nostra Sicilia. Fino al 2001, prima della sua riqualificazione, versava in rovinose condizioni di abbandono e degrado. Giovanni e Patricia, dunque, hanno rivoluzionato il contesto degli appartamenti donando un'immagine artistica che rifugge da specifici orientamenti architettonici.

Entrambi gli artisti, quindi, hanno sapientemente creato una coesione tra la natura dei materiali e il valore estetico-funzionale di arredi, mobili e suppellettili che adornano la residenza; bellissimo, a tal proposito, il tono delicato derivante dalla luminosità delle stanze.

Nel 2010, per di più, Giovanni ha ricevuto il premio di “Cittadino Esemplare” ed è stato pure premiato da “Compro Siciliano” insieme ad altri giovani imprenditori del capoluogo etneo per aver incrementato e innalzato il valore culturale della città. Curioso notare come la residenza sia stata selezionata per il set cinematografico della fiction tv “Squadra Antimafia”.

Spostandoci sul versante del pian terreno, vicino alla parte laterale, si trovava persino una bottega di dolciumi molto frequentata dagli scolari che andavano alla scuola elementare “Nazario Sauro”; di pregevole valore pure l’edicola votiva del Crocifisso, collocata sempre al pian terreno

nel corpo laterale del complesso edilizio.

https://www.balarm.it/news/qui-c-erano-gli-atelier-degli-artisti-catanesi-e-palazzu-stidda-dove-un-tempo-visse-un-barone-126559

 

 
 

Anche quest'ultima fatica è frutto della mia insaziabile curiosità su quanto accadde secoli fa nell’isola di Sicilia, gioiello grondante di storia da ogni pietra grazie alla sua strategica posizione nel cuore del Mediterraneo e da sempre ritenuta un crocevia di importanti civiltà quale ponte di collegamento culturale tra Occidente, Africa e Medio Oriente.

Forse in questa pagina potreste trovare inesattezze, ma vi assicuro che non è stato facile correre dietro a quella matassa di alleanze (anche coniugali) tra Angioini, Svevi ed Aragonesi. Nel cimentarmi in questo nuovo tuffo nel passato, fra la documentazione disponibile e la consultazione bibliografica (cito sempre i dovuti credits e links), ho colto un'ulteriore occasione per approfondire la conoscenza della mia città e trarne orgogliosa soddisfazione. Sono perciò convinto che dovrebbe essere dovere di ogni concittadino apprendere le sue origini, imparando da quel libro di storia all'aperto su cui poggiano i suoi piedi privilegiati.

Diceva Pirandello: "ci sono posti che non ti immagini, alla fine di una strada ti imbatti in un anfiteatro fatto di pietra lavica, e se sali sull’Etna e vedi il mare, beh, allora capisci perché chi conosce la Sicilia ne sia innamorato". Purtroppo parecchi catanesi non sanno di abitare in un dono di Dio, proprio perché non possiedono quella "fame di sapere" e quindi passeggiano ignari e distratti nelle strade del Centro storico, senza mai alzare il naso al di sopra delle insegne di Lounge Bar che spuntano e spariscono come funghi.

Una sera mi trovai a cena nel ristorante "Il borgo di Federico", che ha sede nella piazza che porta il nome dell’Imperatore. Tra i commensali seduti al mio tavolo c'era un giovane catanese che continuava ad ammirare il castello Ursino. Incuriosito, gli domandai “Lo conosci Federico secondo, vero?" E lui: “Federico 2? Wow! Ha aperto un’altra trattoria? Dove si trova?".

Pensai subito che quel ragazzo era sicuramente cresciuto in un'infinità di minchiate multimediali, causa del suo appiattimento culturale. Se un giorno dovessi rivederlo, gli passerei subito il titolo di un libro sulla nostra storia dicendogli: "Giovanotto, te 'cca... sturìa!"

(Mimmo Rapisarda, aprile 2025)