Il lungo e animato rettifilo, che da piazza
del Duomo corre a ovest, è caratterizzato
nel primo tratto da palazzi settecenteschi.
Al suo inizio, a sinistra, si nota la
fontana dell'Amenano (1867) che utilizza le
acque del fiume sotterraneo; nella piazza
retrostante e nelle vie adiacenti è la
Pescheria, caratteristico mercato popolare.
Oltre piazza Mazzini, cinta da portici su
colonne forse provenienti da una basilica
romana, in angolo con via S. Anna, un
palazzo del tardo '700 è la Casa-museo di
Giovanni Verga che custodisce mobili,
arredi, libri e oggetti appartenuti allo
scrittore. La via prosegue rettilinea per
concludersi alla cosiddetta porta Garibaldi,
arco di trionfo eretto nel 1768 per le nozze
di Ferdinando IV di Sicilia con Maria
Carolina d'Austria.
SE GUARDI AD EST
foto Salvo Olimpo
SE GUARDI AD OVEST
|
Solo Palazzo
Scammacca della Bruca, il primo dei quattro ad essere
stato realizzato, rimase del tutto fedele all'originario
disegno e così si presenta ad oggi (2011). Bisogna
precisare che detti cambiamenti furono abbastanza
marginali guardando all'aspetto complessivo della
sistemazione della piazza, sicché essa appare ancora
oggi estremamente omogenea e simmetrica nelle sue parti.
Resta il dato di fatto che i mercati storici di Catania,
dal XIX secolo posti nelle stesse zone, sono ubicati
altrove: la "Féra ô luni" alle spalle di Piazza
Stesicoro e la Pescheria alle spalle di Piazza Duomo,
solo marginalmente vicina a Piazza Mazzini, che
probabilmente, con lo sviluppo progressivo della città
etnea e della sua popolazione, divenne troppo piccola
per l'esercizio del mercato.\
http://it.wikipedia.org/wiki/Piazza_Mazzini_(Catania)
Piazza Giuseppe Mazzini, originariamente nota col nome
di Piano di San Filippo, è una piazza monumentale del
centro storico di Catania, la cui progettazione risale
al XVIII secolo.
Dopo il disastroso terremoto del Val di Noto del 1693,
il nuovo impianto urbano deciso da Giuseppe Lanza, duca
di Camastra, coordinatore e finanziatore della
ricostruzione in accordo con le autorità cittadine,
prevedeva lo sfruttamento di questa piazza come mercato
e per tale motivo fu stabilita anche la conformazione
strutturale degli edifici che dovevano affacciarvisi.
Giacché lo spazio venne ricavato dall'incrocio fra due
strade, l'attuale via Giuseppe Garibaldi (un tempo
chiamata via San Filippo e, successivamente, via
Ferdinandea a causa della Porta Ferdinandea, che si
trova alla sua fine e che rappresentava anticamente
l'ingresso della città dal lato sud-ovest) e via Santa
Maria della Lettera a nord che cambia nome in via Auteri
a sud, la piazza assunse un disegno a croce greca con
uguale spartizione degli spazi ad angolo nei quali si
scelse di erigere edifici dotati di terrazzini loggiati.
Così, nei primi decenni del XVIII secolo, non è sicuro
per mano di quali architetti, in quella che sarebbe
dovuta divenire una delle principali piazze del mercato
catanese, sorsero quattro identici loggiati, ciascuno
composto da 8 colonne in marmo bianco, che formarono una
cornice quadrangolare lungo i perimetri del luogo ad
eccezione delle quattro aperture stradali. Tali colonne
furono recuperate da delle rovine di epoca romana, in
particolare dai resti di una Basilica, sita ai tempi nei
pressi dell'odierna Chiesa di Sant'Agostino, al quale fu
poi annesso un Convento, e del Cortile San Pantaleone,
dove si trovava il Foro romano di Catania. Esse furono
messe in opera su eleganti plinti cubici in pietra
lavica e su di queste furono sviluppate arcate a tutto
sesto che, a loro volta, reggono i terrazzi dei palazzi
nobiliari.
Questi edifici (Palazzo Scammacca della Bruca a
nord-est, Palazzo Asmundo di Gisira a sud-est, Palazzo
Peratoner a sud-ovest e Palazzo Gagliani a nord-ovest)
avrebbero dovuto tutti adeguarsi stilisticamente alle
carte progettuali del XVIII secolo, e invece, a partire
dal XIX secolo, tre dei quattro palazzi subirono
modifiche ai secondi piani, dotati di finestre balconate
quando sarebbero dovute essere semplici cornici quadre,
e agli intonaci, che passarono dal grigio catanese al
rosa. Solo Palazzo Scammacca della Bruca, il primo dei
quattro ad essere stato realizzato, rimase del tutto
fedele all'originario disegno e si presenta così ancora
oggi.
Bisogna precisare che detti cambiamenti furono
abbastanza marginali guardando all'aspetto complessivo
della sistemazione della piazza, in quanto essa appare
ancora oggi estremamente omogenea e simmetrica nelle sue
parti. Resta il fatto che i mercati storici di Catania
sono ubicati altrove: a parte quello storico della "Fèra
o Lùni" in Piazza Carlo Alberto, a nord-est di Piazza
Stesicoro, vi è quello principale della Pescheria in
Piazza Alonzo Di Benedetto, a sud-ovest di Piazza del
Duomo, relativamente vicina a piazza Mazzini, la quale,
molto probabilmente a causa dello sviluppo progressivo
della città etnea e della crescita della sua
popolazione, divenne troppo piccola per l'esercizio del
suo stesso mercato, ovvero la "Fiera dei Morti", oggi
tenuta invece in piazza Mercato Ortofrutticolo, nel
quartiere San Giuseppe la Rena.
Fonte Wikipedia
Piazza S Filippo
La Catania medievale ebbe il suo nucleo centrale nella
Cattedrale fondata dal Conte Ruggero nel 1094 come
“Ecclesia munita” cioè fortificata. Ad ovest sotto la
collina di Montevergine vi erano le vestigia della città
romana coi resti del Foro (Cortile S Pantaleone) e della
Basilica romana (S Agostino), del teatro Greco-romano e
un po’ distante il Circo massimo e la Naumachia. Nella
via Sacra (via Crociferi) si trovavano i resti dei
templi di Castore e Polluce, di Ercole e di Esculapio e
più giù di Minerva e Demetra, le terme della Rotonda e
dell’Itria nei pressi dell’acquedotto romano le cui
acque assieme a quella dell’Amenano rifornivano le Terme
Achilleane e dell’Indirizzo verso la marina. In quei
secoli si insediarono in città gli Ebrei, abili
artigiani e commercianti che si aggregarono nella
Giudecca di sotto intorno ai mercati delle Erbe (P.
Mazzini e S Francesco) e del Planum lunaris (Collegiata,
Università). Il terremoto del 1693 fu strumento per
ridisegnare modernamente e in sicurezza (strade rette e
larghe) la città, dotandola di ampie piazze dedicate a
diversi scopi. Il Piano di S Agata come sede del potere
religioso e civile, il Piano degli Studi sede del potere
accademico e culturale, il Piano della Porta di Aci per
il controllo dell’ingresso alla città e il Piano di S
Filippo come centro dei mercati. La via di S Filippo
(Garibaldi) fu tra le prime ad essere tracciata dal
Camastra sia perché iniziava la strada per Palermo
(potere centrale) sia perché era l’accesso alle merci
dalle campagne per sfamare la città disastrata. Il
Camastra dedicò cura alla strada, che aveva l’inizio
dalla Cattedrale per finire alla Piazza della Maiorana
(fortino) e alla piazza del mercato. La piazza S Filippo
ebbe una forma a croce greca e delimitata da 4 logge con
32 colonne romane tratte dalla Basilica vicina, con 4
terrazzini balaustrati che formano un crocevia di “22
canne per lato” (45 mt). I palazzi che la delimitano
sono, girando in senso orario partendo dal Corso:
Scammacca della Bruca, Asmundo di Gisira, Peratoner e
Gagliani. La zona della piazza fu importante centro
commerciale, non solo mercato, perché fra il Corso (v.
Vittorio Emanuele) e il S Filippo vi erano le botteghe
artigiane di sarti, calzolai, pasticcieri e biscottai,
carrozzieri e fondaci. Circa i suoi disegnatori si fanno
i nomi di Battaglia e Ittar ma non esistono ancora
documenti che lo provano.
Nella pianta del 1598 di Braun e Honenberg leggiamo con
il n.26 la piazza del Duomo e il 3 che indica il Palazzo
del Senato, il 27 per il Planum lunaris (fiera) con
accanto il 4 che indica la Chiesa di S Maria
dell’Elemosina (Collegiata), il 29 la piazza delle erbe.
Una incisione di Audot del 1835 della piazza del mercato
e una foto di oggi.
Genius Loci Katane
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La
casa natale di Verga è a Catania in via Sant'Anna 8, una
stradina che collega Via Garibaldi con Via Vittorio
Emanuele. Tel. e fax 095/7150598.
Luogo di
atmosfere letterarie e artistiche, a pochi passi dal
Duomo di Catania. La Casa natale di Giovanni Verga, è un
appartamento al secondo piano di un palazzo
ottocentesco, dove l'autore de ''I Malavoglia''
trascorse l'infanzia e risiedette per lunghi periodi
circondato dai familiari e dagli amici più cari. Dopo la
morte di Giovannino Verga Patriarca, erede dello
scrittore, la casa venne acquistata dalla Regione
Siciliana ed aperta al pubblico dopo il restauro. Al suo
interno sono custoditi gli arredi ed i libri che
appartennero allo scrittore di Mastro Don Gesualdo. Tra
gli oltre 2600 volumi figurano opere di Giacosa, Oriani,
Rod, Capuana, Di Giacomo, Deledda, Marinetti, Borgese,
Villaroel, nonchè di autori russi e francesi come
Turgenev, Dostoevskij, Tolstoj, Gorkij, Flaubert,
Maupassant, Dumas, Zola.
Dopo la
scomparsa dello scrittore, alcuni decenni più tardi, in
via S. Anna fu ritrovato quanto rimaneva della passione
pionieristica del Verga per la fotografia. Le lastre e
le pellicole (oggi raccolte in una collezione privata)
svelano un interesse documentario che, anche se casuale,
certo non si discosta dall'ideologia verista. Le
fotografie ritraggono soprattutto volti familiari allo
scrittore: la madre, i fratelli, gli zii, i nipoti, ma
anche i contadini che lavorano per la famiglia Verga,
nelle campagne di Tebidi, a Vizzini. L'interesse per la
fotografia (tecnica che nella seconda metà dell'
Ottocento coinvolse intellettuali della buona borghesia
in un hobby, per l'epoca, decisamente d' elite e che
ispirò la poetica del Verismo) accomunò Verga, Capuana e
De Roberto, rendendoli artefici di sperimentazioni non
prive di interesse.
Il
salotto di Casa Verga è un'ampia stanza oggi arredata
con bacheche che espongono riproduzioni di manoscritti
verghiani (gli originali sono custoditi presso la
Biblioteca universitaria regionale di Catania). Sulla
parete destra, una cornice datata 1920 racchiude un
diploma con decorazioni floreali e soggetti campestri
dipinti da Alessandro Abate, dono dei soci del Circolo
Unione allo scrittore in occasione del suo ottantesimo
compleanno. In un angolo un busto del Verga e, su un
tavolino, in una scatola di legno, una maschera di cera
che riproduce il volto di Giovan Battista Verga
Catalano, padre dello scrittore. Nella biblioteca,
sei
librerie di noce scuro custodiscono i volumi personali
di Giovanni Verga. I dorsi in pelle hanno il fascino
discreto e l'eleganza dell'editoria ottocentesca: su
alcuni spiccano ancora le iniziali dorate 'GV'. Tra le
numerose dediche di scrittori del secolo scorso, vanno
ricordate quelle di Luigi Capuana, testimonianza di un
sodalizio affettivo e culturale destinato a rimanere
memorabile nella nostra letteratura. Sul panno del
grande tavolo, posto al centro della stanza, sono sparsi
pochi oggetti: un tagliacarte, un tampone, la
riproduzione in terracotta della campana di Rovereto, il
calco della mano di Dina di Sordevolo che dal 1889 sarà
la compagna dello scrittore.
Alle pareti,
un'immagine di Antonino Abate, precettore del Verga, ed
un ritratto dello scrittore, opera di Amedeo Bianchi; su
di un mobile, una targa di ottone su marmo bianco con la
dedica della cittadinanza di Catania allo scrittore in
occasione delle celebrazioni per il suo ottantesimo
compleanno.
La camera da
letto. E' un grande ambiente con salottino e caminetto.
Nell'armadio sono contenuti abiti e cappelli d'epoca.
Alle pareti vi sono ritratti di familiari e due
fotografie incorniciate, opera di Michele Grita, che
raffigurano il Verga e il nipote Marco. Giovanni Verga,
romanziere e novelliere è uno dei maggiori
rappresentanti del verismo o naturalismo italiano. I
suoi primi romanzi vengono pubblicati in un clima
letterario ancora fortemente influenzato dalla
produzione manzoniana e scottiana e dalle teorie del
naturalismo francese, che trovano consensi anche tra i
letterati del nostro Paese. Verga e Capuana furono
considerati i capiscuola del verismo: al Capuana viene
riconosciuto il merito di aver elaborato la teoria
dell'impersonalità e dell'oggettività, ma appartengono
sicuramente a Verga le opere più significative della
stagione verista, opere non sempre di facile
comprensione per i lettori del tempo.
I personaggi
verghiani (pescatori, contadini, piccoli artigiani) si
muovono in una realtà poco conosciuta ai più,
caratterizzata da aspetti fortemente regionalistici e da
una lingua che inaugura nuovi schemi sintattici e non
disdegna l'uso di espressioni dialettali. A dispetto
delle perplessità iniziali della critica del tempo, la
narrativa verghiana fa senz'altro parte ancora oggi dei
ricordi letterari di ciascuno di noi e, tradotta in
tutte le lingue, è stata rappresentata nei migliori
teatri e ha sedotto anche il cinema con personaggi
indimenticabili.
VIA SANT'ANNA SULL' ANGOLO MAGICO DOV'ERA LA
SCENA DEL TEATRO GRECO-ROMANO
(articolo di Saverio Fiducia da Passeggiate
Sentimentali)
- Non mi era mai capitato di vedere il nome
di una chiesa scritto all'ingresso di essa ,come una insegna.
Questa chiesa esiste, qui,a Catania;è una
delle sue cento;piccolina, modesta, incassata fra alti e vetusti palazzi,e si
chiama S.Anna.Al religioso che la governa dovette sembrare che nessuno la
vedesse,se tra l'architrave e il timpano del portale fece incidere,ben visibile
la dicitura:S.ANNA.
Via S.Anna, però, non è una via qualsiasi e
senza particolari risonanze, come tante ve ne sono in ogni città e i cui nomi
sembra rispondano a necessità urbane soltanto;essa ha nel mondo della cultura
letteraria una notorietà pari a quella della piazza Belgioioso di Milano e della
via Giovanni Boccaccio di Certaldo(vi è un perché se cito queste e non
altre);che nella casa segnata al numero 8 nacque e morì Giovanni Verga.
Percorrerla tutta è affare di un minuto. Dato
il punto, nell'agitata vita di oggi,è una via relativamente tranquilla.
Fiancheggiata da alte case,con abitazioni protette da vetrine e botteghe
d'artieri che vi si affacciano, parrebbe una stradetta qualsiasi, se non vi
fosse quella casa o palazzotto che sia, munita di una lapide con un nome, che
più gli anni passano più si veste di luce.È il prototipo, questa casa,delle
abitazioni signorili insieme e popolari dei primi dell'Ottocento catanese,in
quello stile sobrio e castigato che liberatosi alfine dal barocco imperante da
due secoli, gli studiosi chiamano neoclassico. Il piano, come si soleva
chiamarlo,<<nobile >>,noi oggi,più che signorile, lo consideriamo un'isola dello
spirito;ma le basi rimasero popolari e fu sotto quel basso androne che
l'ombrellaio Sanguedolce morsicò l'orecchio del suo antagonista, come ebbe a
narrare lo stesso Verga.
Tornando a via S.Anna, si vociferò un anno
addietro che il nome di essa fosse stato cambiato in via della Capinera ;un
omaggio pittoresco e gentile all'autore del romanzetto che fece lagrimare le
nostre mamme; ma fuor di luogo.È un angolo magico questo dove via S.Anna si
innesta nel corso Vittorio Emanuele II.
Due brevissime rette che si incontrano ad
angolo retto nel punto preciso dove era la scena del Teatro Antico. Anche in
tale regolarità assoluta vi è qualche cosa di misterioso che costringe a
pensare;e alle due estremità di queste rette ,vi sono:la casa dove nacque
Bellini e quella dove nacque Verga.(S.Fiducia)
LO STUDIO DI
VERGA
-Imboccando la quieta
e breve via Sant'Anna nella vecchia Catania, tra via
Vittorio Emanuele e via Garibaldi, si arriva subito
davanti al portone della casa di Giovanni Verga. C'ero
stato una volta mentre viveva lui nel 1920;ero studente
al Ginnasio Spedalieri e avevo letto tutti i libri di
Verga che mi avevano impressionato molto e non mi
stancavo di guardarlo per la via Etnea e quando lo
vedevo davanti al Circolo Unione col bastone fra le
gambe e le mani appoggiate sopra il manico. Quella volta
mi ero accodato a Villaroel che andava a trovare lo
scrittore e me ne ero rimasto in silenzio accanto alla
sua bassa libreria, mentre lui parlava in dialetto,
bonariamente, con l'aria di un gran signore di
provincia. Non osavo muovermi e potei guardare soltanto
i dorsi dei volumi che erano accanto al mio posto di
osservazione. Tutto Maupassant rilegato in pelle e oro.
Tutto Flaubert con la stessa rilegatura e,al piano di
sotto, Zola rilegato in colore diverso. Allungando il
collo potei sbirciare i libri di Tolstoj e quelli di
Dostoevskij. Altro non vidi un po' perché avevo ritegno
di spostarmi e anche perché non riuscivo a distogliere
lo sguardo dallo scrittore vestito di scuro coi suoi
nobili baffi bianchi che rispondeva alle domande di
Villaroel.
Quell'anno si stavano
organizzando le onoranze a Verga che aveva compiuto
ottanta anni. Pirandello sarebbe venuto a Catania a fare
la celebrazione al Teatro Massimo. Ma nè Federico De
Roberto nè il ministro Carnazza riuscirono a persuadere
Verga ad assistere a quella cerimonia che aveva un
carattere ufficiale e nazionale. Verga si rifiutò sempre
ostinatamente e delegò De Roberto a rappresentarlo. Alla
fine della cerimonia si limitò a ricevere il Comitato in
casa sua, che gli fece dono,tramite Dario Niccodemi, di
un orribile bassorilievo di metallo e marmo.
Pochi giorni
fa,trovandomi a Catania, sono voluto ritornare nello
studio di Verga che il nipote ha conservato intatto coi
libri,la disposizione dei mobili e le carte come quando
c'era lui.
Era una bella
mattinata di Catania intorno alle feste natalizie, una
giornata come ne avevo viste tante in anni
lontani,proprio da quelle parti. Il sole sui cornicioni
dei palazzi e quel brusio delle giornate festive.
In quella zona la
città non ha subito nessun cambiamento. I palazzi di
piazza Mazzini, di via Garibaldi, di via Vittorio
Emanuele conservano le stesse facciate settecentesche,
gli stessi balconi panciuti. Attraverso gli immensi
portoni gentilizi si scoprono cortili verdi e interni
pieni di panni stesi. Il Monastero di Santa Chiara
rifatto dopo che una bomba dell'ultima guerra lo aveva
quasi distrutto, ha ripreso l'antico aspetto che aveva
ai tempi di Verga quando il giovane scrittore lo
guardava di sbieco dai balconi di casa sua e,vedendo
balenare gli occhi di una suora dietro una
grata,concepiva la sua romantica STORIA DI UNA CAPINERA.
Nella piccola e
tranquilla via Sant'Anna, non è stata spostata una sola
pietra dai tempi quando Verga, scrittore alla moda verso
la fine del secolo scorso, veniva da Firenze o da Milano
dove abitualmente risiedeva,a trascorrere qualche giorno
in famiglia. La sola cosa più nuova è la grande lapide
che, in alto, ricorda che in questa casa è nato ed è
morto Giovanni Verga.
Ecco il portone e
l'ampio portico. Di lì più di trent'anni fa Verga usciva
nel pomeriggio col suo vestito scuro e le ghette chiare
per recarsi al Circolo Unione dove lo attendevano alcuni
vecchi signori catanesi amici suoi che non avevano letto
nè i Malavoglia nè il Mastro don Gesualdo nè altro e che
di lui conoscevano attraverso la musica di Mascagni
soltanto la Cavalleria Rusticana. Qualcuno dei soci si
era avventurato nella lettura dei Malavoglia ma aveva
trovato il romanzo piuttosto noioso,e non era arrivato
alla fine. Questo non impediva a quei signori di avere
della simpatia ed anche della vaga stima per Verga
dovuta soprattutto al suo aspetto signorile.
Una volta,
ragazzo,seguii a distanza Verga che, uscito dal Circolo,
si era incamminato per via Etnea in compagnia di uno di
quei soci amici dell' "Unione ",bel vecchio anche
lui,con grandi baffi bianchi, un barone o marchese,che
camminava con una certa spavalderia lasciando sul suo
cammino un buon odore di sigaro e di spigo. Li seguii
fino a quando, svoltati per via Pacini, non entrarono
nella piccola bottega a pianterreno di un sarto. Dalla
strada vidi che Verga esaminava una giacca di velluto
alla cacciatora, una giacca di campagna cucita col filo
della imbastitura e poi si dirigeva verso il
retrobottega seguito dall'altro vecchio che andava
ridacchiando. Quella fu l'ultima volta che vidi Verga.
Nel 1922, mentre mi trovavo a Roma, lo scrittore morì.
Salendo gli alti
gradini della sua casa si passa davanti ai due
appartamenti dell'ammezzato affittati ai piccoli
impiegati, le cui porte sono ricoperte da quei lutti di
carta listata a nero così frequenti in Sicilia: "Per il
mio caro fratello ","Per la mia adorata sposa","Per mio
cognato ".Cartelli ingialliti e lacerati che non si
possono togliere mai anche se sono passati molti anni e
ne è rimasto soltanto la metà:bisogna che caschino da sè.
L' appartamento di
Verga è al piano nobile primo ed unico del palazzotto.
Mi apre la porta il nipote Giovannino, un florido e
amabile signore all'antica dai capelli e i baffi quasi
bianchi,serio e oculato agricoltore che bada alle sue
proprietà di Vizzini e abita nella casa di famiglia dove
nacque e morì lo zio scrittore.
Rientrando nello
studio di Verga dopo 32 anni ho riconosciuto subito
quella libreria bassa e scolpita che gira intorno alle
pareti contro la quale ragazzo mi ero appoggiato pieno
di emozione, fitta di volumi rilegati ,il tavolo accanto
al balcone illuminato dalla calma e riposante luce di
via Garibaldi, le due riproduzioni in bronzo della mano
della contessa Dina di Sordevolo amica dello scrittore,
che Verga teneva sul tavolo come fermacarte.
Una mano assai bella,
appena dischiusa, delicata e forte come se fosse stata
ritratta mentre stava abbandonata sul velluto di un
palchetto di teatro durante una serata di gala
dell'Ottocento.
Il pavimento luccica
accanto al legno della biblioteca, i dorsi dei volumi
sono in perfetto ordine, spolverati, tutti rilegati,in
rilievo;molti recano in basso le iniziali dello
scrittore intrecciate a caratteri floreali:G.V.
In un settore ci sono
tutte le copie delle prime edizioni delle opere di Verga
che, non appena uscivano, da Milano le mandava subito al
fratello Mario a Catania. Ogni volume reca la dedica con
la calligrafia minuta ed inclinata di Verga, in
inchiostro violetto:"A mio fratello Mario con
affetto,Giovanni. Milano 1875", Edizioni Treves con sul
frontespizio la grossa "T" fiorita:e le prime traduzioni
in francese e in inglese dei Malavoglia del 1887. In
mezzo ad alcuni volumi si scopre qualche ricevuta del
gas del 1904 o una bolletta della "Fondiaria "del 1898.
La targa in
bassorilievo che gli portò Niccodemi nel 1920 è in un
angolo con la sua aria di piccolo monumento funebre.
Quando Verga morì
all'improvviso nel febbraio del 1922,aveva sul comodino
un libro di novelle di Ferdinando Paolieri che in quei
giorni stava leggendo. Il volume in edizione popolare,
senza dedica, è conservato in un piccolo e gualcito
portacarte di cuoio intrecciato:è l'ultimo libro che
Verga lesse.
Giungono dalla strada
i quieti rumori di via Garibaldi, il fruscio del filobus
che ai tempi di Verga non esisteva, il grido di un
venditore di carciofi che passa col suo carrettino. E la
luce del balcone, quella luce ferma di Catania che
riverberata sulle imposte,si posa sugli angoli dei
mobili tale e quale, come quando lui lavorava in questa
stanza.
(Ercole Patti,
"Diario siciliano")
IL MONASTERO DELLA CAPINERA
Vasto come tutti i monasteri compagni, a
Catania è limitato da quattro vie, cioè a dire un'isola secondo il concetto
romano della casa patrizia, viene di domandarsi:Che ne facevano di tanta vastità
quelle serve di Dio?<<Santa Chiara >>,difatti, ospitava 23 monache in tutto, più
14 educande e 5 o 6 bizzocche, come dire serve,due delle quali, di giorno,
vendevano il vino del monastero, nella dispensa di via del Castello Ursino, e i
biscotti di fabbricazione propria.Sissignore,vino;chè <<Santa Chiara
>>,possedendo vigne opulente lasciategli dal Barone di Oxina e da Chiara
Statella, le pratiche badesse non sdegnavano di fare la concorrenza a
Ciaccaligna e al Carabiniere, che erano due bettolieri famosi dei paraggi.Ma si
badi, dispensa la loro, non bettola:ci si entrava come oggi nei bar,mezzo
quartuccio in piedi e via col Signore, e a un'ora di notte chiusura.
Questi quotidiani contatti, però, tra popolo
e monastero, autorizzavano il primo a trattare il secondo con una certa
disinvoltura, nel senso che qualche storiella più pepe che sale correva pei
trivii;ed io personalmente ricordo il principio di una canzonetta in voga,
appresa ragazzo dai coetanei della strada; la quale, per essere parecchio arguta
e punto ortodossa, nè allora potevo cantare nè ora ripetere, e altronde l'ho
quasi del tutto dimenticata:
<<E non ci passu cchiù di Santa Chiara,
Ca la batissa mi manna 'in galera.....>>.
Colpa della dispensa certo, chè le bizzocche
non erano monache;e in quanto a queste e alla vastità dell'edificio, dove tra
saloni, sale e salette, tra ànditi e corridoi e celle,i vani sommavano a
centinaia, per esse quella vastità poteva anche significare la solitudine e
l'isolamento, o quanto meno favorivano l'una e l'altra per la conquista della
perfetta letizia e della pace dell'anima.
Comunque, oggi,climi compiutamente
sorpassati;di essi non rimane che il ricordo, ed un ricordo, se così può
dirsi,imbalsamato;anche della canzonetta poco ortodossa, chè proprio negli anni
in cui era in voga, venne sconfitta dalla Eterna Poesia:
<<Avevo visto una povera capinera chiusa in
gabbia......>>,l'agitato e desolato soliloquio che ha per scenario appunto il
monastero di Santa Chiara.
Nato e cresciuto in una delle case di
faccia,Giovanni Verga, fanciullo e giovinetto ,dovette sentirsi toccato dal
mistero della vita claustrale che gli si svolgeva sotto gli occhi, Egli, dai
balconi di casa,intravedeva le <<capinere >>passare rapide dietro le fitte grate
barocche e ne udiva a sera il cicaleccio vivace sul belvedere che sovrastava la
chiesa aperto alla grand'aria;le sorprendeva a spiare, illudendosi di non essere
viste ,nell'interno delle abitazioni vicine, con una intensità che alla
romantica sensibilità del giovinetto dovette sembrare struggimento infinito,
ardore di vivere la vita ad esse preclusa ansia di godere la libertà, l'amore,
la maternità.
L' anno 1871,quando "Storia di una capinera "
vide la luce,la sorte di quelle anime offese era maturata: libertà, amore,
maternità;ma il sentimento di cui il romanziere-poeta s'era da trent'anni
nutrito era rimasto intatto, se egli riuscì a commuovere una generazione di
lettori che già sapeva del mutamento avvenuto. Potenza della Poesia che non
muore!
Pure,dal tempo della <<scoperta >>di Verga,
che risale a un trentennio, a quando cioè egli era tanto vecchio da non potere
più dare ombra ai letterati;pure, dicevo, non è lecito lodare questa mesta
storia di un'anima e tanto meno alla lettura commuoversene, senza sentirsi
rimproverare di scarso intuito artistico;come se l'angoscia manifestata dalla
piccola Maria con lunghe effusioni agitate ,sia meno efficace e toccante del
fievole mormorare sommesso di Diodata;<<Voi siete il padrone >>.Che lagna i
criticoni che seguon le mode ed ignorano il cuore!
Ecco perché, malgrado la conclamata tenuità
della favola, Storia di una capinera rimane per noi una delle opere più
schiettamente concepite della prosa romantica di tutti i paesi:ecco perché
quando le bombe del '43 distrussero parzialmente il monastero di Santa Chiara,
non quelle mura vetuste parve colpissero, ma il nostro cuore;ecco perché
deploriamo che il monastero sia stato da anni adibito a scuole ed uffici, e
perché nella ricostruzione delle parti colpite sia stato seguito un criterio del
tutto arbitrario.
La loggetta, per esempio che affacciava sulla
via Castello Ursino, una delle opere architettoniche più singolari del nostro
Settecento, pur essendo rimasta indenne, venne demolita e non rifatta.Il ricordo
di essa ci strugge.
(Saverio Fiducia)
Catania è
la città che tutti i viaggiatori del tempo
lodano sopra ogni altra in Sicilia come
centro di cultura, grazie particolarmente
alla benemerenza del Biscari, nel campo
archeologico, e del Gioeni, in quello della
storia naturale. Le loro relazioni ed
esaltazioni in proposito, che talvolta
possono sembrare alquanto esagerate, si
ripetono e si rassomigliano quasi sempre. --
Non conosciamo una guida di Cat. che possa
essere utilmente commentata ai nostri scopo,
prima di quella del CARCACI, Descrizione di
Catania, (1847).
Intorno all'avventuroso «albergo del Leon
d'Oro» e alla affannosa ricerca d'alloggio
del G. a Catania, ecco alcune notizie
desunte da nostre indagini sul luogo. Il
vecchio «fondaco» nel quale il G. trovò
provvisoriamente ricovero la sera del suo
arrivo, sembra sia stato a pianterreno del
palazzo del principe Pardo, in quello che
oggi si chiama appunto vicolo Pardo, accanto
a via Cisira [ora via Gisira], non lungi da
piazza del Duomo. La maggior parte dei
«fondaci» e dei primi alberghi a Catania
sorsero sempre nei vicoli adiacenti a quel
primo tratto della via, oggi detta Vittorio
Emanuele. Il «Leon d'Oro» era poco lontano,
e precisamente nella casa allora di
proprietà dei baroni Anzalone, oggi del
barone Poliero, in via Virrotio Emanuele.
Come accadde al G., anche il Brydone nel
1770 fu portato la prima sera in uno di quei
miseri fondaci, di
dove poi la cortesia del can. Recupero lo
trasferì in un convento. -- La più antica
famiglia di albergatori a Catania sembra sia
quella degli Abbate, un discendente dei
quali è ancor oggi proprietario della
«Corona d'Oro». Uno dei più antichi Abbate
era soprannominato popolarmente «Cacasangue»
e godeva fama di maligno ospite dei
forestieri d'oltr'Alpe. Anche il noto poeta
dialettale Dom. Tempio lo chiama «Ingannamercanti».
Quest'ultimo, che teneva albergo
precisamente in casa Poliero, oppure il suo
successore può essere stato l'ospite del
nostro Poeta al «Leon d'Oro». Carlo Grass,
amico del G., nel 1804 alloggiò a Cat.
presso un Lorenzo Abbate, forse nello stesso
albergo. Il Seume (che del resto allogiò
qualche anno prima nel vicino «Elefante»)
nomina espressamente il «Leon d'Oro» come
albergo di inglesi.
Del
principe Biscari e del Museo B., parlano con
grande entusiasmo, come fu accennato, tutti
i viaggiatori; notevoli le relazioni del
Riedesel, dello Houel, del Münter, del Borch
e (dopo quella del Goethe) dello Stolberg.
Esiste poi tutta una letteratura locale,
encomiastica e d'occasione, sulla famiglia
Biscari. Il Museo è stato fra i nostri
ampiamente descritto dall'ab. Domenico
Sestini, già suo direttore e ordinatore:
«Descrizione del Museo d'Antiquariato e del
Gabinetto di Storia Naturale di S. E. il
principe di Biscari ecc. ecc., Firenze 1776»
riedita con aggiunte nel 1787. Nei Paralipomena del nostro «Viaggio» troviamo
ricordato dal G. il Sestini, ma solo come
autore del suo viaggio in Sicilia. L'abate
di casa Biscari che accompagnò il Goethe in
giro per Catania non può essere il Sestini,
come ha dato per certo il Cart, perchè egli
aveva lasciato da un pezzo la Sicilia, per
non tornarvi più. (Del Sestini parla anche
Goethe, in una lettera del 1806, F. A. WOLF;
v. G.-Jahrbuch, 1906, p. 45). La più utile
descrizione del Museo in relazione alle
impressioni del Goethe, ci sembra quella del
Rezzonico (Viaggi della Sicilia ecc.) che è
del 1793. Quando il G. visitò il Museo, il
principe di Biscari, suo fondatore, era
morto. Il G. conobbe il figlio, Vincenzo,
che continuava a curare e ad accrescere le
raccolte, e la vedova donna Anna Maria
Bonanno, figlia del principe palermitano di
Poggio Reale. Il Museo Biscari è andato in
gran parte disperso dal principio del sec.
scorso in poi, sia per vendita degli eredi,
che per saccheggi (1848 e segg.). Già il
Seume lo aveva trovato in disordine.
http://martinwguy.co.uk/martin/libri/Goethe/goethe.html
Wolfango
Goethe era un viaggiatore ca chiu
viaggiatore di iddu non ce ne sono. Nel suo
“Viaggio in Italia” scrive: «Conoscete la
terra dove fioriscono i limoni? Chi non
conosce la Sicilia non può capire l’Italia».
Però può anche darsi che noi siciliani, che
pure viviamo su questa terra, non riusciamo
a capire l’Italia. Non è che Goethe sia
stato fortunato nell’arrivare a Catania nel
maggio del 1787 assieme all’amico Cristoforo
Kniep perché dormì prima in una locanda di
Catenanuova su indicazione di un
carrettiere. Ati a sapiri che il poeta
tedesco si muoveva a bordo di carretti
perché all’eppica non c’erano treni o
automobili. In questa fetida locanda di mala
cogniuntura c’era un cartello: «O
passeggero, chiunque tu sia, guardati dalla
locanda del Leon d’oro, peggio che cadere in
una volta sola nelle grinfie dei ciclopi,
delle sirene e di Scilla».
Comunque
sia, Goethe se ne andò l’indomani 1° maggio
a Catania dove prese alloggio in un fondaco
sotto palazzo del Pardo in via Gisira, fino
a che girovagando capitò proprio nella
locanda del Leon d’oro, ma non se ne lamentò
troppo. Poi andò a visitare il museo di
palazzo Biscari, via Crociferi e il famoso
monastero dei Benedettini.
Nel
visitare la grande chiesa fu affascinato dal
maestoso organo di Donato Del Piano che un
piccolo monaco era capace di ammaestrare e
di suonare melodie celestiali. Goethe ammirò
via Etnea, salì anche sull’Etna, insomma non
si fici mancari nenti. Era solo angustiato
dal cibo di quelle locande e lo scriveva
anche alla sua amica Gertrude Stein. E dire
che oggi la cucina catanese è apprezzata in
tutto il mondo, soprattutto con la pasta
alla Norma che quando ci metti sopra la
ricotta salata somiglia alla cima dell’Etna
imbiancata di neve durante l’inverno.
Naturalmente Goethe allargò i suoi orizzonti
e si recò a Taormina che allora cominciava
ad essere conosciuta nel mondo per via dei
racconti dei viaggiatori tedeschi. Racconta
il mio amico Dino Papale, custode dei
ricordi della storia taorminese, che Goethe
prese un carretto e si fece portare dalla
spiaggetta di Villagonia fino in cima al
teatro greco. E ne rimase talmente
affascinato che vi restò tutta la notte
ammirando il cielo stellato e la mole
possente dell’Etna incombente. In quelle
giornate di sole fece i bagni a mare, dormì
benissimo nelle prime locande taorminesi
(che con il passare dei secoli divennero
hotel a 5 stelle) e assaggiò le delizie
della campagna, i fichidindia, i limoni e
tante altre delizie. Quindi, anche se nelle
locande di Catania aveva mangiato male e
dormito peggio, alla fine il viaggio di
Goethe in Sicilia, dalle nostre parti
risultò positivo. La Sicilia ha sempre
affascinato viaggiatori, poeti e artisti in
genere. Goethe fu uno dei suoi primi
cantori. E gliene siamo grati.
Tony Zermo
|
Percorrere i
dintorni di via Garibaldi di notte, in piazza Bellini,
via Vittorio Emanuele, piazza San Francesco, è come fare
un tuffo nella storia di questa città. Le atmosfere son
quelle, le luci dei lampioni sotto ai palazzi pure. Per
questo, camminando dopo una cena nei tanti locali in
zona, si può immaginare di incontrare Verga che si
accasa in via Sant'Anna, Bellini di ritorno da una delle
sue scorribande amorose o Goethe che torna stanco al
Leon d'Oro.
Sempre
in Piazza S. Francesco, la chiesa di S.
Francesco e
l’Immacolata.
Il percorso rosso che segnala i monumenti
della Catania barocca comprende anche la chiesa di S.
Francesco e dell’Immacolata preceduta da un’ariosa
scalinata e dal sagrato chiuso da una balaustrata (1850
ca.) sulla quale poggiano le statue di S. Giuseppe da
Copertino, S. Chiara, S. Agata e S. Bonaventura. La
facciata in pietra calcarea è chiusa, ai lati, da due
torri quadrangolari che conferiscono alla costruzione un
ardito slancio verticale. La storia della chiesa è
strettamente legata alla figura della regina Eleonora
d’Angiò, moglie di Federico Il d’Aragona e sorella del
minorita S. Ludovico da Tolosa. Una lapide ricorda che
nella chiesa sono custodite le spoglie della regina che
morì nel 1343; in una tela di pittore anonimo del
Settecento (a sinistra dell’ingresso) è rappresentata la
regina in compagnia di S. Chiara fondatrice dell’ordine
delle Clarisse.
L’interno della chiesa e
ampio e luminoso, tra le opere di interesse artistico si
possono ammirare (navata destra): una statua
dell’immacolata attribuita al palermitano Bagnasco
(XVIII secolo); l’immagine dell’immacolata corrisponde
all’iconografia barocca con la Vergine vestita di
azzurro, eretta sul globo terrestre, con ai piedi la
mezzaluna e una corona di dodici stelle intorno alla
testa. Al primo altare è I ‘immacolata con S. Francesco
e le anime purganti di P. Liotta (1850-1912);
sull’altare successivo è S. Giuseppe da Copertino in
estasi di G. Rapisardi (1799-1859); di G. Zacco
(1786-1843) è
il S. Ludovico da Tolosa e S. Bonaventura
sul terzo altare. Al quinto altare è una interessante
tavola (pittore ignoto) quattrocentesca che rappresenta
S. Antonio. Alla fine della navata è la cappella con
l’Immacolata chiusa da un cupolino. L’ampia area
presbiteriale, coperta da una finta cupola con i
pennacchi dipinti da Francesco Sozzi, pittore
palermitano padre del più famoso Olivio, ha, al centro,
un bellissimo altare cinquecentesco; sullo sfondo è un
grande affresco di F. Battaglia (1701-1788) con
l’episodio dell’indulgenza della Porziuncola. A destra
dell’altare è l’organo sul quale si esercitava il
piccolo Vincenzo Bellini che era nato nel palazzo
Gravina-Cruyllas che si trova proprio di fronte alla
chiesa. Oggi nella casa natale di Bellini è stato
allestito un museo che conserva manoscritti e memorie
del grande musicista catanese. Lungo la navata sinistra
si dispongono tre altari in marmi policromi: al secondo
è un’opera particolarmente interessante: la Salita al
Calvario (1541) di Jacopo Vignerio che fu recuperata
dalle rovine del terremoto del 1693; è la copia di una
famosa opera di Raffaello conosciuta con il nome di Lo
Spasimo di Sicilia perché fu realizzata per la chiesa
palermitana dello Spasimo. Agli ultimi due altari sono
le tele: lo Sposalizio della Vergine, opera
settecentesca del Gramignani Arezzi e un S. Francesco
che riceve le stimmate del Guarnaccia (1770). Alla fine
della navata è la cappella del Crocefisso.
A ridosso di San
Francesco comincia Via Crociferi con l’Arco dei
Benedettini dove, se non fosse per i resti romani e il
Museo Belliniano tutto parlerebbe dello stile per
eccellenza della città: il barocco del Settecento. E
risalendo cominciamo a percorrere il salotto artistico
per eccellenza di Catania.
Il Palazzo
Gravina Cruyllas si trova a Catania ed è noto
per avere dato i natali a Vincenzo Bellini e per
ospitare il museo a lui dedicato; sorge
all'angolo tra Piazza San Francesco e Via
Vittorio Emanuele II (chiamata anticamente "Il
Corso").
Fu costruito all'inizio del Settecento sulle
rovine di un più antico palazzo dei Gravina
Cruyllas, nobile casato dei Principi di
Palagonia, demolito dal terremoto del 1693 e
dove erano stati ospitati nel corso dei secoli
re e viceré.
L'impianto attuale, poggiante in parte sulle
mura del Teatro Romano e abbondantemente
alterato da superfetazioni edilizie successive,
presenta la forma tipica dei palazzi catanesi
del tempo. In origine il portone principale
prospettava sulla via Vittorio Emanuele ma in
seguito ai lavori di livellamento del piano
stradale che interessarono Catania a partire dal
1870, l'antico portone fu chiuso da botteghe e
quello laterale prospettante sulla piazza San
Francesco fu elevato a principale e a tutt'oggi
la facciata sulla piazza appare in effetti molto
più spoglia rispetto a quella sulla strada. Non
si conosce l'architetto, o meglio gli
architetti, dell'opera.
Le decorazioni a
volute, bugne e grottesche del portale e delle
mensole della tribuna soprastante sono
riferibili ai primi decenni del settecento,
accostabili come sono alle decorazioni di
Palazzo San Demetrio ai Quattro Canti o ad altri
esempi catanesi, mentre le mostre delle finestre
del piano nobile sono riferibili alla maniera di
Girolamo Palazzotto o, più probabilmente di
Francesco Battaglia: quest'ultimo preferito
anche in considerazione della splendida loggia
all'interno del cortile, così simile per stile e
struttura a quella, certamente successiva, di
Palazzo Reburdone, opera certa del Battaglia.
La scalinata
principale, che prima dello sbarramento del più
antico portale sulla strada appariva in
prospettiva con esso (prospettiva che ora, da
Piazza San Francesco, privilegia la loggia),
adesso appare, un po' illogicamente, laterale,
mantenendo solo in parte la monumentalità e la
funzionalità originarie. Moltissime sono le
modifiche che ha subito l'edificio: oltre al già
citato sbarramento del portale su Via Vittorio
Emanuele II, infatti, una delle tre arcate della
loggia è stata tagliata a metà da costruzioni
successive, dovute probabilmente dalla
trasformazione dei piani abitativi e non; il
terzo piano fu aggiunto verso la fine
dell'Ottocento e completato solo dopo il 1924
(foto d'archivio dell'IDAU, l'Istituto
Dipartimentale di Architettura e Urbanistica di
Catania, infatti, mostrano a quella data come
parte del palazzo conservasse ancora il livello
originario) e ulteriormente modificato da altre
aggiunte nel corso del XX secolo soprattutto
nella corte interna le cui proporzioni sono
state alquanto alterate. Di recente è stato
sottoposto a vari lavori di ristrutturazione
parziale per adeguare maggiormente il palazzo a
sede dei musei Civico Belliniano ed Emilio
Greco.
http://it.wikipedia.org/wiki/Palazzo_Gravina_Cruyllas
Al
centro della piazza c’è il monumento dedicato al
cardinale Dusmet e
di fronte un palazzo ottocentesco al cui interno
è allocato il Museo
Belliniano di
Catania, inaugurato il 5 maggio 1930. Nato per
iniziativa del prof. Benedetto Condorelli, è
stato via via ingrandito e arricchito di cimeli
e documentazioni riguardanti la vita e le opere
del grande musicista catanese Vincenzo Bellini.
Il nucleo principale del museo è costituito
dalla casa natale del Bellini: annessa al museo
la biblioteca con un ampia raccolta di opuscoli
e opere critiche. E' anche disponibile un
impianto di riproduzione stereofonica per
l'ascolto delle incisioni discografiche delle
opere del musicista. Morì giovanissimo Vincenzo
Bellini, a soli 34 anni.
Ma il suo astro
era già molto famoso, grazie sia alla Norma sia
alla Sonnambula composte nel 1832. Aveva
cominciato a musicare a soli 10 anni, rivelando
subito un estro eccezionale. E proprio alcune
sue partiture autografe sono fra le scoperte che
si fanno in questa casa-museo, dedicata a un
altro degli ambasciatori di Catania nel mondo.
Assieme a strumenti musicali, brani di
composizioni incompiute e appunti legati a
questo genio musicale, sono conservati oggetti
appartenuti alla vita di Bellini come lettere,
quadri, documenti e una raccolta di fotografie.
Il museo ospita anche spartiti di musicisti
italiani e stranieri dal Settecento al Novecento
(Piazza San Francesco d’Assisi, 3 – Tel.
095-7150535 - Orari: 9-13 dal lunedì alla
domenica; 15-18 il martedì e il giovedì).
Così lo
descrisse Ercole Patti nel suo "Diario
siciliano"
"Domenica
mattina, per accompagnarvi il mio amico Mario
Soldati di passaggio a Catania, sono tornato a
visitare la casa natale di Vincenzo Bellini.
[...] Dopo pochi gradini ripidi, attraverso una
porticina incassata in un muro spesso, entrammo
nella prima saletta che, nonostante da tanti
anni trasformata in museo belliniano, conserva
sempre quell’aria intima di casa privata; sembra
di entrare in uno di quegli appartamenti della
vecchia Catania abitati ancora oggi da piccoli
impiegati. Nella luce calma e malinconica che
arriva dai balconi che si affacciano sulla via
Vittorio Emanuele, i cimeli sono disposti con
cura nelle piccole stanze. Ecco l’alcova dove
nacque Vincenzo. Adesso c e il suo cembalo che
la riempie quasi tutta. Ha la tastiera coperta
come se Bellini vi avesse suonato poco fa. I
piccoli oggetti personali appartenuti al giovane
maestro conservati dietro il vetro di una reca,
in questa luce di casa catanese, sono ancora
pieni di intimità". Così Ercole Patti nel suo
Diario Siciliano (1971) descrisse l’atmosfera
familiare e un po’ decadente che aleggia dentro
la casa-museo di Vincenzo Bellini. Il museo è
ospitato nella casa natale del musicista
catanese che si trova all’interno del
settecentesco palazzo Gravina-Cruyllas, in
piazza 5. Francesco; gli anni che il musicista
passò nella casa furono circa sedici.
Si conserva anche una
piccola scultura di Bellini, opera dello scultore
Salvatore Grimaldi. L’alcova è il locale dove, secondo
le testimonianze dei discendenti dell’artista, nacque il
musicista. L’intero spazio è occupato dal clavicembalo
del cugino Vincenzo che fu suonato dall’artista durante
un successivo soggiorno catanese. Sulla parete di fondo
spicca un bel ritratto giovanile di Bellini. Nella Sala
B, che forse costituiva il soggiorno della casa, sono
custoditi moltissimi oggetti personali: sulle pareti
sono esposti molti ritratti del maestro, dei Duchi di Sammartino suoi benefattori e i due tappeti ricamati da
Giuditta Turina ed altre dame milanesi. Al centro della
stanza è una vetrina piena di cimeli con la maschera di
cera conforme al calco del volto di Bellini. La Sala C
contiene pannelli che permettono di ricostruire i
periodi principali della vita del compositore e cioè il
periodo catanese: 1801-1819; il periodo napoletano:
1819-1 827; il periodo milanese: 1827-1833; Palermo:
1832; Londra: 1833; il periodo parigino: 1833-1835. La
Sala D, che, forse, non fu abitata da Bellini, contiene
manoscritti e partiture musicali; si conservano sia le
opere giovanili, sia quelle della piena maturità
artistica. Tra gli altri reperti è un pianoforte a
tavolino di legno giallo di produzione viennese.
|
LA CASA DI VINCENZO BELLINI
(di Ercole Patti
da "Diario siciliano ")
Domenica mattina, per
accompagnarvi il mio amico Mario Soldati di passaggio a Catania,
sono tornato a visitare, dopo alcuni anni che non c'ero più stato,
la casa natale di Vincenzo Bellini.
Era il primo giorno di tempo
sereno dopo un lungo periodo di pioggia. Avevamo percorso la
bellissima e solitaria via Crociferi con le sue quattro chiese
raggruppate una di fronte all'altra e i monasteri dalle fitte grate
panciute.I vecchi muri e i lastroni di lava erano ancora saturi
della pioggia recente. Avevamo vagabondato per le strade della
vecchia Catania intorno a piazza Mazzini, lungo i negozi di
ferrarecci e di lampadari di via Garibaldi e di via Vittorio
Emanuele, ci eravamo soffermati davanti all'alto portone della casa
di Giovanni Verga in via Sant' Anna e al negozietto di porcellane
funebri che c'è di fronte.
Anche il cortile settecentesco
del palazzo dove nacque e visse gran parte dei suoi anni Bellini,
era ancora zuppo di umidità. Una donna in ciabatte che sfaccendava
sotto l'ombrellone ci indicò familiarmente la scaletta che porta
all'appartamento.
Dopo pochi gradini
ripidi,attraverso una porticina incassata in un muro spesso,
entrammo nella prima saletta che,nonostante da tanti anni
trasformata in museo belliniano, conserva sempre quell'aria intima
di casa privata;sembra di entrare in uno di quegli appartamenti
della vecchia Catania abitati ancora oggi da piccoli impiegati.Nella
luce calma e malinconica che arriva dai balconi che si affacciano
sulla via Vittorio Emanuele, i cimeli sono disposti con cura nelle
piccole stanze.Ecco l'alcova dove nacque Vincenzo. Adesso c'è il suo
cembalo che la riempie quasi tutta.Ha la tastiera scoperta come se
Bellini vi avesse suonato poco fa.I piccoli oggetti personali
appartenuti al giovane maestro conservati dietro il vetro di una
teca, in questa luce di casa catanese, sono ancora pieni di
intimità. I due orologi da panciotto con la loro chiavetta per
caricarli, le spille da cravatta, lo snello bastoncino con un
bottone d'argento al posto del manico, le scatoline cesellate, i
posacarte e i calamai e fra queste piccole cose quel cartoncino con
sopra disegnata una lira musicale;la lira ha cinque corde delle
quali una è costituita da un autentico capello di Vincenzo Bellini
incollato sulla carta. È un capello chiaro quasi evanescente.
Un'altra ciocca di capelli biondi di Bellini è custodita dentro un
minuscolo astuccio rotondo.
Sulle pareti accanto ai
cartelloni dei teatri dell'epoca che annunziano prime e repliche
della Sonnambula, della Norma, dei Puritani e di tutte le opere
belliniane ci sono le riproduzioni dei principali teatri che videro
trionfare o cadere la musica di Bellini.
Il modesto appartamento è pieno
di testimonianze di gloria che sembrano conservati da un padre
orgoglioso dei successi del figlio morto giovane.
Una luce simile,da una strada
uguale a questa (la via Garibaldi a pochi passi da qui);riceve lo
studio di Giovanni Verga.
Mentre ci attardiamo per le
stanze scorgo in un camerino piccolissimo, seduto ad un tavolo che
riempie quasi tutto l'ambiente, un signore. Il suo volto è
seminascosto dietro una cartella infilata nella macchina per
scrivere. Questa apparizione accresce il senso di domicilio privato
che c'è in giro. Sembra di essere capitati in casa di qualcuno e ci
si stupisce di non vedere quel signore riscuotersi al rumore dei
nostri passi e chiederci che cosa vogliamo. Ma poco dopo vengo a
sapere dal custode che si tratta dei maestro Pastura ordinatore e
direttore del museo belliniano. Mi presento e gli presento Soldati.
Il maestro è lieto della nostra visita. Intelligente, modesto e
competentissimo Pastura ci accompagna in giro per le stanze e dalle
sue parole si capiscono subito la serietà e il grandissimo amore che
egli mette in questa sua occupazione. Col suo pacato accento
siciliano egli ci parla di Bellini come se lo avesse conosciuto
personalmente sfatando anche con semplicità alcuni luoghi comuni che
corrono su Bellini, sulla vita privata e sulla sua morte.
Mario incantato dall'ambiente e
dalle limpide spiegazioni che ci fornisce Pastura è già entrato in
quel leggero stato di ebollizione che gli è familiare. Nella stanza
dove sono custoditi gli autografi delle opere di Bellini l'interesse
di Soldati si è fatto ancora più intenso. Egli,cosa che io
ignoravo,sa leggere la musica lo sento accennare motivi sbirciando
gli spartiti aperti dietro le vetrate. Il maestro Pastura ha trovato
pane per i suoi denti. Insieme intrecciano una conversazione
inframmezzata da brevi cantate.
I manoscritti ingialliti, un po'
accartocciati, mostrano i segni delle note tracciate rapidamente
dalla mano di Bellini, le sue cancellature.Il primo riordinamento di
queste carte fu fatto, subito dopo la morte di Bellini, da
Gioacchino Rossini;si vedono infatti qua e là le numerazioni e le
annotazioni fatte di pugno di Rossini con una calligrafia regolare e
inclinata, da scrivano.
Ma ecco il pezzo forte della
raccolta soprattutto per Mario:un quaderno di appunti musicali. In
esso Bellini annotava uno dietro l'altro e senza che avessero alcun
rapporto fra di loro, anzi spesso essendo di natura diversissima uno
dall' altro ,i motivi che gli venivano in mente, Le frasi musicali
sono trascritte di seguito, l'unico segno che le divide una
dall'altra sono dei leggeri trattini che a prima vista non si notano
nemmeno. Da questo quaderno Bellini traeva poi brani che inseriva
nelle sue opere. Il sistema di lavoro era ordinato e previdente
inteso ad evitare qualsiasi spreco. Egli metteva da parte duetti,
frasi d'amore, marce funebri, descrizioni in attesa che gli
potessero servire.A mano a mano che qualche frase era da lui
utilizzata la cancellava con un metodo quasi burocratico con pochi
tratti in modo da evitare di doverla adoperare distrattamente in
qualche altra opera. Ecco due motivi cancellati che furono inseriti
nella Norma, un altro nei Puritani e altri ancora. Molte però sono
le frasi che non furono mai adoperate forse perché la morte arrivò
troppo presto per il giovane musicista.
Soldati legge avidamente
canticchiando, il maestro Pastura gli fa eco e canticchia a sua
volta facendo qualche osservazione. Io,incompetente di musica,
assistito ammirato e invidioso dell'abilità di Mario a questa
conversazione canora e tuttavia riconosco dai loro accenni a bocca
chiusa l'inconfondibile accento della musica di Bellini.
Così fra quelle carte ingiallite
e quegli oggetti personali è passata sotto i nostri occhi vivissima
la breve vita di questo giovane catanese di eccezionale talento,
pieno di entusiasmo e anche di voglia di arrivare, che quasi ragazzo
vide trionfare la sua musica in tutto il mondo e morì in pochi
giorni a trentatré anni di una misteriosa malattia viscerale in una
villa di campagna nei dintorni di Parigi dove si era ritirato per
lavorare.
Vado guardando attraverso le
teche alcuni autografi. Ad un tratto fra tante calligrafie
ottocentesche minute piegate e un po' scolorite vedo su un leggio
ricoperto da vetro scoppiare un autografo ampio, clamoroso,
notissimo. È una lettera di D'Annunzio diretta al Sindaco di Catania
nel 1901 con la quale il poeta accompagna l'invio di una sua lunga
poesia dedicata a Bellini. Si leggono le prime quartine vergate con
la ben nota calligrafia, altre cinque o sei grandi cartelle fanno
capolino sotto.
La visita è stata lunga, il tempo
è trascorso senza che ce ne accorgessimo, l'ora di colazione è già
passata. Mentre Pastura ci accompagna alla porta con l'aria di un
ospitale padrone di casa antico stampo ,passiamo davanti allo
sgabuzzino in penombra dove è custodita la bara entro la quale il
corpo di Vincenzo Bellini fu riportato solennemente a Catania nel
1876 dopo quarantun anni di permanenza in Francia. Una bara corta
,scura,un po' scrostata;accanto c'è una delle maschere che furono
ricavate dal cadavere e nastri ,corone, fronde d'alloro ed altre
reliquie municipali di quel trasporto. Ma questa roba non ha nulla
di mortuario;ha piuttosto l'aria cordiale dei vecchi oggetti in
disuso che si custodiscono affettuosamente nei solai di certe
antiche case siciliane.
Giungono dal cortile i familiari
suoni del palazzo nell'ora di colazione. Richiami di voci femminili,
una porta sbattuta, il pianto di un bambino. Usciti dalla breve e
ripida scaletta ci ritroviamo nella corte illuminata da un sole
velato in quella luce di via Vittorio Emanuele che era così
familiare a Giovanni Verga. Da una delle porticine che sboccano sul
cortile, abitata forse dal portiere, giunge un leggero odore di
pesciolini fritti che accresce e conferma in noi l'illusione
affascinante di essere stati a casa dei giovane musicista catanese
Vincenzo Bellini vivente e di non averlo visto di persona per
combinazione forse perché era uscito o in viaggio.
|
Via Giuseppe Garibaldi è una delle
vie più importanti di Catania e del suo centro storico;
si snoda in rettilineo, da ovest ad est, tra la porta
Garibaldi e la piazza del Duomo.
La via venne progettata e
realizzata, sulla base di un tracciato antecedente,
nell'ambito della ricostruzione della città distrutta
dal terribile terremoto del 1693. Ha cambiato nome più
volte: è stata infatti "via San Filippo", "via
Ferdinandea" (dopo la costruzione della porta omonima) e
infine dopo il 1860 via Garibaldi.
Il suo tracciato è perfettamente
rettilineo ed ha origine nella centralissima piazza del
Duomo, proprio in corrispondenza della fontana
dell'Amenano. Non molto distante da questa sorge la
caratteristica piazza Mazzini. Lungo la via sorgono
numerosi i palazzi settecenteschi nobiliari e della
borghesia mercantile del secolo successivo. Nei pressi
della via Sant'Anna sorge la casa-museo dello scrittore
Giovanni Verga con i mobili e gli arredi, i libri e gli
oggetti dello scrittore. Poco prima del termine incrocia
l'importante via del Plebiscito. Fino al 1949 era
percorsa da una delle linee tranviarie cittadine. Lungo
la maggior parte della via sorgono numerosi negozi e
attività commerciali che costituiscono da secoli il
cuore pulsante del centro storico.
Palazzo
Asmundo di Gisira fu edificato dopo il terribile
terremoto del 1693 che rase al suolo Catania e i suoi
palazzi, le sue chiese, i suoi monasteri. Eppure, appena
qualche anno dopo, i privati ancor prima del governo e
della Chiesa, iniziarono la ricostruzione che avrebbe
reso la città celebre nel mondo per il suo barocco nero,
costruito con blocchi estratti dalla lava distruttrice e
progettato dai maggiori architetti del tempo a
imperitura memoria del passato.
Palazzo Asmundo fu tra i primi
palazzi a essere edificato in quella che i viaggiatori
stranieri dichiararono la più bella piazza di Catania:
piazza San Filippo, oggi Mazzini.
Posta ad interruzione di via
Garibaldi, la piazza - unica “porticata” della città
per volere degli Asmundo e degli Scammacca della Bruca –
è racchiusa da quattro corpi angolari ornati con un
peristilio di 32 colonne di età romana, cui fa da sfondo
da un verso la facciata del Duomo e dall’altro la porta
Ferdinandea.
Il Palazzo è posto all’angolo
sud-est e il suo portone è sovrastato da un magnifico
stemma con l’emblema del casato Asmundo di Gisira.
Come testimoniato dai documenti
d’archivio, l’inizio dei suoi lavori è databile al 1704
su progetto del celebre architetto Giuseppe Palazzotto e
disposizione di Adamo Asmundo - nipote del Giuseppe che
affiancò Giuseppe Lanza, vicario generale per la
ricostruzione del Val di Noto – e di sua moglie Maria
Landolina, titolare dei feudi di Bonfalà e di Gisira
posti in territorio netino.
Contatti
Via Gisira n° 40
95121 Catania (CT)
Tel: 0039 095 093 3009
Cel: 0039 346 63 77 676
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www.palazzoasmundocatania.com
CHIESA ed ex CONVENTO DI
SANT'AGOSTINO
Nascosta in un Palazzo di via
V.Emanuele adiacente all'attuale Chiesa di Santa Rita e
Sant'Agostino, si trova il sito dove il Biscari trovò
numerosi reperti archeologici tra cui il famoso "Torso
monumentale ".
Scrive Francesco Ferrara :-Questo
convento fu edificato nel secolo XIV sopra le rovine del
Foro antico. Nel 1577 essendovi per mancanza di
diligenze ripullulata la peste che desolata avea la
città l'anno prima, e che allora ammazzò tutti i monaci,
il Senato vi fece appiccare il fuoco,e fu ridotto in
cenere insieme alla libreria, all'archivio, e a quanto
vi era di buono e di ricco. È stato riedificato dopo con
chiesa decente-
Altre informazioni offre l'editore
Galatola:
-Salendo per la Strada del Corso
(oggi via V Emanuele )s'incontra la Chiesa ed il
Convento dei p.p. Agostiniani ,fabbricati sulle rovine
dello antico Foro e della Basilica nel secolo
decimoquarto.Nel 1577 ripullulando la peste che l'anno
innanzi avea desolato Catania, il Senato fece appiccare
fuoco all'edifizio e fu ridotto in cenere insieme alla
libreria all'archivio e a quanto vi era di buono e di
ricco. Nella chiesa si ammirano un crocifisso sopra
tavola e Madonna del Buon consiglio di antica scuola, un
S.Emiddio del "Vasta",un S.Agostino di Mignemi il
vecchio. Gualterio Manfredo confessore del re Alfonso
appartenne a questo convento, come pure Geronimo da
Catania, Andrea di Urso,Giovanni dell'Oro,Agostino
Sorito illustri nelle lettere, e Bonaventura Attardi
scrittore della storia del suo ordine in Sicilia.
Note e foto di Milena Palermo per
Obiettivo catania
https://www.facebook.com/ObiettivoCatania/
Chiude la storica
libreria Prempolini. Cala il sipario su un pezzo di
città
di Fernando Massimo Adonia
La
notizia arriva dalla pagina Facebook ufficiale tra le
lacrime, condivisioni e i commenti di follower rimasti
evidentemente disorientati.
CATANIA - Prossima fermata
capolinea, o lì vicino. “La libreria Prampolini è chiusa
per inventario e in seguito sarà messa in vendita al
miglior offerente! Interessati?”. L’annuncio arriva
dalla pagina Facebook ufficiale tra le lacrime,
condivisioni e i commenti di follower rimasti
evidentemente disorientati. E c’è da comprenderli. Con i
suoi 124 anni di storia e l'arredo proveniente da
un’altra epoca, la Libreria Prampolini è sicuramente la
più antica di Catania. Un luogo senza dubbio storico. Un
passo lì dentro vale quanto una viaggio nella Delorean
di Ritorno al futuro.
In attesa però che la macchina del
tempo sia brevettata, il sipario rischia di calare
definitivamente su un pezzo di città. È sempre una pena
quando una libreria chiude i battenti, a Catania come
altrove. “Auguriamoci che non sia un addio – è la
rassicurazione social – La libreria, con tutto il suo
patrimonio di volumi, è al momento in vendita e non si
prevede a breve l'apertura di un'altra sala scommesse.
La nostra scommessa è che venga rilevata da un privato o
da una cordata di volenterosi (come finora è stata
gestita) e la Prampolini continuerà a vivere, con tutti
i necessari aggiustamenti e cambiamenti che il/i nuovo/i
proprietari/o riterranno opportuni”. Già, ma potrebbe
andare anche diversamente.
La chiusura della Prampolini come
simbolo di un mondo in estinzione. Quello delle librerie
appunto: sempre meno in città, mentre in provincia è
quasi un deserto. Le poche che resistono sembrano quei
soldati giapponesi rimasti a difendere la propria
postazione inconsapevoli della resa imperiale. Forse è
vero che si legge sempre meno e che è sempre più
internet a soddisfare la sete di conoscenza dei più; ma
il rapporto di forza tra le vecchie botteghe librarie e
il dilagare degli store di catena, ormai, è troppo
sbilanciato. Mettiamola cosi: se i centri commerciali
hanno sfiancato molte piccole imprese familiari, i
monomarca hanno spazzato via ogni altra forma di
concorrenza, per non dire resistenza.
Se poi chiude un salotto storico,
va da sé, la questione non può non toccare – oltre il
mondo dei lettori – la città in quanto tale. Perché di
posti così, non ce ne sono più. Che fine faranno quei
testi, quegli arredi? Che se ne farà il prossimo
proprietario di tutto quel capitale immateriale?
Chiedere l’intervento della politica avrebbe il sapore
del qualunquismo più pruriginoso. Vade retro, che è
meglio. Arrivati a questo punto, solo un’idea “moderna”
potrà salvare quello scrigno della memoria.
Martedì 07 Agosto 2018
https://catania.livesicilia.it/2018/08/07/chiude-la-storica-libreria-prempolini-cala-il-sipario-su-un-pezzo-di-citta_469527/
DA SETTE SECOLI LA BIONDA REGINA DORME IL
SONNO ETERNO IN S.FRANCESCO D'ASSISI
(Saverio Fiducia da
"Passeggiate Sentimentali ")
-Non è la prima volta che la necessità
spirituale di respirare l'aura dei secoli nei rapporti della nostra Catania, mi
conduce in San Francesco d'Assisi. Dianzi lo Spasimo di Sicilia (cioè a dire la
più drammatica composizione di Raffaello,copiato dal pittore siciliano Jacopo
Vignerio),mi fece evocare lo spirito dell'Urbinate;oggi è il Fantasma di
Eleonora d'Angiò che mi attira;Eleonora, moglie di Federico II d'Aragona, le cui
spoglie giacciono dal 1343 sotto i muri del tempio da essa fondato.
Tempi assai duri per la Sicilia quelli che
coincisero con la nascita e la prima giovinezza di Eleonora, figlia di Carlo II
d'Angiò.L' anno 1282 ,sterminati al grido di <<Morte ai francesi >>gli sgherri e
i soldati del primo Carlo ,e chiamati dal Parlamento siciliano--per sostenere
con la forza delle armi le ragioni--gli Aragonesi, la guerra divampava
nell'Isola e nelle Calabrie,funesta e feroce. Andato in fumo, per la frode
palese dei francesi, il duello tra Carlo e re Pietro, che avrebbe dovuto
combattersi come un <<giudizio di Dio>>a Bordeaux, mallevadrice l'Inghilterra,
lunghi negoziati portarono alla Pace di Caltabellotta, ove si convenne che le
figlie di Carlo II succeduto al padre ,Bianca ed Eleonora, andassero spose ,
rispettivamente, a Giacomo e Federico, figli di Pietro;ai quali sarebbero
toccati, il regno d'Aragona al primo e quello di Sicilia al secondo. Vana
speranza dei siciliani di allora, come del gregge umano di tutti i tempi, quella
di vedere mitigata e contenuta l'insaziabile cupidigia dei potenti!Passata la
breve euforia dei primi anni, la guerra tra Federico e Carlo riprese con
rinnovato accanimento;una guerra di dinastie divenuta ben presto guerra tra
parenti;e chi ne andava di mezzo era la dolce isola nostra.
Nullameno Eleonora d'Angiò, un anno dopo la
firma della pace di Caltabellotta, sbarcò,angelo di pace,in Sicilia.
L' incontro tra Federico e Eleonora, avvenuto
a Messina l'anno 1303,si veste dei seducenti colori della leggenda, o se più
piace di un romanticismo avanti lettera. Bello di una maschia ed altera
bellezza, --dice il cronista del tempo Nicolò Speciale nella Historia
Sicula--era Federico, e giovane d'anni;grande, ben fatta e bionda Eleonora.
Ansioso di vederla e parlarle,il giovane re strinse i tempi:l'incontro doveva
avvenire alle porte della città;ma egli, accompagnato da pochi fidi ,attese la
fanciulla e il suo seguito sulla spiaggia del Paradiso, e una volta tanto nella
storia di nozze simili, tessute sulla trama malfida della politica, i due
giovani si amarono al primo vedersi.Compagni del re nella sentimentale
avventura, Blasco Alagona,Alaimo da Lentini e Ruggero di Lauria;costellazione di
eroi.Eleonora portava in retaggio l'educazione di una corte raffinata che si
sarebbe fregiata dei nomi eccelsi di un Boccaccio e di un Petrarca.
Malgrado qualche piccola infedeltà di lui,fu
un'unione felice, Angelo di pace,Eleonora la cercò, la invocò sempre;guidando,
con dolci preghiere, l'impetuoso marito nel pelago delle lotte e dei raggiri.
Spirito francescano, quando il re--1337--morì,indossò la tonaca di Santa Chiara,
fondò chiese e monasteri in Sicilia, e a Catania il tempio di San Francesco
d'Assisi, disponendo che vi fosse,alla morte,sepolta.
La tomba era di una estrema semplicità. Il
terremoto del 1693 la ridusse in frantumi;ma le ossa della Regina, pietosamente
raccolte dai superstiti, vennero tumulare nella cripta sotto l'altare maggiore
del nuovo tempio. L' anno 1926 ,per le provvidenze della duchessa Domenica
Gioeni d'Angiò e d'Aragona, e per l'amore alle antiche e nuove fortune catanesi
di Vincenzo Casagrandi,quel che rimane della bionda regina clarissa ha trovato
pace nello spessore del pilastro sinistro della Cappella dell'Immacolata. La
lapide è di Gaetano Grassi ,e l'iscrizione del Casagrandi medesimo.
Nulla si sa delle attività di
Eleonora d'Angiò
negli ultimi anni di vita di Federico. L'unica informazione attendibile
rivela che il 9 febbr. 1337 a Catania essa conferi il feudo di Morju ad un
certo Tommaso de Turtoreto.
Il 25 giugno Federico III mori presso
Paternò, presente Eleonora, che provvide poi a far portare la salma a
Catania. Federico fu sepolto nel duomo catanese, poiché il caldo estivo
impediva il trasporto fino a Palermo. Il testamento nominava E. esecutrice
insieme col vescovo
di Siracusa, con Francesco Ventimiglia, conte di Gerace, con Raimondo
Peralta, gran cancelliere del Regno, e col maestro giustiziere Blasco
Alagona.
Dopo la morte del consorte Eleonora
cercò di uscire dall'ombra e di acquisire maggiore influenza sulla politica
siciliana, aiutata anche dal fatto che Pietro II non dimostrava interesse
per gli affari di governo. Un primo successo le arrise quando riusci ad
imporre il ritorno del suo più stretto confidente, Giovanni Chiaramonte.
Sebbene egli si trovasse temporaneamente al servizio del nemico angioino, la
magna curia, convocata a Nicosia, lo riabilitò e un diploma di Pietro II del
30 dic. 1337 gli restitui quasi tutto il suo patrimonio.
Ben presto, tuttavia, Eleonora trovò una
rivale nella consorte di Pietro II, Elisabetta di Carinzia, che cercava di
acquisire crescente influenza sul marito e di spianare alla famiglia dei
Palizzi, da lei favorita, la strada verso le cariche più elevate. Elisabetta
riusci a prevalere: i Palizzi divennero i più stretti confidenti di Pietro e
occuparono le posizioni chiave di gran cancelliere e maestro razionale.
Poco dopo il rientro del Chiaramonte
riesplose l'antico contrasto tra il suo casato e i Ventimiglia. Cosi nel
1338 il castellano di Lentini, Ruggero Passaneio, fu accusato di voler
rilasciare, dietro riscatto, Francesco (II) Ventimiglia, che era stato
affidato alla sua sorveglianza. E. in persona si recò immediatamente a
Lentini cercando di mediare, ma il Passaneto rifiutò di accoglierla nella
roccaforte, che cercò addirittura di cedere agli Angioini. Falli cosi
l'ultimo tentativo compiuto da Eleonora per mediare tra i Chiaramonte e i
Palizzi; la crisi fu risolta solo dall'intervento di Blasco Alagona, che
intavolò trattative col castellano di Lentini.
Affranta da questi insuccessi politici,
Eleonora condusse negli ultimi anni una vita ritirata.
Risiedette prima in una piccola villa ai
piedi dell'Etna presso Belpasso e poi nel villaggio La Guardia, presso
Catania, da cui si recava spesso nel vicino monastero di S. Nicolò d'Arena a
Nicolosi, partecipando alla vita monastica e agli esercizi di penitenza.
Mori il 10 agosto 1341 in una piccola
cella di questo monastero e fu sepolta nella chiesa di S. Maria
dell'Immacolata, in piazza S. Francesco, a Catania.
http://www.treccani.it/enciclopedia/eleonora-d-angio-regina-di-sicilia_(Dizionario-Biografico)/
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L’Arciconfraternita dei “Bianchi”
(del
“Santissimo Crocifisso e delle anime
purganti”) fu fondata a Biancavilla il 2
novembre 1791 e ha sede nella chiesa delle
Anime del Purgatorio; lo Statuto è stato
approvato con decreto Regio e
successivamente fu sottoposto alla
dipendenza della diocesi di Catania durante
l’allora vescovo Monsignor Corrado Maria
Deodato de’ Moncada (1773-1813). Il fine
dell’Arciconfraternita è quello di rendere
lode, onore e gloria al “Santissimo Crocifisso”
e alla “Madonna Addolorata”. Possono far
parte della Congregazione “tutti i laureati
in qualsiasi professione, i professori, i
discendenti dei confrati appartenenti alle
primarie famiglie civili del paese”
(articolo 2 dello Statuto).
L’Arciconfraternita ha per insegna un labaro
raffigurante a sinistra la Vergine Maria ai
piedi della Croce; a destra le anime
purganti. I Confrati, durante le
processioni, indossano una cappa bianca
stretta in vita da un cordone, il
tradizionale berretto (‘a scuzzetta) nero
con decoro in filo di seta, oro e argento.
Inoltre
dietro le spalle viene portato l’antico
cappuccio bianco, che in passato veniva
adoperato per assistere i condannati a
morte.
Come segno di
appartenenza all’Arciconfraternita portano
sul petto un medaglione ovale in argento
raffigurante il Crocifisso.
L’Arciconfraternita partecipa con le insegne
all’annuale “Missa in Coena Domini” il
Giovedi Santo e cura le due processioni
della Vergine Addolorata del Venerdi Santo,
in modo particolare con le proprie insegne
partecipa alla solenne processione serale
dei “Tri Misteri”. La statua della Madonna
Addolorata (‘a Ddulurata), realizzata nel
XVIII secolo ha il volto, le mani e i piedi
in cera e gli abiti in seta con ricami in
oro zecchino ed é attribuita alla bottega
Rosselli di Messina. Viene anche
solennizzata la festa liturgica della
Madonna Addolorata il 15 settembre
all’interno della chiesa delle Anime del
Purgatorio. Ogni anno, inoltre, nel Campo
Santo di Biancavilla, all’interno
dell’omonima cappella, il 2 novembre
(commemorazione dei fedeli defunti) ha luogo
una Santa Messa in suffragio delle anime dei
Confrati scomparsi. Ogni due anni si
svolgono le elezioni per il rinnovo delle
cariche, nell’ultima ha riconfermato
Governatore Salvatore Furnari, incarica dal
2000, sino al 2012. I Confrati si riuniscono
quattro volte durante l’anno in preparazione
alle attività sopracitate.
La Chiesa
dei Bianchi
risalente alla prima
metà del XVIII secolo, dalla deliziosa
curvilinea facciata,realizzata in marmo
rossastro ed in stile barocco, opera
dell'architetto Stefano Ittar,si trova sul
lato destro della via V.Emanuele, direzione
Duomo ed in passato era appartenuta alla
Arciconfraternita dei Bianchi, nobili
governatori della città di Catania,
compagnia risalente al 1570,il cui sodalizio
è antecedente al terremoto del 1693.
Il prospetto della
chiesa è concavo,con al centro una fattura
in marmo, mentre ai lati è a forma convessa
con due finestre rettangolari dotate di
inferriate, precedute da cancellata
sormontata dalle insegne di San Martino
Vescovo, cioè da mitra leggermente inclinata
ad est e da un baculo,con al centro,
circondata da ghirlande, una targhetta,
intorno alla quale girano le parole
:"Arcidiocesi Dei Bianchi ".Subito dopo il
cancello, a disegno, segue la gradinata
composta da otto scaglioni, di cui,i primi
due sono di lava,poi segue la porta con una
nicchia vuota cinta da una piccola
balaustra.
La parte superiore
sopraelevata è raccordata ai corpi laterali
con due volute,mentre la chiesa al suo
esterno non presenta sculture, a
rappresentare quella freddezza neoclassica
verso cui si dirige il secolo. La prima
novità all'interno della chiesa dei Bianchi
è il vestibolo con duplice e breve scalinata
in marmo rosso,congiunta sul piano da un
massiccio tramezzo con al centro uno scudo
tra due angeli raffrontati, sostenuto da due
colonne. Una originale trovata adottata da
Ittar per colmare il dislivello tra il piano
della chiesa e quello stradale.
Al suo interno la chiesa ad unica navata ha
un aspetto assolutamente unico, giacché si
discosta totalmente dalla fisionomia
naturale di un luogo di culto,a cui, di
norma,siamo stati abituati a concepire.
L'atrio funge da vestibolo alla chiesa, con
panche in legno per i confrati ed il
pubblico lungo le pareti. Sulle pareti
perimetrali spiccano 28 dipinti su tela (7
per lato),mentre fra le due eleganti porte
che,dal vestibolo immettono in chiesa, si
staglia il ritratto dell'ultimo governatore
defunto, mentre ai lati sono collocate due
pile d'acqua lustrate,con in alto un vistoso
lampadario settecentesco.
La chiesa, malgrado le
otto finestre, è dominata da una penombra
misteriosa e di raccoglimento, le pareti
sono rivestite in tutta la lunghezza da alti
pannelli sormontati da candelieri
scolpiti,con ai lati due file di panche
(44)per i confrati. Il tavolo del
governatore per le solenni adunanze è dietro
il vestibolo, sotto la cantoria, mentre in
alto, fra due medaglioni in stucco bianco
madreperla, rappresentante Santa Caterina
con un'altra Santa non identificabile,
trionfa un caniglio con lapide dedicata a
Santa Caterina consacrata dal Vescovo
Maurizio, il 17 agosto del 1126,lo stesso
giorno in cui le spoglie di Sant'Agata
fecero ritorno da Costantinopoli a Catania.
Lateralmente sono altresì esposti 37
ritratti, su tela di buon pennello, di
alcuni antichi e moderni governatori, di
cui,l'ultimo, rappresenta Antonino
Ferrarotto Alessi.Sulle pareti si alternano
otto gran bassorilievi in stucco bianco
lucido entro cornici grigio-oro in muratura,
in contrasto con un fondo azzurro e
fiancheggiati da semipilastri aderenti alle
pareti, rappresentanti da destra a sinistra
:La Pace,la Temperanza, la Speranza, la
Fede,la Carità, la Giustizia, la Fortezza,
la Mansuetudine.Sul vestibolo si trova
l'organo con la cantoria ed in alto è
collocato un quadro ovale su tela
raffigurante San Giovanni Battista con altre
figure di contorno. Sul lato sinistro è
collocato l'altare con un dipinto
dell'Addolorata, mentre ai lati del
pavimento si trovano due eleganti pile di
panche (44 posti )con alte spalliere in
legno.
L'altare maggiore
sotto l'abside contiene un quadro col SS
Crocifisso senza simulacri,ma con quattro
putti intorno ,mentre sul trono dell'altare
troviamo un busto ligneo inargentato di San
Martino ed un pergamo.Nel presbiterio vi
sono archi e lunette intorno all'altare
maggiore ,in fondo al quale troneggia un
grande Crocifisso settecentesco, mentre il
balaustrino con gratine in ferro battuto
corona la gradinata che ripete la gentile
trama del cancelletto.
Una delle due porte
del presbiterio dà sulla sacrestia (con
preziosi arredi e suppellettili sacre,severi
scranni,sedie rivestite di bloccati d'oro ed
un archetipo in legno della facciata ),la
quale comunica con un gran salone quadrato
delle adunanze, al quale si accede tramite
una scala in marmo ed in cui trovano
collocazione settanta ritratti su tela dei
vari governanti della città, fra cui:
Tommaso Paternò
Castello, Abate di San Giuseppe in Biscari
morto nel 1650;Giuseppe Maria Gioieni
Asmundo;Don Michele Asmundo Andolina;Ludovico
Tornabene e Scammacca;Don Pietro Maria
Tedeschi e Gravina;Fra' Michele Maria
Paternò e Bonajuto;Monsignor Corrado Deodato
e Moncada;Don Federico Vespasiano Villaroel
e Trigona;Fra' Giovanni Trigona e Grimaldi;
Don Giuseppe Paternò Castello e Corvaja;Don
Antonio Paternò e Caracciolo; Don Antonino
Grimaldi di Serravalle.
L'altra porta accede
alla galleria del governatore, ove si
trovano 127 dipinti su tela di illustri
personaggi dell'epoca, fra cui i Biscari, i
Paternò Castello, gli Asmundo, i Già ora,gli
Uzeda, i Manganelli, appartenuti alle
famiglie nobiliari che hanno governato la
città di Catania, affiliati, altresì ,alla
Confraternita dei "Bianchi ".Sulla medesima
galleria si affacciano, l'uno frontalmente
all'altro,i busti di San Martino Papa e San
Martino Vescovo di Tours,unitamente ad uno
dei troni delle Gallie,mentre sotto l'arco
dell'abside, infine, è collocato uno scudo
dorato .
Sotto la volta della
chiesa, dipinta color verde chiaro a stucco
lucido, si trova un affresco di grandi
proporzioni (45 mq.)raffigurante l'Apoteosi
di San Martino, del pittore catanese
Alessandro Abate,che eseguì sotto il
cupolino dell'abside l'affresco raffigurante
l'Apoteosi di San Giovanni con 24 seniori
adoranti l'Agnello Divino.Dal cornicione
pendono,poi,molti piccoli lampadari dorati,
così come molti altri dall'arco dell'abside
ed uno dalla grande volta, mentre sui muri
sono collocati 26 candelieri a tre
branche.San Martino ai Bianchi, con la sua
linea spezzata e le volute laterali,
tendenti a non appesantirne la costruzione,
è l'epilogo della fervida attività di
Stefano Ittar.-
Salvatore Barbagallo
SAN
MARTINO ai Bianchi
La Chiesa “San Martino
di Tours, Vescovo”, sede
dell’Arciconfraternita dei Bianchi, è
filiale della nostra Cattedrale e fa parte
del Primo Vicariato Urbano. Rientra nella
nostra rubrica mensile “Vediamo un po’ ”,
anche questa, quale rinnovata speranza di
poterla vedere aperta al Culto. La causa di
tale mancata riapertura sta nelle continue
infiltrazioni d’acqua e dunque per i
necessari lavori sul tetto -già avviati
alcuni anni addietro- e ancora non del tutto
conclusi. La sua attuale fabbrica,
sull’antica strada Del Corso o Reale, oggi
Via Vittorio Emanuele, risale a dopo il
terremoto del 1693. Mentre la precedente,
intitolata a Santa Caterina d’Alessandria,
la cui dedicazione risalirebbe al 17 Agosto
1126, ad opera del Vescovo abate -conte
Maurizio di Catania- sarebbe stata edificata
sui ruderi romani –del cosiddetto- arco del
console Marcello.
La Nobile
Arciconfraternita del Santissimo Crocifisso
dei Bianchi, si trasferì in tale Chiesa nel
1610, poiché venne abbattuto l’Oratorio di
San Martino, fondato nel 1570, che si
trovava in Piazza Duomo, dove c’è in atto
Palazzo De’ Chierici, espropriata dal
vescovo Bonaventura Secusio, che la assegnò
lo stesso giorno alla Confraternita dei
Bianchi. La Chiesa, successivamente, venne
ricostruita sullo stesso sito, su progetto
di Stefano Ittar, con prospetto concavo al
centro e convesso ai lati. Originale la
musicalità cromatica creata dall’alternanza
delle fasce di marmo di Taormina -rosso
tenue e più acceso-. Sulla cancellata le
insegne iconografiche di San Martino. Nel
1610, dunque, la Compagnia dei Bianchi ne
aveva fissato la propria sede in S.Martino,
che venne eletto Patrono del pio sodalizio
nobiliare.
Alla Confraternita,
che aveva il compito di assistere i
condannati a morte, potevano accedere
soltanto i rappresentanti della “mastra
nobile”, ovvero i signori che governavano la
città. I Bianchi, chiamati così per via del
saio bianco che indossavano, furono presenti
nella nostra città sotto l’episcopato di
Antonio Faraone ed adottarono il motto
latino: “ Deabalbuntur in sanguine Agni”-
tratto dall’Apocalisse- che si legge nel
cartiglio, nella chiave dell’arco, ovvero:
“Saremo purificati nel sangue dell’Agnello
“. La Chiesa ospita la delegazione cittadina
dei Cavalieri del Sovrano Ordine di Malta (
o Ordine Militare e Ospitaliero di San
Giovanni di Gerusalemme- SMOM-).
Ad unica navata
l’oratorio, nelle cui panchine siedono,
secondo un preciso ordine, i confrati ed i
novizi da un lato e le dame e le oblate
dall’altro. Il Governatore pro-tempore siede
al centro- tra il primo ed il secondo
assistente. Le Casate che facevano parte
della Confraternita prima del grande
terremoto erano circa 60, oggi ne rimangono
solo 17,perché molte scomparse sotto le
rovine. Alcuni anni addietro e per diversi
anni la Confraternita ha sentito la
responsabilità di riaprire questa sede, per
assistere le famiglie ed i ragazzi del
quartiere- attraverso la distribuzione di
derrate alimentari, in convenzione con il
Banco Alimentare e la loro tutela sanitaria,
in collaborazione con il CISOM, Corpo
Italiano Soccorso Ordine di Malta, Cliniche
e Professionisti del Settore, previa
schedatura degli abbienti aventi diritto. Lo
facevamo ogni Sabato, subito dopo il
pranzo,con molta discrezione e grazie al
minore traffico di auto in circolazione,con
i confrati,amici e volontari, sotto le
direttive del precedente Governatore
Marchese Michele Gravina e quindi con
l’attuale, Barone Raffaele Zappalà . La
caritatevole attività, che sentivamo come
obbligo e devozione noi tutti, per i motivi
esposti in alto, in premessa, venne
momentaneamente sospesa ed in atto si
attende il giusto ripristino per i bisogni
del circondario.
All’esterno due lesène
di marmo bianco affiancano due finestre
rettangolari. Al centro è posto un nicchione
vuoto e chiuso da due colonnine e da una
balaustrata. Il vestibolo, molto elegante, è
impreziosito da un pianerottolo e da un
doppio scalone di marmo rosso. Sulle pareti
sono affisse alcune tele raffiguranti i
Governatori dell’Arciconfraternita, alcuni
dei quali sono dovuti alla maestria del
pittore catanese Alessandro Abate.
All’interno,lungo le pareti, senza dipinti,
sono poste due file di panche e sotto i
finestroni si alternano otto bassorilievi,
entro cornicioni grigio-oro raffiguranti: la
Pace, la Temperanza, la Speranza e la Fede a
destra; mentre a sinistra si notano la
Carità, la Giustizia, la Fortezza e la
Misericordia. Un piccolo altarino in marmo
ospita il simulacro, grazioso, della Vergine
Addolorata.
Dello stesso maestro
pittore catanese Abate, domina sulla volta
l’affresco policromo dell’ “Apoteosi di San
Martino” e la scena dei 24 vegliardi che
adorano il Vivente profetizzato da
S.Giovanni nell’Apocalisse, posta sulla
lunetta dell’abside quadrata. Si legge il
motto dei Bianchi sull’Arco, fermato al
centro da uno scudo dorato. In marmi
pregiati si staglia il simulacro imponente
del SS.Crocifisso, posto sull’Altare
maggiore.
C’è tutta una storia
dunque da ammirare per poter meditare sullo
spirito della Confraternita dei Bianchi,
nata nel periodo della Controriforma, quando
la Sicilia era parte dell’Impero Spagnolo
degli Asburgo. Ne vale davvero la pena
sollecitare gli Enti ed i Preposti per la
riapertura della struttura e Vediamo un po’
se ce la faremo a potere offrire al
visitatore tali preziosità. L’ideale
potrebbe essere rappresentato dalle prossime
imminenti funzioni religiose del periodo
pasquale che per molti anni -cronista
compreso- poterono ammirare il Giovedi Santo
-durante la Visita agli Altari della
Reposizione. Ci speriamo in tanti.
Piero Privitera
Dal libro
"Osservazioni sopra la Storia di Catania
cavate dalla Storia generale di Sicilia
"scritto dal Cavaliere Vincenzo Cordaro
Clarenza (Catania 1793-1860)e pubblicato nel
1855 per il vescovo Riggio
È
considerato un capolavoro neoclassico e la
sua collocazione in un cortile settecentesco
dinanzi all'ingresso del Palazzo
impreziosito da colonne in stile ionico
,rende la fontana ancor più spettacolare.
È
carismatica e chiunque passi davanti al
Palazzo nobiliare trovando il portone
aperto,non può fare a meno di entrare in
cortile come se fosse attratto da una sorta
di magnetismo. ..in punta di piedi chiunque
entra e resta a bocca aperta ad ammirare
l'opera che regna sovrana al centro del
cortile ...seppur non funzionante ....ogni
volta rimango stupita di trovare turisti e
curiosi a far foto e giusto ieri un gruppo
di inglesi urlavano "It's beautiful. ..very
very beautiful "e ovviamente il mio cuore
gioisce di orgoglio. ...
La
Fontana settecentesca è la perla dello
storico Palazzo Bruca ,ex residenza dei
principi Scammacca della Bruca ,edificio
costruito ai primi del '700 a circa 200
metri da piazza Duomo ed oggi privato e
suddiviso in tante famiglie e sede anche di
un B&B
Il
soggetto rappresentato è Nettuno anche se le
solite voci di popolo catanese credono sia
il poeta Micio Tempio ...leggenda senza
nessun fondamento e forse dovuta ad una vaga
somiglianza e alla nudità. ......
Note
e foto di Milena Palermo per Obiettivo
catania
https://www.facebook.com/ObiettivoCatania/
LA PRIMA FONTANA REALIZZATA A CATANIA DOPO IL
TERREMOTO DEL 1693
Opera di Antonino Amato,fu progettata per il cortile di palazzo Bruca in via
Vittorio Emanuele
(Articolo di Salvatore Maria Calogero, ingegnere e studioso del recupero di
edifici storici e monumentali in ambienti sismici)
-Fra il 1695 e il 1696 il Senato di Catania concedette ai Benedettini <<un pezzo
di terreno fuori le mura di questa città >>,compreso fra la Porta del Re e il
Bastione degli Infetti (oggi via Bambino),con l'obbligo da parte dei monaci di
lasciare fruibile una strada della larghezza di 8 canne(oggi via Plebiscito)
<<per servigio del publico e della festa di Sant'Agata >>,con l'impegno altresì
<<che venendo l'acqua della licatia al monasterio sia tenuto il nostro
monasterio darcene denari sette d'acqua per servizio del publico >>,dovendo
<<erigere ne' luoghi publici di questa nuova reedificata città molte fontane,
non solo per renderla abbellita con sì dilettevole invenzione, ma pure per
renderla feconda d'acqua corrente in tutte le parti>>.
Quindi dopo il terremoto del 1693,oltre ai provvedimenti di Protezione Civile
volti a evitare altre vittime per mezzo di strade larghe da quattro a otto
canne,edifici non troppo alti e piazze più ampie,il piano di ricostruzione
previde l'inserimento di fontane per "ornato e pubblico decoro"della città.
I senatori riuscirono a realizzarne solo due:quella dell'Elefante in piazza
Duomo (1736)e quella della Dea Cerere in piazza Università (1757),quest'ultima
poi spostata in piazza Cavour al Borgo alla fine del '700.
Negli Atti del notaio Vincenzo Arcidiacono, conservati nell'Archivio di Stato di
Catania, si trova quello di "Staglio"stipulato il 22 novembre 1711 con cui lo
scultore messinese Antonino Amato si impegnò con don Arcaloro Scammacca e Perna,
Barone della Bruca e Cruscunà ,a <<farci una fontana di marmo bianco di Genova
uguale detto marmo a quello marmo delle colonne del Claustro del monasterio di
S.Nicolò la Rina quale fontana si deve collocare nel mezzo del Baglio del
tenimento di Case di detto Sig. Barone sopra il quale l'istesso scalone copiato
e tiene detto d'Amato stagliante>>.
La statua di Nettuno,
priva del forcone tridente. Una leggenda metropolitana
catanese vuole che la statua simboleggi le virtù
sessuali di Micio Tempio, che le cronache descrivevano
superdotato e "prostituto" della nobiltà femminile
catanese. Quindi, secondo i catanesi più spiritosi, il
Dio sarebbe il famoso poeta che dice "cu stu ...zzu, mi
fici n'palazzu!". In effetti, Tempio era molto povero e
non possedeva nemmeno una casa. Viveva di sussidio
comunale.
Il riferimento al
chiostro del monastero dei Benedettini non è
casuale in quanto fu lo stesso scultore a
realizzarlo entro il 1711,su progetto
dell'architetto Giovan Battista Contini
redatto nel 1704,rimontando le 52 colonne in
marmo del vecchio chiostro di ponente
crollato con il terremoto del
1693,progettato a sua volta ai primi del
'600 dal regio ingegnere Giulio Lasso, lo
stesso che progettò i famosi "Quattro Canti"
di Palermo. Oltre al materiale da
utilizzare, nel contratto si legge
che:<<sotto li 4 cavalli marini e sotto la
figura del Nettuno,l'iscaloni di fuori e le
basi seu zoccolo....devono essere di pietra
di Taormina bianca uguale a quella pietra
dello scalone della fontana di detto
monasterio >>,inoltre, <<quale figura di
Nettuno cavalli marini ed altri devono
essere a proporzione di detta fontana e come
richiede l'arte>>.
Quindi i disegni della fontana e delle sculture in essa contenute, soprattutto
la statua di Nettuno e i cavalli marini, furono ideati dallo scultore messinese,
che si impegnò a <<mettere detto marmo e pietra detto di Amato stagliante, con
doverla spedire e consegnare di tutto punto a detto Barone nello suddetto baglio
per tutti il mese di Luglio prossimo venturo 1712:dovendo poi assettare detto di
Amato quando si colloca detta fontana e farci tutto quello sarà necessario e
questo con essere bene e magistrevolmente fatto come richiede l'arte d'ottimo
perito e maestro >>.
Il palazzo Bruca, che occupa l'isolato delimitato dalle vie V.Emanuele ,S.Martino,Garibaldi,
della Lettera ed è posto in un angolo di piazza Mazzini, fu uno dei primi a
essere costruito dopo il 1693 e venne preso come modello nelle decorazioni
lapidee realizzate dai "lapidum incisores "durante la ricostruzione di Catania.
Don Arcaloro Scammacca, barone della Bruca e Crusciunà,faceva parte
dell'aristocrazia catanese e aveva ricoperto la carica di Capitano di Giustizia
e Patrizio della città. Si tramanda che, avvertito dell'imminente terremoto da
una popolana, la sera dell'11 gennaio del 1693 andò a dormire nella sua casa
"baraccata"nella contrada del Borgo, riuscendo così a salvarsi con la famiglia.
Tale evento fu ricordato in un quadro che lo raffigura con un orologio che segna
l'ora del sisma.
Ma chi era Antonino Amato, e quale ruolo ebbe nella ricostruzione dopo l'evento
sismico della fine del Seicento?Il primo a scoprire la sua attività a Catania fu
Francesco Fichera, che riscontrando il suo nome in molti contratti notarili lo
definì "indiavolato ".Egli ebbe la possibilità di lavorare, tra il '600 e il
'700,per conto dei più importanti architetti operanti all'epoca in Sicilia. Ad
esempio, solo per citare i più importanti, per don Carlos De Grunembergh
(definito dai contemporanei il più importante ingegnere d'Europa)nel 1679
realizzò,insieme al cognato Domenico Biundo,una delle porte della cittadella di
Messina;nel 1697,su disegno dell'architetto gesuita Angelo Italia, eseguì le
decorazioni e le sculture in pietra bianca nel prospetto della chiesa Collegiata
di Catania (di questo prospetto non esiste più nulla perché nel 1769
l'architetto Stefano Ittar realizzò al suo posto l'attuale
prospetto-campanile).Nel 1703 intervenne nel più importante cantiere catanese,
quello del monastero di S.Nicolò l'Arena (progettato nel 1686 e modificato nel
1704,insieme al grandioso Tempio,dall'architetto Giovan Battista Contini,
principe dell'Accademia romana di San Luca e allievo di Gian Lorenzo
Bernini),nel quale Antonino Amato, svolgendo il ruolo di architetto, disegnò e
poi eseguì le decorazioni lapidee dei prospetti sud ed est.
Altri suoi interventi sono documentati nel palazzo del principe Biscari alla
marina e in diversi monumenti in marmo "commesso"presenti in numerose chiese in
Sicilia e Calabria, tra cui la cattedrale di Catania.
Tra gli atti del notaio Vincenzo Arcidiacono senior del 20 marzo 1710 si trova
inoltre il contratto di <<Staleum>>fra il <<Rev. do Sac.te don Nunzio Nicolosi
>>e <<magister Antonino de Amato>>,con cui quest'ultimo si impegnò a <<farci ed
intagliarci una porta di pietra bianca uguale a quella del venerabile convento
di San Domenico fuori le mura di questa suddetta città (di Catania)che guarda al
ponente>>.
Il portale fu realizzato nella chiesa di Maria SS.delle Grazie nel Piano di
Tremestieri, apportando delle modifiche al modello di riferimento e inserendo un
<<fenestrone>>con la statua di Santa Maria delle Grazie e,sopra le paraste del
portale, le statue dei santi Pietro e Paolo, anch'esse in pietra bianca.
Pertanto l'autore della prima fontana realizzata a Catania dopo il 1693,con la
statua di Nettuno inserita nel "baglio"di palazzo Bruca, fu uno dei protagonisti
indiscussi della ricostruzione post-sismica della città, capostipite di una
schiera di "lapidum incisores "e architetti che operarono nella Sicilia
orientale nel corso del '700 ,fra i quali i figli Andrea e Tommaso, il nipote
acquisito Francesco Battaglia e la famiglia di quest'ultimo, di cui fecero parte
anche Stefano Ittar, Carmelo Battaglia Sant'Angelo e Antonino Battaglia Amato.
(Di Salvatore Maria Calogero)
Grazie a Milena
Palermo di Obiettivo Catania Facebook
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SANTA MARIA DELLE
GRAZIE
Nel 1231 Federico II
di Svevia era giunto in Sicilia per assoggettarla. Molte
città si ammutinarono e Catania fu tra queste. Federico
II furente ne ordinò la distruzione, ma i catanesi
ottennero che, prima dell'esecuzione di quello
sterminio, in cattedrale venisse celebrata l'ultima
messa, alla quale presenziò lo stesso Federico II. Fu
durante quella funzione che il re svevo, sulle pagine
del suo breviario, lesse una frase, comparsa
miracolosamente, che gli suonò come un pericoloso
avvertimento: Noli offendere Patriam Agathae quia ultrix
iniuriarum est.
Immediatamente abbandonò il
progetto di distruzione, revocò l'editto e si accontentò
soltanto che il popolo passasse sotto due spade
incrociate, pendenti da un arco eretto in mezzo alla
città. A Federico bastò un atto di
sottomissione e lasciò incolumi i cittadini e Catania,
salvata per l'intercessione della Madonna delle Grazie e
di Sant'Agata.
La città ricorda questo evento con
un bassorilievo di marmo che si trova oggi all'ingresso
del Palazzo comunale e raffigura Agata, seduta su un
trono come una vera regina, che calpesta il volto
barbuto di Federico II di Svevia.
L’attuale cappelletta di S. Maria
delle Grazie a Catania (ononima via, in Catania), fu
costruita sui ruderi di quella che Federico volle
costruire per rispetto alla Madonna delle Grazie per
celebrare il suddetto evento (siamo a pochi passi dal
suo Castello Ursino).
Federico II, pur concedendo la
grazia, volle ugualmente punire la popolazione catanese.
Fece costruire nel centro della città una stretta e
bassa porta in muratura; su di essa vennero appese due
spade incrociate e si impose a tutti i cittadini di
sfilare fra due schiere di soldati come atto di
sottomissione e di obbedienza all'imperatore. Quella
porta prese il nome di Porta di mezzo .
Il luogo dove sorge il santuario
della Madonna delle Grazie, non era altro che la volta
della Porta di mezzo fatta erigere da Federico II. Poco
dopo fece erigere un'icona in onore della Vergine Maria,
chiamata Madonna della Vota.
L'antica edicola venne più volte
rifatta nei secoli. Nel 1848 venne posto un quadro della
Madonna delle Grazie, opera del pittore sac. Antonio
Gramignani. Venne restaurata nel 1892 dall'achitetto
Carmelo Sciuto Patti con nuovo altare e con prospetto in
marmo bianco di Carrara. Il 4 luglio 1926 venne murata
una lapide dettata dal prof. Vincenzo Casagrande del
seguente tenore: Nella fausta ricorrenza dell'VIII
centenario della traslazione di S. Agata — il Popolo
Catanese - con memore gratitudine - alla Santa Patrona
liberatrice - in questo pietoso sacello - sacro alla
Madonna delle Grazie - che ricorda da VII secoli - la
liberazione dell'eccidio della città - ordinato da
Federico II Imperatore - ma divinamente impedito - dal
minaccioso comando della Vergine Cittadina - non
offendere la Patria di Agata -per eternare nel marmo -
il ricordo del patriottico avvenimento - questa lapide
pose.
da "Catania - Dal
Quaternario al terremoto del 1693" - Giovanni Merode e
Vincenzo Pavone - Edizioni Greco CT - 1993
PORTALE PER L'EDICOLA DI SANTA
MARIA DELLE GRAZIE (1903-1905)
- La Cappella della Madonna delle
Grazie è inglobata in un edificio novecentesco sito nell'omonima
via, nell'area in cui sorgeva una preesistente edicola risalente al
1232,in prossimità della Porta di Mezzo,una delle numerose porte
della cinta muraria medievale di Catania.
La leggenda narra che quando
l'imperatore Federico II di Svevia iniziò la sottomissione della
città di Catania questa insorse ed i capipopolo che rifiutarono la
sottomissione si rifugiarono nel Duomo, dove furono raggiunti dal
Sovrano che pur avendoli condannati a morte concesse loro di
partecipare ad un'ultima celebrazione della messa.
Nell'occasione,nel libro delle preghiere, al Sovano apparve la
scritta:<<Noli offendere la Patria di Agata perché è vendicatrice
delle ingiurie >>.Il miracoloso evento si ripetè per ben tre volte,
inducendo l'imperatore a desistere dall'attuare le sanguinose e
devastanti ritorsioni minacciate,limitandosi ad imporre ai
capipopolo la pubblica gogna dell'attraversamento sottomissivo della
Porta di Mezzo.
A perenne memoria della grazia
ricevuta,i catanesi costruirono l'edicola intitolata alla Madonna
delle Grazie ed a Sant'Agata, ma conosciuta anche come MADONNA DELLA
VOLTA, con esplicito riferimento all'adiacente porta voltata,detta
Porta di Mezzo che, resistendo al devastante terremoto del
1693,protesse l'architetto Alonzo di Benedetto,che ivi aveva cercato
rifugio, e che fu artefice della ricostruzione urbana post-sismica.
L' antica edicola e le immagini
sacre ivi contenute andarono distrutte .Successivamente al 1693 ,fu
ricostruita l'attuale edicola ad una quota superiore rispetto a
quella preesistente, della quale tuttavia permangono i resti del
Sacello e,nella stanzetta limitrofa, quelli d'una colonna medievale.
L' attuale Santuario consta di
una minuscola navata con copertura voltata, e di un vano sulla
sinistra dell'ingresso, in cui una lapide muraria commemora il
miracolo dello scampato eccidio.
Nella seconda metà
dell'Ottocento, su una lastra d'ardesia ,il sac.Francesco Gramignani
dipinse un'icona di Maria SS.delle Grazie col Bambino, che campeggia
nell'altare dell'odierna cappella. Il quadro della Madonna è
veneratissimo nell'intera Arcidiocesi ed è stato oggetto delle
peregrinatio Mariae .
Nel 1892 Carmelo Sciuto Patti
descriveva l'edicola di Santa Maria delle Grazie come <<uno fra i
più cari e venerati Santuari della Madonna a Catania.
Il progetto per il prospetto,
probabilmente fu reso necessario a causa dell'aggressione edilizia
delle costruzioni adiacenti. Il portale, di gusto eclettico con
richiami rinascimentali, fu progettato nel 1903 da Salvatore Sciuto
Patti, utilizzando un'apertura a serliana caratterizzata da una
incorniciatura costituita da due paraste aggettanti e da una ricca
trabeazione. In corrispondenza dei risalti delle paraste nella parte
sommitale due fregi ad omega racchiudono altrettanti cherubini in
bassorilievo. Al centro dell'architrave ,nella zona del fregio,
campeggia una lapide che reca incisa la scritta Mater Gratiae.
Il progetto dello Sciuto Patti
viene arricchito da una elegante cancellata in ferro battuto con
motivi curvilinei fitomorfici .
L' insieme delle volute proietta
un effetto merlettato che nella versione realizzata viene replicato
anche nelle aperture laterali. I fianchi dell'arco sono decorati da
geni festanti che sostituiscono gli angeli in preghiera previsti nel
progetto. Il portale viene realizzato nel 1905 ,come ricorda
l'iscrizione posta nell'intradosso del concio di chiave dell'arco:"ING.S.SCIUTO
PATTI ARCHITETTO/SALV.GRIMALDI SCULTORE/1905"
(Matteo Di Stefano da
"Archivi di architettura tra 800 e 900")
Catania
vista da Palazzu Stidda, il progetto di Giovanni Girbino
Palazzo
Stella e vicolo della Lanterna, adiacente al Vico
Castro http://www.palazzu-stidda.com/reception.html
Artista catanese di
terza generazione, figlio di un maestro scultore, nipote
di un futurista, autore del bozzetto di una scultura per
Lady Diana e Dodi Al Fayed al Ritz, dieci anni fa
Giovanni Girbino avviava in un quartiere scomodo di
Catania un progetto di vita a tutto tondo.
di Lucia Russo - 14
Marzo 2011
Giovanni Girbino e la
sua compagna francese Patrizia hanno pensato di
rinominare in dialetto le origini proprietarie del
palazzo ottocentesco: Palazzu Stidda
Le valigie in cerca
di lavoro, lui, non le ha fatte. Piuttosto, le ha
disfatte in seguito a quei giri che dopo la maturità
classica lo avevano portato fin in Senegal e a Parigi.
Il mestiere lo aveva appreso fin da piccolissimo, alla
bottega del padre Domenico, un apprezzato maestro
scultore autore di tante opere decorative di piazze,
chiese e cattedrali della provincia di Catania.
La porta laterale del
Duomo di Taormina, ad esempio, l’ha forgiata proprio
Giovanni, insieme a suo papà, artefice di quella
centrale. Anche il bozzetto della testa di lady Diana e
Dodi Al Fayed, per il Ritz di Parigi, esce dalla mano di
questo trentottenne catanese, anni prima di virare
inaspettatamente sulla sua città.
Da passanti, il primo
sobbalzo all’attenzione lo suscita un reticolo di
piccoli fiori bianchi e tralci sottili, steso
sull’intera facciata dello stabile angolato tra via
Auteri e il Vicolo della Lanterna, in un quartiere
storico della vecchia Marina. Sembra essere cresciuto da
chissà quanti anni, e invece, quel rampicante venuto su
così rigoglioso come per mano di un abilissimo
giardiniere, sapremo dopo che ha appena sette anni di
vita. Un falso centenario, che chiameremmo d’autore,
perché chi l’ha piantato insinuandolo tra le basole
laviche del marciapiede, è uno scultore. Il nome affisso
alla porta ci sorprende. Giovanni Girbino e la sua
compagna francese Patrizia hanno pensato di rinominare
in dialetto le origini proprietarie del palazzo
ottocentesco: Palazzu Stidda (Palazzo Stella).
Legalmente, è il marchio depositato per la struttura di
ricezione turistica di loro creazione. Nei propositi,
molto di più.
La singolarità,
prerogativa degli artisti, nella vita raccolta attorno a
questo palazzo, si manifesta in varie forme. Originalità
di scelte estetiche, di vita, di senso civico, d’impegno
e amore per la propria terra. Una passione tenace, a
prova di botte e conseguente coma, fortunatamente
superato e lasciato alle spalle o almeno sulla cronaca
che il 5 ottobre 2010 registrò l’aggressione a Giovanni,
scultore trapiantato nel quartiere storico e popolano
del Castello Ursino di Catania dopo avere acquistato e
recuperato nel 2001 un antico stabile degradato quasi
come al tempo era la zona. L’hanno malmenato perché ha
cercato di evitare lo scippo a due turisti. Ma proprio
di brutto! Solo l’intervento di un vicino di casa l’ha
sottratto ai colpi in testa che stavano per fermare il
suo respiro. Nel 2010, il premio di Cittadino Esemplare
conferitogli dall’ex sindaco Enzo Bianco, ma non è da
lui che apprendiamo la notizia, quanto dalla stampa.
Quando comprò
l’edificio a fianco del quale sorse poi Palazzu Stidda,
Giovanni rientrava nella sua città dalla permanenza di
un anno a Noto (SR). Ma, per quanto catanese e figlio
d’arte da generazioni, questo giovane aveva la pecca di
non essere del quartiere. Cresciuto in un altro angolo
urbano, che guarda più all’Etna che non al mare, per
quelli di qui, era uno che veniva da fuori. A un passo
dal Duomo, dalla rinomata e folcloristica pescheria,
dalle vie Garibaldi e Vittorio Emanuele con i loro
palazzi settecenteschi, dal Teatro Romano, come dal
trecentesco Castello Ursino.
Vicinissimi al porto,
sostituto moderno dell’antica marina, dove la città ha
visto nascere uno dei suoi primi aggregati urbani, e il
tessuto umano tiene le sue maglie fitte attorno ai
nativi. Il Comune è immobile e squattrinato da alcuni
anni, ma pur senza una regia pubblica, in città c’è un
rigoglio di privati, piccoli e medi, che promuovono
l’arte e l’architettura proprio nei quartieri più
antichi, prima inaccessibili, quasi 'proibiti' a chi
veniva da fuori, come Giovanni.
Insieme a un mastro e
un pittore, e alla sua compagna, creatrice di decori per
bambini, lui ha ristrutturato prima la casa acquistata
come abitazione e poi, lo stabile attiguo, divenuto nel
2008 un apparthotel.
“Lo abbiamo pensato
come base ideale di turisti che vogliono davvero
scoprire e visitare agevolmente le bellezze della città,
non di sfuggita o dal bus stile Londra che il Comune ha
approntato. Le guide turistiche, specie quelle
internazionali, definiscono Catania come un sito di
passaggio. Ma i professionisti e gli stranieri che qui
ospitiamo sono unanimi nel definirla invece un museo a
cielo aperto, la cui visita richiede giorni. E questo, è
un punto ottimale di osservazione e di facile
esplorazione a piedi”. Così ci dice Giovanni, quando lo
intervistiamo per sapere dei dettagli della sua impresa.
Perché, gli
chiediamo, sei venuto a vivere e investire qui tutto
quello che avevi?
In
realtà, io volevo andare a vivere in campagna. Passavo
per caso, e la visione di questo palazzo mi ha rapito.
Con Patrizia, ho deciso di cambiare programma e la
nostra vita ha preso tutto un altro corso.
A quando risalgono
gli stabili e com’erano quando li hai acquistati?
Rispettivamente al
Settecento il primo e Ottocento il secondo. Ho dovuto
smantellare e rifare tutto. In questi anni, ho lavorato
solo su questo.
Mentre giriamo tra i
locali di Palazzu Stidda, lo scopriamo come un regno
dell’eco-design. Quello che non acquista nulla e
reinventa ogni cosa. La strada, la spiaggia, i rifiuti
del quartiere o di altre parti della città sono le fonti
delle materie prime utilizzate. Travi, arredi della
scuola, mobili dismessi, riutilizzati e assemblati a
nuova vita, dai chiodi, ai vetri, al legno, alle
lavagne. Non trapelano orientamenti architettonici o
stilistici.
Solo l’inventiva,
l’aderenza alla natura dei materiali, un valore estetico
e funzionale dato alle cose più povere dal gusto e
l’ingegno di due giovani, e su tutto, un tono delicato
che si stende insieme alla luminosità delle stanze.
Scorgiamo però un rimando letterario. Mirate sempre alla
Luna... anche se la mancate, atterrerete tra le stelle.
La frase, di Les Brown, Giovanni e Patrizia l’hanno
scelta e affissa su un muro, come motto della casa.
Quali ostacoli hai
incontrato in quest’attività da artista-artigiano ormai
decennale?
A parte l’aspetto
edile, abituare i vicini ad alcune regole di civiltà e
rispetto che ritengo facili da mettere in pratica. Io ho
piantato dei gelsomini in strada a fronte dello
scetticismo generale dei vicini. Vedi il risultato? Il
verde ha cambiato un angolo di strada.
Quanto è stato
impegnativo tutto questo… e ci campi?
Diciamo, che alla
fine il messaggio è arrivato. Per il resto, recupero le
spese.
Sei stato da poco
premiato da Compro siciliano insieme ad altri giovani
imprenditori della città, anche per la scelta di
restare, anziché cercare fortuna altrove. Nel tuo caso,
è d’obbligo parlare di coraggio!
Per me, l’aggressione
è una storia passata. Sono qui perché ho fiducia. Vedo
già dei cambiamenti nella città e nel quartiere, più
sicuro e vivibile.
Tu nasci scultore, ma
a Palazzu Stidda hai sviluppato più di un’arte. Cos’è
per te, essere artista?
L’artista per me, più
che dare forma al malessere dell’esistenza, deve creare
bellezza, nelle cose, sul territorio, fra la gente,
nella vita, propria e altrui.
Qual è il tuo
rapporto con la gente della zona?
Ormai Patrizia ed io
siamo stati accolti e accettati. Noi vorremmo aprirci
ancor più, in parte già lo facciamo, agli altri. Ci
piacerebbe fare un laboratorio artistico per i bambini,
avanzare delle proposte turistiche che valorizzino il
costume locale, privandolo alla clandestinità.
Un esempio concreto?
Le corse dei cavalli.
Qui c’è una grande tradizione di allevamento. Questa
gente cura i cavalli come figli. Perché non istituire un
palio regolarizzato dal comune, o un servizio di visite
turistiche in calesse?
Se qualcuno
accogliesse la vostra proposta e volesse mettersi in
contatto con voi per realizzare questa o un’altra idea,
sareste disposti a fare rete?
Certo! Credo che
nessuno, mai, realizzi qualcosa di veramente valido
senza il concorso di altri.
http://www.ilcambiamento.it/persone/giovanni_girbino_palazzu_stidda_catania.html
nella foto sopra,
vico Castro
Il
palazzo Auteri Perrotta è un palazzo
privato, situato nel centro storico di
Catania, tra le terme dell'Indirizzo e il
castello Ursino. Fu costruito nel XVIII
secolo per volere di Michele Auteri, ricco
produttore e commerciante di seta.
Dell'edificio si
vedono già delle tracce nella mappa
catastale dell'Orlando, risalente al 1761.
Nel 1826 Michele Auteri era proprietario di
una delle seterie più importanti
d’Italia[senza fonte], con sede proprio nel
Palazzo Auteri, dove curava la produzione
dei bachi e la lavorazione della seta.
La seteria fu in seguito ereditata dal
figlio Giuseppe Auteri Fragalà, per poi
diventare, nel 1841, proprietà dei fratelli
Benedetto, Francesco, Vincenzo e Salvatore,
figli di Giuseppe.
Nella seconda metà del XIX secolo,
l’architetto Carmelo Sciuto Patti, sposatosi
nel 1861 con Maddalena Auteri Berretta di
Paola, ricevette l’incarico da Salvatore
Auteri, nonno di Maddalena, della
ristrutturazione del palazzo. La perizia,
datata 1851-1865, venne realizzata
dall'architetto stesso. In quell'occasione
venne ricomposto il portale d’ingresso,
opera del maestro scalpellino di Acireale,
Brusà.
Nel cortile interno di uno degli
appartamenti fu ricavata una feritoia nel
muro che serviva a tenere d’occhio le scale
e a sparare ad eventuali nemici. Dietro la
feritoia vi era una stanza segreta che
collegava l'appartamento del barone con
l'appartamento del piano inferiore. Si
apriva un armadio, si sollevava una botola
che fungeva da finto pavimento, giungendo
alla stanza segreta del piano di sotto. In
questa stanza venivano nascoste persone e
preziosi, specialmente nel periodo dello
sbarco dei Mille al comando di Garibaldi
(1860).
Durante la Seconda guerra mondiale il
palazzo rimase quasi vuoto. L’unica persona
che vi alloggiava fu la cameriera, Agata
Torrisi, inserita nello stato di famiglia
della famiglia Auteri. Si pensava che,
essendo vicino al porto, l'edificio avrebbe
potuto essere bombardato o danneggiato, come
d'altronde sarebbe accaduto per molti
palazzi dell’epoca.
Vi era inoltre un pozzo, dal quale si
attingeva l’acqua dal fiume Amenano, utile
soprattutto alla seteria. Le scale interne
erano di granito. Al terzo piano era un
cancello terminante con delle punte, a
protezione delle famiglie che vi abitavano.
Le famiglie Perrotta e Auteri, sia per
motivi di sicurezza che per evitare le
esalazioni provenienti dalla fabbrica di
seta del piano terreno, non abitavano il
secondo piano, notoriamente definito il
“piano nobile”. La scala degli Auteri venne
costruita in un secondo momento, insieme
all’ammezzato del quarto piano.
L'edificio si colloca nell'area di un antico
insediamento greco-romano. Nei suoi dintorni
sono infatti presenti innumerevoli ruderi,
attribuibili a diversi periodi storici:
dall’insediamento della colonia calcidese
nell'VIII secolo a.C. fino al tardo periodo
romano, conclusosi nel V secolo d.C.
P.S. La foto rappresenta soltanto una delle
vecchie abitazioni di Via Auteri, strada
catanese intitolata all’omonimo Palazzo.
|
Una traversa di Via Garibaldi, la via Auteri
conduce a sinistra al Castello
Ursino, il "segno" per eccellenza del
passaggio in città dell'imperatore Federico
II di Svevia; gli spazi interni, semplici e
razionali come tutta l'architettura sveva,
fanno da cornice al Museo civico, ricca
collezione che dall'epoca romana si spinge
sino al Settecento.
Fu eretto nel 1239, per volontà di Federico
II, dall'architetto Riccardo da Lentini.
Esso faceva parte di un insieme di
fortificazioni a difesa della Sicilia
orientale. Fu poi sede parlamentare e
residenza dei re angioini ed aragonesi sino
al XV secolo. In seguito, dai Vicerè che vi
dimorarono, fu parzialmente trasformato in
carcere. Tale rimase anche con i Borboni e
il governo italiano fino al XIX secolo. Fu
restaurato nel 1934.
A pianta quadrata, con torri cilindriche
angolari e torri semicilindriche a metà dei
lati e circondato da un fossato. Porterebbe
il nome di un console romano (Arsinius),
oppure quello della famiglia romana degli
Orsini, rifugiatasi qui nel Medioevo dopo
essere stata cacciata da Roma per essersi
schierata dalla parte dei Ghibellini
(sostenitori dell'imperatore).
Altre fonti dicono che venne denominato
Castrum Sinus (Castello della spiaggia per
via dell’allora sua vicinanza al mare), che
per corruzione dialettale divenne
Castrussìnu, e quindi "Castello Ursino".
APPROFONDISCI SUL CASTELLO URSINO
|
Si passò quindi alle
rifiniture, ricostruendo finestre arbitrariamente
trasformate in balconcini, ricomponendo pezzo per pezzo
le linee ogivali delle porte, ripristinando i conci di
pietra mancanti, reali zzando intonaci armonizzanti con
la patina del tempo, adattando gli ambienti alla
funzione di museo, sistemando, infine, l'esterno con il
ripristino del medievale fossato, con la sistemazione
della piazza e delle strade di accesso.
In definitiva,
un'opera notevole, in tutto degna della dimensione
storica del maniero, voluto sette secoli prima dal
grande Federico, e realizzato a tamburo battente su
disegno dell'architetto militare Riccardo da Lentini.
La storia del
Castello fu compiutamente delineata da Federico De
Roberto che, negli ultimi anni di vita, «posò gli occhi
irrequieti sulle mura erte e lisce», contro le quali la
lava del 1669 si era rudemente appoggiata come alla
parete di una montagna.
Pur dubitando
dell'affermazione secondo la quale vi ebbe a soggiornare
l'artefice del maniero stesso — rileva il De Roberto —
è storicamente accertato che per oltre un secolo
l'edificio tu ad un tempo fortilizio e reggia, sede
della Corte, del Governo, del Parlamento. «i Qui pose la
sua residenza Carlo D'Angiò: qui , dopo la guerra del
Vespro, fermò il suo volo e formò il suo nido l'aquila
aragonese. I Re di quella stirpe vivevano e regnavano
nel castello catanese, rendevano giustizia nel suo gran
cortile, ricevevano nella gran sala dei Parlamenti,
pregavano nella cappella di San Giorgio.
In una di queste
sale, la regina Iolanda partorì il principe Luigi, che
fu Re di Napoli, e la regina Elisabetta i due principi
Ludovico e Federico...»
Ma la gloria del
Castello non consiste soltanto nell'avere accolto i
primi va giti regali. Le sue sale conobbero avvenimenti
politicamente e socialmente significativi come le
riunioni dei Parlamenti in generale, la firma del
trattato di pace fra il reggente Giovanni e la regina
Giovanna di Napoli nel 1347. Le sue sale, inoltre,
furono testimoni degli inquieti sonni dei viceré, dei
rapimenti di regine e di cortigiane, del doloroso
invecchiare dei prigionieri politici.
Questo passato carico
di nomi. di date, di eventi ebbe un rude epilogo nel
1831, quando Ì Borboni cancellarono il Castello dal
ruolo dei fortilizi e lo spogliarono dei cannoni, delle
bandiere, dei privilegi fin allora goduti. Poi, il
Comune di Catania le pensò tutte per definitivamente
affogarlo nella palude della più mortificante
indifferenza.
Nel 1860, il Castello
fu destinato a caserma...; "ma la retrocessione non fu
accettata da Federico De Roberto, abituato a leggere nel
monumenti di Catania con l'abilità e l'emozione di chi
sa leggere una lettera attraverso una busta chiusa.
Fu De Roberto a
proporre per primo il restauro del Castello e il
trasferimento del museo biscariano in quella sede, e
Guido Libertini, Vincenzo Finocchiaro e Francesco
Fichera Io appoggiarono nella proposta che sembrava
irrealizzabile, Infine, sotto la spinta della Società di
Storia Patria furono abbattute le ultime remore
frapposte dalla burocrazia militare, e i sospirati
lavori di restauro potevano cosi essere avviati.
Volgeva il 1932.
da “CATANIA ANNI
TRENTA” Lucio Sciacca - Cavallotto Edizioni www.cataniaperte.com
Nel
cuore della parte vecchia della città, a sud delle mura
di Carlo V, nella strada (via San Calogero) che collega
via Zurria con piazza Federico di Svevia, si apre il
cortile Gammazita con i resti del pozzo nel quale si
lanciò a capofitto.
La
leggenda narra
di una fanciulla catanese di nome Gammazita, bellissima
e di grande virtù. Di lei si invaghì un soldato
francese, le cui avances furono però disprezzate dalla
giovane, che era già fidanzata. Proprio nel giorno del
suo matrimonio, mentre Gammazita si recava come sempre a
prendere l’acqua, il soldato la aggredì violentemente e
la ragazza, vistasi preclusa ogni via di scampo, preferì
gettarsi nel vicino pozzo piuttosto che cedere al
disonore.
Versioni
successive arricchiscono il racconto, romanzandolo e
aggiungendo altri personaggi di contorno. In esse si fa
preciso riferimento all'anno in cui si sarebbe svolto
tale avvenimento, il 1278, e si racconta di donna
Macalda Scaletta, bellissima e orgogliosa vedova del
signore di Ficara, che attirava la corte di tutti i
cavalieri francesi e siciliani. Essa, tuttavia,
innamoratissima del suo giovane paggio Giordano,
sfuggiva a tutte le proposte amorose. Un giorno però
Giordano vide la giovane Gammazita intenta a ricamare
dinanzi alla soglia della sua casa e se ne innamorò
perdutamente. L'amore dei due giovani destò le ire e la
folle gelosia della perfida Macalda, che si accordò con
il francese de Saint Victor per tendere loro un
tranello: questi avrebbe dovuto far capitolare Gammazita
e Macalda sarebbe stata sua.
De Saint Victor fece numerose imboscate, approfittando
in particolare delle volte in cui Gammazita si recava ad
attingere acqua alla vicina fonte. Un giorno riuscì
infine ad afferrare la fanciulla, ma essa si divincolò
dalla sua stretta e non vedendo altra via di scampo, per
il suo onore preferì gettarsi nel vicino pozzo[3].
Giordano, appreso quanto accaduto, in preda alla
disperazione assalì il suo nemico, uccidendolo a
pugnalate dinanzi al cadavere dell'amata.
La fine orrenda della fanciulla e la sua virtù destarono
in tutti i catanesi profonda commozione e furono sempre
citati come esempio del patriottismo e dell'onestà delle
donne catanesi, mentre i depositi di ferro che creavano
macchie rosse sulle pareti del pozzo furono spiegati
tradizionalmente come tracce del sangue di Gammazita.
A questa patetica storia, si affiancano altre leggende
che spiegano diversamente l’origine del toponimo
"Gammazita". La prima si trova nel panegirico scritto da
don Giacomo Gravina in onore del duca di Carpignano, don
Francesco Lanario, dal titolo La Gemma zita[4]: in esso
si racconta la storia delle nozze fra la ninfa Gemma e
il pastore Amaseno (o Amenano). Il dio Plutone (secondo
il Gravina, Polifemo) si invaghì della ninfa, scatenando
la gelosia di Proserpina, che la trasformò in una fonte.
Gli dei, toccati dalla disperazione di Amaseno,
trasformarono anch’egli in una fonte: il pozzo sarebbe
dunque il luogo in cui si uniscono le acque dei due
sfortunati amanti. Secondo questa versione, il nome
Gammazita nascerebbe dunque dall’unione delle due parole
gemma e zita ("fidanzata", "sposa"), modificate poi
dall’uso comune.
Un altro racconto parla di un uomo con una gamba rigida
che abitava in una grotta vicino alla fonte, che dunque
prenderebbe il nome da questo suo difetto fisico (iamma
zita), mentre una terza spiegazione lega il toponimo a
due misteriose lettere dell’alfabeto greco, una gamma e
una zeta, che sarebbero incise sull’antico muro che
fiancheggia la fonte.
Storia
del sito
Prima del
1669. La
parte della città dove sorge il pozzo nel Medioevo era
la sede della Judeca Suttana (il quartiere ebraico,
detto anche Judeca di Jusu) ed era piuttosto ricca di
attività commerciali, in particolare concerie e
macellerie, che sfruttavano le numerose sorgenti
d’acqua, forse diramazioni del fiume Amenano che scorre
nel sottosuolo catanese e che qui prendeva il nome di
Judicello. Le mura in questo tratto costeggiavano i
ruderi di antiche fabbriche che prendevano il nome di
Muro rotto e vennero identificate dal Bolano quale
l'antica naumachia e il circo, segno che in età antica
l'area era impegnata da grandi strutture pubbliche
monumentali.
In tutte le piante e disegni di Catania, a partire da
quella di Michelangelo Azzarelli (1584), la cortina
muraria che si congiungeva a gomito con la Porta dei
Canali e con il Bastione di Santa Croce, viene chiamato
Gammazita e lì sono segnate queste fonti, inizialmente
come dei rivoli che si perdevano nel mare.
Nel 1621, don Francesco Lanario, duca di Carpignano,
soprintendente generale alle fortificazioni, nell’ambito
di un generale restauro dell’assetto difensivo della
città, volle risistemare anche la zona della fonte[1].
Le acque di Gammazita furono così imbrigliate e
congiunte a quelle dell’Amenano, realizzando una serie
di fontane pubbliche che arricchirono e resero più
gradevole la passeggiata a mare, anche grazie alla
realizzazione di una strada lastricata, munita di
panchine.
Dopo il 1669. Questa
piacevole sistemazione però ebbe vita breve. L’11 marzo
1669, da una frattura sopra Nicolosi cominciò la più
imponente eruzione dell’Etna di epoca storica che abbia
raggiunto Catania e, dopo aver distrutto orti e casali,
giunse alle mura della città, riuscendo a superarle da
nord-ovest, nella zona del Monastero di San Nicolò
l'Arena, per poi dirigersi verso il Bastione di San
Giorgio a sud.
Il 16 aprile, il fiume lavico circondò il Castello
Ursino, colmandone il fossato[6], e invase tutta l’area
del quartiere dell’Indirizzo, ricoprendo, nonostante gli
sforzi di difesa messi in atto dai catanesi, anche le
sorgenti, fra cui quella di Gammazita. La fonte rimase
così sepolta sotto uno strato di 14 metri di lava, ma la
sua importanza nella vita e nell’economia cittadina fece
sì che fin già verso la metà del XVIII secolo fu
riportata alla luce. Venne a crearsi così un singolare
pozzo artificiale, ricavato nella sciara del 1669 e
costituito dalla profonda scarpata delle mura civiche
cinquecentesche che terminava sul fondo dove si
accumulava una sorgente, ciò che rimaneva delle tre
fonti pre-eruzione. Al fondo si giungeva con una
pittoresca scalinata ricavata nel Settecento la quale si
addossava alle lave e alla cortina muraria.
La riscoperta e la fama della fonte, in quest’età, si
devono soprattutto agli intellettuali europei che
visitarono Catania nell’ambito del Grand Tour, in
particolare Patrick Brydone, l’abate Richard de
Saint-Non, Jean Houë, Dominique Vivant Denon. Saint-Non
e Houël, in particolare, hanno lasciato anche delle
raffigurazioni che testimoniano lo stato del pozzo nel
Settecento e il suo aspetto pittoresco e nel pieno della
ricerca della fascinazione della decadenza di concezione
romantica, che tanto
affascinava i viaggiatori stranieri. In tali immagini,
soprattutto in quella di Saint-Non, si nota tuttavia una
distorsione delle proporzioni, che fanno apparire il
pozzo più grande di quanto non sia in realtà, e
soprattutto l'inserimento di uomini intenti alla pesca,
come se la vasca di raccolta delle acque fosse adibita
anche a peschiera. Non sappiamo se questo corrisponda a
verità o se sia un elemento aggiunto dall'autore per
accentuare il carattere pittoresco del sito.
Fra coloro che visitarono la fonte, merita di essere
ricordata la descrizione che ne lascia Charles Didier
che, fra i monumenti visitati in città, dice che "fra le
più curiose è un frammento delle antiche mura della
città interamente coperto di lava: ai piedi di esso una
fontana che manda acqua di una freschezza e di una
limpidezza che sono degne di Aretusa"
Stato attuale. Il
Pozzo di Gammazita si apre in un cortile fra case
terrane ottocentesche di via San Calogero, a due passi
dal Castello Ursino. L’accesso avviene attraverso una
scala di sessantadue gradini che sostituisce quella
originaria in pietra lavica e ciottoli, distribuiti in
cinque rampe, interrotte da pianerottoli rivestiti di
pietra lavica e cotto siciliano, che portano ad un
livello di circa 12 metri sotto il livello stradale.
Alla base della scala si apre uno stretto spazio,
anch’esso pavimentato in cotto siciliano chiuso da un
tratto residuo della cortina muraria cinquecentesca: qui
scorreva l’acqua sorgiva, in una vasca su cui incombe
l’imponente massa lavica.
Altre costruzioni e superfetazioni moderne accerchiano
il pozzo, accentuando l'impressione di una profonda
voragine scavata nel basalto.
Delle strutture esterne è rimasta ben poca cosa; inoltre
il tempo "ha cancellato l'illusione delle macchie di
sangue, visibili sul fondo fino a una settantina di anni
or sono (fino a quando cioè il fonte non venne
inesorabilmente murato): incrostazioni di magnesio di
ferro, certamente, che il popolino riteneva autentico
sangue, attribuendolo alla fanciulla che vi si lanciò
dall'alto per difendere il proprio onore".
Nel 1982 il comune annunziò l'imminente restauro di
questo antico monumento e la sua valorizzazione sotto il
profilo storico, culturale e turistico: ma fino ad oggi
l'iniziativa non è stata realizzata.
Gammazita
nell'arte e nella poesia La
tragica storia di Gammazita ha dato anche spunto ad una
famosa poesia popolare anonima catanese: « Tu di lu cori
sì la calamita, La mia palora non si cancia e muta; Ti
l'hè juratu e ti saroggiu zzita, Chista mè porta ppi
l'autri è chiujuta: Cala
li manu si mi voi pi zzita, l'ura di stari 'nzemi 'un è
vinuta: si
cchiù mi tocchi, comu Gammazita, Mi
vidi 'ntra lu puzzu sippilluta.»
Una rappresentazione di questa leggenda si trova in uno
dei candelabri bronzei di Piazza Università a Catania,
opera di Mimì Maria Lazzaro e D. Tudisco su disegno
dell'architetto V. Corsaro (1957).
http://it.wikipedia.org/wiki/Pozzo_di_Gammazita
La bottega della famiglia Napoli
di Sergio Corona
Le luci si spengono, si apre il sipario e i
pupi entrano in scena. Orlando, Rinaldo,
Angelica, Clarice, Carlo Magno, Gano di
Magonza, Papa Martino, Subrino, Brandimarte:
ci sono tutti. Le loro storie si intrecciano
con la vita della famiglia dei pupari, i
Napoli, che arrivano su una scialuppa in
balia dei marosi: stanno cercando di mettere
in salvo l’Opera dei Pupi, riconosciuta nel
2001 dall’Unesco patrimonio culturale
immateriale dell’umanità. Il pubblico segue
rapito le gesta dei paladini e assiste al
naufragio culturale di un Paese incapace di
salvaguardare e valorizzare un tesoro di
inestimabile valore.
Stasera la compagnia Fratelli Napoli mette
in scena L’oro dei Napoli: la storia di una
delle più antiche e famose famiglie di
pupari raccontata dagli stessi protagonisti.
Prima che il regista convochi gli attori nei
camerini per dare loro le ultime
indicazioni, approfittiamo di un momento di
distrazione del nostro nuovo amico e andiamo
a salutare due protagonisti dello
spettacolo: la signora Italia Chiesa, una
delle più apprezzate interpreti catanesi, e
suo figlio Fiorenzo Napoli, direttore
artistico della compagnia, nonché principale
parlatore e maestro costruttore dei pupi.
L’idea di un reportage sui Napoli ci era
venuta in mente un paio di mesi fa, dopo una
mattinata trascorsa con Fiorenzo nel
laboratorio della compagnia. Ci aveva tenuti
incollati alla sedia per tre ore con i suoi
racconti straordinari, che ci scorrevano
davanti quasi come un film. E lo stesso
effetto ci avevano fatto le storie di Italia
Chiesa, che quello stesso pomeriggio ci
aveva accolti nella sua casa alle porte di
Catania. Tutto ha inizio nel 1921, quando
Gaetano Napoli decide di abbracciare il
teatro popolare fondando la Marionettistica
Napoli. Il successo è immediato. Una prima
crisi però arriva nel 1934, in seguito alla
scomparsa del figlio diciannovenne Rosario.
Don Gaetano si defila, ma l’attività della
compagnia continua grazie agli altri due
figli, Pippo e Natale. Con lo scoppio della
guerra tutto diviene ancora più difficile.
Ma la vita va avanti. Natale conosce Italia
Chiesa, figlia di attori, e se ne innamora.
Dal loro matrimonio nascono Gaetano,
Salvatore, Giuseppe e Fiorenzo.
Gli anni del dopoguerra sono i più duri. Ma
anche dopo, con l’avvento della televisione
e il successo dei cinematografi, non è
facile. Ci si mettono anche i proprietari di
alcuni cinema che, preoccupati perché
l’Opera dei Pupi toglie loro spettatori,
boicottano gli spettacoli della compagnia.
La scelta di andar via da Catania si rivela
vincente: dai primi anni Cinquanta fino al
1970 i fratelli Napoli girano senza sosta
tutta la Sicilia, e fanno anche tantissime
tournée in Italia e all’estero, raccogliendo
ovunque successo e popolarità. A
Misterbianco e a Paternò i cinema sono
costretti a chiudere perché i Pupi fanno
ogni sera il tutto esaurito (non avevano
tutti i torti, i poveri proprietari di
cinema, a boicottare la Marionettisca
Napoli…). Poi però i gusti del pubblico
iniziano a cambiare e negli anni Settanta e
Ottanta l’Opra viene snobbata anche dal
popolo. La signora Italia ci rivela la
storia che sta dietro il nome del figlio
minore: la passione di Natale per il
ciclismo. Fiorenzo si sarebbe dovuto
chiamare Fausto, ma la storia d’amore tra
Coppi e Giulia Occhini, la “dama bianca”,
aveva destato così tanto scalpore in
quell’Italia bigotta e intollerante che alla
fine Italia e Natale decidono di optare per
Fiorenzo, in onore di un altro grande
campione di quegli anni: Fiorenzo Magni. E
nei primi anni del dopoguerra come si sposta
la compagnia? In bicicletta, naturalmente.
Poi arrivano la Vespa e quindi, in pieno
boom economico, la Fiat 1100. L’appartamento
di Italia Chiesa non sembra la casa di
un’artista: non c’è traccia di locandine,
poster o ritagli di giornale. C’è solo
qualche fotografia che nulla però ha a che
fare con l’Opera dei Pupi o con il Teatro.
Ma quando la signora ci racconta, con un
misto di orgoglio e malinconia, di aver
recitato negli anni Sessanta e Ottanta nel
musical di Garinei e Giovannini Rinaldo in
campo, uno dei più grandi successi teatrali
italiani di tutti i tempi, allora vengono
fuori le fotografie che la ritraggono
accanto a Domenico Modugno, Delia Scala,
Paolo Panelli, Franco Franchi e Ciccio
Ingrassia, Massimo Ranieri, Laura Saraceni,
Carlo Croccolo. Parliamo anche della
malattia di suo marito Natale e delle
sofferenze che dovette affrontare durante
una tournée, prima di morire di aneurisma
cerebrale nel 1984. Ma torniamo allo
spettacolo. Tutto è pronto. Giuseppe, capo
maniante, e Fiorenzo, parlatore principale,
sono ai loro posti. Così come i figli di
Fiorenzo: Davide, maniante e secondo
parlatore, e Marco, maniante. Salvatore, che
si occupa delle luci e delle musiche, è
accanto al regista Elio Gimbo. La moglie di
Fiorenzo, Agnese Torrisi, direttore di
scena, è dietro le quinte con l’altro figlio
Dario, assistente di palcoscenico. Forse
avremmo dovuto raccontare la storia di
questa straordinaria famiglia di artisti
parlando di pupi, fondali e cartelloni. Ma
abbiamo preferito fare un viaggio in
un’Italia che non c’è più, per ricordare a
tutti da dove veniamo. E poi un libro sui
pupi catanesi è già stato pubblicato qualche
anno fa. Lo ha scritto un antropologo
siciliano. Si chiama Alessandro Napoli, è
cugino di Fiorenzo, e anche lui fa il
maniante in questo spettacolo.
http://www.dirittinegati.eu/?p=440
Tutti i membri della famiglia Napoli
prendono parte alla messinscena degli
spettacoli ricoprendo con maestria i ruoli
tipici dell'Opera: Italia Chiesa Napoli
parratrici, Fiorenzo direttore artistico
della compagnia, parraturi principale e
maestro conduttore dei pupi; Giuseppe capo
manianti e scenografo; Salvatore ideatore
delle luci e fonico; Gaetano parraturi;
Davide manianti e secondo parraturi; Dario
assistente di palcoscenico; Marco manianti;
Alessandro antropologo, manianti e addetto
al fabbisogno degli spettacoli; Agnese
Torrisi, direttore di scena.
Antica Bottega del puparo: Via Reitano, 55 -
95121 - Catania (zona
Castello Ursino) Tel.
(+39) 095 34 10 52 http://www.fratellinapoli.it/
|
Si
sviluppa attraverso il centro storico, dal
mare, a Piazza dei Martiri, alla parte alta
della città, in piazza Risorgimento.
Lungo il
percorso di Via Vittorio Emanuele (già
Strada Reale) si trovano numerosi luoghi e
monumenti simbolo della Storia di Catania, a
testimonianza del crocevia di culture e
dominazioni che, nel corso dei secoli, hanno
interessato la città. All'esatta metà della
sua estensione si incrocia con via Etnea e,
quindi, con Piazza Duomo, costituendo il
setto stradale su cui si affaccia Palazzo
degli Elefanti. A est della piazza, ancora
nei pressi della Cattedrale, si trova la
Badia di Sant'Agata, uno splendido esempio
del barocco di Vaccarini. Proseguendo verso
il mare, ci si imbatte in piazza San
Placido, in cui sorgono l'omonima chiesa
tardobarocca di San Placido - opera di
Stefano Ittar nel 1769 - e, in prossimità,
il prestigioso Palazzo Biscari; il lungo
protrarsi dei lavori negli anni successivi
al terremoto del 1693 (fino al 1763) ci dà
oggi modo di apprezzarne la varietà di stili
architettonici.
Ingresso del
liceo "Boggio Lera".Poco distante, ai piani
inferiori del palazzo Bonajuto, si trova la
Cappella Bonajuto, d'epoca bizantina (VI-IX
sec.) e di struttura molto simile alla cuba.
Il Convitto Cutelli, progettato da Francesco
Battaglia e Gian Battista Vaccarini su
commissione di Mario Cutelli, è un nuovo
esempio di grande architettura settecentesca
(1761). I due si occupano, nel 1776, anche
della realizzazione del monumentale palazzo
Reburdone, oggi sede (insieme a Palazzo
Pedagaggi) della facoltà di Scienze
Politiche dell'Università degli Studi di
Catania, a poca distanza dal Convitto e
dalla omonima piazza Cutelli. Nei pressi,
Vaccarini realizzò anche Palazzo Valle e
Palazzo Serravalle.
A ovest di
piazza Duomo, invece, lo scenografico
scorcio di piazza San Francesco, con il
Museo belliniano, la Chiesa di Santa Maria
Immacolata e la statua del cardinale Dusmet,
introduce la storica via Crociferi.
Risalendo ancora, ci si imbatte in due
testimonianze della Catania romana: il
teatro romano e l'Odeon, questo
semicircolare e probabilmente destinato alle
prove per gli spettacoli dell'adiacente
teatro. Più avanti, alle spalle del grande
complesso monastico dei Benedettini, si
trova il Monastero della SS. Trinità, oggi
sede del liceo scientifico "Boggio Lera".
http://it.wikipedia.org/wiki/Via_Vittorio_Emanuele_II
Il palazzo Fassari Pace si
trova a Catania e può essere considerato
come splendido esempio di architettura
civile settecentesca, nella ricostruzione di
Catania dopo il disastroso terremoto che
totalmente la distrusse, l’11 gennaio del
1693.
Ubicato nella parte alta di via Vittorio
Emanuele, già strada del Corso reale, asse
viario il più vetusto della Catania sin
dall’antichità ellenica, il palazzo
si apre su quest'ultima nella sua facciata
ariosa e semplice di barocco
classicheggiante, angolando tra le vie Santa
Barbara e della Palma, rivolto a sud; al
nord è costeggiato dalla via San Barnabà, da
cui si accede per via della Palma; nel
settecento era nella parte interna ornato da
un giardino, oggi scomparso. Si trova
accanto all’ex convento della Trinità, oggi
sede del liceo scientifico Boggio Lera,
impreziosito dalla omonima chiesa.
La sua costruzione si può far risalire con
certezza al primo trentennio del XVIII
secolo: tuttavia sin da prima del devastante
terremoto e dalla eruzione dell'Etna del
1669 che invase il perimetro urbano (ma non
il luogo ove sorge il palazzo), erano ivi
presenti, seppure il vecchio Corso aveva un
tracciato non lineare ma leggermente
sinuoso, abitazioni di fattura similare. Ciò
può vedersi nella pianta di Catania
pubblicata dal Cluverio[1] nel 1619. La
presenza del severo e maestoso palazzo
settecentesco, nei suoi due primi ordini,
terrano con le botteghe, e piano nobile
caratterizzato dalle cornici degli otto
balconi che si affacciano nella pubblica
via, con disegno rettangolare sovrastante, è
rintracciabile nelle due piantine di
riferimento, che lo vedono con esattezza
delineato: quella di Giuseppe Orlando,
stampata nel 1760, e quella (del medesimo
periodo, poiché l’autore moriva nel 1762)
che è inserita nel testo Lexicon
topographicum siculum, dell’erudito abate
Vito Maria Amico Statella. In tali disegni
................
http://it.wikipedia.org/wiki/Palazzo_Fassari_Pace
|
Questo
edificio termale, ancora in buono stato di
conservazione, deve il suo nome al fatto che
si trova parzialmente incorporato nell’ex
convento di S. Maria dell’Indirizzo, oggi
utilizzato come edificio scolastico. A sua
volta il convento carmelitano prende il nome
dalla chiesa che sorse, secondo la
tradizione, nel luogo dove era avvenuto un
miracolo. Nel 1610 si recava, per la prima
volta a Catania, il viceré di Sicilia Don
Pietro Girone, duca di Qssuna, a bordo di
una nave spagnola. Una terribile tempesta lo
colse mentre si avvicinava alle coste
catanesi e, preso dalla disperazione, invocò
il nome di Maria; all’improvviso vide un
raggio di luce che gli diede "l’indirizzo"
da seguire per potere approdare sano e salvo
dentro il porto di Catania; quando scese a
terra poté verificare che la luce proveniva
da un’icona della Madonna del Carmine. Al
posto dell’icona, nel 1635, sorse una chiesa
che, distrutta dal terremoto del 1693, fu
riedificata insieme al convento dei padri
carmelitani. Il grande edificio termale che
si trovava nelle vicinanze del convento,
venne inglobato nella costruzione e (forse
anche per questo) si è conservato in ottime
condizioni fino ai nostri giorni.
La struttura architettonica e i materiali
Dell’antico edificio termale si conservano
circa dieci ambienti chiusi dalle coperture
originarie; alcuni gradini conducono a due
locali rettangolari, collegati fra di loro;
da essi è possibile raggiungere un complesso
di vani situati a un livello più basso. Tra
tutti questi ambienti il più grande, che
mostra alcune aperture di forma
rettangolare, ha forma ottagonale ed è
coperto a cupola. In basso sono alcune
nicchie. Una delle caratteristiche più
interessanti di questo monumento è che esso
conserva, anche se in modo frammentario,
resti di fornaci che
servivano per il
riscaldamento degli ambienti termali,
condotti per la circolazione dell’aria calda
e canali per il deflusso delle acque. Le
mura sono costituite da un’anima in malta
cementizia e un rivestimento in blocchi
squadrati di pietra lavica; molto presenti i
mattoni che sono stati utilizzati
soprattutto nei passaggi ad arco. Per quanto
riguarda la cronologia delle varie fasi
dell’edificio non vi sono ancora ipotesi
molto convincenti; per alcuni studiosi va
datato all’età imperiale avanzata. Le terme
dell’Indirizzo, insieme alle terme della
Rotonda e alle terme
Achilliane, sono
testimonianza di quanto fosse avanzato il
grado di civiltà della Catania romana e
tardo-romana.
L’importanza delle terme nell’antica Roma
Le terme erano edifici pubblici comuni a
tutte le città dell’antica civiltà romana;
servivano per i bagni, ma erano anche luogo
di incontri, di lettura e di esercizi per il
miglioramento del corpo e dello spirito;
esse avevano, pertanto, un rilevante ruolo
sociale. Di solito constavano di tre sale
fondamentali: il frigidarium (per il bagno
freddo), il calidarium (per quello caldo) e
il tepidarium (zona intermedia per
l’assuefazione dei bagnanti).
L’area
del foro si trova nel cortile S. Pantaleone
dove si arriva percorrendo la via Vittorio
Emanuele e svoltando per via Porro e la via
Orfanelli.
Sul lato
meridionale a sette metri e mezzo sotto il
livello della strada, sono visibili otto
ambienti divisi in due parti; sul lato
orientale, invece, si può intravedere un
lungo corridoio sopra il quale, a due metri
e mezzo sotto il livello della strada, si
apre un porticato largo sette metri.
Proprio da
queste parti sono state rinvenuti resti
della città imperiale: il Convento di
S.Agostino per esempio, è stato costruito a
ridosso di antiche volte e porticati e al
suo interno sembra esistano ancora i resti
di un pavimento lastricato.
Inoltre da
qui provengono le 32 colonne utilizzate per
i portici di piazza Mazzini e che certamente
appartennero ad un edificio pubblico romano.
Ecco perché,
alla luce di questi ritrovamenti, gli
studiosi hanno individuato in quest’area
l’antico foro romano.
A pochi
passi, in via della Rotonda, si trova il
complesso termale, di cui è rimasta solo una
sala circolare coperta da una cupola
sostenuta da otto archi. Il complesso
innalzato il suo livello di due metri, venne
utilizzato come chiesa cristiana e così le
nicchie destinate alle vasche termali
vennero utilizzate una come abside e due
come cappelle laterali.
Una
interessante curiosità è che qualche guida
chiama questo edificio il "pantheon" perché,
a causa della sua forma circolare creò,
nell’immaginario di alcuni studiosi, l’idea
che fosse servito di ispirazione per la
costruzione del panthoen romano.
Ma esiste
ancora un altro complesso termale,
conosciuto col nome di "Terme
dell’Indirizzo". Si trova a piazza
Currò, così chiamate perché si trovano in
parte incorporate al Convento di S.Maria
dell’Indirizzo. Qui di suggestivo interesse
gli ancora riconoscibili impianti di
funzionamento delle terme cioè le fornaci
che riscaldavano le sale, i condotti per
l’aria calda e i canali di deflusso delle
acque.
Una
curiosità: Perché Terme dell’Indirizzo?
Prendono il nome dal Convento Carmelitano di
S.Maria dell’Indirizzo che a sua volta lo
assume dall’omonima chiesa che fu costruita,
secondo tradizione, in seguito ad un
miracolo ricevuto nel 1610 da Don Pietro
Girone, Duca di Ossunia.
Questi
infatti si stava recando per la prima volta
a Catania a bordo di una nave spagnola ma,
colto da un’improvvisa tempesta non riusciva
a guadagnare la riva. Fu così che, invocando
nella disperazione il nome di Maria apparve
alla sua vista un raggio luminoso che gli
mostrò l’indirizzo, cioè la retta via per
guadagnare l’ingresso al porto di Catania
sano e salvo.
Al suo arrivò
si accorse che la luce proveniva da un’icona
della Madonna del Carmine e pochi anni dopo,
nel 1635 proprio lì fece erigere una chiesa,
poi distrutta del terremoto del 1693 e
nuovamente riedificata insieme all’attuale
Convento.
CURIOSITA’
Dopo il
terremoto del 1693 lo sviluppo urbano fu
regolato in un modo molto complesso che
segnò per sempre il destino della città. Il
governo cittadino stabilì infatti di creare
una sorta di mercato dei terreni, al fine di
incentivare la ricostruzione, e divise la
città in due parti: i lotti della zona di
est, per intenderci quella di piazza Duomo e
via Vittorio Emanuele, vennero venduti a
prezzi più alti; nella zona di ovest, al di
là della via Plebiscito e la zona
dell’antica acropoli, i terreni furono
praticamente "svenduti" a prezzi
d’occasione.
E’ per questo
che nella parte più prestigiosa sono nate
grandi strade e importanti palazzi oltre che
gli edifici amministrativi e l’area ad est
fu destinata ad essere abitata da nobili,
religiosi e famiglie agiate; a ovest invece
finì per concentrarsi quella parte di
popolazione meno abbiente che occupò tutta
l’area attorno alle vecchie rovine
medioevali, ma lo fece in modo selvaggio,
senza tener conto delle regole urbanistiche
allora dettate dal Duca di Camastra,
edificando oltre alle case, povere ed
essenziali, gli edifici destinati alle
attività sociali, ospedali ospizi,
penitenziari.
La città antica ebbe anche un
Ginnasio, che se non fu
istituito da Caronda 680 anni
prima dell'Era volgare, fu
restaurato da Marcello in premio
della fedeltà serbata dai
Catanesi a Roma nella guerra
contro Siracusa; ma non ne resta
altra memoria fuorchè nei libri.
C'era anche un grande acquedotto
che recava le acque di Licodia,
lungo non meno di sedici miglia;
ma non se ne vede altro che
qualche altro misero avanzo.
Tanta copia d'acque era
necessaria ad alimentare la Naumachia —
i cui ultimi resti sparvero
sotto le lave dianzi citate —
il
Ninfeo eretto da Ero Apolline e
restaurato da Arsinio, prefetto
in Sicilia, a cura di Flavio
Ambrosio, e le moltissime Terme,
parecchie delle quali si vedono
ancora conservate discretamente.
La chiesetta di
S. Maria della Rotonda è
anch'essa l'avanzo e
probabilmente l'atrio od il
laconico d'una gran terma, molti
cimelii della quale, come pezzi
di mosaico, frammenti di lapidi
e d'iscrizioni, si conservano
nei due musei cittadini. Altri
minori ruderi di terme si
trovarono in altri punti della
città; l'avanzo più
ragguardevole, quasi un intero
stabilimento termale, esiste
ancora sotto il convento di
Santa Maria dell'Indirizzo: da
una prima stanza si passa
all'apoditerio o spogliatoio, ad
una specie di bagno appartato,
ad una seconda stanza
comunicante col laconico e ad
una terza di pianta ottagonale
ai lati della quale sono
disposti i clipei. Esistono
ancora le fornaci, una conserva
d'acqua, varii condotti per
l'aria rarefatta, il sito della
sedia stercoraria, l'emissario
delle acque luride, gl'incavi
dove erano confitte le
condutture di piombo serbate nel
museo Biscari.
da "Catania"
di Federico De
Roberto
ISTITUTO ITALIANO D'ARTI
GRAFICHE — EDITORE 1907 |
Per
potere visitare in modo ottimale il
monumento seguite il percorso delle
passerelle di legno che vi condurranno fin
dentro gli ambulacri del teatro antico.
Prima di penetrare all’interno dell’edificio
osservate ciò che resta dell’antica via
Grotte che congiungeva la via V. Emanuele
alla via Teatro Greco. Essa è stata
costruita su robuste arcate in pietra
lavica. Le strutture più in basso del teatro
di Catania sono, attualmente, bagnate
dall’acqua del fiume Amenano, la stessa che
veniva, secondo le ipotesi di alcuni
studiosi, convogliata per consentire
spettacoli con giochi d’acqua. Proprio la
presenza di questo fiume, che scorre sotto
la città antica, è il più grande impedimento
alla fruizione e all’utilizzazione delle
antiche strutture teatrali. Agli ambulacri
si accede per mezzo dei vomitoria, termine
latino che indica le bocche di ingresso
interne al teatro. Il teatro è addossato al
versante meridionale della collina dove
sorgeva l’antica acropoli di Catania. Nel
passato poteva ospitare circa 7.000
spettatori.
La cavea, nome latino dell’emiciclo che
contiene le gradinate per gli spettatori,
poggia su alti corridoi coperti a volta.
Essa è
costituita da ventuno serie di sedili,
divisi orizzontalmente
da due passaggi (che tecnicamente si
chiamano praecinctiones) e verticalmente da
nove cunei e Otto scalette. Il grande
semicerchio dell’orchestra èstato
recentemente liberato dalle sovrapposizioni
più recenti. Gli scavi archeologici di
questi ultimi anni (1980) hanno messo in
luce: la porta orientale dell’edificio
scenico (quella centrale si trova in
corrispondenza dell’attuale ingresso da via
V. Emanuele), il muro del pulpitum (parte
della decorazione architettonica è ancora in
posto) e una nicchia sul fronte del pulpitum
nella quale venne sistemata una statua di
marmo forse di Venere. È stata anche messa
allo scoperto una balaustra di marmo che
divideva l’orchestra dalla cavea. I sedili,
in pietra calcarea, erano, in origine,
rivestiti di lastre di marmo, le scale che
dividono la cavea in nove cunei sono in
pietra lavica. L’alternanza cromatica del
bianco e del nero, caratteristica di quasi
tutti gli edifici catanesi, conferiva al
solenne monumento una preziosità che, oggi,
è andata irrimediabilmente perduta. Le
gradinate della zona superiore sono state
ricostruite dai restauratori che hanno
liberato una parte delle abitazioni moderne
che insistono sulle strutture del teatro.
I muri portanti dell’edificio sono costruiti
con un impasto di malta cementizia mista a
pietre e tegole fratte; il paramento esterno
è formato da grossi blocchi squadrati di
pietra lavica.
Il gusto per le rappresentazioni teatrali
ebbe in Roma origini antichissime. Lo
sviluppo di questa forma d’arte si deve
anche a un forte apporto di idee derivanti
dalla letteratura teatrale greca che,
spesso, ispirò le tragedie e le commedie
latine. I romani dei tempi della Repubblica
ebbero, comunque, un atteggiamento molto
diffidente verso il teatro; gli attori,
infatti, erano sempre liberti o schiavi,
poiché era proibito a un civis esercitare
tale professione. L’edificio teatrale romano
mostra alcune sensibili differenze rispetto
a quello greco. La cavea, per esempio, non
veniva scavata nella roccia ma diventava un
edificio autonomo. Nel caso del teatro di
Catania le strutture romane hanno sfruttato
una zona probabilmente occupata da edifici
più antichi. La scena adibita alle
rappresentazioni teatrali, e che nel teatro
di Catania è stata inghiottita dalle
costruzioni settecentesche, presentava una
ricca decorazione costituita da nicchie,
colonne e statue.
Da Lun. a Sab.9.00/13.00- 14,30/19.00- Dom e
fest 9.00/13.00
http://www.comune.catania.it/la_citt%C3%A0/il_filo_di_arianna/la_citt%C3%A0_antica_l'et%C3%A0_greca_romana_e_bizantina/Teatro_Romano.aspx
Un teatro greco
romano con tanto di odèon in pienissimo
centro storico, cosa può offrire di meglio
una città turistica?
Incollato alla casa di un musicista famoso
in tutto il mondo, Bellini.
Nella stessa casa un disegnatore nominato da
Picasso il migliore nella sua categoria in
tutta Europa, Emilio Greco..a 100 metri la
casa del massimo esponente del verismo,
Verga..a 20 metri una delle vie più belle al
mondo, Via Crociferi..in meno di due minuti
Piazza Duomo con tutto ciò che la
circonda..scusateci se è poco.
|
Fra le
rovine dei pubblici edifizii nobilitanti
l'antica colonia calcidese altre ve ne sono,
ancora più notevoli. Il primo posto per
antichità spetta senza dubbio al teatro,
che è detto greco, ma
che più propriamente dovrebbe chiamarsi
greco-romano. Di costruzione romana sono
indubbiamente le parti appariscenti; ma è
probabile che l'edifizio romano sorgesse su
fondamenta greche, perchè ai tempi greci si
legge nelle storie che Catania ebbe appunto
un teatro, dove Alcibiade, come uno dei
comandanti dell'esercito ateniese venuto a
conquistar Siracusa, arringò i cittadini per
volgerli al suo partito.
Se
Diodoro e Cicerone non fanno più menzione
del teatro catanese, la cosa è stata
spiegata coi terremoti e con le lave che
probabilmente lo abbatterono e ricopersero:
sugli avanzi è probabile che i Romani
erigessero poi la loro mole sontuosa, della
quale anch'oggi si può avere un'idea da ciò
che ne resta, allo scoperto in parte, ed in
parte sotterra: tre ordini di corridoi, le
scale per le quali si passa dall'uno
all'altro, quelle che dividono la cavea in
cunei, il pavimento dell'orchestra di marmo
bianco e rosso sul quale alzavansi i sedili,
ed i frammenti di sculture e di architetture
custoditi nel museo Biscari: una graziosa
figura di Musa, rottami di statue, capitelli
e piedistalli, il maggiore dei quali ha
effigiati nel dado una vittoria e due
guerrieri senza cimiero nè celata nè asta;
rocchi ed architravi, uno dei quali ha
scolpiti nel fregio una Nereide vinta da un
Ercole.
Alla
scena ed alla loggia appartennero anche le
colonne che furono trasportate in altri
punti della città, le sei che ornano la
facciata del Duomo, le due del Palazzo
comunale e l'altra della piazza dei Martiri;
i marmi bianchi e rossi dei sedili furono
adoperati per pavimentare il Duomo. Oltre
che per la ricchezza degli ornati, il teatro
catanese fu dei più notevoli per ampiezza:
conteneva il doppio degli spettatori
dell'ateniese e poco meno di quanti ne
entravano nel siracusano.
Ma la
maggiore sua importanza è dimostrata
dall'Odeo che gli era ed è ancora annesso.
Mario Musumeci, valente architetto e dotto
archeologo fiorito un secolo addietro, diede
una bella illustrazione di questo secondo
edifizio e ne rilevò l'importanza. Mentre di
pochissimi altri Odei restano troppo scarsi
vestigi, undici cunei del catanese, su
diciassette, si vedono ancora; gli altri
sei, distrutti, sono indicati dal perimetro
dell'edifizio. Alla testata di levante della
precinzione, che è allo scoperto,
s'appoggiavano tredici gradini scendenti
fino all'orchestra, circoscritta, dalla
parte del pulpito, dal muro oltre il quale
non si vedono altre costruzioni.
Il
rivestimento esterno è formato da pezzi di
lava squadrati e disposti in file
orizzontali e parallele di diseguale
altezza, alla maniera pseudo-isodoma: c'è
una sola comunicazione fra l'interno e
l'esterno, attraverso il cuneo centrale:
prova che l'Odeo non poteva servire a grandi
riunioni popolari, ma solo a ristrette
adunanze, ai concorsi degli autori
drammatici e alle prove dei cori, come è
confermato dalla mancanza della scena. Anche
qui terremoti e vandali hanno lasciato i
loro segni: perdute le colonne che ornavano
il pulpito, distrutti i pezzi ornamentali
del muro di precinzione e di quello esterno
dalla cimasa in su: solo qualche frammento
se ne volle trovare nella decorazione della
porta settentrionale del Duomo, come si dirà
a suo luogo.
L'edifizio,
pertanto, appena si riconosce: mutilato,
squarciato, convertito nelle parti ancora
resistenti in abitazione di umile gente, con
gli archi dei cunei trasformati in orribili
terrazzini ed in luride stamberghe.
da "Catania" di Federico
De Roberto
ISTITUTO ITALIANO D'ARTI GRAFICHE — EDITORE
1907
|
Il teatro romano di
Catania sorge sul fianco meridionale della
collina di Montevergine al centro di un
quartiere ricco di testimonianze
archeologiche che rappresenta ancora oggi il
cuore pulsante della città.
L’area, frequentata
sin dalla preistoria, accoglieva in età
greca un importante santuario urbano
dedicato a Demetra e Kore che ha restituito
migliaia di oggetti ed ex-voto offerti in
dono alle divinità.
L’edificio originario
risale probabilmente proprio ad età greca ma
di esso si conservano solo pochi resti
murari scoperti nel corso delle numerose
campagne di scavo. Secondo lo scrittore
romano Sesto Giulio Frontino, infatti, il
celebre generale ateniese Alcibiade,
trovandosi in Sicilia durante i tumultuosi
anni della guerra del Peloponneso, pronunciò
un discorso al popolo catanese proprio dal
palcoscenico di un teatro.
In età romana il
quartiere fu interessato da un’intensa
attività edilizia con la costruzione di
edifici pubblici, terme, ninfei e ricche
dimore. L’edificio che oggi ammiriamo
appartiene nella quasi totalità proprio
all’epoca romana e mostra i segni dei
profondi cambiamenti che lo hanno
interessato nel corso dei secoli.
La costruzione
dell’edificio romano risale al primo secolo
d.C., ma la struttura architettonica ha
subito nel corso dell’età imperiale numerose
trasformazioni che hanno fatto raggiungere
il massimo splendore e monumentalità nel
terzo secolo dopo Cristo. Il teatro romano
di Catania si articolava in una cavea, del
diametro di 98 metri, divisa in 9 cunei da 8
scale radiali.
Due passaggi, detti
praecinctiones, collocati a diversa altezza,
la suddividevano in tre settori (maeniana)
secondo la canonica ripartizione in ima,
media e summa cavea. Le sedute che
accoglievano gli spettatori, in gran parte
oggi scomparse, erano realizzate in calcare,
mentre le scale che dividevano i cunei erano
in pietra lavica.
Il contrasto
cromatico generato da questa alternanza di
colori conferiva all’edificio monumentalità
e costituirà nei secoli successivi una delle
peculiarità dell’architettura della città.
L’ima cavea, direttamente poggiata sul
pendio naturale della collina, era destinata
ai membri dell’élites cittadina.
Le sedute in pietra
calcarea, infatti, erano rivestite in marmo
e due grandi lastre marmoree con delfini
dovevano decorare il parapetto esterno
sottolineando così il ruolo di prestigio
degli spettatori che sedevano in questo
settore. La media e la summa cavea, invece,
poggiavano su due ambulacri collegati tra
loro da scale e muniti di accesso ai vari
settori delle gradinate.
L’aggiunta di un
terzo grande ambulacro in epoca antonina
modificò l’aspetto generale del teatro con
l’eliminazione del loggiato che era posto in
origine a coronamento dell’edificio. Questa
trasformazione determinò l’ampliamento della
cavea e la realizzazione di nuove gradinate
nella parte sommitale dell’edificio
aumentandone la capienza.
La circolazione
all’interno del teatro era efficacemente
organizzata attraverso un sistema di scale
radiali e di corridoi di collegamento. Gli
spettatori potevano agevolmente raggiungere
ogni settore della cavea e accedere a quello
più alto attraverso una serie di rampe di
scale addossate al muro esterno del terzo
ambulacro.
L’ingresso al teatro
avveniva attraverso delle semplici porte ad
arco poste lungo il perimetro dell’edificio
scandito da esedre. Due coppie di scale
rampanti addossate al muro esterno
garantivano l’accesso direttamente alla
sommità della gradinata, mentre nel settore
nord-occidentale era situato un ingresso a
galleria che permetteva al pubblico di
raggiungere la parte più interna del teatro.
La scena fu in gran
parte ricostruita in età severiana,
trasformazione che ne mutò profondamente
l’aspetto. Essa fungeva da vera e propria
quinta teatrale e si
articolava in tre
ordini dall’aspetto monumentale scandita da
tre grandi porte: la regia, centrale e più
ampia, e le hospitalia, poste ai lati. Esse
erano fiancheggiate da colonne corinzie
poggiate su grandi plinti in marmo bianco.
Quelli che fiancheggiavano la porta regia
erano decorati con un bassorilievo che
rappresentava un trofeo con Vittorie
inginocchiate ai lati, mentre sui fianchi
erano rappresentati barbari e soldati. Gli
altri, di minori dimensioni, erano decorati
con ghirlande e bucrani, delfini
contrapposti e strumenti sacrificali.
L’intero corpo
scenico era ricco di fregi decorativi e
statue che celebravano avvenimenti pubblici
e temi mitologici tra cui una statua di Leda
con cigno, copia romana di originale greco
dello scultore Thimoteos. Davanti alla scena
si sviluppava l’area del palcoscenico
(pulpitum), decorato con una serie di
piccole esedre in marmo. Qui si svolgevano
le rappresentazioni teatrali tipiche del
mondo greco e romano come le tragedie e le
commedie, ma anche forme di spettacolo più
leggere, parodie, mimi e danze. Questa parte
del teatro era organizzata con strumenti per
la spettacolarizzazione delle
rappresentazioni come botole e passaggi
sotterranei che gli attori sfruttavano per
apparire improvvisamente sul palco.
A ridosso del
palcoscenico si trovava l’orchestra, l’area
solitamente riservata al coro,
caratterizzata da una pavimentazione in opus
sectile, articolata in una serie di quadrati
in marmo con dischi in pietra lavica. Questa
decorazione, oggi coperta da un originale
stagno naturale, rappresenta solo una
piccola testimonianza della monumentalità
che l’edificio possedeva in origine. Il
teatro romano, insieme ad altri importanti
monumenti, costituisce un preziosissimo
documento dell’antico splendore di Catania e
al tempo stesso il testimone diretto della
complessa storia di questa città,
costantemente attraversata da grandi
cambiamenti culturali e trasformazioni
urbane.
http://www.siciliapress.com/la-meraviglia-del-teatro-romano-di-catania-la-sua-storia/
L’Odeon
di Catania, insieme al grande teatro, è
inserito in un contesto urbano di grande
ricchezza e complessità. La crescita urbana
dopo il terremoto del 1693 fu regolata dal
Senato cittadino che decise di organizzare
il mercato delle aree (ai fini della
ricostruzione) dividendo la città esistente
con una linea convenzionale: a est (zona di
piazza Duomo e via V. Emanuele) il valore
dei terreni era più alto, a ovest (oltre la
via Plebiscito e nell’area dell’antica
acropoli) il valore era nettamente
inferiore. Nella parte est, la più
prestigiosa, l’apertura delle strade
principali (oggi conosciute con i nomi di
via Etnea, via V. Emanuele, via Garibaldi)
contribuì a valorizzare maggiormente i
terreni già destinati ad essere occupati dai
nobili e dai religiosi più facoltosi.
Durante tutto il Settecento e nella prima
metà dell’Ottocento sorsero numerose
residenze nobiliari e borghesi e i
principali edifici civili amministrativi e
religiosi. A ovest, invece, si concentrò un
tessuto residenziale povero che si sviluppò
attorno a ciò che restava dei tracciati
medievali senza tenere conto delle regole
urbanistiche dettate dal duca di Camastra;
in questa zona vennero anche edificati,
sempre nel Settecento, edifici destinati ad
attività assistenziali (ospedali, ospizi,
reclusori, case di educazione).
All’interno
di questa fitta maglia di isolati, di strade
e di vicoli sono racchiusi alcuni tra i
monumenti più significativi della Catania
antica: il Teatro romano e l’Odeon,
l’edificio termale in piazza Dante (di
fronte l’ingresso monumentale del complesso
dei Benedettini), resti delle fortificazioni
normanne (presso il Liceo Spedalieri), un
bastione cinquecentesco conosciuto con il
nome di bastione "degli infetti" e due torri
di rafforzamento aragonesi (quella detta del
Vescovo è visibile all’altezza della via
Plebiscito). Confusi nell’intrico di palazzi
antichi e moderni questi resti del passato
prendono forma man mano che ci si addentra
nel dedalo delle stradine e dei cortili.
L’Odeon (piccolo edificio destinato
all’esecuzione di musiche e di danze) si
trova a ovest del grande teatro. E anch’esso
soffocato dalle alte costruzioni che
invadono interamente la scena e che oggi
sono utilizzate per sorreggere il fondale
dipinto che viene innalzato durante le
manifestazioni musicali estive. La
collocazione di un teatro e di un odeon è
presente anche in altre città greche e
romane; la differenza tra le due strutture
consiste principalmente nel fatto che
l’Odeon era fornito di una copertura.
L’orientamento del piccolo edificio è uguale
a quello del teatro e cioè verso l’attuale
via V. Emanuele; differisce, però, il
livello della costruzione, infatti l’odeon
si trova all’altezza della parte più alta
del teatro e cioè la sommità della collina
di Montevergine che costituiva l’acropoli di
Catania. L’emiciclo dell’odeon è formato da
18 muri che si allargano fino a formare
cunei stretti e lunghi all’interno dei quali
sono stati ricavati 17 vani ricoperti a
volta. L’uso o la funzione di questi vani,
che furono restaurati negli anni Sessanta
del nostro secolo, non è ancora chiara. Il
materiale da costruzione è costituito, per
la maggior parte delle strutture, dalla
pietra lavica; l’orchestra (e cioè lo spazio
semicircolare tra la cavea e la scena) è,
come si puo ancora osservare, pavimentata in
marmo. Come nel teatro si usarono i mattoni
e il marmo che, accostati ai neri conci di
pietra lavica, conferivano alla costruzione
la tipica policromia dei monumenti catanesi.
http://www.regione.sicilia.it/beniculturali/dirbenicult/database/page_musei/pagina_musei.asp?ID=148&IdSito=29
Agli inizi del
Novecento, l'Odeion Romano di Catania
appariva come una sequenza ritmata di povere
abitazioni costipate in un solo edificio, ma
scandite dalle paraste romane lungo una
facciata curvilinea che seguiva l'impianto
semicircolare dell'antico edificio.
Ma alle spalle
dell'edificio, esisteva già l'ottocentesco
palazzo del Barone Sigona, costruito
esattamente sopra l'edificio scenico dell'Odeion.
Il Barone Sigona, un
nobile di provincia del quale ci saremmo
sicuramente dimenticati, acquistò per intero
le povere case che sin dal tardo Medioevo
avevano occupato l'Odeion, le quali, come
nel vicino e assai più grande Teatro,
ricalcavano la forma semicircolare
dell'edificio romano.
Il suo intento era
quello di abbattere case e Odeion, e
ricavare spazio per ingrandire il suo
palazzo.
Il nostro Barone
chiese pertanto il permesso alle autorità di
spianare l'Odeion. Il permesso, per fortuna,
gli venne negato. Ma il nostro Barone non si
arrese e riempì di dinamite il monumento che
fece poi esplodere. Per sua sfortuna, e
grazie alla potenza delle strutture romane,
capaci di resistere a qualsivoglia
terremoto, ed evidentemente anche alla
dinamite, riuscì soltanto ad abbattere uno
dei fornici, che a memoria dei posteri, e di
quello che non si deve mai fare, si trova
ancora a terra accanto all'Odeion.
Al tempo della triste
vicenda era Soprintendente era un certo
Paolo Orsi, nato asburgico e fattosi
siciliano, il quale prese e portò il Barone
Sigona in tribunale, lo fece condannare ad
una pesante pena, che venne scontata per
intero, e gli fece confiscare l'Odeion, che
provvide subito a liberare dalle casette,
affinché lui, o i suoi eredi, non avessero
più alcuna proprietà da pretendere ed
eventualmente da abbattere insieme al
monumento romano.
E così liberato, dal
Barone e dalle casette, l'Odeion Romano di
Catania esiste ancora, pieno di acciacchi e
di problemi. Ma tutto intero, a parte il
fornice abbattuto dalla dinamite.
Catania Antica
https://www.facebook.com/CataniaAntica/
IPOGEO
QUADRATO
Il monumento
funerario, conosciuto con il nome di "Ipogeo
quadrato", è ubicato dietro la via Ipogeo e
ricade nella vasta area che, dalla fine del
V secolo a. C. fino ad epoca tardo-antica e
cristiana, fu destinata ad uso funerario. La
zona, nota fino al secolo scorso con il nome
di "Selva del convento di S. Maria di Gesù",
era compresa tra le colline del Giardino
Bellini ad est, la via Plebiscito a sud e il
viale Regina Margherita a nord,
nei pressi
del quale si trova il sepolcro a pianta
circolare, detto "Mausoleo Modica".
Dell'ipogeo si hanno notizie precise dal
Principe Biscari, che lo descrive con una
copertura a piramide, rimane anche un acquerello
dell'Houel e il rilievo eseguito dall'Ittar.
Numerosi studiosi
si sono occupati del monumento, fra questi
Ferrara, il duca Serradifalco e, di recente,
Bernabò Brea e Frasca. Si tratta
probabilmente di un edificio a due piani,
del quale non vi sono più tracce, con
destinazione funeraria, attestata dalla
presenza del loculo e delle nicchie
all'interno del vano ipogeico.
L'ipogeo,
ancora oggi visitabile, si apre sul lato
ovest e vi si può accede tramite una
scaletta, della quale rimangono in situ solo
i tre gradini inferiori. Il vano è a pianta
quadrata, sulla parete est, opposta
all'entarata, è ricavato un loculo, ormai
rovinato; ai lati dell'ingresso sono due
nicchie per vasi cinerari. La copertura
originaria doveva essere costituita da una
volta a botte, poi restaurata in mattoni ma
oggi fortemente danneggiata.
Sulle pareti
che fiancheggiano la scala si notano tracce
di intonaco. L'importanza architettonica e
l'ubicazione del monumento funerario fanno
ipotizzare che appartenesse ad un esponente
della classe elevata, che in Sicilia, tra il
II e il III secolo d. C., godeva di ottime
condizione economiche. Questa considerazione
e la tipologia costruttiva del monumento
suggeriscono una datazione non precedente
alla prima metà del II secolo d. C.
Maggiori
Info: 0957150508, Catania, via G. Sanfilippo
(trav.via ipogeo).
Nella Catania Romana, sia nel circo (che si
trovava nei pressi del Castello Ursino e poi
coperto dalle lave dell'Etna), sia
nell'Anfiteatro Romano si svolgevano anche
le naumachie, battaglie navali con navi e
combattenti all'interno delle arene riempite
con l'acqua dell'antico acquedotto catanese.
Le naumachie erano
simulazioni di battaglie navali svolti in
bacini naturali o artificiali allagati per
la circostanza, dove si rievocavano famose
battaglie storiche. I naumacharii, cioè gli
attori combattenti, erano nemici caduti
schiavi, o gente assoldata al momento, o
marinai pagati o criminali condannati a
morte cui veniva risparmiata la vita se
dimostravano abilità e coraggio. Questi
dovevano guerreggiare indossando le armature
del paese rappresentato, incitati alla lotta
dai pretoriani. Questi spettacoli erano
chiamati navalia proelia, battaglie navali,
mentre il termine greco naumachia,
generalmente adottato, indicava sia lo
spettacolo sia il sito che le ospitava.
Questi spettacoli, ideati a Roma e raramente
furono eseguiti altrove, in quanto
costosissimi, poiché le navi erano
autentiche, e manovravano come vere navi in
battaglia, rovinandosi o addirittura
affondando.
In origine i giochi erano gestiti dai
sacerdoti per questioni di culto e duravano,
come le famose corse dei cavalli, solo un
giorno. Dai 77 giorni di ludi proclamati
ufficiali tra la fine della Repubblica e
l’inizio dell’Impero si arrivò nel quarto
secolo a ben 177 giorni all’anno dedicati
agli spettacoli.
Le naumachie spesso rproducevano famose
battaglie storiche, come quella dei Greci
che vinsero i Persiani a Salamina, o quella
degli abitanti di Corfù contro la flotta di
Corinto. Gli spettacoli erano vari,
fantastici e dispendiosi. In una naumachia
si costruì una fortezza al centro del bacino
che simulava Siracusa, così che gli
"Ateniesi" potessero sbarcare ed espugnarla.
Si dovevano seguire le fasi della vera
battaglia, ed il pubblico si esaltava alle
manovre dei soldati e alla vista delle
macchine da guerra, tifando per la fazione
preferita con urla e invettive, come oggi
nei campi
di calcio.
L'introduzione di tecnologie nuove
inizialmente portò all'incremento delle
naumachie. Le prime tre naumachie si tennero
a circa 50 anni di distanza; le sei
seguenti, la maggior parte delle quali ha
avuto luogo in anfiteatri, si tennero a
distanza di 30 anni. Delle circa venti
rappresentazioni di naumachie nell'arte
romana, quasi tutte sono del IV stile
pompeiano, all'epoca di Nerone e dei Flavi.
I naumachiarii (combattenti nella naumachia)
e non come spesso si crede i gladiatori,
salutavano prima della battaglia
l'imperatore con una frase famosa: "Ave
Caesar, morituri te salutant." Almeno così
salutarono l'imperatore Claudio che non
desiderando il massacro di tutti fece un
cenno di negazione che fu però interpretato
come una grazia dal combattimento. Claudio
si infuriò, gli uomini combatterono,
parecchi morirono, la folla andò in
visibilio e tutti i sopravvissuti vennero
graziati. Poichè era andata bene la frase
venne ripetuta.
L'alternanza tra spettacoli terrestri ed
acquatici nello stesso sito stupì non poco i
romani, come riferisce Cassio Dione per la
naumachia di Nerone; Marziale fa lo stesso
parlando di quella di Tito nel Colosseo.
Però purtroppo se ne ignorano le modaltà di
passaggio da un modo all'altro.
http://www.romanoimpero.com/2010/09/le-naumachie.html
Nei pressi
dell’attuale Castello Ursino, vicino la
Chiesa di San Giuseppe, si trovava un tempo
la Naumachia, una imponente opera pubblica
della quale oggi non rimane alcuna traccia.
Si trattava di un
colossale edificio atto a riprodurre al suo
interno le battaglie navali e giochi
acquatici; era circondata da un ricco
boschetto e conteneva anche una vasca
adibita ad acquario. Il lago, largo
centoventuno metri e lungo centosettantadue,
era incavato nell’argilla e tutto intorno
era circondato da numerosi alberi di ginepro
e pioppo. I due muri paralleli dell’edificio
erano lunghi oltre duecento metri e distanti
circa 131 metri l’uno dall’altro; si
trattava di una costruzione in puro stile
romano, nata per replicare le più importanti
battaglie navali dell’impero e ricordare al
popolo la grandezza di Roma.
Accanto alla Naumachia
sorgeva anche un ippodromo, lungo 1872
piedi, nel quale si svolgevano le corse
durante la festa di Bacco. A delimitare il
punto di partenza e quello di arrivo erano
stati posti due obelischi; uno di questi è
possibile ancora oggi ammirarlo in Piazza
Duomo, proprio sopra l’elefante che adorna
la fontana.
Durante l’eruzione del
1669, le ultime tracce di queste colossali
opere, rimasero per sempre sepolte sotto
l’imponente colata lavica.
Dalla rubrica a cura
di Zaira La Paglia
__________________
NAUMACHIA
- L' illustre
Naumachia era attigua all'unico ippodromo ed
è degno di fede il fatto che senza
interruzione sia d'inverno che d'estate essa
conservasse allo stesso livello la
summenzionata portata d'acqua. Davanti alla
Porta delle decime questa era allestita per
i combattenti per continue vittorie,
affinché, dovendo questi sconfiggere nuovi
regni attraversando il mare con le navi,li
addestrasse a tenere a bada i campi di
battaglia, anche se mutevoli ed instabili,
definiti alcuni tipi di assalto, e
stimolasse alla salvezza con l'abilità nel
nuoto coloro a cui fosse accaduto di
affrontare le onde, in modo che alla fine
nessun catanese perisse, pur vincitore
,qualora i catanesi avessero vinto in
battaglia. Infatti anche coloro che cadevano
in mare,messisi in salvo a nuoto,facevano
ritorno in patria con i vincitori con uguale
splendore di vittoria e quanto a essi fosse
stato utile l'esercizio nella naumachia,
riconoscenti verso le pubbliche
spese,riferivano a nome della patria. I
resti di questa si vedono fuori le mura
della città davanti alla Porta delle decime,
precisamente si trova sul lato occidentale
della strada un antichissimo e spesso muro,
intercalato da certe sue interruzioni, al
quale corrisponde uno a meridione,non
dissimile ma più alto:essi si incontrano in
un edificio comune contiguo alle antiche
mura della città. Era la larghezza della
Naumachia da meridione a settentrione di 488
palmi (125,95 m.),la lunghezza da oriente a
occidente di 696 palmi (179,64 m).
IPPODROMO (CIRCO
MASSIMO )
- Un unico ippodromo a
Catania fu sufficiente per far esercitare i
propri cavalli, sia singoli, che a bighe che
a quadriglie, al fine di respingere verso il
loro accampamento e disperdere le schiere in
disfatta dei nemici. A questi scompaginavano
lo schieramento degli eserciti posti a
meridione e a occidente necessario ad
acquisire la vittoria, che invece
conservando nel frattempo gli abilissimi
catanesi, conseguivano ogni successo. Si
trovava questo presso la Porta delle decime
(è il suo arco diroccato oggi chiamiamo
"muro rotto")e le pubbliche fabbriche di
vasi,largo da oriente a occidente 384 palmi
(99,11 m)e lungo da meridione a settentrione
1872 palmi (483,16 m);era bellissimo come
quelli dei romani e i suoi ancora ammirevoli
resti denotano un grandissimo impiego di
risorse. Supporrei che vi sia un obelisco
ricoperto dalla terra e non visibile da
nessuna parte, non essendo insorta alcuna
necessità di modificare la tipologia della
costruzione, dal momento che Catania imitava
Roma o forse piuttosto Roma lo faceva con
Catania
Traduzione e fonti del
professore Vincenzo Ortoleva
Note e foto di Milena
Palermo per Obiettivo catania
https://www.facebook.com/ObiettivoCatania/
LA CATANIA ROMANA
_________________________
Più o meno tutti i
Catanesi conoscono le meraviglie della
propria Basilica Cattedrale. In particolare
nei giorni dei festeggiamenti agatini,
questo splendido esempio dell’arte barocca
si apre agli occhi di devoti e turisti
diventando così, quasi per incanto, la casa
di tutta la cittadinanza. Non tutti sanno,
però, che questo imponente edificio, la cui
cupola fa da richiamo a chi viene dal mare,
nasconde sotto di sé un tesoro di
inestimabile valore. Stiamo parlando delle
Terme Achilliane, che, come altre
monumentali opere d’arte del capoluogo
etneo, devono la loro fruibilità ad un
famoso protagonista del settecento catanese:
Ignazio Paternò Castello, Principe di
Biscari.
CATANIA ROMANA. La
Città di Catania è, al giorno d’oggi,
crocevia di popoli e culture provenienti da
tutte le parti del Mondo, rispettosa così
della tradizione multietnica della Sicilia,
la quale ricordiamo essere stata
continuamente soggetta, nel corso dei
secoli, a dominazioni delle più svariate
civiltà del Mediterraneo, ma che allo stesso
tempo è aperta alle prospettive di
rinnovamento che i tempi moderni impongono.
Risulterà quanto mai difficile, a tutti noi,
immaginare le affollate strade del centro
storico attraversate da uomini in toga
o che scorrazzano in biga. Eppure, anche il
capoluogo etneo beneficiò dei fasti, della
gloria e dei costumi dell’Impero Romano.
Prova solenne ne è l’anfiteatro che sorge a
Piazza Stesicoro, che nonostante sia stato
ridotto, per le più svariate vicende
storiche, a mero rudere, è, e resta, uno dei
più grandi che i Romani edificarono
all’interno dei loro domini.
I COMPLESSI TERMALI.
L’area sulla quale si estende il capoluogo
etneo, anticamente chiamato Càtina (o
Càtana), fondato da alcuni coloni greci,
divenne possedimento romano nel 21 a.C.. Da
quel momento la città si dotò di grandi
edifici pubblici che la trasformeranno in
uno dei più ragguardevoli centri dell'Impero
e che nei secoli successivi, fino ad oggi,
condizioneranno il suo sviluppo urbano. La
città antica era ricca di acqua. Al posto
della Via Etnea, scorreva un fiume, ora
sotterraneo, l’Amenano. Ciò permise la
costruzione di ben tre complessi termali, di
cui il meglio conservato è quello detto
della Rotonda, una sala circolare,
sormontata da una cupola, che nel corso del
VI secolo, fu trasformata in una chiesa.
Sempre in una chiesa erano state trasformate
le terme dette dell'Indirizzo, (IV - V
secolo d.C.) di cui sono ancora visibili gli
impianti di riscaldamento delle acque. Il
terzo complesso, meglio conosciuto come
Terme Achilliane non è stato trasformato in
una chiesa, bensì ne è stata costruita una
su di esso lasciandolo in parte immutato. La
chiesa sovrastante non è altro che Basilica
Cattedrale di Sant’Agata.
LE TERME ACHILLIANE.
Poco si conosce circa le reali dimensioni
del grande complesso termale che si trova a
Piazza Duomo, poiché quanto oggi è
visitabile, il tutto completamente
sotterraneo, è appena una piccola porzione
della sua estensione. Dell'impianto
originale delle Terme Achilliane si conserva
una camera centrale il cui soffitto a
crociere è sorretto da quattro pilastri a
pianta quadrangolare. L'epoca di fondazione
dell'edificio è ancora discussa, ma è
probabile che fu costruito nel II sec. d.C.
Nel 1088 l'area occupata dalle terme viene
scelta dal vescovo Ansgerio per ricavarne la
Cattedrale (completata ed inaugurata nel
1094) e il relativo monastero benedettino
(in seguito sede della badia femminile di
Sant'Agata), mentre nel 1508 viene
completata la Loggia Senatoria che vi si
addossava per la sua lunghezza. L’impianto
termale, praticamente sepolto, fu scoperto
nel XVI Secolo e nel 1767 fu messo in luce e
studiato da Ignazio Paternò Castello,
Principe di Biscari, che realizzò anche il
primo ingresso all’edificio. Durante il
secolo scorso, tuttavia, le terme
attraversarono un periodo di decadenza. Nel
1974, infatti furono chiuse al pubblico
perché considerate insicure. Vennero
riaperte dopo un restauro nel 1997 e
nuovamente richiuse per problemi di
allagamento. Dopo i lavori di pavimentazione
di Piazza Duomo, intervenuti tra il 2004 e
il 2006, nel corso dei quali si è ritenuto
di coprire l'impianto con una poderosa
piastra d'acciaio per rinforzare
l'impiantito della piazza stessa, l’edificio
termale è stato nuovamente riaperto al
pubblico e alla realizzazione di eventi.
Fortunatamente, a differenza di tanti altri
tesori nascosti e purtroppo non fruibili,
questo splendido esempio del glorioso
passato della nostra Città, ancora oggi,
continua a stupire tantissimi visitatori.
Una consapevolezza fa da padrona: Catania
può
Simone
Centamore La Sicilia 19.2.2018
Portico
dell'atleta
Al di sotto di via
dei Crociferi a Catania, nell’area
antistante palazzo Zappalà, si trova un
edificio romano del I secolo d.C. costruito
lungo il cardo che collegava il Teatro con
l’Anfiteatro. Non è del tutto chiara la
funzione di questo edificio, che venne
distrutto nel VI secolo d.C. e che
completava, in modo scenografico, il
monumentale complesso del Teatro-Odeion che
includeva un famoso santuario
dedicato a Demetra.
VILLA SCABROSA
Nel 1669 parte di Catania fu sommersa dalla
lava durante la terribile eruzione
dell’Etna.Tutta la zona che dal castello
Ursino arrivava fino alla vecchia via della
Concordia risultò poi costellata di
"terrazze laviche" sensibilmente più elevate
rispetto al piano della "vaddazza".Una di
queste terrazze aveva una vasta conca presso
la quale scorreva una grossa vena d’acqua
che si perdeva fra le sabbie della non
lontana spiaggia:Il principe Ignazio di
Biscari,ottenne dalle autorità demaniali il
permesso di costruirvi un giardino di tipo architettonico,ma
durante la realizzazione cambiò idea.Ordinò
che il rustico della villetta venisse
lasciato allo stato iniziale,fece piantare
quanti più alberi poté ,fece deviare il
vicino corso d’acqua riempiendo la conca e
creando un pittoresco laghetto.Nacque così
la Villa Scabrosa,luogo solitario e
romantico che fu il ritrovo della nobiltà
catanese e della gioventù dorata
cittadina.La Villa Scabrosa dovette
rappresentare in quell’epoca un oasi di
verde e di felicità in un deserto di sciare
grigie e tetre,ma per i catanesi rappresento
quasi un simbolo della tenacia e della
volontà di restituire alla vita la loro
città così duramente colpita dalla furia del
vulcano.Non per nulla le autorità cittadine
vollero che l’unica stampa che riproduceva
questo gioiello fosse esposta alla "Mostra
del giardino italiano" che nell’aprile del
1931 fu tenuta a Firenze,assieme ad alcune
visioni della Villa dei Paternò Castello
principi di Biscari,quella stessa che doveva
poi diventare l’attuale Giardino Bellini.
Sotto quelle "ignivome lave"capricciosamente
forgiate dalla natura a mò di grotte e
ponticelli si forma un lago di acqua dolce
alimentato dal fiume imbrigliato
sottoterra.E poi come in un moderno
acqua-park quelle immense vasche divengono
gremite di pesci ed uccelli acquatici e la
sciara diviene giardino, popolato di piante
d'ogni genere.Lo sperone di lava, che fionda
nel mare, sul quale viene costruita Villa
Scabrosa diventa il salotto della Catania
bene,quella colta,letterata e snob. Quella
che sa apprezzare tanta originalità.Quella
che lode il padrone di casa,il Principe
Biscari. Per altri catanesi,invece, questa
creazione suscita avversione,ripugnanza e la
convinzione che le vasche dei pesci siano la
causa di malattia e di morte per gli
abitanti della zona.Dopo la scomparsa del
Principe,avvenuta nel 1786 Villa Scabrosa
venne abbandonata,gli eredi Biscari
vendettero a lotti i terreni,le vasche
d'acqua vennero interrate ed il tutto venne
adibito alla semina.Il tempo ha cancellato
anche il ricordo della Villa Scabrosa,che di
certo doveva il suo nome alla sua
"scandalosa"location.Quel nome è la sola
cosa che ci rimane, in un dedalo di stradine
a qualche centinaio di metri dal porto di
Catania,proprio in quella lingua di terra
che un tempo si versò in mare c'è ancor oggi
la via Villa Scabrosa.
http://www.skyscrapercity.com/showthread.php?t=369861&page=6
|
Una
volta chiamata Porta Ferdinandea, richiama
assolutamente l’idea di arco trionfale o di
una porta di frontiera, è stata realizzata
nel 1768 per opera di Stefano Ittar allo
scopo di festeggiare in forma solenne il
matrimonio di Ferdinando IV di Borbone con
Carolina d’Austria. .
In alto, nel posto che è ora occupato da un
orologio si trovava un medaglione con i
ritratti dei due sovrani, e altre iscrizioni
ricordavano l’evento ma furono tutte
barbaramente danneggiate o asportate per
odio contro i regnanti, tanto che dopo la
dominazione borbonica, la porta fu dedicata
a Garibaldi, sebbene i catanesi continuino
ad identificarla col nome di "fortino",
associandola erroneamente al fortino del
duca di Ligne che si trova in via Sacchero,
nello stesso quartiere.
Ma il gioco del bianco e nero torna anche in
un'altra struttura, questa volta un palazzo,
al n°11 di via Lanolina, da dove si apre una
grande entrata che conduce nel cortile
dell’ex convento di San Placido, una delle
strutture maggiormente rappresentative del
barocco catanese.
La Porta Garibaldi
(inizialmente chiamata Porta Ferdinandea) è
un arco trionfale costruito nel 1768, su
progetto di Stefano Ittar e Francesco
Battaglia, per commemorare le nozze di
Ferdinando I delle Due Sicilie e Maria
Carolina d'Asburgo-Lorena. Si trova tra
piazza Palestro e piazza Crocifisso, alla
fine di via Giuseppe Garibaldi. Il quartiere
è chiamato in dialetto catanese U Futtinu
(il Fortino).
La zona è chiamata u Futtinu in ricordo di
un fortino costruito dal duca di Ligne dopo
l'eruzione lavica del 1669 che colpì la
città su tutto il lato occidentale
annullandone le difese medievali. Dell'opera
di fortificazione avanzata che sorgeva a sud
di piazza Palestro, ormai scomparsa, rimane
solo una porta in via Sacchero.
Di tutto ciò oggi rimane ben poco. Alcuni
palazzi collegati alla porta furono demoliti
negli anni trenta, altri oggi sono
abbastanza poveri e tutt'altro che
simmetrici. La riqualificazione della piazza
ha dato sicuramente un altro aspetto alla
porta, ma è comunque tutt'altro rispetto ai
progetti originari.
scene girate a
Villa Cerami, Piazza San Francesco d'Assisi, Piazza Dante, Monastero
dei Benedettini, Piazza Palestro, Palazzo Biscari
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PORTA FERDINANDA
-Nel 1768 re
Ferdinando con Maria Carolina di Austria il
7 aprile in matrimonio congiungendosi,il
sollazzo ed il festeggiare nuovamente
moltiplicaronsi in Sicilia; ma i Catanesi
emulando gli antichi Romani che ergevano
archi trionfali ne'fausti avvenimenti dei
loro imperadori, una gran porta innalzarono
a dover servire di prezioso monumento
storico e di testimone perenne dell'amore e
del rispetto della città di Catania verso i
suoi sovrani.
O quanto tali opere
non arrecano immortalità a chi sono dirette
ed a coloro da cui sono state architettate!
La direzione ai
sullodati principi Ignazio Paternò Castello
Biscari e Domenico Rosso Cerami venne
affidata, formandone il disegno l'architetto
Stefano Ittar.
Fattamentesi' tale
porta al fine dell'allora nova strada che a
ponente conduce e guarda il prospetto della
cattedrale fu situata :chiamasi FERDINANDA
dal nome del re ,anche tal denominazione
alla strada tutta partecipando.
Questo monumento ha
due ordini l'nferiore toscano, il superiore
attico;il primo nell'interno viene addobbato
da 4 colonne di marmo e di 2 nicchie
destinate per 2 statue;nel secondo evvi
un'aquila di marmo bianco che ebbe nel
decorso del tempo un'ala da un fulmine
mozza.
Nell'esterno la
prospettiva è considerata come bellissima,
trovandosivi un eccellente ordine di
balaustri allegati insieme con alcuni piloni
e posti in conveniente distanza; e sopra,
vari trofei con questi motti LITTERIS
ARMATUR,
ARMIS DECORATUR,e nel
centro due mezzi busti del re e della regina
coll'iscrizione OPTIMO PRINCIPI S.P.Q.C.
AEDILIUM CURA FAUSTO CONJUGII ANNO 1768.
Devono fare spalla a
questa magnifica porta per vie maggiore
ornamento 2 torrioni dell'istesso gusto che
dalla parte esterna con tutte le fabbriche
simmetriche renderanno leggiadra quella
semicircolare piazza -
Milena
Palermo per Obiettivo catania
https://www.facebook.com/ObiettivoCatania/
COME UNA FIABA DI ANDERSEN
(articolo di Salvatore Nicolosi)
-Molti conservarono il ricordo per lunghi
anni,e forse qualcuno se ne rammenta ancora, del caso patetico di ORAZIO OTERI,l'uomo
che governava l'orologio del Fortino. Quel caso ha la stessa atmosfera incantata
e desolata di certe fiabe di Andersen.
L' orologio di Porta Garibaldi aveva un
precedente famoso. A venti metri dal suolo, con un quadrante del diametro di
oltre due metri, nel '43 era stato rubato. Per le strade, nel più forte delle
incursioni di guerra, mentre la città era prossima a cadere il 5 d'agosto nelle
mani degli inglesi, i ladri s'aggiravano in libertà.
Razziavano di tutto, farina, zucchero,
vestiti, gomme di automobili abbandonate.Ma ce ne fu un gruppetto tutto di
giovani bizzarri, che, inerpicandosi su per la stretta scala a chiocciola
scavata entro uno dei piedritti dell'arco,arrivò fin lassù, smontò a pezzo a
pezzo gli ingranaggi e se li portò via;bilanciere,sfera, denticuli,girelle,
troclee. Più tardi i ladri furono tutti arrestati ma gli ingranaggi non si
poterono recuperare
Siccome la gente del Fortino premeva, anni
dopo il municipio fece restaurare, anzi ricostruire di sana pianta, l'orologio.
Nel '46 ,quando esso aveva appena
ricominciato a funzionare, una cooperativa di lavoratori agricoli del quartiere
chiese al Comune, e ottenne,di poter usare come propria sede uno stanzino al
piano terra di uno degli elementi dell'arco. Dall'interno di quel piccolo vano
parte la scaletta che conduce all'orologio;a un quarto della salita c'è un
bugigattolo. In quei due vani a diversa quota si installò Orazio Oteri, custode
di quella cooperativa che non funzionò mai,assieme alla sua famiglia,moglie e
tre bambini;di bambini, più tardi lì stesso ne sarebbe nato un quarto. Oteri era
un ometto basso,tarchiato, forte,mite e di capelli biondicci;dopo che la
cooperativa si dissolse, si mise a lavorare in un'agenzia di <<disbrigo
documenti >>
Il Comune gli conferì l'uso dei locali a
patto che, senz'altro compenso, egli accudisse all'orologio.
Ogni mattina, alle 8 in punto, Oteri saliva a
caricarlo, regolando con lunghi giri di manovella i grossi contrappesi di
pietra;e di tanto in tanto ripuliva anche il macchinario.
Un giorno di dicembre del '52 ,mentre Orazio
era assente, un vigile urbano capitò lì e,trovate alcune bombole su un
carrettino lasciate lì da un suo amico perché gliele custodisse,stilò un
rapporto: detenzione abusiva, e forse anche vendita abusiva, di gas liquido.
Lui,tornato, corse dai vigili per
protestare;e fu sul punto d'essere arrestato. Finì con uno sfratto. Era un
guaio;se sei anni prima per lui,come per ogni altro, era difficile trovare una
casetta libera, ora per lui,come per pochi altri diseredati, era difficile
pagarne la pigione. Gli abitanti del quartiere presero le sue parti ,ma l'unico
risultato che ottennero fu un rinvio dell'esecuzione.
Arrivò infine la data fatale, 10 luglio
1954.Dove trovare un tetto?Oteri non lo sapeva. La moglie per giunta ora
aspettava il quarto figlio. Frastornato e dispiaciuto, accumulò comunque su un
carrettello le poche masserizie. La sera del 9,in piazza del Fortino, s'incontrò
dinanzi a un bar coi vigili <<nemici >>,strinse loro la mano, tornò per l'ultima
volta a dormire nel suo rifugio, programmò l'ultima carica dell'orologio, alle 8
come sempre. Chi ci avrebbe pensato a partire dal giorno 11?Forse pensò a questo
per una parte della notte.
Quando, svegliatasi poco dopo l'alba, la
moglie gli diede un'occhiata, si stupì della sua immobilità. Le ci volle un
attimo per capire che era spirato. Sul certificato di morte il medico non esitò
a motivare l'improvviso decesso, non dovuto nè a malattia nè a infarto, e,
poiché Oteri aveva solo 33 anni, neanche all'età. La probabile causa era un
<<forte dispiacere >>.
Poiché nessuno quel giorno lo
caricò,l'orologio fece fino a sera il suo dovere, poi si fermò.
La Ferlita fece subito ricoverare i 3
orfanelli in un ospizio e la donna in una clinica ostetrica.
Alcune settimane dopo, questa, che aveva dato
alla luce l'ultimo figlio, <<ereditò>>l'incarico di custode dell'orologio di
Porta Garibaldi. Tornò così nel bugigattolo con la nidiata. Non l'avrebbero più
sfrattata; almeno un tetto ora lo aveva-(Salvatore Nicolosi)
https://www.facebook.com/ObiettivoCatania/
La magnifica
porta nasce come arco trionfale che doveva
permettere la celebrazione di un evento
storico importante per Catania; ovvero i
festeggiamenti per il centenario della
storica eruzione che nel 1669 aveva
seppellito la zona ovest della città e
impedito così i mezzi dj comunicazione tra
Catania e Palermo ( non è un caso se via
Palermo si chiama così,era l'unica strada di
comunicazione tra le due città)
L' arco
trionfale fu ideato,progettato, pensato e
costruito per volontà della Deputazione
delle Strade (composta dalle più grandi e
potenti famiglie della città) solo per
celebrare il centenario dell'eruzione del
1669 e permettere nuovamente il passaggio
del fercolo di Sant'Agata attraverso questa
porta dopo aver attraversato la Srrada della
Vittoria ( odierna via Plebiscito),liberata
dalla colata lavica!
Il progetto di
costruzione e l'inizio dei lavori risale (in
base ad atti notarili ) al 1766 e si
conclusero giusto in tempo per le
celebrazioni; i grandi festeggiamenti si
svolsero il 17 agosto del 1769 in occasione
della festa di Sant'Agata d'agosto e il
fercolo attraversò l'arco trionfale
accompagnato da fuochi pirotecnici!
Durante i
lavori di costruzione,il caso volle che i
regnanti Ferdinando di Borbone e Maria
Carolina convolaseero a nozze nel 1768 e
quindi la porta fu solo intitolata a loro ma
non costruita per le loro nozze!
Fu posta
un'effigie sull'arcata centrale con i
mezzibustj dei due regnanti ma ,dopo l'Unità
d'Italia, fu sostituita con un orologio!
Informazioni
ricavate dai profondi e dettagli studi
dell'ingegnere Salvatore Maria
Calogero,pubblicati anni fa sulla rivista
Agorà e sui suoi numerosi libri di verità
storica su Catania
Nella foto
Porta Ferdinandea a fine Ottocento com'era
all'origine
con
le effigi dei due regnanti!
IL FORTINO
(L'AUTENTICO)
La parrocchia di S.
Lucia al Fortino festeggia solennemente la
propria santa patrona e titolare per le vie
del quartiere.
Al tramonto, intorno alle ore 17,00,
l’artistico simulacro, posto sul fercolo, ha
fatto la sua uscita dalla chiesa per
l’inizio del pellegrinaggio per le case e le
strade del quartiere, per la visita e la
benedizione delle famiglie, per portare pace
e gioia a tutti loro e a tutti quanti vi
partecipano, anche provenienti dai quartieri
vicini.
Durante la processione hanno avuto molto
spazio ed importanza i momenti di preghiera,
sopratutto durante la sosta della
processione davanti alla chiesa del Sacro
Cuore e la chiesa di Maiorana in piazza
Palestro.
Chiesa SS. Crocifisso Majorana, in Piazza
Palestro |
Questa l’iscrizione, la sola non in latino e
tra le prime delle nove cittadine che
ricordano il terremoto del 1693, della
lapide che, recuperata dalla demolizione
dell’edificio precedente, campeggia sul
prospetto del teatro Sangiorgi (1900) in via
Antonino di Sangiuliano.
La tragedia aveva sfiorato la città non
molto tempo prima: l’eruzione dei Monti
Rossi del 1669 produsse una colata di quasi
un miliardo di metri cubi che raggiunse una
Catania spopolata per paura; deviata dalle
mura cinquecentesche sino al bastione San
Giorgio, presidio sud orientale, la lava si
riversò in mare, la battigia avanzò di
centinaia di metri, il porto fu invaso, la
costa mutò l’andamento lungo il fronte
urbano, circondato da un deserto fumante
terra di nessuno. Colmati i fossati,
l’Ursino non fu più “castello a mare”
presidio del porto come i coevi di Augusta e
Siracusa. La città fu risparmiata, la
popolazione vi fece ritorno e numerosi
profughi vi cercarono asilo dai distrutti
paesi del versante meridionale dell’Etna, le
cui terre invase dai basalti non furono
coltivabili per decenni.
Non così nel 1693: le scosse della sera di
venerdì 9 gennaio causarono una decina di
morti e ingenti danni al patrimonio
edilizio, procurando allarme nei cittadini
ma non sufficiente, forse memori dello
scampato pericolo di pochi lustri prima, per
lasciare la città; con quelle del pomeriggio
di domenica 11, sedicimila abitanti su
diciannovemila, secondo fonti d’epoca,
furono sepolti dalle macerie di Catania e
dei suoi secoli di storia. Condivisero
quella sorte le città del Val di Noto,
interessato dal sistema di faglie ibleo
maltese da cui originano i terremoti della
regione, e molte del Val Demone, raggiunte
dall’onda sismica, furono gravemente
danneggiate.
Con non pochi contrasti, governo, nobiltà e
clero si impegnarono, animati dalla volontà
di autorappresentazione, ma anche di
protagonismo a fianco di una popolazione
afflitta da lutti e distruzioni, in un
imponente progetto ricostruttivo unitario,
tendente a inserire la nuova Catania nei più
aggiornati circuiti culturali europei,
offrendole una rinnovata memoria storica e
una nuova identità di carattere non più o
non soltanto localistico, che trasformò la
catastrofe in una grande occasione di
riscatto economico e sociale delle
popolazioni interessate.
http://www.rotarycataniaest.it/
"Facevano
a gara i cittadini per ricostruire case e
palazzi" scrive lo storico benedettino Vito
Amico. Egli riporta così un dato
importante:la dimensione autonoma, in parte
popolare, degli sforzi compiuti per riempire
di realtà edificate il tracciato che le
autorità avevano predisposto. Ne resta
memoria nella tradizione che assegna la
decisione di ricostruire Catania
all'energico attivismo di un canonico della
cattedrale, Giuseppe Cilestri, e di suo
nipote Martino.
Il
fervore della ricostruzione dà il tono alla
vita di Catania settecentesca; per decenni
essa è tutto un cantiere, che attrae
popolazione e maestranze, che mette in moto
l'economia, che apprende nuove tecniche e le
dissemina a sua volta. Una esperienza
preziosa per gli architetti, come i catanesi
Alonzo di Benedetto e Francesco
Battaglia,
Girolamo Palazzotto da Messina, il
palermitano Giovan
Battista Vaccarini, e poi il toscano Stefano
Ittar e
tanti altri. Tra tutti il Vaccarini è forse
quello che ha lasciato il segno più netto,
sia per il gran numero di edifici da lui
curati che per il lungo periodo del suo
operare a Catania.
Il segno
più certo di tale vitalità, oltre
all'espansione stessa del tessuto urbano, è
la vicenda della cultura. Vi è innanzitutto
l'accresciuta importanza dello "Studio" -
l'Università -, che sotto il prevalente
impulso di medici e giuristi già fin da
prima del terremoto aveva posto le basi per
una nuova sede e una espansione; il suo
palazzo è ora tra i primi a dare nuovo
prestigio alla riorientata via
Uzeda (oggi via Etnea), collocandosi
a mezzo tra il palazzo comunale e la chiesa
della élite dirigente, quella di S. Maria
dell'Elemosina (Collegiata), ricostruita
sullo stesso luogo ma riorientata in modo da
affacciarsi sulla nuova strada
principale. L'Università è terreno di
conflitto tra la direzione ecclesiastica e
quella laica, in un'epoca in cui i governi
cominciano ad avocare a sé il controllo
della cultura. Proliferano perciò i centri
privati di studio, le biblioteche private,
le associazioni, le accademie. La terribile
esperienza del terremoto e l'incombere del
vulcano indirizzano il dibattito culturale
verso un progresso concreto delle scienze
geologiche, mineralogiche, vulcanologiche;
si supera così la strettoia della disputa
tra scienza e fede, e con l'opera del
canonico Giuseppe
Recupero
si pongono i fondamenti di un ricco
patrimonio nelle scienze naturali che sarà
continuato nell'Ottocento.
Personalità dominante è quella del principe
di Biscari, Ignazio II Paternò Castello.
Figura di livello europeo, archeologo,
antiquario, predispose una biblioteca e
soprattutto un Museo che riscossero
l'ammirazione di tutti i visitatori e
divennero centro di studio e di ricerca.
Gareggiava con questa gran collezione
privata la biblioteca e il museo dei
Benedettini, anch'essi centro di discussione
e di studi classici, filosofici, storici,
naturalistici. Lo storico Vito Maria Amico e
più tardi il naturalista Emiliano
Guttadauro(1759-1836) ne sono tra i nomi più
rappresentativi.
Né è da
sottovalutare l'attività del vescovo
Salvatore Ventimiglia, fondatore di una
ricca biblioteca poi lasciata allo Studio;
così come meritano un ricordo figure quali
Nicola Spedalieri, l'ingegnere Giuseppe
Zahra Buda, proveniente da Malta,che riuscì
a risolvere il problema della costruzione di
un molo nel porto; o il naturalista Giuseppe
Gioeni d'Angiò ,
cui si intitolò una celebre Accademia.
Giuseppe Geremia, musicista amico di
Paisiello rappresenta la continuità di una
cultura musicale che avrebbe dato i suoi
frutti nel secolo successivo.
Si viene
formando così un ambiente culturale vivace,
che soprattutto verso la fine del secolo
sarà percorso dai fermenti innovatori, laici
e democratici sintetizzati dal periodo
catanese del grande riformatore Giovan
Agostino De Cosmi. Grazie a questi ambienti,
Catania viene definendosi come la città
giacobina, borghese e democratica che si
manifesterà nel secolo successivo.
Certamente l'immane sforzo di ricostruzione
si dovette ai cospicui investimenti edilizi
resi possibili dalle rendite feudali
accumulate dalle grandi famiglie, dalla
Chiesa, dagli ordini religiosi (particolarmente
impressionante l'impegno dei Benedettini nel
riedificare il monastero di San Nicolò
l'Arena col tono di una vera e propria
reggia). Ma fu così che la città poté
superare la crisi dei primi decenni del
Settecento, che vide la Sicilia passare dal
dominio spagnolo ai Savoia (1713-1720), poi
agli Austriaci (1720-1734) e infine alla
nuova dinastia borbonica, e ciò non senza
l'inizio di grandi cambiamenti e grandi
speranze, e conflitti anche nell'ordine
religioso, tra Stato e Chiesa.
Gli architetti lavorarono in completa
armonia ed è impossibile distinguere il
lavoro di Alonzo da quello dei suoi
assistenti. Il lavoro è valido ma
elementare, con bugnati decorati nello stile
siciliano del XVII secolo, ma spesso la
decorazione dei piani nobili è superficiale.
Questo è tipico del Barocco di questo
periodo immediatamente seguente al
terremoto. Nel 1730 Vaccarini
arrivò a Catania come architetto della città
e immediatamente impresse sui nuovi lavori
lo stile Barocco Romano. I
pilastri perdono i loro bugnati e sostengono
cornicioni del tipo romano e timpani, e
trabeazioni o timpani curvilinei, e colonne
a tutto tondo a sostegno di balconi.
Vaccarini sfruttò anche la locale pietra
lavica come elemento decorativo piuttosto
che come un generico elemento costruttivo,
utilizzandola in alternanza ritmica con
altri materiali, e spettacolarmente per il
suo obelisco posto sul dorso dell'Elefante,
simbolo di Catania, per una fontana nello
stile di Berini di fronte al nuovo Palazzo
di Città. La facciata principale di
Vaccarini per la Cattedrale di Catania,
dedicata a Sant'Agata, mostra forti
influenze spagnole anche a questo stadio
tardo del Barocco Siciliano. In città si
trova anche la Chiesa della Collegiata di Stefano
Ittar, costruita
intorno al 1768 ed esempio di Barocco
Siciliano colto nella sua massima semplicità
stilistica.
http://it.wikipedia.org/wiki/Barocco_siciliano
I GRANDI ARCHITETTI DELLA RINASCITA DI
CATANIA
|
FRANCESCO BATTAGLIA
Battaglia iniziò la sua carriera come
Lapidum incisor, in pratica come scultore
degli apparati decorativi lapidei che sono
una delle caratteristiche più appariscenti
dell'architettura barocca siciliana. La sua
prima formazione avvenne, quindi, nei
cantieri edilizi della ricostruzione
avvenuta dopo il famoso terremoto del 1693.
Da semplice scultore, però, la straordinaria
bravura di Battaglia nell'interpretare i
temi e gli stilemi dell'architettura barocca
gli consentì una rapida ascesa nella
professione, stavolta, di architetto. A
Catania divenne, quindi, soprintendente ai
lavori dell'Almo Studio dal 1759, professore
di geometria pratica e architettura civile
presso l'Università (1779-88), architetto
della Deputazione Opere Pubbliche e del Real
Patrimonio (1763-78). Con Stefano Ittar,
altro importante architetto di origine
polacca, costituirà un sodalizio
fondamentale per il barocco catanese, in
quanto si fonderanno nelle loro opere la
tradizione architettonica barocca di respiro
europeo con quella siciliana. Tale sodalizio
si rafforzerà ancora di più col matrimonio
di una delle figlie di Battaglia con Ittar.
Partecipazione al cantiere del Monastero
di San Nicolò l'Arena di Catania;
Chiesa della Santissima Trinità a Catania
(dal 1745), insieme a Ittar Intervento
attribuito nella chiesa di San Camillo a
Catania; Progettazione del prospetto della chiesa
madre di Militello; Restauro
della chiesa
madre di Caltagirone (1766); Chiesa
madre di Aci Castello (fine
1760 e con prospetto del 1774 ca.); Basilica
di Aci San Filippo (dal 1759); San
Michele ai Minoriti a Catania
(dal 1760);
Facciata della chiesa del Carmine a Catania (attr.,
1766): porta Ferdinandea a Catania (1768),
insieme a Ittar; Piazza San Filippo a
Catania (1768-'69); Sovrintendenza
dei lavori di ampliamento del Palazzo
Biscari a Catania
(gli viene attribuita la scala dei musici); Tondo
Vecchio a Caltagirone; Chiesa
di San Giuseppe ad Aci Catena,
in provincia di Catania
www.wikipedia.it
STEFANO ITTAR
nacque a Owrócz (oggi Ovru?) una cittadina
della Volinia, che al tempo faceva parte
della Confederazione Polacco-Lituana, mentre
oggi è nel territorio dell'Ucraina.
Quasi nulla conosciamo della prima parte
della sua vita. Tra il 1754 e il 1759 si
trasferì a Roma dove perfezionò la sua
preparazione e dove risiedette fino al 1765,
quando giunse a Catania. Qui nel 1767 sposò
Rosaria, figlia di Francesco Battaglia,
importante architetto, che all'epoca, oltre
ad essere il pubblico architetto della Città
di Catania, sovrintendeva anche i lavori di
ampliamento
del palazzo appartenente a Don Ignazio
Paternò-Castello Principe di Biscari, che
nel frattempo era diventato il protettore di
Ittar. Ebbe nove figli, tra cui Sebastiano
(1768-1847) ed Enrico (1773-1850), che
intrapresero la professione paterna. Insieme
al suocero, con cui costituirà un sodalizio
artistico fondamentale per il barocco
catanese, Stefano realizzò la
porta Ferdinandea (1768),
la piazza di S. Filippo (1768-69) la chiesa
della Trinità. Gli
si attribuiscono i prospetti della Basilica Collegiata
(dal
1768) S.
Martino dei Bianchi (1774) S. Placido (1769). Per
il monastero benedettino di San
Nicolò l'Arena realizzò
la cupola (1768-80) e l'attuale piazza
Dante (1774-75). Gli
sono stati attribuiti, inoltre, il
completamento del Palazzo
di Città di Catania,
il prospetto del Priorato
della Cattedrale,
i palazzi
Pardo e Misterbianco,
la chiesa e una parte del monastero della
SS. Annunziata
di Paternò (dal
1768) e la ricostruzione della cupola
del duomo di Noto, poi
crollata nel XIX secolo. Nel 1785 si
trasferì a Malta dove realizzò la Biblioteca
per l'Ordine dei Cavalieri di San Giovanni e
dove morì nel 1790.
www.wikipedia.it
GIOVAN BATTISTA VACCARINI
L'architettura tardobarocca più viva ed
interessante si trova in Sicilia. Avendo il
terremoto del 1693 devastato la maggior
parte delle città orientali dell'isola, ebbe
inizio un lungo periodo di ricostruzione e
Catania fu il centro dell'elaborazione
architettonica. Assai fecondo fu
l'architetto Giovanni Battista Vaccarini, le
cui opere, di alto livello qualitativo,
costituiscono molta parte del paesaggio
urbano. Nato a Palermo nel 1702, fu chiamato
nella città terremotata dal vesovo Galletti,
quando aveva ventisette anni. Aveva studiato
a Roma, dove aveva conosciuto Vanvitelli e
Carlo Fontana ed approfondito le opere di
Bernini e di Borromini. A differenza dello
Juvara, l'esperienza romana lo manterrà
vicino all'architettura berniniana. Il
barocco vaccariniano è rielaborazione delle
forme e del ritmo classici, insieme all'uso
dei materiali e degli stilemi del repertorio
tradizionale catanese. F. Fichera,
architetto degli anni trenta, così scrive di
Vaccarini: Egli aveva il segreto del ritmo,
un dono che Dio offre ai grandi architetti
ed ai grandi musicisti ed ancora: Con
Vaccarini si rinnovò il miracolo italiano,
per cui ciascuna delle cento città nostre ha
una sua figura ed un suo privilegio: Firenze
ha quello di rappresentare il Rinascimento,
Catania il Barocco. A trentun'anni gli fu
assegnato il prospetto della Cattedrale
di Catania con
il compito di restaurarlo, inserendovi le
colonne marmoree dell'Odeon greco e del
Circo romano. Innumerevoli sono le opere che
ci ha lasciato, ma il suo capolavoro è la
Chiesa della Badìa
di Sant'Agata, edificata
in Piazza Duomo, proprio dove costruì in
seguito la fontana
dell'Elefante ed
il Palazzo Senatorio. Su corso Vittorio
Emanuele realizzò i Palazzi
Valle e Serravalle;
su via Crociferi Collegio
dei Gesuiti,
la Chiesa di San
Giuliano;
in piazza degli Studi partecipò ai lavori
dell'Università e del Palazzo
Di Sangiuliano;
realizzò ancora il Collegio
Cutelli,Casa Vaccarini,intevrenti
sulla biblioteca del
Monastero dei benedettini e
S: Nicolò e
la Badìa delle
monache di San Benedetto.
www.cormorano.net
Intorno
all’anno 1372 esisteva in Catania una chiesa
dedicata ai Santi Apostoli Simone e Giuda
presso l’antico cortile di N.S. della
Misericordia, dietro l’attuale salone
parrocchiale di S.Maria dell’Aiuto, un tempo
chiesa di S. Giacomo. Nel 1635 vi era una
Congregazione sacerdotale che zelava il
culto della Madre di Dio nella chiesa di
Santa Marina sita all’epoca nell’attuale via
Pozzo Mulino. Nel 1641, il 3 novembre, la
Congregazione sopracitata portò solennemente
nella chiesa di SS.Pietro e Paolo una
preziosa tela della Vergine che per i
miracoli fatti al popolo,dalla pubblica
icone dove si trovava venne invocata col
titolo di Madonna dell’Aiuto.
“L’immagine di Nostra Signora dell’Aiuto il
3 novembre 1641 dalla parte di fuori della
Strada per la frequenza dei miracoli fu
trasferita solennemente in chiesa come si
rivela dal De Grossis Carrera, Privitera e
Amico.
Da questa
scrittura dunque si rileva in termini assai
chiari che la preziosa Effigie sino all’anno
1641 stava esposta in una edicola della
pubblica strada ed era assai venerata dal
popolo. I fedeli sostavano dinanzi all’Icone
a gruppi, e spessoerano talmente numerosi da
impedire il traffico.
Questa,
secondo la tradizione, è stata una delle
ragioni per cui il Senato abbia sollecitato
l’autorità ecclesiastica a trasferire la
sacra Immagine in una chiesa vicina.
Fu scelta
quella dei SS. Apostoli Pietro e Paolo non
per il solo motivo che fosse la più vicina,
ma ancora perchè la più adatta allo
svolgersi delle funzioni e delle grandi
solennità.
Interessa
però far rilevare come il vero motivo della
traslazione sia stato quello espresso nella
memoria su riferita, dove si legge: per la
frequenza delli miracoli. Miracoli che sono
valsi alla diffusione del culto, miracoli
storicamente ricordati dai diversi
scrittori, i quali mettono in risalto
l’avvenimentoi del trasferimento della sacra
tela e lo citano come un fatto da non
relegarsi nel silenzio.
Il De
Grossis in proposito scrive : ” Dopo che fu
disegnata come parrocchia (SS. Pietro e
Paolo) fu sempre frequentatissimadi popolo.
Ai nostri tempi è assai più frequente il
concorso di popolo, sia amotivo di
Religione, sia per la sacra Immagine della
Madre di Dio, chiamata dell’Aiuto, ivi
trasferita nell’anno in cui scriviamo queste
cose, 1641 a 3 novembre, la quale immagine
opera tutti i giorni assai illustri
miracoli. ( perillustria miracula in dies
operante)“.
Ecco
un’altra testimonianza dell’ abate Amico.
Egli dice che la Chiesa dei SS. Ap. Pietro e
Paolo fu riedificata dopo il terremoto ed
aggiunge : “oggi viene chiamata col titolo
di S. Maria dell’Aiuto, per essere
trasferita in detta chiesa, l’anno 1641, 3
novembre l’Immagine assai devota della Madre
di Dio,
la qualeè onorata con grande concorso di
Popolo, che va a sciogliere i suoi voti ai
piedi di Essa”.
Testimonianza di maggiore rilievo è quella
del Privitera, considerato non solo come
storico, ma ancora come testimonio
oculare.Egli scrive così:
“L’anno
1641 a 3 Novembre detta chiesa fu decorata
con l’immagine di N. Signora dell’Aiuto,
trasportata dalla parte di fuori della
strada pubblica, dove per la frequenza delli
Miracoli alla pietosa devozione de
confluenti fu condotta in detta chiesa con
solennità alle 3 di Novembre l’An. predetto,
essendo io anco presente da figliuolo”.
Egli era
presente e tiene a far risaltare che la
cerimonia si svolse con solennità.
Ne
dobbiamo quindi dedurre che vi abbia preso
parte una grande folla, essendo molti i
beneficiati da quella cara Madonna.
Oltre al
numeroso popolo sappiamo che anche il clero
ed il Senato parteciparono con la loro
rappresentanza.
Era
allora vescovo di Catania S. E. Mons.
Ottavio Branciforte, insigne letterato,
eletto nel 1638. Egli acconsentì volentieri
alla proposta del trasloco della prodogiosa
Effigie e diede pure disposizioni perchè non
mancasse alla funzione la nota della
solennità e della devozione.
La
preziosa tela scampata al terribile
terremoto dell’11-1-1693 è stata sempre
oggetto di venerazione; il popolo catanese
volle costruire un tempio in suo onore ed
affidò il progetto all’architetto A.
Battaglia.
la
facciata della chiesa, a cui si accede da
un’ampia scalea, ha dieci colonne a rocchi
con capitelli corinzi e festoni. Due statue
in pietra calcare rappresentano i S.
Apostoli Pietro e Paolo. Nel centro del
timpano troviamo il monogramma di Maria
circuito da una gloria di sei angeli in
marmo.
Sul
portone trovasi una riproduzione in marmo
dell’immagine della Madonna dell’Aiuto.
Ad
occidente si erge maestosa la torre
campanariacon l’orologio ripristinato nel
1986. L’interno del tempio è costituito da
una luminosaed ampia navata. La volta è
decorata da stucci zecchinati con scritte e
simboli mariani.
Nell’interno troviamo quattro altari
laterali: il 1° a sinistra possiede una tela
di S. Francesco di Sales del secolo XVIII;
il 2° ricco di reliquie, è quello del
Crocifisso;
il 1° a
destra è una copia del martirio di S. Agata,
opera di F. Paladini conservato nella
Catterale; il 2° riproduce gli apostoli
Pietro e Paolo.
CAPPELLA
DEL LORETO
Il culto
della Madonna di Loreto è antichissimo, una
cappella sotto il titolo di S. Maria di
Loreto esisteva a Catania nella contrada
della Giudecca inferiore. Una Santa Casa
trovasi a Catania, fatta eseguire nel
Settecento per devozione da Giuseppe Lauria,
canonico della Chiesa cattedrale. Le sue
mura esterne- scrive l’abate Amico- “sono
incrostate e adorne con sculture di marmo
pario”. Essa è sita nellla chiesa omonima,
contigua alle due chiese dei SS.Apostoli
Pietro e Paolo (dal 1641 titolata S.Maria
dell’Aiuto) ed all’altra della Beata Vergine
della Misericordia (dal 1754 oratorio dei
SS. Giacomo e Cristoforo).
Esterno
cappella
Da
alcuni atti notarili si ricava che la nuova
chiesa della Santa Casa fu esguita “secondo
il disegno fatto dai maestri Antonio
Taormina, Domenico Arancio, Nicola Bombara e
Antonio Tomaselli”; e, come narra lo storico
settecentesco Vito Amico, il celebre
studioso benedettino autore della “Catania
Illustrata”(1740-1746). essi costituirono
“il dammuso della Santa Casa, con suo
cubbolino e cornicione giusta il disegno
stampato, la nicchia e antinicchia dove
vedesi situare la statua della Vergine con
quelli fiori, stelle e serafini d’intorno
come nel disegno, di più innalzare la Santa
Casa di dentro di marmo…” Le due facciate di
mezzogiorno e di tramontana furono affidate
per l’esecuzione a D.Michele Orlando
scultore palermitano. Il lavoro doveva
essere in tutto corrispondente al disegno
ordinato: “non riuscendo tutto di perfezione
e secondo il disegno o pure mancando il
detto Orlando e non potendo e non volendo
finire il tracaglio, come sopra dopo che
sarà fatto e non piacerà alle persone
deputande dal Lauria, a questi sia lecito di
farlo rifare e dallo stesso Orlando o da
maestri di Catania e di Messina….”. Il
contratto era “a ragione di onze 175 di
danari di giusto peso.L’interno della
cappella è ricco di vivaci affreschi.
All’altare dentro una nicchia si trova il
simulacro della Madonna di Loreto (sec.
XVIII) rivestito col suo caratteristico
mantello. La cappella dopo gli ultimi
restauri è stata riportata al suo splendore
originale.
fonte: http://www.santuariomadonnaiuto.it/
La
Catania settecentesca nasconde dei misteri
sconosciuti a molti degli abitanti di questa
meravigliosa città. Tra questi vi è,
indubbiamente, la Casa di Loreto. Si tratta
di una replica della chiesa originale
ubicata, per l’appunto, a Loreto, in
provincia di Ancona. La chiesetta si trova
in un vano rettangolare attiguo alla chiesa
di Santa Maria dell’Aiuto, nell’omonima
piazza, nei pressi di via Giuseppe
Garibaldi. Edificata nel 1740 per volere del
canonico don Lauria, che dopo aver visto
l’originale Santuario volle a Catania una
copia della stessa, che la leggenda voleva
fosse stata trasportata dagli angeli.
La storia
della Santa Casa di Loreto narra che nel
1291, dopo l’invasione dei Musulmani in
Palestina, la Casa dove Maria era nata e
dove aveva ricevuto l’annuncio
dell’arcangelo Gabriele, fosse stata
trasportata dagli angeli a Loreto. Da questo
episodio leggendario nasce il mito sopra
citato. La copia di questa chiesa si narra
fosse stata trasportata sempre dagli angeli
anche a Catania. Quest’ultima, rispecchia
tantissime analogie con la struttura
principale e per alcuni versi è nutrita di
nuove conoscenze teologiche. Bellissimo è il
rivestimento marmoreo esterno con la
rappresentazione dei personaggi del Vecchio
Testamento. Su di esso vi sono dei pannelli
che rappresentano le fasi salienti della
vita di Maria. Tra questi la Natività,
l’Annunciazione e la Natività di Cristo. In
uno di questi pannelli viene rappresentato
anche l’episodio in cui gli angeli
trasportano la casa dalla Palestina a
Loreto.
L’interno
della casa è davvero una fotocopia
dell’edificio originale. L’unica dissonanza
è percepibile dando uno sguardo agli
affreschi. Se nella Casa di Loreto, questi
ultimi ricalcano interamente l’era
medievale, in quella di Catania la
sensazione è che si sia scelta una maniera
più moderna.
Probabilmente, lo stesso Don Lauria, vissuto
nel Settecento, volle modificare con degli
affreschi maggiormente pertinenti a quel
periodo.
Magnifico
è l’altare tutto in marmo policromo che dà
un effetto decorativo molto gradevole. Su di
esso troneggia l’immagine di Maria Regina
del Cielo con la veste dalmatica che da una
sensazione di sacro. il Santuario dedicato
alla Madonna dell’Aiuto: un tesoro nascosto
all’interno di un altro gioiello
settecentesco.
Un mix di
marmi e di rappresentazioni scenografiche
che ti rapisce e ti da la sensazione di
essere trasportato da un epoca ad un altra,
da un luogo ad un altro.
Un’emozione decisamente da provare.
Davide
Villaggio
https://catania.italiani.it/la-casa-di-loreto-la-chiesa-trasportata-dagli-angeli/
Era
il quartiere dei diecimila. L'esodo dei
nuovi "cursoti" ha ridotto i residenti a
3mila il rione originario. È sommariamente
individuabile attraverso i monumentali
complessi religiosi attorno ai quali esso è
sorto.
Legenda della cartina in alto al centro
relativa all'individuazione del quartiere:
1. Complesso Benedettini, 2. Vecchia
Giundacca, 3. Osp. Vittorio Emanuele, 4.
Dep. Tranvie, 5. Liceo Spedalieri, 6.
Vecchio Bastione, 7. Torre del Vescovo, 8.
Osp. S. Bambino, 9. Complesso Purità, 10.
Istituto Pio IX, 11. Osp. S. Marta, 12.
Terme della Rotonda, 13. Case Esedra, 14.
Minoritelli, 15. Ex Chiesa Idria, 16.
Verginelle, 17. Casa dei Marescialli, 18.
Case popolari Legenda cartina in basso sui
presunti confini del quartiere e i nuclei
abitativi: 1. Torre del Vescovo, 2. Idria,
3. Purità-Santa Marta, 4. Minoritelli, 5.
Vecchia Giudecca, 6. Castromarino, 7. Botte
dell'Acqua
di GAETANO D'EMILIO
L'Antico Corso fa parte di uno dei
sobborghi, di modesta edilizia di carattere
popolare, considerati subalterni alla città,
diventate col tempo sacche centrali di
degrado urbano ma mano che la città li
scavalcava, estendendosi nel territorio.
Nel caso di Catania, lo scavalco urbano è
stato accelerato dalla conurbazione dei vari
quartieri periferici: Cibali-Susanna,
Borgo-Consolazione, Barriera-Canalicchio,
Picanello-Guardia, Ognina-Carruba, S.
Giovanni Galermo- Trappeto ed anche Mario
Rapisardi-Nesima e Zia Lisa-Acquicella.
Creando nell'intera città un degrado
generalizzato come ebbe a fare osservare
alla fine dell'ottocento al Consiglio
Comunale il Gentile Cusa: "Le vie e le case
delle sezioni non centrali…si trovano in
condizioni edilizie ed igieniche molto
infelici, poiché in quasi tutte le sezioni
ci sono gruppi di case e perfino interi
quartieri in uno stato, sotto tutti i
profili, deplorevolissimo", attorno a
cortili invece che di piazze, lontani quindi
dalle direttive camastriane e delle
necessarie regole edilizie quali assegni di
linea e di livello.
E se in altri quartieri (Civita, S.
Cristoforo, Cibali, Ognina) fino a poco
tempo fa si riusciva ancora ad identificare
con certezza il vecchio nucleo di abitanti
per senso di appartenenza, aiutati anche da
un residuato sociolinguistico, per il Corso
oggi diventa più difficile, soprattutto per
i confini incerti con il Fortino e con S.
Cocimo, tenuto anche conto dello spostamento
di molti cittadini del vecchio nucleo di
abitanti quasi del tutto disperso, per
frammentazione o immigrazione, i cui fattori
contribuiscono alla difficoltà di
individuare le radici di appartenenza e la
verifica dei residenti delle nuove
generazioni, che hanno cambiato usi e tipi
di attività lavorative.
Molti di questi cursoti di origine si sono
spostati anche fuori città, in alloggi più
confortevoli di quelli rimasti nel quartiere
in pessimo stato di conservazione e con
servizi privati e generali inadeguati ai
nuovi tempi; per cui molte di queste
costruzioni restano abbandonate e vuote.
Infatti negli ultimi venti anni le
statistiche riscontrano che gli abitanti del
quartiere da diecimila, oggi si sono ridotti
a non oltre tremila e, tendono ancora a
diminuire, contemporaneamente all'aumento di
pendolari interessati a risiedervi, a
periodi, per la presenza delle strutture
culturali universitarie.
|
Non ci sono più in vita gli anziani a dirci se nel
quartiere, era più frequentata la putia di don Saru o la
putia di don Aitinu. Chi cessava per ultimo l'attività
per i clienti che si attardavano la sera o chi iniziava
prima la mattina per i clienti che si muovevano
all'alba.
Così come nessuno oggi è in condizioni di informarci sul
salone (di barba e capelli) di don Niculinu u vabberi
(al Borgo vavveri), della via Plebiscito, sempre
affollato di domenica dove, in attesa con chitarra e
mandolino a disposizione, si parlava di ogni cosa, mai
di famiglia e, se disponeva, come altri barbieri, delle
sanguisughe per i salassi che, in momenti di pericolo,
abbassando repentinamente la pressione sanguigna,
evitavano "la botta" (ictus) e se si adoperava ad
estrarre qualche dente cariato o di latte, sostituendo
in stato di emergenza, il dentista.
Il barbiere a quel tempo, in camice bianco, apprezzato
"parasanitario" era richiesto a domicilio per servire
quotidianamente i signori anche per l'assistenza alla
cura della gotta, durante il raffinato lavoro eseguito,
teneva aggiornati sulle notizie e sui pettegolezzi del
quartiere (quale persona di fiducia era addirittura
mezzo di ambasciate e saluti tra clienti).
CATANIA. Risulterebbe impossibile immaginare
Catania senza la sua Santa Patrona, ma
sarebbe altrettanto difficile immaginare un
devoto di Sant’Agata senza indosso il
tradizionale sacco. “U saccu”, per
intenderci. Catania, infatti, durante le
celebrazioni agatine si tinge di bianco. Una
vera esplosione di devoti che con il loro
tradizionale sacco bianco partecipano alla
processione trainando il fercolo della
“sant'aituzza” lungo le strade della città.
E’ una tradizione ormai consolidatissima che
non conosce distinzione di età o sesso:
adulti, bambini e ragazzi tutti con indosso
il sacco.
Le scuole
di pensiero riguardo le origini del sacco
sono più di una: qualcuno afferma che il
sacco - oggi indossato dai devoti in
occasione della festa - richiami la camicia
da notte indossata dai catanesi nella notte
del lontano agosto del 1126, durante la
quale accorsero ad accogliere le reliquie di
Sant’Agata riportate a Catania da
Costantinopoli. Altri, invece, sostengono
che si tratti di un saio penitenziale i cui
colori bianco del sacco e nero del copricapo
simboleggerebbero rispettivamente la purezza
e l’umiltà dei devoti in segno di rispetto
per la Santa. Ma qualsivoglia sia l’origine
o la storia del sacco poco importa per il
catanese dotato di un amore viscerale per la
sua “piciridda” e impegnato a prodigarsi
senza riserve per i festeggiamenti.
LiveSiciliaCatania ha fatto un giro per i
negozi nel cuore della città per saperne di
più e ha conosciuto Paola Cutuli, titolare
di un’attività situata nella p.zza di San
Placido, la quale spiega: “ Non è un tipo di
commercio sul quale siamo soliti speculare.
Il sacco costa relativamente poco, la spesa
si aggira intorno ai 20/38 euro al massimo:
il prezzo varia in base alle taglie. Ci
guadagniamo pochi euro, è una comodità che
offriamo più che altro ai catanesi in
occasione della festa. Effettivamente –
rispetto agli anni scorsi – quest’anno
abbiamo registrato un lieve calo delle
vendite, ma il catanese difficilmente
rinuncia a venerare la propria Santa”.
Dunque,
il sacco, la lunghissima processione urlando
a squarciagola “cittadini W Sant’Agata”, le
mostre, le iniziative, la preghiera: non si
risparmiano i catanesi che amano venerare lo
loro Santa Patrona senza rinunciare ad
essere anche veri protagonisti.
http://catania.livesicilia.it/.../u-saccu-il-rito-della.../ |
QUARTIERE ANGELI CUSTODI
Inizi del 1669, pochi
mesi prima della imponente eruzione lavica dell'Etna che
avrebbe distrutto,lungo il suo cammino dai Monti Rossi
di Nicolosi verso il mare,oltre una decina di paesi e
cambiato l'orografia di Catania,troveremmo qui uno
splendido mare azzurro,popolato da pesci e sentiremmo lo
scrosciante rumore delle sue piccole onde,battere lungo
parti di una suggestiva battigia sabbiosa.
Proprio quell'anno,il
1669, la mostruosa massa incandescente di lava,alta ben
oltre cinquanta metri e larga decine di chilometri,
aggirò il Castello Ursino e durante la sua corsa dentro
il mare,trasformò quelle onde azzurre in una ruvida,nera
e tagliente roccia lavica.
Si formarono,di
conseguenza,nuovi terreni che furono acquisiti dalla
Chiesa,considerato che Ruggero II concesse,con
investitura feudale,tutti i terreni compresi tra la foce
del Simeto e la cima dell'Etna al primo vescovo di
Catania.
Anni dopo la devastante
eruzione,nel 1760,questi terreni furono assegnati al
Municipio di Catania per oltre 100 ettari,al principe di
Biscari per 24 ettari e i 17 ettari rimanenti alla
Chiesa parrocchiale dei Santissimi Angeli Custodi,a
patto che venissero ceduti con un canone simbolico ai
privati per trasformarli in suolo edificabile.
Da qui nacque il
quartiere degli "Angeli Custodi" di Catania che
considero uno dei piu' suggestivi della città e che
andrebbe recuperato dal punto di vista
architettonico,creando un punto di equilibrio tra il
bello che esiste con molti manufatti in questa parte di
Catania ed il brutto che anche qui ci accompagna.
Franz Cannizzo
-Per storia, posizione, tracciato
e architettura, siamo probabilmente nella strada più
importante della Catania settecentesca.
Ideata dal Duca di Camastra come
una delle quattro fondamentali arterie della
ricostruenda città, l'attuale via Vittorio Emanuele si
chiamò STRADA DEL CORSO perché vi si svolgevano le corse
dei bèrberi, i famosi cavalli di razza africana,
destinati alle gare con o senza fantino (prima del
1693,essa venne chiamata STRADA NOVA;e successivamente
STRADA DEL CAMPANARO,forse per l'alto campanile che vi
si affacciava, quel campanile fatto costruire dal
vescovo Simone del Pozzo nel 1387 <<il quale (campanile)
dopo alquanti secoli,venne portato a smisurata altezza,
per lo che additavasi come una delle meraviglie della
vecchia Catania.....>>).
Dopo l'attuazione del piano
regolatore del Camastra, il principe Giovanni Rosso di
Cerami, patrizio della città nel 1755,promosse
l'apertura di nuove strade sopra la lava del 1669 e,in
particolare, realizzò il prolungamento della strada
Etnea,dalla porta di Aci al Borgo;della Ferdinanda, dal
piano S.Filippo al Fortino;della strada del Corso,
dall'attuale piazza Cutelli al mare.
Già sul finire del Settecento,
questo rettifilo si collocava fra le più suggestive
strade di Catania barocca, assieme a via Etnea e a via
Crociferi. E vi si collocava con pienezza di titoli per
la preziosa sua architettura, soprattutto.
<<......Se chiudo gli occhi, la
vedo lo stesso la bellissima strada;vedo la colonna e la
statua stagliarsi nell'azzurro mare.....il palazzo
Reburdone che ospitò re,i palazzi Valle e Serravalle del
Vaccarini, il monastero di San Placido di Stefano Ittar,
la Badia di Sant'Agata con l'aerea cupola, capolavoro
del Vaccarini e del barocco catanese;vedo la piazza del
Duomo, la fontana dell'Elefante, S.Francesco d'Assisi e
la casa di Bellini, Sant'Agostino, la Trinità.....una
miracolosa fuga di fabbricati incastonati di gioielli e
d'oro>>.
Se vogliamo chiudere gli occhi
anche noi,se proviamo a immaginarla senza l'ingombrante
presenza delle macchine, dei pali della segnaletica,
delle insegne pubblicitarie, e con tanta gente a
passeggio nei dorati pomeriggi d'ottobre, quando il sole
la prende d'infilata dal quadrivio di SARDO a piazza dei
Martiri, ci accorgeremo allora che il
<<miracolo>>,l'<<oro>>,i <<gioielli >>di cui parla
Saverio Fiducia sono immagini e sensazioni reali,e non
già concessioni alla letteratura o al sentimento.
Forse,non facile sarebbe - anche
ad occhi aperti - immaginarla com'era durante le feste
patronali di due secoli fa, allorché l'ex STRADA DEL
CAMPANARO tutta s'animava per la sfilata delle
candelore, tutta s'illuminava di lumi e lampioncini,
tutta s'affollava per la presenza dei cavalli bèrberi
che vi correvano <<dapprima con i fantini bastardelli, e
dopo come liberi corsieri con i pungoli ai fianchi, a
partire dalla casa del principe Reburdone sino al
Monastero della SS.Trinità......>>.
Forse difficile sarebbe - andando
più a ritroso nel tempo - immaginarla come si presentò
agli occhi spauriti dei suoi abitanti quando, nel marzo
del 1647,il popolo affamato correva verso le case
patrizie di quel rione per scardinare e incendiare;o
come apparve nella Pasqua del 1513,quando una torma di
scalmanati bruciò vivo ,a ridosso della Cattedrale, il
sarto G.B.Rizzo,pazzo e sacrilego.
Ma non era quella la strada che
noi amiamo;quella non era ancora la bellissima strada
settecentesca sfarzosamente vestita dal Vaccarini.
Egli è qui presente più che
altrove;qui egli profuse le doti eccezionali del suo
ingegno, lasciandoci opere fra le più significative del
barocco siciliano.
La Badia di Sant'Agata che cos'è,
infatti, se non <<il più bel gioiello della corona sacra
che il Vaccarini impose alla giovine città?>>.
La realtà urbanistica (e non
soltanto urbanistica)era quella che era,a Catania;e
nella prima metà dell'Ottocento non fece un passo
avanti, o ne fece qualcuno assai breve.
La Strada del Corso aveva
allungato il suo tracciato a levante e a occidente, ma
era rimasta anch'essa col fondo allo stato di natura.
Bisognerà attendere il 1875 per
veder muovere qualcosa in questa direzione.
Non che prima fossero mancate le
parole. Anzi.
Da una ventina d'anni si andava
parlando di un fantasioso prolungamento della strada
verso occidente, al fine di creare un passaggio nella
zona delle CASE SANTE. <<.....se stendiamo l'occhio per
la bellissima via del Corso, via a torto abbandonata
,verso la parte di ponente si scorge in fine
un'elevazione del suolo che impedisce allo sguardo di
spaziare nelle retroposte colline. Se per poco si
appianasse quella piccola erta, ci si presenterebbe come
per incanto un poggio delizioso. Questo poggio,
proseguendo la via del Corso, potrebbe servire benissimo
alla creazione di un boschetto....che darebbe vita alla
magnifica via, lustro alla città, e servirebbe come
luogo di diporto e di passeggio per tutte le classi
sociali.....>>
Le parole con le quali nel
1859,rivolgendosi ai consiglieri comunali, il Marchese
del Toscano amò condire le sue belle intenzioni,
restarono parole.
Dopo quasi vent'anni - come dicevo
prima - si avrà la definitiva sistemazione a basole
laviche della strada (questo,si);ed anche le vie Calì e
Porta di Ferro e la piazza Cutelli furono in quella
stessa occasione sistemate.
In piazza Cutelli, anzi,venne
elevata una monumentale fontana, con vasca circolare,
zampilli, base e stele di marmo finemente intagliate;un
artistico globo al vertice, un'aiuola. Una fontana,
insomma, con le carte in regola.
Poi,per l'avverso destino comune a
tutte le fontane catanesi, si inaridirono i zampilli e
aiuola. Non fu una parentesi di breve durata;fu qualcosa
di più e peggio. Fu il principio della fine.
Non si sa come, un mattino del
gennaio 1920,anche la vasca era infatti scomparsa. E nel
1924,a completamento dell'opera, il monumento, poco alla
volta, era già stato rosicchiato e distrutto fino
all'ultima briciola di marmo.
Negli anni Cinquanta, quando
Catania fece toeletta e si abbellì anche di nuove
fontane, la civica amministrazione ne volle una in
piazza Cutelli, al posto di quella distrutta.
Luci e zampilli, nei primi tempi.
E anche dei pesciolini rossi,nella vasca.
Poi,spentesi le luci e inariditisi
gli zampilli, i pesci morirono, e al loro posto
s'allogarono cartacce e pezzi di legno........-
(da "Catania com'era
" di Lucio Sciacca)
U Cursu
patria di tutti gli
abusivi e delle bellezze dimenticate di Desirée Miranda,
Federica Motta - 8 dicembre 2011
L’Antico Corso, di
giorno sede universitaria e la notte frontiera poco
raccomandabile, mette insieme cultura e degrado. Affitti
in nero, venditori ambulanti, arrusti e mancia e
parcheggiatori abusivi. Ma anche impegno sociale e un
intero patrimonio artistico mai valorizzato
L’Antico corso,
meglio noto come U Cursu, è tra i quartieri più antichi
di Catania. Ricco di monumenti artistici, in troppi casi
però abbandonati a loro stessi e all’incuria della
gente. «E’ il caso del Bastione degli infetti, chiuso da
anni. Altre, come le Terme della rotonda sono proprio
sconosciute», afferma Valentina Riolo, consigliere della
prima municipalità. Un quartiere un po’ dottor Jekyll e
mr. Hyde. Di giorno sede universitaria e di notte zona
di frontiera. «Basterebbe illuminare correttamente certe
piazze per restituirle alla loro bellezza ed evitare che
diventino simbolo di degrado e abbandono. Ma comunque
devono esserci interventi concreti», sostiene la Riolo.
Attività per cui l’amministrazione comunale non vanta
certo titoli a tutta pagina. Nota alle cronache è invece
la chiusura del centro popolare Experia, occupato sì, ma
da un gruppo di ragazzi che faceva attività sociali,
dopo scuola, ciclofficina, palestra.
«Di giorno qui è
pieno di studenti e di professori. E’ un via vai di
automobili. Ma la sera si spengono le luci, la piazza
diventa buia e sembra di stare nel Bronx» racconta uno
studente che abita vicino all’ex monastero dei
Benedettini. Da anni ormai il quartiere ospita
l’università in piazza Dante, in piazza Montessori e, da
febbraio, anche in via Roccaromana e prolifico è il
mercato dell’affitto di camere a studenti, per la
maggior parte in nero. «Vivo nella zona di piazza Dante
per studio e in cinque anni ho cambiato tre volte
appartamento. Ma nessun proprietario mi ha mai proposto
di registrare regolarmente il contratto di affitto»,
racconta Alessia, laureanda in Lingue.
U Cursu è stato
rinominato il quartiere universitario, ma non per questo
ha perso il suo titolo di quartiere della carne di
cavallo. Parliamo degli arrusti e mancia in via
Plebiscito che occupano buona parte della strada a
discapito della legalità e della viabilità. La zona
infatti è tra le più trafficate della città, anche per
le numerose scuole e gli ospedali che vi si trovano. «La
viabilità intasata, la concentrazione di servizi e la
mancanza di ordine pubblico facilitano il lavoro degli
scippatori che si muovono a piedi o in sella ai motorini
e collezionano furti dopo furti», racconta un operatore
del commissariato di polizia giudiziaria di San
Cristoforo. «E’ evidente che, dove manca l’intervento
dell’amministrazione, la popolazione regredisce.
Purtroppo le interrogazioni fatte dal nostro Consiglio
di municipalità sono sempre cadute nel vuoto» lamenta
Valentina Riolo.
Ma il quartiere vanta
anche delle forze positive e attive. Nonostante gli
abitanti abbiano risentito della chiusura dell’Experia,
il cpo non era il solo centro di attività sociale nella
zona. Da dieci anni, infatti, presso l’Istituto Pio IX
di via Montevergine, c’è L’ala di riserva,
un’associazione di volontari che nei giorni feriali si
dedica al recupero scolastico ma anche ad attività di
intrattenimento per i minori allontanati dalle proprie
famiglie. Un occhio vigile sulle problematiche del
quartiere è poi quello del Comitato Antico Corso. Tutte
realtà nate però dall’aggregazione spontanea dei
cittadini. Un’energia che si scontra con la latitanza
dell’amministrazione comunale.
(dal web)
VIA PLEBISCITO
COAST TO COAST
Dal Porto comincia la
salita. A sinistra si va per il vecchio macello di Via
Zurria (adesso piscina comunale dedicata al povero
Ciccio Scuderi) e poi l'Angelo custode. E' la zona più
vicina al mare e si vede dalla vendita di esche,
vermicelli ballerini, spagnoli, coreani e americani. Più
avanti, fra i muri delle strade spruzzati "a sostegno di
una fede", tanti chioschi di fede rossazzurra tappezzati
da poster del nostro amato Catania e raffiguranti
immagini a me molto familiari: provengono dal mio sito
web !
Siamo in Via
Plebiscito, nell'autentica Catania. Confesso che io ci
vivrei; molto meglio di silenziosi condomini pieni di
verde e cinguettii. Certe volte, invece di perdermi in
un caotico e inconcludente centro commerciale,
preferisco farmi un “via Plebiscito coast to coast”. Mi
ci immergo volentieri divertendomi ad ascoltare la sua
gente, sentirmi dentro la storia della mia città per la
vicinanza di numerose testimonianze rimaste su quelle
strade e sconosciute da parecchi. Le dominazioni in
Sicilia qui si toccano con mano. Diverse, man mano che
si cambia il quartiere: da quella sveva e normanna
dell’Angelo Custode a quella araba di San Cristoforo, a
quella aragonese e barocca dai Cappuccini fino
all’Antico Corso.
Siamo in un mondo a
parte. Nel suo contesto sociale e storico, è un
quartiere bellissimo dove poter ritrovare le proprio
origini, l'essere catanese. Come in una Matrioska,
scoprire quartieri infilati in altri quartieri con
splendidi cortili degni delle sceneggiature recitate da
Angelo Musco e Giovanni Grasso. Sono come li lasciò il
Gen. Montgomery nel luglio del 1943, in alcuni edifici
sono rimaste anche le scritte del ventennio fascista!
Nonostante la triste
e falsa nomea, io non ho mai avuto problemi. Ogni volta
ne rimango stregato. Senza che nessuno mi abbia mai
infastidito, percorro in piena tranquillità strade
interne come via Stella Polare, Gramignani, Mulini a
vento, del Principe, Cordai, Villa Scabrosa. Ogni tanto
esagero e tento di entrare in quei cortili ma, non
conoscendomi, vengo bloccato puntualmente all’ingresso
con un immancabile “prego?” spuntato fuori
all’improvviso.
Eccomi sulla strada
maestra. Sul marciapiedi davanti al suo ingresso, una
farmacia suggerisce di misurare la glicemia a solo un
euro. Però qualcuno, con una “disinteressata” quanto
geniale idea pubblicitaria, aggiunge "e 'cu n'euro ta
luvatu u scantu e ti po iri a mangiari a raviola ni
Lanzafami". Translate: “e con un euro ti sei tolto lo
spavento e puoi andarti a mangiare la raviola fritta da
Lanzafame”.
Il fatto che il
titolare della farmacia - ormai assuefatto alla
mentalità del quartiere - non l’abbia più cancellata
decreta la suddetta frase aggiuntiva che, di fatto,
diventa un'opera d’arte marca Liotru! Questa non potevo
farmela scappare.
C'è tanto da
fotografare, ci sono chicche che nemmeno a Forcella a
Napoli. Percorro via Plaja e vedo un vecchio
stabilimento ormai smantellato, pieno di macerie. Mi
accosto e, mentre mi appresto a fotografarlo, un
colpetto sulla mia spalla blocca il mio entusiasmo: un
anziano signore mi fa un cenno con il suo dito indice
che si muove come un metrometro. "Lei cca non po'
fotografari! C'è gente ca s'avissi a stari a casa e
inveci s'attrova peri peri" (è più forte di loro, non ce
la fanno a rimanere ai domiciliari con tutto quel ben di
Dio che c'è fuori). Il signore continua: "appoi ci su
autri ca pigghiunu u redditu di cittadinanza e vinnunu i
muluni strada strada.....m'ascutassi, chi voli sapiri
ciu cuntu iu!".
E mi racconta che in
quell'edificio esisteva il pastificio Maione, la pasta
consumata dalla maggior parte della cittadinanza fino al
Dopoguerra. Fallì a causa del benessere degli anni
Sessanta e l'avvento della Barilla & Co. Un racconto
affascinante, proveniente da quegli occhi pieni di
storia, di sofferenze, di guerra, di anni difficili e
che si muovevano assieme a tutte quelle rughe che mi
spiegavano anche del deposito dei vini semidistrutto dai
bombardamenti, della fabbrica di ghiaccio antistante per
farci i gelati e le granite di una volta. Tutti quegli
edifici, in rigoroso stile architettonico del famoso
ventennio, sono ancora in piedi. Malconci ma presenti
come vecchi fantasmi che sovrastano centinaia di
ricevitorie di scommesse frequentate da una gioventù
balorda che, devo dire, a casa sua è davvero molto "arucata"!
Mi sono sentito più sicuro qui che davanti all'Altare
della Patria. Bello, bello, bello! Quella mezz'ora è
stata per più soddisfacente del report fotografico.
Ecco perchè qui non
faccio più click. Faccio un esempio: tempo fa stavo
fotografando un vecchio edificio in via Di Giacomo
(regno di Santapaola) e non mi accorsi che
nell'inquadratura stavo riprendendo anche una donna
anziana che si prendeva il fresco pomeridiano
annusandosi le ascelle su una sdraio, fuori dalla sua
casa che era ormai quasi da demolire. Inconsapevolmente
stavo per acchiappare un capolavoro, ma lei si accorse
di me. “Lei cu iieeèèè? Chiamu a me figghiu!”. Insomma,
m’assicutau. Ciò significa che, come dice una famosa
frase, "ti piace? guarda ma non si scatta!"
Ad angolo con via
Cordai c'è una trattoria col suo slogan
che campeggia sulle tende davanti all'ingresso: "si
picca vo pavari e bonu vo mangiari, na Zia ..... ta fimmari".
In zona, sono tante le zie che diventano tali per nipoti
e pronipoti. Il massimo della loro carriera è il caravan
dei panini al Lungomare di Catania, lì fra zii e zie
esiste una grande dinastia!
Ci passo e scopro
qualcosa nel locale che in città non sono mai riuscito a trovare:
lumache già cucinate, da asporto. A Catania le lumache
le vendono dovunque, purtroppo a casa non me le fanno
cucinare e nemmeno me le cucinano perchè si
impressionano. Addirittura, mia moglie ha organizzato in
passato evasioni bibliche, sui vasi del terrazzo, quando
le ho portate a casa.
Sto per prenderle ma
non mi fido tanto. Più in là scorgo un'altra trattoria
con tutta l'esposizione della mercanzia: costate suine,
bovine, equine e tanta gastronomia "Made in Catania" da
far storcere il naso a chi è abituato a cucina vegana,
vegetariana e gourmet. Chiedo anche a questa trattoria
se hanno lumache da asporto.
- "Vaccareddi? no,
non ni facemu"
- "Ce li ha la Zia,
più sopra. Mi dica, mi posso fidare?"
- "Assira, vossia
.... chi mangiau?"
- "Che c'entra? Va bè,
una caprese"
- "U viri? nuatri da
zona semu vaccinati e non ni succeri nenti, inveci lei
finisci 'o spidali! Ci luvassi manu !".
L'avrei abbracciato !
Comunque, la risposta
del gestore è anche invidia, cuttigghiu e folklore
catanese, perchè qui si fa teatro anche in queste cose.
La trattoria che racconto non sarà luccicante come
il Pavillon Leodoyen a Parigi, ma è semplice e senza
fronzoli come si legge in questa brevissima recensione
in rete che dice proprio tutto: "Potete assaggiare la
vera, tipica saporita cucina catanese. Fantastica,
gustosa, semplice e ignorante al punto giusto"
Lungo la via,
moltissimi sono gli esercizi commerciali, tutti con
enormi immagini di Sant'Aituzza e racchiusi fra loro in
duecento metri. Nessuno di loro ha difficoltà economiche
per la breve distanza col rivale, tanta è la densità di
popolazione. Oltre al pane vendono anche tavola calda
della tradizione catanese. Tanta, tanta, tanta da
produrre tonnellate di trigliceridi ben evidenti nella
ciccia traboccante dai jeans della gioventù del luogo.
Qui non puoi mai
sentirti solo; sono moltissimi, spumeggianti, estrosi,
geniali e pieni di colori come dentro la "Vucciria" di
Guttuso. Amano la vita in tutti i sensi, nel bene e nel
male e comunque vada. Per essere chiari, prendere il
quartiere un sabato sera, squartarlo come un cappone a
Natale e poggiarlo all'angolo fra via Belfiore e Via
Plebiscito, poi entrarci dentro e vedere quel capolavoro
prendere vita come quei libri per bambini che aprendoli
cominciano ad animarsi. Lo si sentirà parlare, ansimare,
litigare col venditore di carne arrosto, scacciare il
cane "spettu" che sa dove fare la questua. E poi decine di Malaguti che
sfrecciano come missili fra quarti di carne equina
disossata per strada, fra braci di carne e carciofi
accanto a mercanzie di ogni genere. Un dipinto !
Affondo sempre per
via Belfiore fino a Via Tripi, al "Traforo", alla famosa
macelleria equina dei F.lli Foti, inconfondibile per il
tendone biancorosso. Percorro via Testulla e arrivo al
Locu, piccola zona che in confronto via Plebiscito
rappresenta via Veneto a Roma. Oggi molto degradato,
questo spazio si trova nella parte finale del traforo
ferroviario, a ridosso di Via della Concordia. Ci voglio
entrare perchè mi ricorda quando, giovane sottufficiale
di Capitaneria, alla fine degli anni Settanta mi
inviarono qui per notificare un verbale a qualcuno (non
ricordo se navigante o pescatore). Quella mattina ero in
divisa, entrai in quelle stradine e fui subito
circondato da un branco di cani, molto aggressivi nei
confronti del sottoscritto.
A mia difesa arrivò
una voce "Cumannanti, si luassi u cappeddu. I cani su
addestrati ppi muzzicàri i vaddia!". Così mi tolsi il
berretto, i cani si calmarono e alla fine riuscii a
completare il mio compito. Pazzesco, no?
Lungo via Juvara
torno indietro in Via Plebiscito ed entro in un bar.
All'ingresso è affisso il manifesto del prossimo
concerto di Gianni Vezzosi; special guest "Savvo Zauddu"
e Matteo, dodicenne cantante neomelodico che è già una
star!! L'arredamento è rimasto simile a quello degli
spot dei gelati Algida nei Caroselli. Non pensate di
trovarci tavolini in granito, aperitivi che fanno trend
o gente che se la tira (a Catania lo chiamano "spacchiamento").
Di stuzzicherie nemmeno a parlarne, al massimo un
pugnetto di arachidi e un paio di olive. Vi serviranno
le bevande ancora nei lunghi e scomodissimi bicchieri
del Bitter San Pellegrino che solo una cicogna ci può
bere, e se chiedete un Negroni vi risponderanno che
fuori ce ne sono a decine in ogni angolo di strada!
Ordino il mio
aperitivo (questo lo conoscono) che di solito preferisco
con ghiaccio e senza limone. Al banco c'è una donna che
nemmeno mi ascolta perchè impegnata in chat, mentre si
distrugge i pollici e le unghie disegnate con luccicanti
paesaggi stellari. La massima aspirazione in carriera
per le ragazze è il diploma di ricostruttrice di unghie,
estetista oppure (il sogno) velina; per i ragazzi
diploma all'Alberghiero, calciatore (possibilmente il
compagno della velina) o cantante neomelodico.
La donna al banco
sarà sulla quarantina, probabilmente è già nonna perchè
canta al cellulare "Battiamo le manine, ca ora arriva u
papa’, ni potta i cioccolattini e Kevin si mancirà". E'
rilassata, continua a fottersene del sottoscritto ma dal
retro arriva un giovanotto, forse il compagno: "au
Aitina, chi fai, ti movi? U vo sevviri u chistianu?" .
Gli sguardi delle
donne sono una condanna che Dio ha inflitto a noi
uomini, ogni volta che li incrociamo. Quindi gela il suo
uomo con uno di questi sguardi, accompagnato dal noto "Quannu
iu parrava che chistiani tu sgaggiavi mobili co girellu!".
(translate: "quando io parlavo già con la gente tu
graffiavi i mobili col girello".
Mentre vengo servito
nervosamente dalla donna (aperitivo caldo e con una
fettona di limone, nemmeno mi rischio di protestare),
vedo che l'uomo si arrende e le dice: "Amore, vita do
me cori, lo sai che a quest'ora dò i numeri". Un esempio
di come, nella vera Catania, si può mettere a posto una
persona solo con le parole!
Esco con quello
schifo nello stomaco e risalgo lungo la Route 66 della
catanesità. Appagato, continuo per la piazza di fronte
la Chiesa San Cristoforo dove, gentilissimi, mi spiegano
tutte le procedure per cucinare, ancora lì bollenti, il
sangeli, la matruzza e il quarume. Lì davanti inizia via
Velis (dove visse il grande Micio Tempio) e in uno
splendido cortile all'aperto che sembra il sipario di
una commedia, mi imbatto in un battibecco fra una madre
di famiglia e un bambino di 10 anni che le risponde ad
ogni rimprovero come in un'opera di Martoglio, fra le
risate della gente presente. Meglio di andare al cinema!
Continuo per San
Cosimo alle Chianche in cui è rimasto qualche residuo
del vecchio Bastione di San Giovanni, la Giudecca, la
Vigna del Sardo, la zona del Fortino piena zeppa di
scomodissimi divani, pessimi arredi e rosticcerie che
attendono di accendere le loro luci al passaggio di
Sant'Agata nella notte del prossimo 4 febbraio.
E poi i Cappuccini
Nuovi, il vecchio Ospedale V. Emanuele spesso teatro di
nervose rimostranze al pronto soccorso, l'Istituto
Ippico, l'incrocio col Fortino, il Bastione degli
infetti, quello del Tindaro e la Torre del Vescovo e,
alla fine, annusando l'aria, capisco che sono quasi
arrivato alla fine, cioè all'interno di quel gomito
puzzolente e gustoso che si chiama Antico Corso (U Cussu,
in dialetto catanese), tappa finale a nord nella sezione
"Terme dell'Itria" e famoso per il cosiddetto
"arrusti e
mangia" della carne di cavallo, preparata in rigorosa
maniera "street food" dai numerosi osti presenti in
zona.
Ecco, secondo me, via
Plebiscito. Sono sicuro che molti altri più bravi di me
la saprebbero descrivere meglio, nel dettaglio e nella
sua storia.
Io la vedo così.
Basta saperci guardare dentro col cuore, la curiosità e
la fantasia per farla diventare un'autentica giostra.
Mimmo Rapisarda
Si narra anche che i tre edifici dell'Esedra (perché
posizionati ad emiciclo) dirimpettai della Chiesa di S.
Nicola individuabili con i civici 9-16-23, di dignitosa
valenza architettonica, inserite tra le istituzioni
religiose ed affiancate da una marea di costruzioni
popolari diverse in qualità costruttive e volumetriche,
appartenessero a ricchi congiunti di frati benedettini
del Convento. I congiunti, soprattutto se di distante
residenza, per affetto familiare o per ammorbidire il
loro distacco dal mondo in cui erano cresciuti con
agiatezza, in quel modo davano la sensazione di essere
sempre vicini alla loro casa, accogliendoli in diverse
occasioni in quelle residenze, facendoli partecipare a
giornate gioiose per loro organizzate.
I
malpensanti raccontavano anche opportunità di serate
trasgressive; si arrivava ad ipotizzare fantomatici
tunnel sotterranei di collegamento con la struttura
conventuale, mai riscontrati.
La individuazione. Il quartiere originario, in via
presuntiva, è individuabile dai monumentali complessi
religiosi del passato attorno ai quali è sorto: il
Convento dei Benedettini con l'annessa Chiesa di S.
Nicola, l'Ospedale Vittorio Emanuele, i conventi
/monasteri con le annesse Chiese, della Purità, dei
Minoritelli, delle Verginelle, di S. Maria della
Provvidenza, dell'Ospedale S. Marta e Villermosa, del
Collegio Pio IX, il Bastione degli Infetti , preziosa
residua testimonianza della Torre del Vescovo le cui
aree si compenetrano, provenienti da quella torre che
nel 1370 la città donò al Vescovo Antonio de Vulpone e
che durante la pestilenza venne utilizzata quale
lazzaretto per ricoverarvi gli infermi, di cui parte
dell'area di tali testimonianze oggi comprende l'Opera
Pia Mariannina Magrì. Ma altre importanti testimonianze
storiche ci aiutano e ridefinire tale quartiere, quali i
tre edifici ad Esedra frontali alla Chiesa di S. Nicola,
che chiudono sul lato est la piazza Dante, la Casa delle
Verginelle, la Casa della Nutrizione e ad ovest la casa
dei marescialli (cosiddetta perché vi abitavano le
famiglie dei militari della vicina caserma) tra le vie
Teatro Greco, Quartararo,l'Ospedale, e tante istituzioni
religiose assistenziali primo tra tutti quello dei
Benedettini di S. Nicola.
Il presunto perimetro. Un
suo perimetro esterno, lo si può individuare iniziando
da un nucleo di case a sud ovest della piazza Dante
lungo la via Teatro Greco, nei pressi delle Terme della
Rotonda, compresa nella zona dell'antica Giudecca
(confinante con i quartieri dei Crociferi, di S. Cocimo
e del Fortino), per risalire fino alla zona Lumacari -
Ospedaletto; verificandosi in quei luoghi una soluzione
di continuità di struttura viaria per il rapido cambio
di livello, insieme alla presenza dell'Ospedale Vittorio
Emanuele, che confina con il quartiere dei Cappuccini
Nuovi.
Il proseguimento, in linea d'aria verso nord, va
ripreso lungo la via del Plebiscito a scendere,
all'altezza di tale Ospedale. Percorrendo
l'ampia arteria cittadina, l'ipotetico confine, continua
lungo tutta la strada sia sul lato destro che sinistro.
Dalla parte destra penetrando all'interno del quartiere
lungo le vie Osservatorio e Botte dell'Acqua per
raggiungere la piazza Annibale Riccò. Scendendo dalla
parte sinistra, all'altezza del vecchio deposito delle
tranvie elettriche, dal vico Mavilla e la Villa Francica
Nava in poi (oggi centro sociale del Comune e sede di
scuole), si prosegue incontrando il popoloso nucleo
attorno alle vie Castromarino e Petriera, con
conclusione nella piazza Fucinato, al confine con le
zone Nicita e S. Domenico per proseguire lungo la
restante via Plebiscito.
L'EX FABBRICA DELLA LIQUIRIZIA NEL QUARTIERE
SAN CRISTOFORO
<<IN TUTTO IL MONDO I BASTONCINI PRODOTTI A
CATANIA >> cenni storici da un articolo del quotidiano
La Sicilia del 13 Agosto 2010
-Non tutti sanno che Catania fu,a fine
'800,una delle "capitali "della liquirizia, con diversi stabilimenti che oggi
fanno parte dell'"archeologica industriale ".
Una ricerca meritoria sull'argomento è stata
fatta, nell'anno scolastico 2008-2009,
dagli alunni dell'allora classe V della
scuola elementare San Giovanni Bosco Salette e veicolata poi su La Sicilia
attraverso le pagine del Newspapergame, il gioco del giornalismo promosso dalla
nostra testata.
Nei primi anni dell'800 a Catania iniziò un
processo di sviluppo che facilito' la rinascita economico-culturale della città.
A partire dagli anni '30 importanti personalità dell'imprenditoria catanese
promossero la costruzione di mulini e fabbriche. Tra i vari rami produttivi,
Catania, nel periodo 1889-1895 fu la maggiore fornitrice di liquirizia. La
liquirizia era esportata in piccoli bastoncini verso grandi città come Trieste,
Livorno, Genova, Marsiglia e in alcuni importanti nazioni come Inghilterra,
Olanda, Germania e persino in Giappone e in Australia.
Questa era utilizzata per produrre il colore
di diverse penne e per le sue rimanenti proprietà medicinali.
Nonostante la fortuna incontrata da questo
prodotto, anche sul mercato internazionale, i processi produttivi continuarono
su livelli artigianali. La maggior parte di queste fabbriche sono sorte
nell'antica zona industriale di Catania, oggi ubicata nei quartieri di San
Cristoforo e del Fortino.
I maggiori imprenditori che impiantarono le
fabbriche di liquirizia sono stati i fratelli Caflish, originari di Trin
(Svizzera ),che iniziarono la loro attività nel 1894.
Da citare anche le fabbriche di Ritter e di
Bernardo Fichera. In particolare nella fabbrica di quest'ultimo, sorta nel 1934
e ubicata in via Mulino a vento,lavoravano inizialmente 20 persone.
Nel dopoguerra l'attività si ingrandi'
considerevolmente tanto da dare occupazione a circa 100 persone tra uomini e
donne. Solo 25 anni fa questa fabbrica che lavorava questa preziosa radice dal
materiale grezzo al prodotto finito (pastiglie, sciroppi,ecc.)chiuse
definitivamente l'attività.
La mole del palazzo conserva tuttora il suo
fascino. Molte persone del vicinato raccontano del profumo che fuoriuscita dai
camini ;le radici della liquirizia venivano infusi in acqua calda fino ad
addensarsi ,in modo da ricavarne l'estratto per poi produrre pastiglie o
sciroppi che, distribuiti nelle farmacie, servivano per asma, tosse,infezioni
polmonari, difficoltà intestinali e cicatrizzazione delle ferite.
La radice di liquirizia (liquirizia glabra)è
una pianta officinale conosciuta dall'uomo fin dai tempi più remoti per
l'estratto che da essa si ricava. I libri di medicina cinese e l'antica
tradizione indiana sono concordi nell'annoverare la liquirizia tra le sostanze
che avevano effetto divino sul corpo umano; grande quantità di liquirizia è
stata trovata tra i tesori della tomba di Tutankhamen.
Proprietà benefiche venivano elencate nei
documenti del medico Ippocrate. -
|
PICCOLA STORIA DELLA
MANIFATTURA TABACCHI
(Articolo del
giornalista Giuliano Consoli)
-Come in tutte le città siciliane,
a Catania l'esclusività statale per la fabbricazione e
la vendita del tabacco arrivò nel 1865,con tre anni di
ritardo cioè rispetto al resto del nuovo regno d'Italia.
Il monopolio del sale non fu invece mai applicato.
Anche se l'anno coincide con la
fine della guerra di Crimea,durante la quale i soldati
si erano abituati a fumare quelle che allora si
chiamavano "spagnolette"(i sigari avevano fatto la loro
prima apparizione nel 1820),il gruppo finanziario
privato che dal 1869 al 1883 aveva gestito per conto
dello Stato la produzione e la vendita dei prodotti per
il fumo, pur ripetutamente sollecitato a farlo,non
ritenne di dovere impiantare una fabbrica a Catania. Lo
stesso avvenne del resto negli anni della direzione
delle gabelle.
Quando però nel 1893 s'istituì la
direzione delle privative-che precede il monopolio
statale nato nel 1927- fu ritenuto opportuno aprire
nella città etnea una manifattura. Questa intenzione fu
peraltro favorita dal fatto che risultava libera quella
caserma della cavalleria borbonica che apriva i suoi
battenti sulla via Garibaldi e che aveva alle spalle una
vasta area che ne costituiva, in futuro, l'eventuale
ampliamento. Sul vecchio fabbricato s'innestò così il
nuovo, per il quale i lavori durarono quasi un decennio.
Nei primissimi anni del XX secolo,
Catania ebbe così il primo edificio capace di spalancare
le porte alla manodopera femminile, che fino a quel
momento s'era dovuta accontentare d'incassettare
stagionalmente agrumi e d'imbottare pesce salato.
Le prime sigaraie (erano ben 523
,contro solo 44 uomini)furono quasi tutte mogli e figlie
di pescatori e di marittimi che impararono presto ad
arrotolare quei sigari fermentati che si chiamarono
"toscani"e che costavano dieci centesimi. Questi
sigari,che uscivano dalle svelte mani delle donne
catanesi col capo protetto da cuffie ingraziosite da
riccioli inamidati, diventarono ben presto richiesti ed
apprezzati per la morbidezza del "ripieno ",per la
combustibilità e per l'essenza delle due costole delle
foglie. Quando poi, nel 1907,la manifattura tabacchi
ottenne alla "Esposizione agricola siciliana di Catania
"un clamoroso successo, soprattutto per la fabbricazione
delle "spagnolette ",si decise di affidare alle operaie
catanesi le macchine confezionatrici "Universal" e le
imbustinatrici "D'Alessandri "che, collegate,potevano
produrre venticinquemila sigarette all'ora.Mentre
altrove si fabbricavano le Orientali, le Uso russo e le
Uso russo egiziano, le Serraglio e le Giubek ,a Catania
si affidò la produzione delle Macedonia.
Dal primo dopoguerra in poi la
manifattura tabacchi di Catania ebbe così un evolutivo
incremento di personale che continuò fino al secondo
dopoguerra, quando, con la ripresa del lavoro dopo lo
"sfollamento "di Randazzo, l'organico toccò le quasi
mille unità. Si cominciò a produrre le sigarette
"Nazionali ",(alla fine della giornata lavorativa, gli
impiegati tutti, uomini e donne, venivano accuratamente
perquisiti perché non uscissero "di straforo "sigari e
sigarette)mentre la richiesta di sigari cominciava a
scemare, riducendo a poco a poco la manodopera fino a
fare scomparire del tutto la figura della sigaraia che
lavorava "a cottimo",pagata cioè in proporzione alla
personale capacità produttiva.
La manifattura tabacchi cessò
l'attività nel 1998 .
Il 6 aprile 2006 con un decreto di
vincolo (n.7790)Il palazzo della Manifattura Tabacchi,
veniva dichiarato "di interesse storico ed
architettonico "e a marzo del 2007 diventa parte del
Demanio culturale indisponibile della Regione Siciliana
e adibita a sede del Museo archeologico regionale
Ignazio Paternò Castello V principe di Biscari.
-(Giuliano Consoli)
Ps ho da aggiungere all'articolo
di Consoli che l'ex Manifattura Tabacchi in precedenza
fu Quartiere militare borbonico e che, nonostante oggi
ospiti un'area museale archeologica,non è ancora
ufficialmente un Museo archeologico regionale, né tanto
meno mi risulta che sia stato intitolato al gran
mecenate principe di Biscari
grazie a
Milena Palermo per Obiettivo Catania
https://www.facebook.com/ObiettivoCatania/
NEL REGNO
DELLA BELVA TRA COMPARI E CAVALLI
CATANIA - Le
case basse di pietra lavica e le prime teste di cavallo
sui banconi delle macellerie segnano il confine con
Catania. Poi comincia San Cristoforo. Si sale da via
Plebiscito, si prende dal vicolo Fra' Diavolo, dopo l'
oratorio dei salesiani e la segheria si scende in un
altro mondo. Popolato da cinquantamila siciliani con le
loro leggi e le loro regole, una città nella città dove
è nato e dove ha regnato Benedetto Santapaola. Il giorno
dopo la cattura del boss di Cosa Nostra siamo entrati a
San Cristoforo, quartiere storico della malavita
catanese, un labirinto di viuzze e di cortili,
palazzotti diroccati, strade sudicie che attraversano
mercati vocianti, una gigantesca casbah con quattro
edicole e ventiquattro botteghe che vendono soltanto
"pregiata carne equina". Il nostro giro è partito da un
portoncino di ferro al numero civico 32 di via Di
Giacomo. Una volta qui abitavano Benedetto Santapaola e
sua moglie Carmela. Qui a San Cristoforo "Il Cacciatore"
è diventato il capo della mafia di Catania. La via Di
Giacomo è una stradina lunga e stretta con tante
saracinesche che chiudono garage, magazzini, stalle.
Davanti la vecchia casa di Nitto Santapaola ci sono a
mezzogiono sei uomini immobili. Il più giovane indossa
una camicia di seta gialla e un paio di pantaloni neri.
Al collo porta un pesante medaglione d' oro massiccio,
al mignolo della sua mano destra brilla il "coccio di
calia", una pietra rossa incastrata sull' anellino d'
argento. Si avvicina lentamente, si sfila gli occhiali a
specchio, si accende una sigaretta. E' uno del
quartiere, uno di quelli "che Nitto l' ha conosciuto".
Parla lui ma è come se parlassero pure gli altri cinque
suoi compagni. Niente nomi sul taccuino, niente
registratori, niente riprese tv. E la voce di San
Cristoforo porta la scontata verità sul più feroce uomo
d' onore della Sicilia orientale. L' arresto di Nitto
Santapaola? "E' male quello che è successo ieri, è molto
male... signori si nasce... e Nitto era il migliore di
tutti noi, per la sua gente si faceva il cuore in
quaranta pezzi...".
Una piccola folla arriva in via Di Giacomo.
Ci sono anche i vecchi che raccontano la storia di una
famiglia di "saccari", raccoglitori di sacchi e di
farina. E' la storia di Vincenzo Santapaola, il padre
del boss. Si fruga nella memoria, si torna indietro nel
tempo. Fino ai primi anni Settanta, "quando ogni tanto a
San Cristoforo venivano anche Pippo Calderone insieme a
quel gran cornuto di suo fratello". Si parla di Nino, il
pentito, "il confidente, lo sbirro, la cosa fitusa che
ha pure parlato di quei quattro picciriddi morti... un'
infamità... ai bambini al massimo si possono tirare le
orecchie...". La gente di San Cristoforo vuol far sapere
al suo capo che anche oggi - dopo la cattura - il
quartiere è con lui, San Cristoforo non tradisce. Anzi,
la gente del rione cerca di esorcizzare il colpo duro
sferrato dalla polizia, dice di non credere all'
arresto, è pronta a giurare che "Nitto si è fatto
prendere per non accollarsi certe cose che potrebbero
succedere". Chiacchiere del giorno dopo nella terra dei
Santapaola. Per cancellare la fine di una latitanza che
sembrava eterna. Per tentare di giustificare una cattura
che sembrava impossibile. E quindi arresto voluto dal
capomafia, deciso sempre da lui, da Nitto Santapaola. E
non dallo Stato italiano che l' ha preso in trappola. Ma
questo è il quartiere di San Cristoforo. Da lontano si
vede un' insegna bianca con una scritta nera: Bar
Portorico. E'
proprio all' angolo fra via Abate Ferrara e via del
Plebiscito. Il bar è chiuso, era di Pippo Ferrera "U
Cavadduzzu", soprannome conquistato dal mafioso per la
sua passione per i cavalli. A due metri dal bar
Portorico c' è la pizzeria "La Capricciosa", titolare
Turi Santapaola, fratello di Nitto e cognato del "Cavadduzzu".
Anche la pizzeria è chiusa.
Come un altro caffè sullo stesso marciapiedi, come la
sezione della Democrazia Cristiana "Nino La Rosa" e il
negozio di frutta e verdura che si affaccia su via del
Quartiere Militare. Era il territorio di Nitto
Santapaola quando era ancora un picciotto, quando l'
avevano appena combinato nella "famiglia" di Catania.
Una dozzina di uomini vaga nei budelli che tagliano San
Cristoforo. Si passa sotto archi e dentro cortili, si
arriva "alla casa di Alfio Ferlito", un altro boss del
quartiere, quello ammazzato sulla circonvallazione di
Palermo con i kalashnikov che avrebbero poi ucciso il
generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e sua moglie
Emanuela. Ancora duecento metri e comincia
"la zona" di Santo Mazzei,
il capo dei "carcagnusi", altro terribile gruppo mafioso
dell' inferno di San Cristoforo.
Dietro un muro c' è un caseggiato pericolante, sei mesi
fa i carabinieri lì dentro hanno trovato fucili,
pistole, bombe a mano. E anche un lancia-missili, quelli
che bucano la corazza delle auto blindate. Via del
Plebiscito è alla fine. Se si va avanti c' è una curva,
dopo la curva finisce San Cristoforo e si entra nel
corso che porta alla cattedrale, la terra di
origine dei "cursoti", il
primo clan organizzato di Catania. Si torna indietro
fino a via Santa Maria delle Salette, si
imbocca un altro vicolo che si ferma davanti un grande
edificio color mattone. E' l' istituto dei salesiani. C'
è un asilo, ci sono scuole elementari e medie, c' è un
campo di calcio con il fondo in cemento, un porticato e
poi un corridoio che porta all' oratorio. Nitto
Santapaola ha studiato qui. Fino alla quinta elementare.
E ha fatto anche il chierichetto nella cappella vicina.
Il frate che c' era allora c' è ancora. Si chiama
Innocenzio Bonomo. Ma non risponde ai giornalisti. "Sta
male, sta molto male, nei giorni scorsi ha avuto un
ictus... ha quasi ottanta anni", fa sapere padre Enzo,
un altro salesiano. Ricordi di Nitto da ragazzo? "Era
vivace, molto vivace... sua madre è religiossima, una
buona donna". Dall'
istituto dei salesiani si ritorna fra via Di Giacomo e
via Abate Ferrara, il cuore di San Cristoforo.
Si gira e si rigira ma un angolo
del quartiere è off-limits. "In via Belfiore non si può
andare, non vi conviene andare...". Perché? "In via
Belfiore è meglio di no...". Resta il mistero di via
Belfiore prima di addentrarci nella strada delle
macellerie, delle trattorie che servono la carne rossa e
dolce dei cavalli, delle griglie che arrostiscono
bistecche all' aria aperta.
Il simbolo di San Cristoforo è proprio il cavallo. Di
sera il quartiere si svuota, si aprono le stalle e si
aspetta la notte. Quando carovane di calessi sfilano da
San Cristoforo verso la parte bassa della città. Fino
alla Plaja, fino a Librino, fino all' imbocco dell'
autostrada per Palermo.
All' alba cominciano le sfide, le corse dei cavalli
lungo i grandi viali che costeggiano il mare. E qualche
volta anche sulle corsie dell' autostrada. Con un
servizio d' ordine che blocca il traffico. E la gente di
San Cristoforo che punta tutto sui suoi cavalli.
ATTILIO BOLZONI
CHIESA SANT'AGATA ALLE SCIARE
Questa piccola chiesa ad unica
navata si trova in via V.Emanuele di fronte piazza
N.Machiavelli.
È forse poco conosciuta ma ha
grande importanza perché legata al culto agatino e pare
sia stata interessata da un miracolo di Sant'Agata.
Prima dell'eruzione del 1669
sorgeva qui un altarino votivo con l'immagine di
Sant'Agata al Carcere .L'eruzione iniziata a marzo del
1669 e partita dai Monti Rossi arrivò in aprile proprio
qui travolgendo l'altarino votivo ma deviando poi il suo
percorso allontanandosi dal centro della città.
Miracolamente sepolto dalla lava fu trovato intatto il
quadro di Sant'Agata al Carcere e fu subito edificata la
chiesetta che successivamente fu distrutta dal terremoto
del 1693 ma ricostruita a fine '700 con il risultato che
vediamo.
La Chiesa è gestita dalla
Confraternita di Sant'Agata alle sciare e Santa Barbara
la cui sede è nel caseggiato accanto e viene aperta a
chiunque lo richieda .
Al suo interno è custodito al
centro del presbiterio il quadro seicentesco
miracolosamente salvo dall'eruzione del 1669 a cui è
stata aggiunta l'Etna fumante sullo sfondo
Note e foto di Milena Palermo per
Obiettivo catania
https://www.facebook.com/ObiettivoCatania/
Risalendo per la via S. Maddalena fino a raggiungere la
via Gesualdo Clementi e da questa, inglobandovi
l'Ospedale S. Marta, dirimpettaio dell'Istituto
Minoritelli con l'omonima Chiesa, di seguito ad essa,
sorpassando i nuclei dell'Idria e le piazze Riccò e
Dante si incontrano i cortili Licciardello e Beritelli,
che incrociano le vie Gesuiti e Nutrizione prima di
ritrovarsi sulla iniziale via Teatro Greco nel vecchio
quartiere della Giudecca.
Quel
disordine urbano che rischia di cancellare preziosi
"pezzi di storia"
I
confini. Il
quartiere oggi. Per
valutare, all'interno del prefigurato perimetro
individuato, quello che è rimasto del vecchio quartiere,
sembra opportuno iniziare l'esplorazione dall'inizio
della via Antico Corso, che rappresenta ancora il punto
di riferimento del vecchio quartiere, partendo dalle
case popolari della via Torre del Vescovo realizzati
negli anni '50 e dall'Ospedale del S. Bambino degli anni
'80. Si incontra subito la strettoia stradale dovuta al
numeroso gruppo di vecchie abitazioni cadenti ed
antigieniche del civ. 24, all'intorno di un ampio
cortile, che risultano, né in linea né al livello con
l'attuale piano stradale, più ampio e più abbassato
rispetto, sia alla via Plebiscito (da dove di fatto
inizia) che dell'attuale piano di campagna della nuova
scuola che coincide con quello delle piazze
Riccò e Dante. Va ricordato che, negli anni ottanta,
lungo il prospetto della scuola, vennero piantumati una
fila di alberi d'alto fusto, quale quinta naturale di
difesa per un opportuno isolamento urbano con la
istituzione culturale; alberi che, poco alla volta, sono
stati eliminati dai parcheggiatori abusivi perché di
intralcio ai "loro spazi di lavoro".
Per il resto dell'importante area archeologica del
Bastione degli Infetti vale riportare quanto dichiarato
dai responsabili istituzionali dall'Ammnistrazione del
tempo, riportato in data 24.09.2002 dal quotidiano "La
Sicilia": "Liberata la zona di stalle, animali e
abitazioni abusive, ci sarà un'unica grande area che
collegherà il Bastione degli Infetti al camminamento
spagnolo e alle cosiddette Cave Daniele, cioè al grande
banco lavico, che tuteleranno come zona di interesse
ambientale facendone una sorta di giardino di pietra dal
quale si potrà accedere al rifugio antiaereo usato nella
seconda guerra mondiale…Nell'ambito dei programmi di più
ampio respiro…. va inserito anche il progetto di
risanamento di tutta la zona…".
Il quartiere
Cappuccini Nuovi
Ma si
resta ancora in attesa. La
posizione geografica della piazza Annibale Riccò,
rappresenta un nodo importante
di smistamento perchè dà l'ingresso al Liceo Spedalieri
, all'Università, alla Biblioteca Civica Ursino
Recupero, all' Ospedale S. Bambino, l'accesso alle via
Tindaro e dell'Idria, il collegamento delle vie
Osservatorio e Botte dell'Acqua con la via Plebiscito ed
attraverso le vie Mascali ed Idria, alla piazza Dante.
Di livello più alto di quello della piazza Riccò, il
nucleo della ex cadente Chiesa dell'Idria da decenni
puntellata ed inattiva che, in tempi passati costituiva
un centro vitale per quella parte dell'Antico Corso;
oggi sono ancora presenti importanti nuclei familiari
che cercano di tenersi al di fuori del flusso
automobilistico di transito, salvaguardando tradizioni e
caratteristiche del passato.
Il quartiere prosegue alle spalle delle tre importanti
costruzioni ottocentesche ad Esedra fino al confine con
la zona dei Crociferi, per risalire lungo la via Teatro
Greco. confinante con i quartieri di San Cocimo e
Fortino. Dalla via Rotonda in poi si riscontra un
importante nucleo di vecchia città: viuzze e cortili
all'intorno della via Rotonda, comprendente le vie
Nutrizione, Gesuiti, Ardizzone, Verginelle. Continuando
per la via Acquedotto Greco e sorpassando le vie
Verginelle, Quartarone, S. Barbara, della Palma fino a
raggiungere il nucleo Lumacari con i numerosi affollati
cortili e le vie finali,
Via Santa Maria Della Catena, 2
Chiesa Sacro Cuore Ai Cappuccini
Di questa chiesa sita nella popolosa via
Plebiscito, a poca distanza dall'ospedale
Vittorio Emanuele, si sa che essa fu
iniziata, insieme alle fabbriche
dell'attiguo convento, nei primi del 1887 da
padre Alessandro da Viagrande e che fu
pagata dai Frati Cappuccini della Provincia
di Messina, con le offerte dei fedeli e con
il ricavato della permuta dei locali e della
chiesa di S. Maria Della Speranza, abbattuta
nei primi decenni del Novecento per far
posto all'attuale Palazzo della Borsa (la
chiesa appare ancora in una foto del 1913
scattata in occasione dei festeggiamenti
agatini). La chiesa del Sacro Cuore ai
Cappuccini fu consacrata da mons. Ferrais
nel 1928. |
Ospedale
Vecchio e Spedaletto. Rientrando nella via Plebiscito,
dopo la discontinuità consistente dalla presenza
dell'Ospedale Vittorio Emanuele ed il forte dislivello
tra i diversi piani territoriali.
scendendo
dal lato sinistro a partire dal vico Mavilla si incontra
il Centro Sociale del Comune allogato nella citata Villa
dei Francica Nava e l'antico deposito delle tranvie
elettriche. Seguono una serie di modeste costruzioni
alcune vuote, altre utilizzate a botteghe e scarsamente
a civili abitazioni; oltrepassando lo slargo di via Del
Vescovo, di fronte all'inizio della via Antico Corso,
dopo la Casa Arcidiacono Bocchi al civ. 885, prima di
raggiungere la via S. Maddalena a confine con la zona
Nicito e S. Domenico, si trova il nucleo della via
Castromarino che comprende alcune strette e affollate
stradine attorno alle vie Daniele, Petriera, Fiorentino
che si esauriscono nella piazza Fucinato, già in
quartiere Nicito.
Sul lato
destro all'altezza delle vie Osservatorio e Botte
dell'Acqua, si incontra un consistente anonimo e
malandato patrimonio edilizio ottocentesco con maldestri
tentativi abusivi di renderlo più fruibile alle più
moderne esigenze dei proprietari. Il rientro nella via
Plebiscito è caratterizzato da costruzioni, in parte
utilizzati ai piani terra per piccole attività
commerciali ed artigianali, con molti lotti abbandonati,
in particolare quelli dell'Opera Pia ai 694-702; 716-
718 ; alcuni edifici, in quella zona, riportano
l'inclinazione delle vecchie mura della città,
costituendo una importante testimonianza storica; tra
questi, al civ. 724, fa bella mostra l'ottimo palazzo
Zuccarello per il suo equilibrio architettonico e
volumetrico. Sullo stesso lato della strada si
incontrano le assai economiche case popolari addossate
sull'Opera Pia M.
CHIESA CAPPUCCINI
Guardatela quanto è bella e luminosa!!!Oggi vi ho mostrato
la sua cantoria che avete molto apprezzato, quindi vi mostro adesso l'interno di
questa struttura religiosa meravigliosa e poco conosciuta ,se non dai residenti
del quartiere dei Cappuccini Nuovi!
È la chiesa del Sacro Cuore ai Cappuccini di via
Plebiscito, costruita a fine ottocento per volontà di 3 Cappuccini che vivevano
nella chiesa di Santa Maria della Speranza che sorgeva in piazza Stesicoro al
posto dell'attuale Palazzo della Borsa!
A sinistra un pulpito in legno intarsiato e decorato opera
di un grande maestro Frate Gregorio da Mascalucia tra i tre fautori della
costruzione di questo edificio! Cosa rimane della vecchia chiesa dei Cappuccini
Vecchi?Ho chiesto ,dopo la messa,a Frate Teodoro e mi ha detto che non è rimasto
nulla.....
La precedente chiesa dei Cappuccini Vecchi conservava
opere pregevoli e chissà dove saranno finite ....
Comunque anche questa chiesa conserva belle pale d'altare
,tra cui due opere di Alessandro Abate ed oltretutto qui riposa Fra Liberato
,ovvero l'architetto Palazzotto ,tra gli artefici della ricostruzione della
città distrutta dal terremoto del 1693.
Buonanotte
Giordano Della Valle: Sotto la chiesa o accanto ad essa vi
è una grotta formata dallo scorrimento lavico dell'eruzione dell'Etna del 1693 e
che durante la seconda guerra mondiale veniva utilizzata come ricovero
antiaereo. Vi si accede da via Grotta Magna proprio da i locali che appartengono
ai Cappuccini, però alcuni anni fa, a quel che mi hanno detto, l'ingresso della
grotta è crollato e quindi adesso è inagibile.
|
Magrì, realizzate negli anni '50; attorno al Bastione
degli infetti, il nuovo Ospedale del S. Bambino di
anonimo stile architettonico confinante con la cadente
inutilizzata Chiesa omonima e la moderna sede del Liceo
Spedalieri. Inserimento risultato invasivo perché non
accompagnato da uno studio urbanistico complessivo
dell'intera area, causando rottura di precedenti
equilibri sociali per cui restano ancora oggi, evidenti
le cicatrici urbane dell'iniziativa, scollegata con la
parte bassa della città di epoca (via Crociferi), anche
attraverso la valorizzazione della via Gesuiti.
Ancora sul
lato destro, prima di raggiungere la via S. Maddalena,
superandolo slargo sulla via del Vescovo e la via del S.
Bambino si incontra l'ex Reclusorio della Purità, oggi
sede della scuola Manzoni, subentrata ai locali già
occupati, durante il periodo fascista, dalla Casa della
Gil (Gioventù Italiana del Littorio o casa del Balilla);
il complesso prosegue (a salire) lungo la via S.
Maddalena dove l'ex Chiesa di S. M. della Purità di
futuro utilizzo dell'Università viene individuata dal
civ. 37, complesso, in quella via prospettante con la
Chiesa di S. Maria La Vetere, che va attribuita all'area
dei " Crociferi".
nelle
vicinanze
VANEDDA "CUCCHIARA"
Per i Catanesi Via Carlo Forlanini è sempre stata " 'a
vanedda cucchiara", che - nonostante la sua larghezza
limitata - è una delle arterie più percorse, perché
permette di collegare facilmente Via Plebiscito, Via
Giuseppe Fava e, quindi, Cibali.
Diverse sono le teorie che tentano di spiegare l'origine
di questa curiosa espressione. Secondo alcuni si dice "vanedda
cucchiara" per via della forma che la strada assume
(simile a quella di un cucchiaio, cioè appunto " 'na
cucchiara"); per altri questa espressione dipende dalla
vicinanza con l'Ospedale "V. Emanuele" e quindi dalla
degenza dei malati che ivi erano imboccati col
cucchiaio. Probabilmente l'ipotesi più plausibile è che
nella "vanedda cucchiara" esistesse in passato una
trattoria, che aveva forse per insegna un cucchiaio.
MUNTI PIROCCHIU E PASSAREDDU
Prima
dell'eruzione vulcanica del 1669, fuori le mura di cinta
c'era una piccola borgata, con una chiesetta sulla
collina, ma la colata lavica del 1669 coprì tutto.La
piccola collinetta argillosa, dov'era la chiesetta, fece
da argine alla colata, per cui si formò un accumulo di
lava che si innalzò fino a seppellire tutto il
quartiere, per poi proseguire verso il castello Ursino.
Il
luogo chiamato "munti pirocchiu" si trova in via
Acquicella, vicino piazza Palestro, si tratta di una
storpiatura dialettale della frase "monte parrocchia".
L'accumulo di lava di oltre 40/50 metri sotterrò pure
via Poulet detto: "u passareddu"(piccolo passaggio). Il
quartiere si trovò isolato dalla città, i cittadini si
misero all'opera a suon di picconi creando un piccolo
passaggio, detto "u passareddu". Ancora oggi i catanesi
identificano i due quartieri con questo nomignolo.
(Rocco
Mendola)
STORIA DELL'ISTITUTO PER L'INCREMENTO IPPICO di
via V.Emanuele
Da un
articolo di Iorga Prato pubblicato da Urbanlife
il 2 giugno 2013
Storia di
vigne ,frati e cavalli (di Iorga Prato )
Nel 1635 la
comunità gesuitica di Catania, presente in città
da poco meno di un secolo, iniziò l'acquisto
delle vigne del Sardo,appartenute cento anni
prima a tal Erasmo il quale era il latifondista
del grande feudo a occidente delle mura civiche.
Tale feudo era noto anche come "vigne
dell'Arcora"per via dei ruderi di quel ponte
-acquedotto che i Romani edificarono per portare
in città la leggera acqua di Licodia,e difatti
nel 1640 appare la menzione agli "Archi"che
trovavasi vicino. L'imponente archeggiato romano
(di cui rimangono resti ormai sempre piu
frammentari e per nulla tutelati)apparteneva
all'opera idraulica piu grande mai eretta in
Sicilia, ma le sue dimensioni non parvero
limitare il Senato civico che nel XVI secolo ne
autorizzò l'abbattimento per cavarne materiale
da costruzione per le mura e nel secolo
successivo per ricavare la splendida passeggiata
alla Marina.
Le vigne
presero dal 1566 il nome di Sardo, nome poi
esteso anche all'omonima Porta urbica che si
aprì nel Cinquecento sulle mura aragonesi e
demolita nel 1792 per la realizzazione della
strada del Corso (odierna via V.Emanuele ).
Secondo la
regola gesuitica, una volta a settimana gli
studenti dei collegi erano tenuti ad un giorno
di svago e di pausa dagli studi da effettuarsi
in piena campagna, in modo da "ricrearsi"e la
funzione delle vigne dovette essere inizialmente
questa :si ha notizia di un casolare e di una
cisterna.
Nel 1669
l'imponente fronte lavico scaturito dai Monti
della Ruina (oggi Monti Rossi),presso l'antico
cenobio benedettino ,giunse alle vigne del Sardo
sconvolgendole e inghiottendo gran parte dei
terreni e dei casolari qui situati,comprese le
proprietà gesuitiche.Di queste però dovette
sopravvivere una torre, menzionata per un
restauro avvenuto nel 1749.Non è chiaro in quali
circostanze, ma i Gesuiti riacquistarono parte
dei terreni ormai a sciara, su cui edificarono
alcune "stanze"restaurate nel 1699 dopo che il
sisma di tre anni prima le aveva "vessate".Il
sito non doveva essere tenuto in gran
considerazione dai frati,se solo nel 1720
appaiono le prime notizie per bonifica e
realizzazione di servizi Questo disinteresse si
potrebbe giustificare con l'impegno oneroso che
il ricostruendo Collegio in centro stava in
quegli anni catturando la priorità dei frati.
Pochi anni
più tardi si ha notizia dell'acquisto di altri
terreni, segno di un aumento delle finanze
disponibili e dell'intenzione di ampliare le
"vigne "sulle sciare seicentesche ,forse con
l'intento produttivo, come si evincera 'dalle
prime fabbriche inaugurate nel ventennio
seguente. Infatti dal 1746 al 1765 abbiamo
notizia della costruzione dei corpi di fabbrica
destinati a Casa degli Esercizi Spirituali, ma
già nel 1748 si procede alla costruzione della
cantina e dal 1753 del parlamento.
Nel 1745
inizia l'acquisto del materiale per costruire il
ritiro di cui la prima pietra fu posta l'anno
seguente. In questo ritiro andavano eseguite
meditazioni e contemplazioni individuali o
collettive rivolte ai frati e ai laici.
Nasce quindi
il bisogno di realizzare una serie di ambienti
ospitali dove poter riposare e pregare,viene
edificata la cappella per le preghiere comuni
nel 1751.
L'edificio si
presenta ad angolo retto e si adagia sulla
strada del Corso (detta anche di Sardo)già
tracciata sulle sciare e nella campagna
suburbana. Spicca la lunga galleria con loggia
interna, destinata ad ospitare le celle dei
frati e dei laici durante il loro ritiro
spirituale. Qui una singolarissima balconata del
1763 testimonia il legame ancora forte con il
tardo-barocco,creando una scenografia quasi
teatrale di cui le aperture nei due vani
costituiscono le ritmate quinte,sconvolgendo lo
spettatore mediante una serrata processione di
mensoloni da esterno ,creando una forte
sensazione di straniamento dovuta alla
coesistenza di elementi architettonici
canonicamente di diverse destinazioni. Rende
ancora più sottile il gioco scenografico l'onda
della ghiera metallica che rifluisce nei gigli
di ferro battuto.
Il 1767 è
l'anno della soppressione dell'Ordine e della
cacciata dei Gesuiti dal Regno operata da
Bernardo Tanucci il quale applicò la bolla di
Clemente XIV sui regni di Ferdinando di Borbone.
La Casa degli Esercizi Spirituali venne conclusa
appena due anni prima, costituita dalla casina
dov'erano le camere dei frati, dalla cappella e
dalla sua anticamera, dalla torretta con scala
in legno per l'accesso alla loggia, un camerone,
la camera del rettore, la cucina, un magazzino e
una pagliera, la casa del massaro e diversi
ripostigli e ambienti.
Dal 1777 le
vigne del Sardo vengono lottizzate e come appare
da una planimetria di Ittar del 1833 il
complesso,sebbene conservi un ampio vigneto, è
letteralmente inserito nella maglia urbana tardo
settecentesca e ottocentesca.
Nel 1822 la
casa è sede della Real Gendarmeria, mentre la
grande confisca dei beni patrimoniali
ecclesiastici operata dal nascente Regno
d'Italia ne decreterà l'uso quale "Deposito dei
cavalli stalloni".
Tra la fine
dell'800 e gli inizi del '900 l'edificio vedrà
una serie di pesanti manipolazioni per essere
adattato ad ospitare i cavalli. L'abbassamento
nel 1869 del livello stradale per parificare le
strade comporterà la creazione di un pianterreno
in sostituzione delle fondamenta e la
realizzazione di una lunga rampa per l'accesso
alla galleria originale.
"STALLONE"come viene definito dai catanesi,è il
più grande maneggio al chiuso da Napoli in
giù,oltre a costituire una rarità, essendo una
struttura pienamente urbana. (Iorga Prato )
Negli ultimi
anni diverse associazioni ne hanno tentato il
recupero organizzando persino mostre ma credo
con scarsi risultati
|
Oltrepassata
la sede dell'Archivio Notarile, all'altezza della via
Montevergine, dirimpetto lo slargo di S. Elena e
Costantino si ha, al civ.17, l'Istituto S. Pio IX
attuale sede della Caritas; proseguendo sulla stessa
via, al civ. 7 si riscontra l'interessante testimonianza
di architettura di transizione di una delle famiglie dei
Paternò Castello, anche se infelicemente inserita in un
contesto architettonico ottocentesco, per ritrovarsi nel
risvolto in salita, per la via Gesualdo Clementi, nella
piazzetta dei Miracoli, subito dopo l'Ospedale S. Marta,
dirimpettaio del restaurato Complesso dei Minoritelli
con Chiesa omonima, per rientrare nella parte popolare
del quartiere, all'altezza del Cortile Licciardello e
raggiungere le spalle della piazza Dante. Considerazioni
di sintesi. L'attuale frammentato residuo quartiere
dell'Antico Corso viene individuato, in larga massima,
dai vari nuclei abitativi, alcuni dei quali scollegati
tra di loro perché distanziati dagli interventi
pubblici.
foto Franz Cannizzo
CHIESA SANTA MARIA DELL'IDRIA
Da anni a rischio
crollo con un'impalcatura a sorreggere la struttura ed
il relativo ex-convento con un cantiere aperto da anni e
mai completato ,ma stendiamo un velo pietoso e puntiamo
solo sulle poche notizie storiche.
La chiesa sorge nel
quartiere Antico Corso a due passi da piazza Dante dove
è collocato l'antico monastero benedettino.
Fu eretta per volontà
del vescovo Andrea Riggio nel '700 .Inizialmente fu
usata dall'ordine dei francescani ma con la legge
eversiva del 1866 fu requisita.
Successivamente
ospitò la parrocchia "Immacolata dei Minoritelli "che
dal 1948 sposta la propria sede nell'omonima sede di via
Gesualdo Clementi. Da quel momento la Chiesa S.M.Idria
(nome leggibile su un'incisione )diventa una rettoria
,abbandonata ma ancora attiva fino al risultato odierno
vergognosamente incomprensibile dove ovviamente si fa a
scarica barile sulle responsabilità.
Note e foto di Milena
Palermo per Obiettivo catania
https://www.facebook.com/ObiettivoCatania/
CHIESA DI SAN
GIOVANNI BATTISTA in via Francesco Rancore
Ieri durante la mia
passeggiata alla scoperta di via Plebiscito cercavo
proprio questa chiesetta vista di sfuggita tempo fa.Si
trova in fondo via Rancore che è una stradina vicino
alla chiesa dei Cappuccini. Non indica il suo nome ma
accanto al portale è posta un'epigrafe marmorea datata
2006 da dove comprendo che la Chiesa appartiene alla
Confraternita di San Giovanni .
Nessuna fonte storica
e quindi chiedo ai residenti del quartiere che mi
indirizzano dai Cappuccini. Ebbene parlando con alcune
fedeli della parrocchia dei Cappuccini vengo a sapere
che le due Chiese son collegate perché i Cappuccini
festeggiano annualmente San Giovanni Battista il cui
fercolo è conservato in questa chiesetta di via Rancore
a lui dedicata e che da qui uscirà il 24 giugno per la
grande festa del quartiere presenziata da monsignor
Cristina.
Note e foto di Milena
Palermo per Obiettivo catania
https://www.facebook.com/ObiettivoCatania/
I SEGRETI DELLA STRADA LUNGA OTTANTA PALME
Oggi Via della Concordia inizia dal "Passo
dei ladroni",dove il turista che ci passa non s'ha fimmari mai ...Venne
realizzata nel 1955 sulla spinta del sacerdote Salvatore Pignataro, un parrinu
spertu.
Se chiedete a un catanese nato nel secondo
dopoguerra dove si trova il quartiere della Concordia, lui indicherà il rione
attorno all'omonima via che inizia dalla piazzetta Caduti del Mare di fronte
alla parrocchia Maria SS Assunta e si compenetra con una incerta estensione
geografica con gli agglomerati urbani di S.Cristoforo ,Angeli Custodi, Palestro,
Castello. Nella direzione nord confina con la parte bassa di via Plebiscito,
nella direzione ovest con il cimitero e la stazione ferroviaria di Acquicella,nella
direzione sud con il quartiere di Zia Lisa e a est con via Domenico Tempio. Ma
se voi parlate con i cristiani nati nella prima metà del secolo scorso, quindi
abbastanza anziani, loro di quel quartiere ricordano altri nomi,di quando via
della Concordia si chiamava a strada di 80 palme,che più correttamente doveva
essere chiamata 80 palmi.
Nella mia totale ignoranza del quartiere e
dei rudimenti di costruzione credevo che la sede stradale misurasse proprio 80
palme ,un palmo dopo l'altro, una mano dopo l'altra. Solo di recente ho appreso
con meraviglia alcuni dettagli:la strada che doveva collegare facilmente il
porto e la stazione ferroviaria di Bicocca è nata abbastanza ampia rispetto alle
altre strade. E considerato che un palmo corrisponde tecnicamente a cm 25,80 la
larghezza della strada risulta di metri 20,65;una rarità a quel tempo rispetto
alle altre strade dai 6 agli 8 metri,stritti stritti, appena sufficienti a far
transitare due carri o carrozze che si incontravano.
In effetti il progettista del tempo (1887)del
piano regolatore e di risanamento, Bernardo Gentile Cusa,ne stabilì la larghezza
in metri 16,80 e lunghezza in metri 1450,prevedendo un'ampia piazza tra le vie
De Lorenzo e Cordai che non venne mai realizzata. La strada 80 palme superò
comunque i 20 metri e venne realizzata nel 1955 sulla spinta del sacerdote
Salvatore Pignataro, un parrinu spertu, ma devoto, nativo di Adrano, che da
parroco si rivelò vero catanese e vero operatore di fede e carità in quelle
squallide strade:è in corso la causa di beatificazione.
La via Ottanta Palme inizia dalla piazzetta
del Tondicello della Playa, ca tutti canusciunu come il Passo dei Ladroni ,dove
il turista che ci passa non s'ha fimmari mai, anche se gli dicono che ha una
gomma a terra. A Nord il quartiere va riferito all'ex via Gallazzo ,poi della
Vittoria (di Sant'Agata sulla lava)è oggi via Plebiscito. A Ovest ci sono il
cimitero che i vecchi catanesi chiamano ancora i Tre Cancelli e la ferrovia di
Bicocca, nome derivato da una roccaforte saracena esistente in quei luoghi. A
Sud il quartiere confina con via Acquicella Porto così 'ntisa per la presenza di
un porticello con la funzione della difesa delle barche dei pescatori alla foce
del torrente Acquicella. A est il quartiere della Concordia arriva al Faro
Biscari e alla via Gazometro:ai catanesi piaceva chiamarla così quando
all'altezza della via Cristoforo Colombo (prolungamento della via Domenico
Tempio)installarono il Gazometro.
Un grande quartiere per estensione, ma in
buona parte periferico ,costituito da piccole industrie e grandi magazzini ad
uso depositi ,falegnamerie, stalle e ricoveri di carri e carrozze, alcune
industrie di pelle e suola come quella degli Aleo al civico 58 sulla via
Domenico Tempio da decenni abbandonata.Al di là della via Domenico Tempio, ex
via Gazometro, si incontrava il mare che d'estate veniva goduto dai proprietari
frontisti. A quel tempo il lavaggio dei carretti ,delle carrozze e dei cavalli
veniva utilizzata la parte di mare sotto gli Archi della Marina, perché più
vicina alla città e con il fondo del mare dove si appiricava.
Tornando alla via Ottanta Palme piena di
negozietti di tutti i tipi,siccome la zona era abitata anche da famiglie
povere,la suora catanese Maria Marietta nel 1921 fondò al numero civico 75
l'istituto religioso Madonna della Provvidenza per accogliere ragazzi e ragazze
emarginati. I fanciulli venivano avviati alla scuola pubblica, invece di andare
a lavoro da piccoli,e le fanciulle seguivano corsi per ricamatrici ,stiratrici,occhielliste,
parrucchiere. Allo stesso modo si operava all'istituto Santa Angela Merici di
via Cordai e soprattutto in via delle Salette dove i Salesiani accoglievano i
maschietti, seguiti inizialmente dal fondatore cardinale Dusmet e poi da don
Bonomo.
Un cinema che si chiamava immancabilmente
Concordia venne acquistato una ventina di anni fa dal Comune per fare una
biblioteca di quartiere che tutti continuano a chiamare <<Biblioteca Concordia
>>,
mentre la denominazione assegnata dal
consiglio comunale era quella di <<Biblioteca Alberto Sordi >>.
Non chiedete quindi dove si trova la
Biblioteca Alberto Sordi perché vi risponderanno che è a Roma. -
(Tony Zermo)
CHIESA SANTA MARIA DE "LA
SALETTE"
Una grande targa ne riassume
brevemente la storia:
-Voluta dal Cardinale Dusmet
Costruita dall'Arch.Sciuto Patti
Carmelo nel 1872-74
Distrutta dai bombardamenti del
1943
Ricostruita nel 1945-49:Arch.Raffaele
Leone.
Affidata ai Salesiani nel 1949-
Ma per avere maggiori
informazioni bisogna attingere al Rasà Napoli che la descrive
com'era all'origine:
-Sorge nella via omonima, col
prospetto di pietra calcare quasi completo e rivolto ad oriente.
Esso è, come la chiesa, di elegante architettura gotica su disegno
del catanese prof.Carmelo Sciuto Patti, di cara rimembranza.La
costruzione è stata a spese dei fedeli e con largo contributo di
S.E.il cardinale -arcivescovo palermitano Giuseppe Benedetto Dusmet
tanto venerato dai Catanesi, il quale finì i suoi giorni il 4 aprile
1894.
Questo tempio venne aperto al
culto il 26 aprile 1874 ed il 1°luglio 1897 vi fu fondata una
Congregazione, come rilevasi da una tabella esposta nell'Oratorio
festivo salesiano contiguo allo stesso tempio e per la compra del
quale oratorio sua Eminenza il Card.Nava contribuì L.647.
Appena varcata la soglia della
porta maggiore il visitatore osserva un vestibolo sul quale è la
tribuna destinata alla collocazione di un organo ed illuminata ,oltrechè
da quattro finestre piccole, da un finestrone circolare a foggia di
rosone.
A sinistra di questo vestibolo è
murata una lapide con la seguente epigrafe :
D.O.M. Alla venerata memoria del
Card.Gius.Benedetto Dusmet del titolo di S.Pudenziana Arcivescovo di
Catania che sin dal 1874 la costruzione di questo tempio largamente
sovveniva ed al sacro culto apriva. Nel 1884 il vicino dormitorio
S.Giuseppe a proprie spese erigeva .Nel 1892 il contiguo
orat.festivo salesiano istituiva
|
La
stazione di Catania Acquicella è la seconda stazione
ferroviaria della città di Catania.
È situata
tra il Cimitero monumentale di Catania dal quale è
separata da una delle arterie viarie più importanti e
trafficate della città, la via Zia Lisa, che è l'asse di
ingresso della città per chi proviene da tutte le
direzioni dell'interno della Sicilia e l'area dei
Mercati Generali e dell'Aeroporto di Fontanarossa.
L'edificio principale di stazione è posto ad est dei
binari, lato mare, e si affaccia su di una piazza dalla
quale è possibile raggiungere il porto di Catania e la
Plaia.
La stazione
è la prima ad essere incontrata dai treni che provengono
dalla Stazione di Catania Centrale per le linee
ferroviarie per Siracusa, Caltagirone e Caltanissetta
Xirbi, Agrigento e Palermo. Un tempo molto frequentata
da viaggiatori pendolari oggi ha vista pesantemente
ridurre la sua importanza, a seguito della chiusura
degli importanti impianti ferroviari adiacenti che
davano lavoro a migliaia di lavoratori dell'indotto.
Adiacente alla stazione sul lato est è ancor oggi
visibile il grande impianto dell'Officina Veicoli di
Acquicella in cui venivano effettuate revisioni
integrali e grandi
riparazioni dei rotabili ferroviari e fino ad un certo
periodo anche di automotrici. Dal lato ovest invece sono
visibili i capannoni della Squadra Rialzo delle FS.
Catania
Acquicella venne costruita nell'ambito del programma di
costruzione di ferrovie conseguenti alla costituzione
della Società Vittorio Emanuele e proseguiti con la
Società per le Strade Ferrate della Sicilia, detta anche
Rete Sicula.
Faceva
infatti parte del progetto per connettere mediante la
strada ferrata le aree del siracusano e quelle interne
della Sicilia con il porto di Catania necessario per le
zone zolfifere dell'area centro-orientale dell'Isola e
per il convogliamento dei prodotti agricoli della Piana
di Catania. La stazione venne costruita in prossimità
dell'imbocco della Galleria dell'Acquicella, costruita
per sottopassare la zona sud della città e venne
inaugurata il 1 luglio 1869 in concomitanza con
l'apertura all'esercizio della tratta ferroviaria
Catania-Bicocca di 7.468 metri. Il 1 luglio 1869 era
anche la data in cui la Stazione di Catania Centrale
veniva collegata al fascio binari del porto mediante un
raccordo in discesa lungo 914 metri.
La stazione di Catania Acquicella consiste di un
notevole fabbricato, in austero stile ferroviario con un
corpo unico elevato a due piani posto in prossimità
dell'inizio della galleria dell'Acquicella.
Il fascio
binari comprende un binario di transito e tre binari di
precedenza, di cui tre per servizio viaggiatori. Solo il
primo binario è munito di una pensilina classica con
struttura in ferro e colonne di ghisa. I binari per
servizio merci e di ricovero si trovano sul lato est
della stazione; dallo stesso lato si dipartono i
raccordi per le ormai inattive Officine Grandi
Riparazioni di Acquicella e per l'ormai abbandonato
fascio merci di San Giuseppe la Rena con la carbonaia e
i Mercati generali all'ingrosso. Dalla stazione, in
direzione di Siracusa ha origine il breve tratto a
doppio binario per la successiva Stazione di Catania
Bicocca.
http://it.wikipedia.org/wiki/Stazione_di_Catania_Acquicella
Disse di lui
Alessandro Baricco: "Pietro Anastasi finì per essere il
simbolo vivente di un'intera classe sociale: quella di
chi lasciava a malincuore il meridione per andare a
guadagnarsi da vivere nelle fabbriche del nord."
Pietro Anastasi, soprannominato Petru u tuccu, Pietruzzo
e anche Il Pelè Bianco per la sua grande classe, nasce a
Catania il 7 aprile del 1948, e il suo ruolo era
centravanti.
Lo rese speciale la conquista del Campionato Europeo
1968 con la nazionale italiana, e l'essere ancora oggi
il miglior cannoniere della storia della Juventus in
Coppa Italia (30 reti), oltre al titolo di
capocannoniere (10 reti) nella Coppa delle Fiere
1970-71, unico italiano ad averlo mai vinto e ad ever
segnato l'ultima rete nella storia della competizione.
Pietruzzo inizia la sua carriera giovanissimo in Serie D
con la Massiminiana di Catania, mettendosi in luce nel
suo secondo campionato, il 1965-66, segnando 18 reti.
Fu così
acquistato dal Varese in Serie B, squadra con la quale
conquistò la promozione nella massima serie segnando 6
reti in 37 partite, esordendo in Serie A il 24 settembre
1967 contro la Fiorentina, non ancora ventenne. Nella
prima stagione nel massimo campionato italiano segna 11
reti, 3 delle quali nella vittoria del Varese sulla
Juventus 5-0 del 4 febbraio 1968, che gli valgono la
prima convocazione in azzurro.
Passato poi proprio alla Juventus nell'estate
successiva, per una cifra pari a 6.460.000 Euro attuali
(record del mondo per un trasferimento di un giocatore
dal 1968 al 1973), ne diventò uno dei protagonisti per
tutta la prima metà degli anni settanta, dando un grosso
contributo ai titoli del 1971-72, 1972-73, 1974-75.
Nell'estate
1976, dopo essere stato messo "fuori rosa" dalla squadra
in seguito ad incomprensioni con l'allora allenatore
Carlo Parola, fu ceduto all'Inter nell'affare che portò
Roberto Boninsegna a Torino, ma in nerazzurro dimostrò
segni di precoce invecchiamento, non riuscendo più a
segnare come un tempo. Comunque in nerazzurro riuscì a
vincere una Coppa Italia nel 1978.
Fu così ceduto all'Ascoli nel 1979, squadra nelle cui
file militò in serie A per altre 3 stagioni . Benché il
periodo di maggior splendore per lui fosse già finito,
nel triennio in provincia riuscì ad aggiungere 9
ulteriori segnature al suo "bottino" personale maturato
tra Varese, Juventus ed Inter, togliendosi la
soddisfazione, con 105 reti totali in Serie A, di
entrare tra i grandi cannonieri di sempre. Nella
stagione 1981/82 ha militato nel Lugano in Svizzera.
Dopo le
presenze in Under-21 e nella Nazionale B, esordì con la
Nazionale maggiore l'8 giugno 1968 nella finale europea
contro la Jugoslavia, finita in parità. Nella
ripetizione segna il gol del 2-0, laureandosi così a
pieno titolo campione d'Europa.
Nel 1970 fu incluso nella rosa di giocatori che avrebbe
disputato i mondiali in Messico ma, a causa di uno
sciocco scherzo con un massaggiatore che lo colpì con un
asciugamani bagnato ai genitali, fu costretto ad
operarsi ai testicoli e quindi a saltare i mondiali. Al
suo posto furono convocati due attaccanti, Boninsegna e
Pierino Prati , con conseguente eliminazione dalla rosa
del centrocampista Giovanni Lodetti.
Attualmente è opinionista come ex calciatore di fede
juventina sulle trasmissioni sportive di Telelombardia,
dopo essere stato per diversi anni ospite a "Diretta
Stadio...ed è subito goal " sull'emittente Italia 7 Gold.
(Fonte: Wikipedia)
Ecco un altro esempio di vita dedicata interamente alla
passione per il calcio, un altro esempio che nulla ha in
comune coi spocchiosi giocatori nostrani attualmente
alle luci della ribalta.
di Cristian
Amadei
http://it.paperblog.com/e-lo-rese-speciale-pietro-anastasi-266522/
Dove nacque calcisticamente
Anastasi. Si trovava qui.
Il Faro Biscari
E' chiamato così dal nome del punto in cui
sorge, la sciara Biscari, sul lato ovest
della rotonda della Plaia Progettato
dall'ing. Enrico Maggiulli dell'ufficio
Opere marittime del Genio civile, fu
costruito in sedici mesi di lavoro e
inaugurato il 28 luglio 1951; il precedente
era stato costruito nel 1859 e demolito nel
1948. Era chiamato "Lanterna", sorgeva poco
distante e funzionava a olio combustibile.
Il suo numero progressivo di individuazione
nell'"elenco fari" è il 2796; la sigla che
lo contraddistingue è la E-1828, relativa al
segnalamento internazionale riportata sul
volume List of lights (lista delle luci).
Essa si riferisce, in particolare, alla sua
portata luminosa geografica che è di 28,7
miglia marine come massima e di 16 miglia
marine come minima. L'altezza del faro,
dalla base (4 metri di diametro) al vertice
(2 metri di diametro), è di 32 metri.
All'interno della costruzione conica esiste
una scala a chiocciola, in marmo con
ringhiera in metallo, che conta 101 gradini.
La sua luce, che ha un'altezza media sul
livello del mare di 30 metri e 60
centimetri, è caratterizzata da un lampo
bianco ogni 5 secondi (0,7 secondi di lampo
e 4,3 secondi di eclisse)
Essa è data da una lampada da 1000 watt, a
filamento speciale in tungsteno, alimentata
con energia elettrica (in caso d'emergenza
entra automaticamente in funzione un
impianto elettrogeno) posta all'interno di
quattro lenti prismatiche, incorporate in un
telaio rotante ad orologeria che ha una
carica massima di poco più di quattro ore.
Alla cura e alla custodia del faro
provvedono un reggente e un vice-reggente,
entrambi tecnici dei fari, che abitano con
le rispettive famiglie in una palazzina
limitrofa alla costruzione conica: dipendono
dal comando di "Marifari", che, con sede a
Messina, ha la direzione di tutti i fari
marini esistenti in Sicilia e Calabria.
http://www.sicilie.it/sicilia/Catania_-_Faro_Biscari
La Plaia (anche scritto come Plaja o, più
comunemente, Playa), è il nome del litorale
costiero sabbioso che si estende per 18 km,
nell'area compresa tra il porto di Catania e
la località Agnone Bagni (frazione di
Augusta, in provincia di Siracusa), con una
profondità dell'area sabbiosa che varia tra
alcune centinaia di metri e qualche km. Fino
ai primi anni sessanta la parte adibita ad
uso balneare si arrestava a un centinaio di
metri a sud del Faro Biscari oltre cui vi
era l'ampia zona di rimboschimento costiero
che arrivava fino alla battigia.
|
QUATTRO
ALBERI NELLA STORIA DI CATANIA
Forse non tutti sanno
che quattro alberi fanno parte della storia di
Catania:un carrubbo,un pino,un platano ed una quercia.
Il carrubo da
il nome,CARRUBBA,al
vasto quartiere che si è sviluppato nel dopoguerra tra
Ognina e Cannizzaro. Ha piu' di un secolo e fiorisce
nella scuola di via Scogliera 8, sorta nei decenni
passati al posto di una casa di campagna. Nel 1968 fu
colpito da un fulmine ed incenerito in buona parte,ma i
valenti (allora) giardinieri del Comune di Catania
riuscirono a salvarlo.
Il pino,da cui
prende il nome la contrada PIGNO,si
trovava nella proprietà Pulvirenti, all'estrema
periferia sud-ovest della città,oltre Zia Lisa. Negli
anni '50 dello scorso secolo fu tagliato alla base,ma
germoglio' una nuova pianta che fu abbattuta da una
tromba d'aria nel 1964.Sembra siano rimaste solo le
radici.
Il
platano,detto "ARVULU
ROSSU",appunto perchè un
tempo grande ed ombroso,si trova in via
Dusmet,all'angolo con via Porticello,accanto allo
sperone del palazzo Arcivescovile.E' ultracentenario e
ha dato il nome a quella zona che fu in passato luogo di
duelli rusticani ( ! ) e di incontri della malavita.
Dalla
quercia,abbattuta circa 50 anni fa,ha preso il nome un
quartiere a nord est della città,CERZA,al
confine con il Comune di San Gregorio.
In seguito venne costruita una variante litoranea alla
Strada Statale 114 che prese il nome del presidente
americano John Fitzgerald Kennedy. Di fatto la variante
canalizzò il traffico da e per Siracusa e favorì la
costruzione di un grande e crescente numero di
stabilimenti balneari, di colonie estive cattoliche,
nonché di un camping internazionale e perfino di una
pista di go-kart divenendo, per eccellenza, la meta
balneare e ricreativa più frequentata nel catanese
durante il periodo estivo: con un'affluenza di migliaia
di persone soprattutto locali ma anche delle provincie
limitrofe e turisti.
Oggi la
Playa offre una certa quantità di stabilimenti balneari
(comprendenti però solo tre o quattro spiagge libere),
alcuni villaggi turistici, un acquapark, oltre a due
alberghi, alcuni ristoranti e luoghi di ritrovo (in
particolare discoteche) che si estendono lungo tutto il
litorale. Il problema maggiore di fruibilità tuttavia
rimane l'uso esclusivo delle spiagge ai clienti dei
singoli lidi e delle innumerevoli ville e condomini
costruiti a cavallo degli anni settanta.
Su un'area
di circa 280 km² posta a nord-est delle spiagge, è
presente il Boschetto della Playa, una macchia verde,
frutto di un rimboschimento del periodo fascista (oggi
ecologicamente protetta, dopo un lungo periodo di
degrado ed abbandono), costituita in gran parte da pini
marittimi e parzialmente trasformata in area attrezzata,
che spesso ospita manifestazioni sportive agonistiche ed
amatoriali.
A sud del
litorale, invece, vi è l'area residenziale chiamata
Villaggio Paradiso degli aranci, sede di una miriade di
villette costruite, nella maggioranza dei casi, senza
tener conto dei vincoli territoriali e ambientali della
zona: molte delle abitazioni, di fatti, sono costruite a
pelo d'acqua, ovvero a pochissimi metri dalle coste.
A giudizio di chiunque la visiti, la Playa rappresenta
un'occasione perduta per la città: le sue sabbie dorate
e la bellezza del mare avrebbero potuto trasformare
quest'area in una vera e propria "riviera romagnola"
siciliana. Per questo motivo, sono stati tentati
numerosi interventi di riqualificazione della zona anche
se a macchia di leopardo, ma la precarietà degli stessi,
unita alla scarsa visione d'insieme, non hanno permesso
di ottenere tangibili miglioramenti. I più critici
rilevano che l'acqua è spesso sporca, o che la battigia
si estende troppo in alcuni punti, non permettendo di
nuotare davvero. Nonostante questo, però, la Playa
rimane frequentatissima soprattutto dai catanesi stessi,
di giorno quando affollano i lidi e di notte nelle varie
serate organizzate dalle discoteche.
Stessa spiaggia, stesso mare a... la Plaia
I
catanesi non rinunciano mai alla loro meta balneare
preferita per godersi il relax a costi contenuti
La Sicilia - Domenica 27 Maggio 2012
I catanesi
non rinunciano alla Plaia, come hanno fatto per tanti
decenni i loro padri e i loro nonni. Ogni catanese ha il
ricordo del primo bagno a mare alla Plaia, passeggiando
su una sabbia così dorata come in nessuna parte al
mondo. Anche quest'anno si vuole sfruttare le
potenzialità della nostra terra e del meraviglioso mare
catanese per arginare la crisi e proporre vacanze alla
Plaia alla portata di tutti. La tradizione insegna che
l'idea di prenotare la cabina, nello stabilimento che
verosimilmente si frequenta da anni, non è mai
tramontata e su questa linea i gestori dei 22
stabilimenti balneari aderenti al Cocap, il Consorzio
Catania Plaia, continuano a lavorare a ritmo serrato e
con il consueto entusiasmo, ma alla ricerca costante di
situazioni sempre diverse e gratificanti da mettere a
disposizione della propria clientela.
Alla Plaia si stanno ultimando i lavori di montaggio
delle strutture in prospettiva dell'apertura degli
stabilimenti, prevista per l'1 giugno (la stagione
balneare si chiuderà ufficialmente il 9 settembre).
L'estate è ormai quasi alle porte e si pensa al rilancio
delle attività. La crisi esiste, impossibile negarlo.
Una crisi che inevitabilmente si ripercuote sui bilanci
familiari: si tende dunque a tagliare le spese superflue
e magari anche i costi per le vacanze; per questa
ragione i gestori degli stabilimenti della Plaia hanno
deciso di non aumentare i prezzi e ripresentare le
proprie strutture come villaggi "all inclusive" dove chi
vorrà godere di strutture sportive, discoteca e
animazione potrà farlo senza costi aggiuntivi ed in base
alle proprie possibilità economiche potrà usufruire di
un ampio ventaglio di scelta.
«Le difficoltà in cui si vive oggi derivano per la
maggior parte da un aumento vertiginoso del costo della
vita che non si traduce quasi mai in un aumento
proporzionato delle buste paga - dice Santo Zuccaro,
presidente del Cocap - Proprio per questa ragione
abbiamo mantenuto i prezzi stabili, senza aumenti
immotivati per consentire a tutti un'estate al mare.
Abbiamo voluto mantenere la diversificazione delle
strutture, ognuna con una propria identità, affinché
tutti possano trovare il luogo più adatto alle proprie
esigenze, anche solo di gusto».
Una cabina e un posto sotto l'ombrellone con una serie
di servizi in uno dei lidi balneari della costa catanese
per tre mesi può variare dai 1.200 ai 1.800 euro che è
anche possibile ammortizzare dividendo i tesserini (da
uno ad un massimo di sei) tra famiglie o "invitando" un
amico o un parente ad unirsi al gruppo. Inoltre ci sarà
sempre la possibilità di usufruire di un ingresso
giornaliero che oscilla tra i 2 e i 4 euro, che vanno
dai 5 agli 8 usufruendo di tutti i servizi.
«Gli stabilimenti sono diventati dei piccoli villaggi
dove il cliente può avvalersi di tutte le attrezzature e
di un'animazione continua per tutte le fasce d'età, di
giorno e di notte - ricorda Zuccaro -. Dal 2001 col
Patto territoriale, tutti gli stabilimenti del litorale
si sono ammodernati, sostituendo le vecchie cabine con
strutture più leggere e diventando dei veri e propri
villaggi turistici». La Plaia è anche punto di
riferimento della movida notturna e anche quest'anno
partiranno i progetti che negli anni passati hanno
consolidato il nuovo andamento dei lidi al viale
Kennedy.
«Un'attività che ogni anno viene aggiornata in base alle
esigenze della clientela - aggiunge Zuccaro - inoltre
anche per questa stagione garantiremo la sicurezza dei
clienti in mare con il "Sistema di sorveglianza
integrato" che consente allo stesso tempo la sicurezza
in mare dei bagnati e la tutela dell'ambiente cosa a cui
tutti i titolari degli stabilimenti tengono
particolarmente stimolando sempre l'interesse dei
bagnanti con incentivi e manifestazioni, soprattutto tra
i bambini ma non dimenticando mai di coinvolgere anche
gli adulti».
Alkamar
95121 Catania (CT) - Lungo Mare
Kennedy, 75/A 095 341818
Cled
95121 Catania (CT) - Viale
Kennedy , 53/A 095 346557
Graziella
95121 Catania (CT) - Lungo Mare
Kennedy, 63 095 341961 - 095
7233462
Nettuno
95121
Catania (CT) - Lungo Mare
Kennedy, 39 095 340983
Roma
95121
Catania (CT) - Viale Kennedy, 77
095 346925 o 095 281615
Vacarizos
95100
Catania (CT) - Via Pagaro, 88
095 295664
Venere
95121
Catania (CT) - Lungo Mare
Kennedy, 73 095 341591
Verde
95121
Catania (CT) - Viale Kennedy
Presidente, 33 095 281603
Europa
95121
Catania (CT) - Lungo Mare
Kennedy, 46/47 095 341735
Arcobaleno
95121
Catania (CT) - Viale Kennedy, 19
095 7231072
Le
Palme
95121 Catania (CT) - Viale
Kennedy, 63
The Kings Vacans
95100 Catania (CT) - Contrada
Vaccarizzo 095 295103
Coccoloba Club
V.le Presidente Kennedy 87,
95121 Catania 095 591522
Dome Beach
Viale Kennedy, 85 - Catania Tel.
Tre Gabbiani
Viale Kennedy 57 - 95121
Catania 095 7231591
Souvenir
Viale
Kennedy 71 - 95121 Catania 095
345440
Internazionale
Viale Kennedy 83 - 95121
Catania 095 592102
Tempo
Libero
Viale Kennedy, 93 - Catania
(CT) 095 7357235
Villaggio
Turistico Souvenir
Viale Kennedy, 71 - Catania
(CT) 095 341162
Belvedere
Viale Kennedy, 41 - Catania (CT)
Polifemo
Viale Kennedy 59, Catania 095
346521
Le Capannine
Viale Kennedy, 93 95100 Catania
095 7357235
|
America
95121 Catania (CT) - Lungo Mare
Kennedy, 89 095 591708
Aurora
95121 Catania (CT) - Lungo Mare
Kennedy, 37/A 095 340426
Azzurro
95121 Catania (CT) - Viale
Kennedy, 11 095 349005
Delfino
95121
Catania (CT) - Lungo Mare
Kennedy, 91 095 592652
Etna
95121 Catania (CT) - Lungo Mare
Kennedy, 69 095 341880
Excelsior
95121 Catania (CT) - Lungo Mare
Kennedy, 35 095 341508
Jolly
95121
Catania (CT) - Lungo Mare
Kennedy, 85 095 591730
Niki Village
95121
Catania (CT) - Lungo Mare
Kennedy, 87 095 7357415
Moa
Beach
95121 Catania (CT) - Viale
Kennedy, 7 095 346970
Il Ciclope
95121 Catania (CT) - Lungo Mare
Kennedy, 59/A 095 340155
Centro Balneare Polizia
V. Plaia, 95121 CATANIA (CT)
Tel: 095345701
Centro Balneare Esercito
V.le Presidente Kennedy 23,121
CATANIA (CT) Tel: 095346573
Le Piramidi
Viale Kennedy, 45 - Catania Tel
The Original Cucaracha
Lungo Mare Kennedy, 47 95121
Catania (CT) 095
7232195
Dopolavoro Ferroviario
Viale
Kennedy 21 - 95121 Catania 095
281036
Centro
Balneare Enel
Viale Kennedy 61 - 95121 Catania
095 340326
Patrizia
Viale Kennedy 81 - 95121 Catania Tel.
Villaggio
Turistico Europeo
Viale Kennedy , 91 - Catania
Tel. 095 591026 - 095 592007
Abatros
Viale Kennedy, 45 - Catania (CT)
La Pineta
Viale Kennedy, 71/a - Catania
(CT)
Università
Viale Kennedy Catania
Stella Del Sud
Viale Kennedy 87 Catania 095
591522
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PORTO DI CATANIA - PHOTOGALLERY
Litterio
al Bowling della Plaja
Auh, sig.
La Rosa, ddu zzaurdu di me cucino Affio
l'autru iorno mi dissi: Litterio chiù tardu
ti vegnu a trovu a casa ca ti debbo parlari.
Affio -
ci ho detto io - guarda che io devo
"studiari ppi l'esami". "Ma io ti devo
parlari ppi fozza". "E va bene" - ci dissi -
..."se sto studiando... arrusbigghiami"...
Lui doppo pranzo passò (voce del verbo
passato) e si misi ncurtu (a cimicia) ca mi
vuleva purtari ppi fozza o Bulinghi... Io
cci ho detto: "Affio non cci vogghio venere
prima di tutto picchì soddi non cci n'haiu,
e poi non ci ho stato mai (La Rosa: semmai,
ci sono stato... Litterio: picchì, ci vinni
macari Lei?). "E ppoi non sacclu iucari"...
Iddu
m'arrispunnivu "Non ti preoccupari picchi
mancu iù cci ho stato mai, ma è giustu
pruvari". "Ma soddi non ci ne ho" - ci dissi
iù- "Non ti preoccupare ca te lo offro
io,... pago iù."
Ora, sig.
La Rosa, siccome io non sono un tipo
profitterolo, mi pareva un poco male, ma
iddu insistivu tantu ma proprio tantu ca
alla fine accittai l'invito.
Pattemu
do' paisi cu 'du gran machinuni, a me Fiat
600. A misi a motu, u tempu di cuarialla e
pattemu. Sig.
La Rosa, dda machina è n'saittuni, un
fulimine! Tempu quattru-cinc'uri arrivammu o
posteggiu ddo Bullinghi! Lassai dda gran
machinuna davanti, ci misi i catini di sutta
e di supra u cofanu, e ppi stari cchiu
tranquillu vicinu u stezzu ci misi
a'mmagginetta ca me fotografia cu l'occhi a
pampinedda, unni ci scrissi "ppi ffavuri,
non t'ha futtiri!" Poi ciccai o
posteggiatori, s'avvicinau e ci dissi "Gioia
affezzionato del mio cuore, t'arreuli cchi
ti stai lassannu? E iddu, mi taliau e
m'arrispunnui "cchi fa, a lassa cca o s'ha
pigghia cchiu taddu?" Sig. La Rosa, era
propriu lisciu!
Mhi! Comu
trasemu nta stu bulinghi, sig. La Rosa,
rumore di palli ca arrotolavano annavanti,
in un'altra fascia c'era una specie di saia
con le palle ca turnavano annarreri, palli
'nda l'aria ca calavano girando per tutte le
parti, insomma sig. La Rosa, era tutto un
giramento di palle. Quantu paaalliii, sig.
La Rosa, palli di tutti i colori, palli
dure, ma dure ca si ponu abbiare, sbattiri
comu voli, insomma non su palli che si
possono rompere quelle... picchì ogni palla
aveva tre buchi portusi.
Appena
trasemu, ci fù unu ca pigghia mi chiamau e
mi fa: "scusi le scappe".. "No, guardi non
mi scappa affatto pecchè ho fatto due gocce
precise prima di calari do paisi". Allora
quello mi fa "ma signore vi dovete cambiare
le scarpe, prego!". Sig. La Rosa chista fu a
prima mala comparsa; allora subito mi ho
scusato dicennici "cci deve scusari ma è che
siamo primaioli, voglio dire mai ngignati
per il bulinghi," e ni desunu mparu di
scarpi a l'unu... scarpi a colori, belli,
tipo anni trenta... Cincumila liri!!!!
signor La Rosa, su s'accattari scarpi issi
ddocu ca su boni e costunu picca!.
Appena me
cucinu Affio si livò i scarpi pari ca
scoppiò a guerra chimica, cci fù un curri
curri generali: cu scappau a destra, cu
scappau a sinistra, appunu a telefonare a
chiddi da disinfestazione comunali; oh lu
bestia! Nde peri cci aveva a stampa de
scarpi ca pari ca non si l'ava livato mai.
Inveci,
sig. La Rosa, quannu mi livai i scarpi iù,
ciauru di carnuzza tenira, di neonato, un
profumo ca s'allargaru i pommoni. A
signurina da cassa di prima mi taliavu
ntrigna, mi canciai i scarpi e iemu pi
pigghiari a palla.
Sig. La
Rosa, cormi pigghiai a palla m'accorsi (voce
del verbo accorrere) ca cci aveva dei buchi
portusi, io però non sapevo e non capivo
come ci dovevo nficcari i ita nde purtusa
anche perché i ita su cinque e i purtusa
erunu tri, e perciò mi assuppicchiavunu due
ita e ho accominciato a ncaccari i ita,
insomma vaio ppe tirare, sig. La Rosa, a
palla mi partì annarreri ca cci fu u curri
curri generali, e meno male ca non
n''cagliai a nuddu. In quel momento preciso
ddu zzaurdu di me cucinu Affio ca si aveva
ncaccatu benissimo i ita ndei purtusa và ppi
abbiari (voce del verbo abbaiare) a palla,
partivu e iddu s'accorse ca ci avava
arrestato 'aneddu intra u purtusu...,
pigghia e partivu a peri appressu a palla,
ppi acchiapparla; sciddicavu, cascò nda
pista affianco, a panza sutta, longu longu,
cchi iammi aperti mentri arrivava una Palla
ca pareva na cannonata, u ncagghiau ndegli
organi genitori sottostanti e u trascinau
nsino ndei birilli, fici STRIKE, su risucavu
nda machina e dal quel mumento non si hanno
notizie.
lo, sig.
La Rosa, ca circava di nficcarici i cinque
ita nde tri pirtusa pensai "ma non cridu ca
cci su palli cu cinque pirtusa" perciò lassu
na palla e vaiu pi pigghiarini un'altra; a
quel momento preciso luvanu a luci, picchì a
una certa ora ndo Bulinghi abbassano i luci
picchi comincia il disco-bulinghi, perciò al
buio c'era un cretino assittato vicinu unni
arrivano i palli... chistu era un metro e
deci, completamenti tignusu. Sig. La Rosa,
'cu ddu scuru scanciai a so testa ppa palla
ci inficcai un jtu nda ucca e dui ndo nasu e
accuminciai a tirari deciso; mi movevo
tutto, bello ccu na bella sciolta, picchì
lei u sapi che di corpo vado bene. Doppu dda
mala cumparsa di Affio mi volevo dare un
convegno di chiddu ca cci a fa troppu forti,
così acchiappu a chistu, u tirai nda pista e
ho fatto Strike!!! e mi desunu... venti
punti a mia e deci a iddu... nda testa!
Nel Bulinghi successi il parapiglia e il
bello è ca non ci posso entrare più picchì
all'entrata ci misunu a foto di mia e di du
zaurdu di me cucinu e c'è scritto "Attenti a
quei due".
Mangeremo ancora spaghetti con le telline?
Spaghetti con telline e cannolicchi addio:
dal primo giugno rischiano di sparire dalle
tavole degli italiani per effetto
dell'entrata in vigore del regolamento
Mediterraneo dell'Unione Europea che detta
nuove regole destinate ad avere un "impatto
sulla pesca e sulla tradizione
enogastronomica nazionale". A lanciare
l'allarme è la Coldiretti che chiede una
deroga all'entrata in vigore delle nuove
norme. Il regolamento mediterraneo, spiega
in una nota la Coldiretti, fissa nuove
distanze per la pesca dalla costa a non meno
di 1,5 miglia per le reti gettate sotto
costa, che diventano 0,3 per le draghe usate
per la cattura dei bivalvi, "impedendo di
fatto la raccolta di telline e cannolicchi".
"Con l'arrivo dell'estate - sottolinea la
Coldiretti - non sarà più possibile gustare
piatti come gli spaghetti con le telline o i
cannolicchi se non interverrà al più presto
la deroga richiesta. Le nuove norme non solo
rischiano di provocare una brusca caduta di
reddito per la pesca italiana ma anche di
aumentare la dipendenza dell'Italia
dall'estero da dove già arriva il 60% del
pesce consumato a livello nazionale",
afferma Coldiretti.
Il Boschetto
Su un'area di circa 280 Km² posta a nord-est
delle spiagge catanesi, è presente il
Boschetto della Playa, una macchia verde,
frutto di un rimboschimento del periodo tra
le due guerre mondiali, (oggi ecologicamente
protetta, dopo un lungo periodo di degrado
ed abbandono).
Il boschetto è costituito in gran parte da
pini marittimi ed negli ultimi anni è stato
trasformato in una vera area attrezzata, che
oltre ad essere luogo di relax e meta di
molti siciliani per trascorrere giornate
intere a contatto con la natura, spesso
ospita manifestazioni sportive agonistiche
ed amatoriali.
Raggiungere il boschetto della Playa è molto
semplice, in soli 15 minuti con il bus
urbano, partendo dalla stazione,
dall’aeroporto o dal centro storico di
Catania.
|
LIBRINO
Librino (Libbrìnu in siciliano) è un
quartiere periferico a sud ovest della città
di Catania, progettato intorno alla metà
degli anni sessanta come città satellite
modello. La progettazione venne affidata al
famoso architetto giapponese Kenzo Tange.
Attualmente conta circa 80.000 abitanti
(librinesi o librinoti).
L'area in cui sorge il quartiere nelle
antiche carte topografiche aveva il nome di
Lebrino: il toponimo deriva dall'aggettivo
latino leporinus (cioè "della lepre"). Il
termine sostantivato leporinum è un evidente
zootoponimo e costituisce una variante di
leporarium o leporium, che identificava,
nell'antica Roma, un "luogo dove abbondavano
stanzialmente o venivano allevate le lepri
in cattività a scopo venatorio". A
tutt'oggi, infatti, nonostante l'abbondante
urbanizzazione, vi sono presenti conigli
selvatici e lepri.
La progettazione del quartiere fu prevista
dal Piano Regolatore Generale di Luigi
Piccinato, adottato nel 1964 e approvato nel
1969. Il progetto originale prevedeva
l'accoglienza di circa 60.000 abitanti in un
sistema moderno costituito da grossi anelli
delimitati da larghe strade ed isole
alberate, nonché strutture sociali,
scolastiche, religiose ed amministrative
tali da renderlo perfettamente autonomo
dalla città.
Nel 1970, in esecuzione del decreto
dell'Assessorato Regionale allo Sviluppo
Economico, il Comune di Catania affidò al
gruppo Kenzo Tange e Urtec di Tokyo la
redazione di un piano particolareggiato e
all'Italstat l'effettuazione degli studi
preliminari. Il progetto di Tange fu
consegnato nel 1972 e reso esecutivo come
Piano di Zona nel 1976. Esso prevedeva anche
la realizzazione di alcune lingue di verde,
specificatamente dedicate ai vari gruppi di
stabili abitativi e di un vasto parco di 31
ettari, un'area, dunque, di dimensioni tali
da diventare meta di gite fuori porta per i
cittadini catanesi. Librino, insomma, era
stata pensata fin dall'inizio come una sorta
di new town, collegata al centro da un asse
viario. Il risultato fu ampiamente
inespresso.
I primi problemi nacquero
quando ci si accorse, in ritardo, che la
zona prescelta risentiva del grosso problema
del forte inquinamento acustico prodotto
dall'andirivieni degli aerei che decollavano
ed atterravano nel prospiciente Aeroporto di
Catania-Fontanarossa; inoltre, da un punto
di vista climatico e ambientale, la zona non
era molto amata dai catanesi, essendo
lontana dall'Etna. È evidente che non si
poteva pensare ad un insediamento abitativo
di pregio e di livello elevato, tanto che il
quartiere modello finì per degradarsi ad
insediamento di case popolari e cooperative
edilizie. A ridosso della zona, inoltre, a
partire dai primi anni settanta, si era
sviluppata la costruzione di case abusive ai
margini dei quartieri Fossa della Creta e
San Giorgio, ambedue confinanti con Librino.
Il progetto venne quindi disatteso in
diversi punti, fino ad essere completamente
stravolto. Inizialmente fu necessaria una
variante progettuale, poiché l'altezza di
alcune torri previste non era compatibile
con il corridoio di discesa di sicurezza
degli aeromobili nell'attiguo aeroporto di
Fontanarossa. In seguito, le varianti
divennero una prassi; proseguiva la
massiccia edificazione abusiva e la cattiva
gestione del territorio da parte delle
amministrazioni locali.
Dopo decenni di abbandono e degrado dei pur
moderni edifici e delle strutture
urbanistiche del quartiere, negli ultimi
anni c'è stata un'inversione di tendenza che
ha portato un relativo miglioramento della
viabilità e dei collegamenti con il centro
cittadino. All'interno del quartiere si
distinguono alcune cooperative edilizie
decisamente ribelli al fatto che Librino sia
ritenuto sinonimo di delinquenza e
sporcizia.
Il quartiere, nel corso del tempo è divenuto
tristemente simbolo di criminalità
(inferiore per intensità solo al quartiere
di San Cristoforo), organizzata e non, che
raggiunge l'apice nel "Palazzo di Cemento",
vero e proprio covo della criminalità
organizzata del quartiere, nonché centro dei
principali atti criminosi (spaccio di droga,
omicidi, traffico illegale di armi,
ricettazione).
http://it.wikipedia.org/wiki/Librino
S.
GIUSEPPE LA RENA - GORETTI - ZIA LISA. La
Municipalità San Giuseppe la Rena copre
l’intera periferia meridionale di Catania
riunendo parti del territorio con
caratteristiche assai diverse le une dalle
altre, ma che presentano un aspetto comune:
a fronte di una funzione residenziale
complessivamente secondaria, la Municipalità
è sede di grandi attrezzature di interesse
cittadino, ma anche metropolitano o
regionale, e della grande area industriale
di Pantano d’Arci; qui, infine, si trova
l’unica parte del territorio catanese che
mantiene ancora caratteristiche naturali di
rilievo sottoposte a tutela.
Il territorio della Municipalità ha inizio,
a nord, dalla via Acquicella Porto che
rappresenta il vero confine meridionale
della città "compatta". Qui ricade anche il
grande Cimitero e le due grandi aree
residenziali pubbliche di Villaggio
Sant’Agata e Zia Lisa che rappresentano,
insieme al villaggio Santa Maria Goretti, il
grande contenitore residenziale della
Municipalità. La storia dell’urbanizzazione
della periferia meridionale di Catania è
abbastanza recente. Nel 1854 era stato
approvato un piano d’ampliamento che aveva
regolato l’edificazione a sud della città,
con le modifiche apportate nel 1867, fino al
piano di B. Gentile Cusa del 1888. Nel
decennio successivo A. Zeno e G. Fiocca,
quest’ultimo progettista del porto, avevano
proposto alcuni interventi di sistemazione
del litorale meridionale.
Ma sostanzialmente, con le scelte operate da
Gentile, l’area meridionale della città
veniva confermata come espansione da
destinare alla realizzazione dei quartieri
per le fasce più deboli della popolazione.
Il confine stabilito da Gentile Cusa è
proprio l’attuale via Acquicella Porto. Al
tempo stesso l’ubicazione del Cimitero
creava la prima grande attrezzatura pubblica
in questo versante. Dopo il fallito
tentativo di dotare la città di un Piano
regolatore, è nel 1934, con l’elaborazione
del Programma di fabbricazione, che il
destino della periferia sud viene
definitivamente segnato.
Il piano prevede un’ampia "zona ferroviaria
e mercati generali" tra il "molo di
Mezzogiorno" e l’attuale via A. Vespucci,
compresa l’area attualmente occupata dal
mercato ortofrutticolo; una zona industriale
tra la strada ferrata e il boschetto della
Plaja; l’area destinata a verde del
boschetto ed una zona di edilizia estensiva
a Zia Lisa, quest’ultima separata dal
cimitero e dalla zona industriale per mezzo
di aree destinate a orti e giardini. La
scelta urbanistica non differiva molto da
quella contenuta nel piano di Piccinato,
Guidi e Marletta; piano che era stato tra i
due vincitori del concorso del 1931. Qui,
alla zona destinata alla ferrovia e ai
mercati era stata destinata una superficie
inferiore, a tutto vantaggio del verde
pubblico per lo sport (il boschetto della
Plaja) in cui era anche previsto il tiro a
segno. Più ridotta era stata anche la
superficie destinata a "zona
agricolo-artigiana"; mentre una zona
destinata ad edilizia economica e popolare
era stata prevista vicino la fossa Fontana
Rossa.
Nel 1951 il Comune decideva di riperimetrare
la zona industriale inglobando in essa ben
130 ettari, in parte paludosi, chiamati
Pantano d’Arci, e, dunque, ricchissimi
d’acqua, compresi tra il Simeto, l’aeroporto
e il Cimitero. Il Piano regolatore del 1954,
mai approvato dalla Regione, confermava per
la periferia sud di Catania la scelta degli
insediamenti produttivi e dei mercati
generali che potevano utilizzare la vicina
stazione ferroviaria di Acquicella. Due anni
dopo veniva approvato un piano per
l’insediamento delle attività produttive che
distingueva i lotti in funzione del numero
di addetti (fino a 50; fino a 500; oltre
500), destinava una parte dell’area ad
attività artigianali e commerciali,
prevedeva l’ampliamento delle aree
ferroviarie e le necessarie attrezzature
pubbliche. Nel 1963 veniva istituito il
Consorzio ASI. Negli anni successivi, fino
all’anno 1967 in cui venne approvato il
nuovo piano ASI, l’estensione dell’area
destinata ad usi industriale è
progressivamente cresciuta fino a divenire
di circa 1900 ettari, e con questa
estensione è stato recepito nel PRG
Piccinato del 1969.
foto di Francesco Tomarchio
Oggi, trent’anni dopo il PRG, gran parte
delle infrastrutture è realizzata, sebbene
solo nel corso dello scorso anno è entrato
in funzione il depuratore. Eppure, come ha
riscontrato F. Martinico, il tasso di
utilizzazione delle aree e di circa il 60%.
Paradossalmente, in prossimità della grande
zona industriale di Pantano d’Arci si
trovano alcune delle aree più pregiate dal
punto di vista naturalistico dell’intera
Sicilia orientale, e soprattutto quella
grande area della Plaja destinata fin dagli
anni Trenta a scopi ricreativi e balneari. I
lidi, presenti fin da prima della seconda
guerra mondiale, si susseguono lungo viale
Kennedy fino a ben oltre l’aeroporto di
Fontanarossa. Tra il viale e il boschetto
sono state create, nel tempo, una serie di
attrezzature ricreative: l’ente fiera,
l’albergo della gioventù, la piscina
comunale, che si interrompono in
corrispondenza del poligono militare. Più a
sud è la Foce del Simeto, estuario del più
grande fiume della Sicilia orientale, che,
in parte per la distanza dal centro
cittadino, in parte per la presenza di
acquitrini, è rimasta a lungo fuori dagli
interessi edificatori e speculativi, è
utilizzata, quasi esclusivamente, come
riserva di caccia.
Nel piano Piccinato veniva individuata,
peraltro, una zona di vincolo assoluto
proprio in prossimità del vecchio estuario;
zona che a seguito degli interventi di
bonifica, rettificazione e cementificazione
dell’alveo del fiume e dei suoi affluenti,
era stato abbandonato. Tuttavia, a partire
dall’inizio degli anni Settanta, il ritardo
con cui si dava attuazione al piano
regolatore, diventa causa di un lento, ma
inarrestabile, processo di violazione
dell’area della Foce del Simeto per mezzo di
insediamenti residenziali abusivi
concentrati sul litorale e realizzati
perfino sulle aree demaniali. Si tratta in
generale di lottizzazioni abusive destinate
a seconde e terze case, e solo in piccola
parte utilizzate come abitazioni permanenti.
Gli edifici ammontano ad alcune migliaia e
investono una superficie di circa 1500
ettari in gran parte interna al perimetro
della Riserva Naturale Orientata istituita
nel 1984 per proteggere l’area, ed in
particolare la flora e la fauna che vi si
trovano.
Al danno ambientale e paesaggistico si è
aggiunta la sottrazione sistematica all’uso
pubblico del litorale, spesso recintato. Per
quanto riguarda gli insediamenti
residenziali legali, la gran parte origina
dai tre grandi interventi di edilizia
residenziale pubblica che risalgono a
diverse fasi della urbanizzazione della
periferia sud. Il più antico è il villaggio
S. Maria Goretti realizzato dall’Ente
Siciliano Case Lavoratori e dall’UNRRA-Casa
per ospitare 1400 abitanti rimasti senza
tetto dopo l’alluvione del 1951. Si tratta
di un villaggio con caratteristiche da
"Strapaese" in cui le uniche attrezzature
pubbliche sono costituite da una scuola
elementare, una chiesa e qualche piccola
attività commerciale. Immediatamente a
ridosso del villaggio esiste il campo di
rugby. Pochi anni dopo, tra la fine degli
anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta,
veniva realizzato dall’IACP il Villaggio S.
Agata, chiamato anche Zia Lisa I, che,
sviluppatosi sulla base di due progetti
diversi, ospita poco meno di 10.000
abitanti.
La logica diversa che presiede ai due
progetti è causa di alcune incoerenze
proprio nella struttura urbana. Così nella
parte nordoccidentale sono presenti lunghe
stecche di case in linea, mentre a sud venne
impostato uno schema a corte che non si
potrà completare per i limiti imposti dal
PRG. La viabilità non fu studiata
attentamente in relazione all’andamento
orografico del terreno e per questo è
rimasta incompleta. Le aree destinate alle
attrezzature sono di proprietà pubblica, ma
la gran parte e in stato di abbandono. Circa
dieci anni dopo è stato realizzato, non
molto distante da Villaggio S. Agata, Zia
Lisa II su progetto di M. Coppa destinato ad
ospitare un totale di oltre 3.200 abitanti.
Si tratta di un villaggio che occupa oltre
14 ettari di superficie, e nel quale in una
prima fase non erano previste attrezzature
pubbliche.
Nel 1969 è stato inglobato in un piano di
zona che ne avrebbe dovuto consentire la
realizzazione, e che invece ha condotto solo
al completamento del programma costruttivo
che verrà. ultimato nel 1975. Ma la decima
Municipalità è quella in cui ha sede la vera
porta della Catania del XXI secolo:
l’aeroporto Filippo Eredia, "Fontanarossa".
Benché esistesse fin dal 1924, in realtà
l’areoporto rimane a lungo poco più che una
pista di atterraggio, fino alla seconda
guerra mondiale allorché venne potenziato
per le esigenze belliche. In fase di
approvazione del PRG di Piccinato del 1969,
la Regione si espresse per una
rilocalizzazione dell’aerostazione perché
troppo vicina alla città e incuneata tra la
zona industriale e il centro cittadino.
L’attuale struttura fu realizzata sulla base
di un progetto di Morandi risalente agli
anni ’60, e venne inaugurata all’inizio
degli anni ’80.
Contributo editoriale tratto dal volume :
"Catania - I quartieri nella metropoli" a
cura di Renato D'Amico - ed. Le Nove Muse
http://www.comune.catania.it/la_citt%C3%A0/municipalit%C3%A0/s._g._la_rena_zia_lisa/Il_Tessuto_Urbano.aspx
"Catania intitoli a Paolone lo stadio di
rugby 'Goretti'"
24 gennaio 2012 - Intitolare lo stadio di
rugby di Santa Maria Goretti all’ex
parlamentare di An Benito Paolone, morto
ieri a Catania all’eta’ di 78 anni.
Questa la richiesta che il presidente della
VII Commissione Sport Manlio Messina (PdL)
avanza all’Amministrazione comunale del
capoluogo etneo.
“Il rugby catanese – afferma in una nota
Messina – e’ inscindibilmente legato alla
straordinaria figura di Benito Paolone che,
oltre a un grande uomo politico, e’ stato
anche un vero e appassionato uomo di sport
fondando negli anni ’60 l’Amatori Catania
Rugby, di cui è stato giocatore e
presidente”.
“Con l’Amatori, sua creatura prediletta,
Paolone ha svolto per Catania un ruolo non
solo sportivo – aggiunge Messina – ma
soprattutto sociale, riuscendo a ‘salvare’
molti giovani dei quartieri difficili della
città educandoli alla disciplina e alla
lealta’ del rugby. Per tutti questi motivi –
conclude – ritengo che sia doveroso per la
citta’ di Catania onorare la figura di
Benito Paolone dedicandogli lo stadio della
sua Amatori”.
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L'Aeroporto di Catania
(IATA: CTA, ICAO: LICC) è, al 2010, il sesto
aeroporto d'Italia per traffico passeggeri
ed il primo del Mezzogiorno.
Il 5 maggio 2007, alla presenza del Ministro
dei Trasporti Alessandro Bianchi, è stata
inaugurata la nuova aerostazione intitolata
a Vincenzo Bellini, nella quale si potrà
accogliere, con elevati standard di qualità
di servizio, il crescente incremento del
traffico aereo che le previsioni prospettano
per lo scalo etneo. Il vecchio terminale
"Filippo Eredia" è rimasto in funzione fino
alla sera del 7 maggio 2007, in concomitanza
con l'apertura al pubblico del nuovo
terminal (all'alba dell'8 maggio 2007).
Informazioni generali
È il principale aeroporto della Sicilia e il
primo del Mezzogiorno ed uno dei maggiori
fra quelli italiani. Il traffico è in
continua espansione, con numerosi voli di
linea e charter favoriti dalla posizione
geografica, dalle condizioni climatiche e
dai collegamenti stradali e marittimi.
L'aeroporto sopporta un notevolissimo
traffico nazionale ma anche diversi
collegamenti di medio raggio con importanti
mete europee e, ultimamente, anche
extraeuropee (come Capo Verde, Dubai e Tel
Aviv). L'aerostazione è, inoltre, base
logistica della compagnia aerea catanese
Wind Jet e charter Mistral Air.
Vista l'inadeguatezza del precedente
impianto, progettato negli anni settanta per
accogliere un traffico massimo di un milione
di passeggeri annui, negli scorsi anni è
stata realizzata a fianco una nuova e più
grande aerostazione. È stata, inoltre,
ampliata l'area di sosta per i velivoli e
realizzata una nuova via di rullaggio che
collega il piazzale di sosta aeromobili con
la testata pista 08. La consegna dei lavori
del nuovo impianto e delle opere connesse è
avvenuta il 21 dicembre 2006, con quasi due
anni di ritardo rispetto a quanto
inizialmente previsto (inverno 2005) ed è
stato aperto al pubblico l'8 maggio 2007.
Lo scalo è soggetto talvolta a limitazioni
operative o temporanee chiusure a causa
delle ceneri vulcaniche che possono invadere
lo spazio aereo e le piste durante le
eruzioni dell'Etna obbligando, per motivi di
sicurezza, a dirottare i voli nel vicino
aeroporto di Palermo. A tale scopo, il
Dipartimento della Protezione Civile nel
gennaio 2010 ha installato nei pressi
dell'aeroporto un innovativo radar in banda
X in doppia polarizzazione per il
monitoraggio delle nubi di cenere vulcanica
emesse dall’Etna e supportare le autorità
preposte alla regolamentazione e al
controllo del traffico aereo. A seguito dei
successi ottenuti in fase di
sperimentazione, uno strumento identico è
stato inviato alle autorità islandesi in
occasione dell’eruzione del vulcano
Eyjafjallajokull nell’aprile del 2010 per
dare supporto all’ Icelandic Meteorological
Office[4].
Altri operatori basati sullo scalo
12º Nucleo Elicotteri Carabinieri - Sezione
Aerea Guardia di Finanza - Nucleo Elicotteri
Vigili del Fuoco - Servizio Aereo Corpo
Capitanerie di Porto/Guardia costiera -
Aeroclub di Catania "Pino Tosto".
In prossimità dell'aeroporto si trova la
base elicotteri della Marina Militare di
Catania-Fontanarossa "Mario Calderara".
Storia
L'aerostazione civile venne
ufficialmente inaugurata nel maggio 1924 e
dedicata all'illustre meteorologo Filippo
Eredia.
Il 5 maggio 1947 atterrò il volo inaugurale
delle Linee Aeree Italiane Internazionali
(che poi diverrà Alitalia) proveniente da
Torino (aeroporto di Collegno). Alle fine
degli anni '40 il governo stanziò diversi
fondi per la costruzione di un'aerostazione
più grande, che venne quindi realizzata ed
inaugurata dal ministro Mario Scelba nel
1950. Tuttavia il traffico passeggeri stentò
fino a tutti gli anni cinquanta.
Nel 1962, parte proprio dall'aeroporto di
Catania il Morane-Saulnier MS.760 Paris per
l'ultimo viaggio del fondatore e presidente
dell'Eni Enrico Mattei, che si concluderà
tragicamente a seguito di un attentato nei
pressi di Bascapè a pochi km dallo scalo di
Linate.
Negli anni sessanta si ebbe un notevole
incremento dei viaggiatori, che già nel 1966
superarono quota 260.000. Questo rese
l'infrastruttura nuovamente inadeguata e la
pista si rivelò troppo corta per aerei
sempre più grandi e veloci. Negli anni
settanta, con un traffico passeggeri in
continuo aumento (500.000 in media) si
realizzò una nuova aerostazione unitamente
alla torre di controllo, scalo merci,
caserma dei vigili del fuoco e un
allungamento della pista su progetto
dell'architetto Manfredi Nicoletti.
IERI |
OGGI |
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L'impianto, inaugurato il 5 agosto 1981 per
una capacità di 800.000 passeggeri annui,
risultò ben presto inadeguato ai nuovi
sorprendenti tassi di crescita del traffico
passeggeri ed aeromobili. All'inizio del XXI
secolo, quindi, si dedicò tutta la vecchia
struttura alle sole partenze realizzando,
contestualmente, un piccolo terminal arrivi
a fianco. Successivamente si è provveduto
alla realizzazione di un nuovo terminal di
44.460 m² (di cui oltre 20.000 a
disposizione del pubblico), articolato su
due livelli (arrivi e partenze), dotato di
sei pontili d'imbarco (loading bridges),
venti gate d'imbarco ed una torre alta circa
30 metri (destinata ad accogliere uffici ed
un ristorante panoramico). Tale struttura
può assorbire un traffico annuo di circa
6.500.000 passeggeri.
Il 5 maggio 2007 l'aerostazione è stata
intitolata a Vincenzo Bellini. La scelta ha
fatto discutere, in quanto molti avrebbero
voluto che l'aeroporto fosse intitolato ad
Angelo D'Arrigo[senza fonte], aviatore
originario di Catania, autore di numerosi
record del mondo, quali il volo sopra
l'Everest in deltaplano e molti altri.
Importanti opere sono state realizzate
sull'air-side. La nuova via di rullaggio per
la testata pista 08 (in uso dal 2006) ha
elevato la capacità oraria a 16 movimenti.
Nel gennaio 2007 sono stati aggiudicati i
lavori per la realizzazione di una nuova via
di rullaggio (che collegherà il piazzale di
sosta aeromobili alla testata della pista
26) e di una bretella che consentirà agli
aeromobili in atterraggio di liberare
rapidamente la pista 08 elevandone la
capacità oraria a 23 movimenti. Questo
raccordo è stato ultimato ed è diventato
operativo dal 15 gennaio 2009. È stato anche
realizzato un primo ampliamento del piazzale
di sosta, portato a 166.000 m², con una
capacità di 26 aeromobili in configurazione
standard. Il 26 aprile 2007, l'ENAV ha
chiuso la gara a procedura ristretta
relativa all'installazione di un sentiero di
avvicinamento luminoso CAT I per la pista 08
e di uno semplificato (SALS) per la pista 26
(quest'ultimo in fase d'installazione).
http://it.wikipedia.org/wiki/Aeroporto_di_Catania-Fontanarossa
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L'AMICO DELLE AQUILE
E' stato il primo uomo a percorrere in volo
libero, senza ausilio di motore, il Sahara,
ad attraversare la Siberia e ultimamente a
sorvolare la montagna più alta della terra:
l'Everest.
Un'incredibile esperienza umana, in luoghi
ostili e spesso inesplorati che lo hanno
visto protagonista di eventi straordinari
dai quali sono stati tratti diversi
documentari.
Questo misto di sport, avventura, scienza e
tecnologia hanno reso possibile il sogno
dell'uomo che, dai tempi di Icaro fino a
quelli di Leonardo da Vinci, ha sempre
sognato di volare come gli uccelli
Una petizione per intitolare l'aeroporto di
Catania a Angelo D'Arrigo"
Il sito ufficiale di Angelo D'Arrigo, sta
avanzando la proposta di intitolare proprio
a lui il nome dell'aeroporto di Catania.
Per contribuire alla divulgazione di questa
notizie è partito un giro di e mail che sta
mobilitando milioni di persone con un
passaparola internazionale.
Affinché la proposta venga accettata, è
necessario inviare un messaggio email con la
scritta EMAIL Aeroporto
di Catania "Angelo D'Arrigo"
ai seguenti indirizzi di posta elettronica
ENAC Catania :aero.catania@enac.rupa.it SAC
Catania: info@aeroporto.catania.it Comune
di Catania:ufficio.stampa@comune.catania.it Ministero
dei Trasporti: urplp@infrastrutturetrasporti.it e
per conoscenza (Cc): aeroporto@omnilog.info
|
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PARROCCHIE
S. CRISTOFORO ALLE SCIARE Via Plebiscito 353
- 95124 Catania (CT) tel: 095 340715
S.AGATA LE SCIARE- Via V. Emanuele, 406 -
95124 Catania (CT) tel: 095 313684
CAPPUCCINI NUOVI Via S. Maria Della Catena 2
- 95124 Catania (CT) tel: 095 455666
S.LUCIA AL FORTINO Via Gismondo 26 - 95122
Catania tel: 095 201641
S. CUORE DI GESU' AL FORTINO Piazza Palestro
- 95122 Catania (CT) tel: 095 454107
S. LEONE VESCOVO Via San Leone 1 - 95122
Catania (CT) tel: 095 203647
S. MARIA DELLA SALETTE Via Santa Maria Delle
Salette 116 - 95121 Catania (CT) tel: 095
341479
S. T. DEL BAMBIN GESU' Corso Indipendenza
146 - 95122 Catania (CT) tel: 095 203647
SS. ANGELI CUSTODI Via Sant'Angelo Custode -
95121 Catania (CT) tel: 095 345072
SS. COSMA E DAMIANO Piazza Nicolo'
Machiavelli - 95124 Catania (CT) tel: 095
7159062
S. MARIA DELL'AIUTO Via S. M. Dell'Aiuto, 80
- Catania - tel: 095 345344
NATIVITA' DEL SIGNORE Piazza
S.M.Ausiliatrice 1 - 95123 Catania (CT) tel:
095 363144
S. CROCE Vill.S.
Agata Zona B - Catania - 095 456603
S. M. GORETTI Via Dell'Iris 5 - 95121 Nesima
(CT) tel: 095 577224
BEATA V. M.ALLA PLAIA Piazza Caduti Del Mare
- 95121 Catania (CT) tel: 095 340222
MADONNA DEL DIVINO AMORE Villaggio Zia Lisa
- 95121 Catania (CT) tel: 095 577157
BEATO PADRE PIO Stradale Cardinale 31 -
95121 Catania (CT) tel: 095 205751
S. CHIARA IN LIBRINO Viale Moncada 17 -
95121 Catania (CT) tel: 095 203647
S. GIUSEPPE LA RENA Via San Giuseppe La Rena
116/B - 95121 Catania (CT) tel: 095 341889
DOMENICO SAVIO Stradale San Giorgio 5 -
95121 Nesima (CT) tel:
095 457561
S. MARIA DEL ROSARIO IN NESIMA Via Monte Po
33 - 95122 Catania (CT) tel: 095 475392
S. PIO X IN NESIMA SUPERIORE Piazza San Pio
X - 95122 Catania tel: 095 474339
S. MARIA DEL ROSARIO Via Pavarotti - 95122
Catania (CT) tel: 095 2475392
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FARMACIE
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AI
CAPPUCCINI V. Del Plebiscito, 534
095-454466
-
BELLOMO
CARMELA L. V. Garibaldi, 24 095-341356
-
CARBONE
FRANCESCO V. Garibaldi, 376 095-454545
-
CUTELLI
V. Vittorio Emanuele II, 54 095-531400
-
DE
GAETANI ANTONIO V. Vittorio Emanuele II,
114 095-326962
-
DEL C.so
V. Carlo Felice Gambino, 56 095-327466
-
DUSMET V.
Vittorio Emanuele II, 248 095-7150612
-
FARANDA
NUNZIA C.so Indipendenza, 255 095-471664
-
FARINATO
V. del Plebiscito, 391 095-281739
-
FISICHELLA ANTONINO V. del Plebiscito,
224 095-346423
-
FRANCAVIGLIA GIOVANNA V.le Medaglie
d'Oro, 13 095-450649
-
GERBINO
MASSIMO V. Plebiscito, 329 095-340264
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GIUFFRIDA
MICHELE V. San Gaetano alle Grotte, 40
095-322061
-
MONCIINO
SALVATORE V. Garibaldi, 74 095-341730
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NESIMA V.
Antonio Pacinotti, 270 095-474326
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PALERMO
ANTONINO C.so Indipendenza, 99
095-203690
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PARENTI
FILIPPO C.so Indipendenza, 64 095-202347
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RIZZO
NERVO MARIA V. Plebiscito, 116
095-346004
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S.
ANTONIO V. Vittorio Emanuele II, 547
095-454185
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SCALIA
VENERANDO V. Garibaldi, 230 095-310704
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