LA CITTA' DEI PARCHI COMMERCIALI.
A Catania sono
previsti nuovi centri commerciali La costruzione del nuovo centro commerciale a San Gregorio di Catania è ferma, perchè Carrefour ha deciso di bloccare per adesso i lavori a causa della crisi economica.
Entro il 2012 è prevista l’apertura di un nuovo mega centro commerciale che vuole sfidare Etnapolis e Gli Arancì, il cui nome sarà “Felix” e sarà situato in una zona del comune di Misterbianco. Il nuovo polo dedicato allo shopping sarà in Contrada Cubba, vicino lo svincolo di San Giorgio della Tangenziale di Catania, nel territorio sud del comune di Misterbianco. Il grande parco commerciale sarà di 40.000 mq, con uno shopping center di 45.000 mq e un’area dedicata al tempo libero di 18.500 mq con oltre 6.500 posti auto. Il centro commerciale “Felix”, di proprietà della società “Cualbu Spa” e commercializzato da “Cushmau & Wakefield”, conterrà circa 100 punti vendita. Secondo il progetto, la struttura avrà una forma a trapezio, dove le varie metrature di vendita si affacceranno su una serie di piazze e gallerie. Una grande superficie destinata al supermercato alimentare sorgerà a lato del corpo centrale dello shopping center che ospiterà anche una decina di spazi dedicati ad attività food e di artigianato.
Una veduta d'insieme della zona commerciale alle porte di Misterbianco
Felix ingrandirà ancora di più il territorio comunale: Misterbianco si estende dalla zona di San Giovanni Galermo (comune di Catania, a nord) all’Hotel Gelso Bianco (comune di Motta Sant’Anastasia, a sud) ed da Nesima Superiore-San Nullo (comune di Catania, a est) a Piano Tavola (frazione divisa da 4 comuni etnei, ad ovest). Più precisamente, l’area del nuovo centro commerciale confina a nord con la Strada Provinciale 54, ad est con la Tangenziale di Catania, a sud con il Vallone Cubba ed a ovest con la strada comunale San Francesco. La società ha presentato il progetto all’Eire 2009. Intanto vicino quelle zone sta per nascere l’ospedale San Marco, il nuovo Asse Attrezzato che collegherà A19 Catania-Palermo con Corso Indipedenza e la nuova stazione dei Vigili del Fuoco. Giuseppe Battiato http://www.criluge.it/corridoio/?p=4166 |
NON TUTTI, QUESTI SONO SOLO QUELLI PRINCIPALI.
Misterbianco
(Mustarjancu in siciliano) è un comune italiano di 49.367
abitanti[3] della provincia di Catania in Sicilia. Casale di Catania fino al 1642, divenne Terra indipendente a seguito dell'acquisto da parte di Gian Andrea Massa, nobile famiglia genovese che lo cedette dopo qualche giorno alla famiglia Trigona, allora baroni di S. Cono e Dragofosso, che nel 1685 ottenne il titolo di duca di Misterbianco. A Misterbianco vi sono alcune aree archeologiche con reperti del Neolitico, insediamenti greco - romani e bizantini (nella contrada Erbe Bianche) e i resti di un acquedotto d'età romana. Da ricordare i resti dell'antica Chiesa Madre, dedicata a Santa Maria de Monasterio Albo, citata in alcuni documenti trecenteschi, e in alcuni cinquecenteschi sotto il titolo di Santa Maria delle Grazie. Dell'originaria costruzione, distrutta dall'eruzione del 1669, restava fino ai primi anni del 2000 solo parte dell'antico campanile. Adesso a seguito degli scavi archeologici è stata riportata alla luce l'intera navata, il pavimento originale, l'abside, gli altari laterali e gli ambienti circostanti.
Fino alla metà degli
anni cinquanta Misterbianco era solo un grosso centro agricolo alle
porte di Catania. Negli anni sessanta iniziarono a svilupparsi,
nell'area a nord ovest, insediamenti industriali per lo più connessi
al settore produttivo edile. La popolazione al censimento del 1971
risultava essere di 18.836 abitanti. A partire dagli anni settanta,
in conseguenza dello sviluppo caotico ed irrefrenabile delle
costruzioni nelle zone dove ora sorgono le frazioni di Lineri,
Poggio Lupo, Serra, Belsito e Montepalma si è verificato un
vertiginoso aumento della popolazione, confluitavi dall'hinterland
Etneo più povero e dai quartieri più disagiati della città di
Catania. Contemporaneamente si è sviluppata a macchia d'olio l'area
commerciale/industriale arricchendosi di anno in anno di nuove
aziende sempre più importanti, soprattutto nel settore della grande
distribuzione, senza trascurare quello ad alto contenuto tecnologico
come nel caso dell'Alenia. Il censimento del 1991 registrava già un
numero di abitanti di 40.785 unità, dei quali la metà residenti
nelle varie frazioni. Il fenomeno, pur in scala più ridotta,
prosegue e ciò a causa del sempre più alto costo delle unità
immobiliari nel centro di Catania, che spinge molti a cercare
alloggio nei comuni circostanti, come Misterbianco. Tra Misterbianco e Catania si trova la più importante zona commerciale della provincia. Si trovano presenti quasi tutte le principali imprese di grande distribuzione di livello europeo. Imprese sia all'ingrosso che al dettaglio, operanti nei settori dell'abbigliamento e dell'arredamento, dell'informatica e delle forniture da ufficio, del bricolage e della refrigerazione. Una grande area, tra l'attuale zona commerciale e la frazione di Montepalma, ospitava fino a qualche decennio fa una delle più grandi imprese del settore costruzioni, l'impresa Costanzo, travolta dagli scandali del periodo di Tangentopoli[6]. In essa si producevano prefabbricati pesanti in calcestruzzo per uso autostradale, ferroviario e civile, nonché interi edifici industriali, commerciali e per uso civile; l'impresa ebbe anche l'appalto di due lotti dell'allora costruendo Tunnel della Manica ed occupava diverse migliaia di persone nei suoi vari settori di attività, oggi è del tutto abbandonata.
Periferie e frazioni Madonna degli Ammalati è una località estiva frequentata dai misterbianchesi posta in zona collinare a nord-est del centro urbano. La frazione è sorta su una parte dell'area dell'antico abitato di Misterbianco, seppellito dalla lava del 1669, di cui rimasero intatte soltanto alcune parti, ancor oggi visibili oltre alla chiesetta della Madonna degli Ammalati e il campanarazzu, cioè il campanile della chiesa madre sepolta e una parte della costruzione di quella di San Nicolò. Quanto rimasto della chiesetta crollò in seguito al terremoto del 1693 eccetto la parete nord sulla quale si trovava l'affresco raffigurante Maria SS. Aegrotorum (degli Ammalati). Nella prima metà del Settecento il sacerdote Domenico Bruno iniziò a ricostruire la chiesetta restaurando i frammenti di intonaco sopravvissuti e dando inizio al culto alla Madonna degli Ammalati la cui festa dura quattro giorni concludendosi la seconda domenica di settembre; questa inizia con una processione di fedeli che accompagna una campana di 51 kg, sopravvissuta alla lava, ma rifusa nell'Ottocento, dalla chiesa di S. Nicolò, nel centro cittadino, fino alla chiesa del cosiddetto Chianu 'e malati; vengono celebrate varie messe, si esegue la tradizionale "Cantata" nei pressi del "Piano" ove i membri della commissione per i festeggiamenti, con un sacco in mano, aspettano 'o passu (al passaggio) i fedeli per la raccolta delle offerte. Durante le giornate si svolgono aste sacre; la festa si conclude con fragorosi fuochi d'artificio fino a notte fonda. Oggi è una zona residenziale del paese. L'antico sito di Campanarazzu è raggiungibile lungo la strada che collega la frazione alla strada provinciale 12/1 Misterbianco-San Giovanni di Galermo. Piano Tavola è suddivisa amministrativamente tra i comuni di Belpasso, Misterbianco, Camporotondo Etneo e Motta Sant'Anastasia. È un grosso borgo circondato da insediamenti industriali ed artigianali che aspira ad essere eretto in comune autonomo. Ha una sua stazione ferroviaria della Ferrovia Circumetnea. Lineri, e Montepalma sono due grosse frazioni, nelle quali abita circa un terzo della popolazione di Misterbianco, site ad est del centro principale, vicine alla città di Catania. Le frazioni di Belsito CT, Serra Superiore e di Poggio Lupo si trovano immediatamente a nord di Lineri, a ridosso della strada provinciale 12; le ultime due sono sede di numerose imprese di produzione e commercializzazione di materiale edile. http://it.wikipedia.org/wiki/Misterbianco
Storia e origini dell’antico Campanile di Misterbianco
Nel 1669 una delle eruzioni più disastrose dell’Etna colpì moltissimi centri abitati e gran parte della città di Catania. Il fiume di lava colpì anche il paese di Misterbianco ricoprendo interamente la Chiesa Madre o di Santa Maria de Monastero Albo eccetto l’alto campanile che nel corso del tempo divenne l’unica testimonianza visibile della catastrofe con le sue sei campane. Nel 1693 seguì un terremoto che rase al suolo il paese e determinò il crollo del Campanarazzu seppur in parte. Pertanto, la struttura diroccata divenne un simbolo che vivificò la memoria dell’antico paese di Misterbianco. La nomenclatura della Chiesa di Santa Maria de Monastero Albo rimanda all’antico nome del centro abitato distrutto detto Monasterium Album appunto, dai diplomi quattrocenteschi. La Chiesa Madre di Misterbianco, seppur ricoperta dalla lava è una delle poche testimonianze di edificio rinascimentale della Sicilia orientale, databile tra il Quattrocento e il Cinquecento. Scavi recenti hanno permesso di riportare alla luce i resti della chiesa tra cui l’intera navata centrale con gli altari laterali, il battistero, i resti di un affresco, l’ingresso principale e il portale laterale. Una fase di scavi successiva ha evidenziato la parte più antica dell’edificio di culto ovvero, una cappella gotica risalente al 1200 – probabilmente il nucleo originario attorno al quale venne edificata la Chiesa Madre. Il sito non è ancora aperto al pubblico.
L'UNICA testimonianza di arte RINASCIMENTALE della Sicilia Orientale: il CAMPANARAZZU di MISTERBIANCO in provincia di CATANIA Campanarazzu è il nome che fu dato alle vestigia dell’antico campanile della chiesa Madre sepolta dalla lava del marzo 1669 e che adesso indica non solo il campanile diroccato, ma una intera contrada. Gli scavi realizzati a Campanarazzu per il recupero dell’antica chiesa Madre, edificata tra il ‘400 e il ‘500, ma forse anche prima, pare che sia un fatto unico a livello mondiale, resi possibili per il tipo di lava dell’Etna e per il modo come la chiesa è stata investita dal fronte lavico. A Pompei si è scavato per togliere la cenere, a Campanarazzu si è scavato per svuotare oltre dieci metri di basalto lavico una navata lunga oltre 40 metri e larga nove. Un esperimento mai tentato prima. Considerato che il terremoto del 1693 distrusse tutta la Val di Noto, la chiesa resta un importante, se non unica, testimonianza di arte rinascimentale nella Sicilia orientale.
foto di Sicilia Antica leggere anche qui
LA "RUINA",LA DEVASTANTE COLATA LAVICA CHE,NEL 1669 CAMBIO' CATANIA
Questo scatto immortalò,alcuni anni fa,la Chiesa Madre dell’antico paese di Misterbianco,a pochi chilometri da Catania, che fu totalmente sepolta dalla colata ad eccezione del campanile (a sinistra della fotografia) che rimase come ultimo testimone del centro abitato .L’eruzione del 1669 è stato l’evento che più di ogni altro ha condizionato la storia urbanistica del versante meridionale dell’Etna, in quanto, modificando radicalmente l’assetto del territorio, ha condizionato lo sviluppo dei centri abitati nei secoli successivi, influendo anche sulle attività produttive ed economiche. Numerosi storici sono concordi nell’individuare in questo evento eruttivo il momento di rottura dell’equilibrio tra la città di Catania e il suo territorio rurale. L’eruzione durò quattro mesi: in questo periodo furono eruttati circa 600 milioni di metri cubi di lava, con un tasso effusivo medio alla bocca di 58 metri cubi al secondo che sono tra i valori più alti registrati negli ultimi 400 anni. Si formò un vastissimo campo lavico caratterizzato da un’area di 40 km2 e una lunghezza massima di 17 km; si tratta della colata lavica più lunga riconosciuta nel record geologico dell’Etna degli ultimi 15.000 anni. Nella fase iniziale, la colata lavica si divise in due bracci, a est e a ovest, per la presenza dell’ostacolo morfologico rappresentato dal cono di scorie di Mompilieri. Il 12 marzo le lave distrussero le borgate di Levuli e Guardia e il paese di Malopasso, avanzando con un fronte largo circa 2 chilometri. Durante la notte del medesimo giorno la colata lavica coprì la chiesa dell’Annunziata, che in linea d’aria distava circa 2 km dalla bocca principale, e distrusse completamente il villaggio di Mompilieri . Il 14 marzo, grazie ad un tasso effusivo di 630 m3/s, il braccio lavico occidentale raggiunse i paesi di San Pietro e Camporotondo. Fra il 15 e il 17 marzo si formò un nuovo braccio diretto verso sud-est, mentre il braccio orientale arrivò presso il paese di San Giovanni Galermo, distruggendolo parzialmente . Dopo due settimane di eruzione il tasso effusivo era diminuito a 170 m3/s e il braccio orientale si arrestò definitivamente dopo aver toccato la località Torre del Grifo, a nord di Mascalucia, e aver danneggiato le terre coltivate di Gravina, raggiungendo una lunghezza di 8,8 km. Nel frattempo, il braccio a ovest aveva raggiunto la sua lunghezza massima di 10 km, espandendosi nel pantano di Valcorrente, al confine con i terreni di natura sedimentaria delle colline chiamate Terreforti. Contestualmente, il braccio che scorreva a sud-est si divideva in diversi flussi che avanzavano nella località Carcarazza, localizzata a circa un chilometro a nord-ovest del paese di Misterbianco. Nel corso di queste due settimane, nei bracci a ovest e a sud-est si iniziarono a formare tunnel lavici. Fra il 26 e il 29 marzo, dal braccio occidentale si generarono nuovi flussi lavici che distrussero San Pietro e Camporotondo, mentre il fronte più avanzato continuava a invadere il pantano di Valcorrente. Negli stessi giorni, il braccio a sud-est cominciò a distruggere alcune case del paese di Misterbianco, che fu completamente sepolto il 30 aprile- Circa un mese dopo l’inizio dell’eruzione, sebbene il tasso effusivo fosse notevolmente diminuito (30 m3/s), il braccio a sud-est continuava ad avanzare velocemente grazie allo sviluppo dei tunnel lavici. A metà aprile la lava aveva raggiunto e coperto una piccola palude chiamata Gurna di Nicito e minacciava la porzione occidentale delle mura medievali di Catania. Il 16 aprile la colata lavica si addossò, La chiesa madre dell’antico paese di Misterbianco che fu totalmente sepolta dalla colata ad eccezione del campanile che rimase come ultimo testimone del centro abitato (Foto S. Branca). Recenti scavi della Soprintendenza ai Beni Culturali e Ambientali di Catania hanno portato in diverse fasi alla luce questo straordinario elemento architettonico risalente al XIV secolo della regione etnea.
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Il
paese è situato sul versante del monte Etna, dista 12 km da Catania,
e si sviluppa su una rupe di origine basaltica, formatasi in epoca
glaciale. Data l'imponente massa monolitica, detta, secondo
un'antica leggenda, ombelico dell'Etna, tale area ha ricoperto una
grande importanza sotto un punto di vista militare. La parte più antica di Motta Sant'Anastasia è stata edificata su un neck, una rupe di origine vulcanica. Una lunga ed intensa eruzione risalente a 550.000 anni fa provocò la formazione di un cono vulcanico. Nel corso dei secoli, a causa dei processi di erosione, il cono ha assunto l'attuale forma a "rocce colonnari" prismatiche a sezione esagonale e pentagonale più o meno regolari, raggiungendo l'altezza di 65 metri.
Quello di Motta è
l'unico esempio di neck presente in Italia. Altri casi si
riscontrano in Francia (Le Puy del Velay), in Algeria
(Tamanrasset-Ahaggar) e negli U.S.A. (Missouri, Montana, Arizona,
Utah, Nuovo Messico). La vegetazione presente sulla roccia è
costituita da licheni e fichi d'India (Opuntia Ficus Indica Mill). Sull'origine del nome Motta Sant'Anastasia esistono diverse ipotesi. Secondo alcuni studiosi Motta (nome preromano) e Anastasia (nome greco-bizantino) hanno significati simili ed indicano la natura del luogo, il tipico rilievo del territorio che da secoli è caratterizzata dal Neck e i dintorni di Motta Sant'Anastasia. Successivamente nei secoli XII-XIV, i due nomi furono accostati ed i cittadini si associarono nella devozione e nel culto di Sant'Anastasia, patrona della cittadina.
Motta, fin dal periodo di Dionisio, tiranno di Siracusa, ricoprì un ruolo di notevole importanza come roccaforte di avvistamento e di difesa. Tale ruolo crebbe durante il periodo normanno con Ruggero d'Altavilla che vi fece edificare una torre per presidiare l'imbocco della piana di Catania e proteggere così i possedimenti normanni dalle continue incursioni saracene. Le caratteristiche del territorio, i resti delle strutture di difesa e quelle abitative evidenziano la tipicità medievale della cittadina. "La Motta", infatti, consisteva in un luogo sopraelevato da dove era possibile controllare l'intero territorio circostante. In Inghilterra, intorno al 1066, sulla "Motta" dei luoghi di conquista, i Normanni costruivano una torre di legno per difendere i territori occupati. Ma in Sicilia, per la carenza di foreste, i Normanni dovettero edificare le loro torri con pietra basaltica. A Motta tale costruzione era stata facilitata dalla conformazione morfologica del luogo, che ben si prestava all'edificazione dell'avamposto difensivo. Il primo insediamento fuori dalle mura fu il quartiere Urnazza che, intorno al 1500, sorse nei pressi dell'attuale chiesa di Sant'Antonio, allora luogo di sepoltura dei quartieri "Urnazza" e "Matrice".
Nel 1526 la città diventò feudo di Antonio Moncada, conte di Adernò, e per quattro secoli, fino al 1900, il castello fu destinato essenzialmente a essere una prigione. Nella seconda metà del 1600 vi erano a Motta 560 abitanti. Tra la seconda metà del 1700 e il 1800 cominciò meglio a delinearsi la struttura del paese, con la nascita di nuovi quartieri, come quelli di "Croce", "Pozzo", "Sciddichenti". Nel 1798 gli abitanti di Motta divennero 1400 e nel censimento del 1831 arrivarono a 2181.
Il 1º gennaio 1820 il
tribunale di Catania istituì il comune di Motta Sant'Anastasia.
La struttura è costituita da tre elevazioni. Solo la prima di queste presenta ancora le finestre originali ad arco a sesto acuto (esterno) e a tutto sesto (interno). Le altre due finestre quadrate, degli altri livelli, come l'attuale porta d'ingresso, risalgono invece al XV secolo. Il piano terra era destinato ad alloggio militare. In esso sono visibili una serie di feritoie per la difesa. Sempre al piano terra fu ricavata la cisterna per la raccolta delle acque piovane e dove, come scrive l'umanista Lorenzo Valla, fu rinchiuso il conte di Modica, Bernardo Cabrera. Il primo piano era destinato all'alloggio del comandante della guarnigione. Il secondo piano è caratterizzato da un arco a sesto acuto. Le tre elevazioni erano collegate tra loro da una serie di scale a pioli retrattili di legno. Già nel 1091, il castello venne concesso alla istituenda diocesi di Catania che ne detenne il possesso fino alla fine del XIII secolo. Nel XIV secolo, per diciannove anni (1355-1374) fu dimora del conte di Aidone, Enrico il Rosso. Dopo essere stato proprietà di Rinaldo Perollo, nel 1408 il castello fu acquistato da Aloisio Sanchez. Successivamente, nel 1526, Antonio Moncada, conte di Adernò, per 1210 once acquistò la terra di Motta ed il castello che rimasero proprietà dei suoi discendenti fino al 1900, anno in cui venne acquistato dal Comune. L'ERA MEDIEVALE DEI RIONI RIVISSUTA OGNI ANNO.
Sin dall’inizio del XVI
Secolo tra i giovani mottesi si era evidenziata la volontà di
distinguersi in consorterie contadine e maestranze con un progressivo
popolamento del borgo, premessa naturale per la formazione del
Comune, che avvenne nel 1820. I RIONI DI MOTTA SANT'ANASTASIA Sin dall’inizio del XVI Secolo tra i giovani mottesi si era evidenziata la volontà di distinguersi in consorterie contadine e maestranze con un progressivo popolamento del borgo, premessa naturale per la formazione del Comune, che avvenne nel 1820. Nascevano in questo periodo due fazioni: i CAMPAGNOLI e i MAESTRI, veri partiti della vita amministrativa del paese. Attorno al 1880, si formò successivamente un terzo partito, denominato PANZERA, appendice dei CAMPAGNOLI nella vita amministrativa paesana ma partito a sè per la Festa di Santa Anastasia. I Maestri tenevano la Piazza, i Campagnoli la zona della Matrice e i Panzera la zona Sud del paese. Solo dopo il 1968, per le mutate esigenze demografiche e urbanistiche del paese, si sentì il bisogno di ridefinire il tessuto sociale e culturale di Motta e si formarono tre RIONI: Maestri, Vecchia Matrice e Panzera. Il rione "MAESTRI" è nato nel XIX sec. con il nome di " Partito Operaio" perchè vi appartenevano operai ed artigiani.Con il passare del tempo il nome muterà da operaio a Giovani Maestri. I Maestri sono situati a nord del paese (Motta S. Anastasia) ed occupano il quartiere "Urnazza", metà della via Vitt. Emanuele, il "Calvario" e P.zza Duca d'Aosta. I colori che da sempre lo contraddistinguono sono il bianco e l'azzurro. Particolare suggestioni riveste, nell'ambito della festa padronale in onore di S. ANASTASIA, la "Calata della Quartine", che rappresentano gli emblemi di ciascun rione Sito Web http://www.sbandieratorimaestri.net/ Il Rione VECCHIA MATRICE, con i colori giallo-verde di Santa Anastasia, patrona di Motta, ripropone temi e leggende della storia della Sicilia, arricchendo le proprie parate storiche con le coreografie del gruppo Sbandieratori di “Casa Normanna”, costituiti nel 1971 e ormai noti oltre i confini nazionali. Il 23 Agosto, per la “Discesa delle Quartine”, un corteo storico si snoda per le vie principali del paese, introducendo il vessillo di combattimento. Il Rione Vecchia Matrice è in fermento per tutto l’anno ma soprattutto per i giorni delle Feste Medievali (a cavallo del Ferragosto di ogni anno) e per i giorni della Festa “Grande” in onore di Santa Anastasia, quando le maestranze, i giovani, le donne lavorano alacremente per mesi interi, preparando costumi d’epoca, coreografie, addobbi e strutture architettoniche che trasformano profondamente il borgo di MOTTA fino a farla diventare un centro medievale di sensazionale attrazione turistica. Sito Web http://www.casanormanna.it/ L'Associazione Culturale "RIONE PANZERA"RIONE PANZERA" è una libera associazione senza fini di lucro, apolitica, a scopo culturale, ricreativo, morale, turistico e folkloristico dedita al recupero e alla valorizzazione delle tradizioni storico culturali di Motta S. Anastasia. Scopo principale dell'Associazione è quello di organizzare i festeggiamenti in onore della Santa Patrona Anastasia. Sito Web http://www.comune.mottasantanastasia.ct.it/i-rioni/299-rione-panzera.html
Di Stefano, la voce
siciliana che ha incantato il mondo
Il Cimitero Militare Germanico
è situato a Motta
Sant'Anastasia in provincia di Catania. Vi è sepolto Luz Long
campione di atletica (medaglia d'argento in salto in lungo alle
olimpiadi di Berlino nel 1936)
foto di Francesco Raciti
L'ingresso è costituito
da un atrio lastricato in travertino.Qui è collocata una stele che
recita: Una volta entrati, attraverso una scalinata ci si trova in un cortile denominato Kameradengrab. In questa area è presente una lapide contenente i nomi di 31 soldati che qui sono sepolti. In altre otto lastre di pietra sono ricordati i nomi di 128 soldati tedeschi caduti durante le operazioni in Sicilia negli anni 1941 - 1943. Al centro del cortile è posta una statua in bronzo raffigurante un uomo morente,fortemente espressiva e di ottima fattura. Da questo cortile si può accedere ad altri quattro cortili dove su lastre di ardesia sono ricordati i nomi dei caduti ospitati nei sotterranei. I quattro cortili ospitano le tombe dei caduti suddivisi per province. In essi sono sepolti: Cortile Palermo, qui sono sepolti i soldati caduti nelle province di Palermo, Trapani e Agrigento Cortile Caltanissetta, qui sono sepolti i soldati caduti nelle province di Caltanissetta, Ragusa, Catania e Siracusa Cortile Messina, qui sono sepolti i soldati caduti nelle province di Messina e di Enna; qui è esplicitamente menzionato il comune di Caronia, dove nel locale cimitero erano stati sepolti oltre 700 soldati tedeschi Cortile Catania, qui sono sepolti circa 1514 soldati caduti nella provincia di Catania http://it.wikipedia.org/wiki/Cimitero_Militare_Germanico_di_Motta_Sant%27Anastasia
La circumetnea, un mondo poetico….
L’ultima volta che ho viaggiato sulla littorina della circumetnea è stato circa cinquant’anni fa, ero un bambino, adolescente, viaggiavo, quasi sempre, in estate. Da bambini fare un viaggio è un’esperienza meravigliosa. Negli anni cinquanta non erano iniziati i grandi viaggi nazionali e intercontinentali di oggi. La vita era semplicemente respirata tra piccole cose, Catania era più piccola, più paesana, forse si ci conosceva di più, si camminava di più Allora, viaggiavo sempre con mio padre e mia madre. Mio padre era un uomo bellissimo, alto biondo, con gli occhi verdi, d’origine slava, ma ormai tutti parliamo IN FAMIGLIA a“ccaccarara”, cioè in siciliano d’hoc, e tutti i parenti sono figli “ddò liotru”. Prendevamo la littorina per andare nella località di Passopisciaro, nel comune di Castiglione di Sicila, dove avevamo una casetta piccola, non mancavano le comodità, antica casa, con il gabinetto che si trovava fuori, in giardino in una casupola minuscola, vicino alle stanze da letto. Con mio padre e mia madre partivamo la mattina presto. A volte andavamo con il fratello di mia madre che aveva un’auto fiat- seicento, una seicento nuova degli anni cinquanta, facevamo il giro inverso, prima Acireale, Giarre, Piedimonte. A me piaceva la “littorina”, nell’auto stavo stretto, al chiuso. Con la littorina potevo vedere di più, stavo più comodo. Il viaggio in ferrovia è diverso, più riposante, la possibilità che la mamma mi passasse con calma un dolcetto: si mangia meglio. Oggi, negli anni del consumismo senza limiti, prendere la “littorina”, come si chiama ancora, è come fare un viaggio poetico, un viaggio nel passato,perdere tempo, un’analisi della nostra infanzia, come stare nel lettino dello psicanalista e raccontargli tutte le storie di quando eravamo piccoli, felici con poco. La strada l’ho voluta fare tutta: da piazza Galatea a Riposto, mi sono abbandonato, di mattina presto a questi ricordi, raccolti in fretta, in una mattinata di dicembre, chissà perché. Diventando vecchi, si ritorna bambini, si afferra la vita con le mani aggrappandosi. L’aurora era appena passata, sono sceso nella “underground”, come si dice oggi( parlando un pò sofisticati, in inglese). Oggi è un’occasione unica, ritorno indietro di cinquant’anni, oggi il grande miracolo: si ritorna bambini. Alle sette del mattino non c’è anima viva nella “underground” catanese. La stazione metropolitana di piazza Galatea è bella, più bella delle metropolitane di Roma e di Milano. Scendendo nel sottosuolo avvolto dalle pareti lucide di mattonelle bianche brillanti, mi accorgo che non c’è controllo, nessun impiegato, nessun viaggiatore solitario come me. Probabilmente sono spiato dalle telecamere. Nel marciapiede, nel sottosuolo, vicino alle strette linee ferrate, dopo dieci minuti arriva uno studente, giovane, con libri e quaderni, mi guarda come se fossi un animaletto uscito da un giornalino dove si descrivono extraterrestri.
La mattina in questa stazione della metropolitana si ritrovano tutti, e si conoscono tutti, cambiano alla stazione Borgo, dove aspettano la coincidenza con i treni all’aperto che girano attorno all’Etna., verso Paternò, Randazzo, Riposto. Alla stazione Borgo arrivo anch’io, un intruso, un curioso anziano che tutti guardano perché non l’hanno visto mai, un tale ch’è disposto a fare una levataccia, pur di ritrovarsi adolescente. Un bambino che , forse, vuole anche pensare a suo padre che non c’è più. Ho portato con me le mie macchine fotografiche. Cattiva abitudine. I turisti, quelli veri, sono sempre con le macchine fotografiche in mano, oggi con supertecnologiche camere digitali o piccoli gioiellini computerizzati. Perché cattive abitudini? Perché il turista non si abbandona alla novità, sta lì a “catturare” immagini, monumenti, vuole “avere” non vuole “essere”. Viviamo in una società dove tutto si deve” consumare” e consumare in fretta. Il turista non si fa coinvolgere dalla poesia di piccoli sentimenti, emozioni, frammenti di visioni mattutine artistiche e non artistiche, ma piccole cose di un tempo che fu. Uomini e cose della vechia Sicilia. Oggi no, sono fortunato, ho tutto il tempo a mia disposizione, posso guardare le vecchie littorine posteggiate, non più riparabili, dove un cane “cirneco” dell’Etna si avvicina con la gamba alzata profanado una vetustà che sa di fascismo, di saluti romani. La circumetnea non è stata realizzata durante l’era del “fascio”, molto prima, dopo l’unità d’italia. Fu pensata dai Borboni, ma non fecero in tempo a costruire la strada ferrata. Garibaldi arrivò in fretta fece subito l’italia, qui. La circumetnea, invece, non arrivò subito, dopo quasi venti anni dopo l’unità d’Italia. Littorina fu il nome che gli diede il fascismo, da “littorio” o “fascio littorio”. Scendono dal trenino, alle otto quasi del mattino, tanti studenti che si recano a Catania per studiare, c’è pure un vecchio di Maletto con la zampogna, arzillo, più tardi sarà ubriaco di vino. Gli zampognari sono tutti di Maletto, una razza in via d’estinzione. Suonano davanti i presepi, ed è tradizione mai tralasciata che, alla fine della sonatine, gli si regali un bicchiere di vino, alla fine ritornano in paese ubriachi fradici, dormono nei treni delle circumetnea con la zampogna sullo stomaco, sazi, ebri, figli di un dio minore: Dioniso. A Natale mancano solo due settimane. Il trenino parte orgoglioso strisciando tra le lave di Nesima e mi siedo vicino a tanti viaggiatori che sono preoccupati della giornata un po’ nuvolosa. Piove, come si dice in Sicilia, “assuppa viddanu”, cioè con piccole gocce che non fanno male. I Siciliani non amano la pioggia, si sentono a disagio.
C’è tanta gente sul treno. Non me l’aspettavo. La professoressa, biondina, carina, giovane, corteggiata da un bigliettaio lavativo,dolce ma lagnoso, che ride sempre. Salgono tanti studenti, anche loro, lavativi, vanno a Misterbianco e a Paternò. Paternò è una città importante, una città etnea dove ci sono più scuole. Le giovani studentesse non sono come le ragazze siciliane degli anni cinquanta. Negli anni cinquanta in queste”littorine”, s’incontravano ragazze che neanche ti guardavano, timide, senza fidanzato, accompagnate da genitori o parenti, era una Sicilia “islamica” ormai perduta per sempre. Ci descrivono ancora oggi, i settentrionali, con le donne in testa lo scialle nero, madonne con il velo, i vecchi e anche i giovani con la coppola nera . Non ci sono più questi simboli d’una civiltà antica, i settentrionali sbagliano, non conoscendo, non visitando la Sicilia, non hanno mai capito nulla di noi. Le ragazze, pure ragazzine, ora guardano negli occhi i maschietti, sono intraprendenti, vestono con jeans stretti e top provocanti. I ragazzi ( maledetti) non corteggiano più le ragazze, sembrano “passuluni”, cioè fichi maturi che cadono a terra senza essere “mangiati”. Le ragazze, a volte, cominciano con discorsi imbarazzanti del tipo. “ho lasciato Luca perché m’annoiavo, forse mi metto con Salvatore ch’è tanto carino, se solo fosse un po’ più vicino a me…”. I maschi siciliani sono storditi, hanno perso un po’, forse molto, del dongiovannismo, si mettono, i tappi nelle orecchie per ascoltare chiassose canzoni, non guardano le ragazze che gli muoiono davanti. La fine del maschio siciliano? E le donne stanno a guardare…. Il trenino ora passa per Piano tavola, nell’area commerciale di Catania,. tra tante tante piante di fichid’india, che nessuno raccoglie, qualche bella pianta di zzamara, pianta grassa che in italiano si dice agave o aloe, gli immancabili agrumi di Paterno, la qualità sanguinello, qualche albero di limone e tanti uccelli caccarazze che volteggiano arroganti di ramo in ramo. Dopo Piano tavola , subito, la nuova, quasi pronta Etnapolis. Etnapolis è una lunga e grande muraglia di cemento, un deposito lungo un chilometro, una megalopoli e non Etnapolis, non c’è nessuna tradizione greca da richiamare, è un “fatto” commerciale dove importanti lobby italiane e straniere hanno deciso che la Sicilia è un grande mercato di consumo. Niente cambia, così ci considerarono dopo l’unità d’italia i “piemontesi”. La lunga costruzione di cemento somiglia tanto al quartiere romano di Corviale, un lungo caseggiato, triste, una lunga casa popolare estesa un chilometro, un’idea pazzesca di costruttori post-moderni. Etnapolis è grande, occuperà tanti giovani, niente male se ogni tanto si perde un “pezzo” di poesia. Per fortuna la vicinissima stazioncina di Valcorrente ci restituisce la poesia del paesaggio che per pochi minuti avevamo perduto. Valcorrente è una fragile stazione della circumetnea, circondata da fichidindia e con una piccola sala ch’è d’attesa con una porta antica arredata con tendine ricamate finemente. Purtroppo questa stazioncina minuscola, aggraziata, fra le lave e il verde solitario della campagna, rischia di essere trasformata in una grande stazione moderna per l’utilità di nuove e grandiose iniziative commerciali. Nella stazione di Paternò mi sorprende una strana manovella, girata con ardore da un ferroviere imbaccuccato. A “manuvella” arrotola un filo robusto d’acciaio che per mezzo di carucole in alto e, per tutto il prospetto della stazione, corre ad abbassare il passaggio a livello che impedisce alle automobili l’entrata nella città di Paternò. Sinceramente non me l’aspettavo. Sembra un gioco per fanciulli, fatto dai grandi, ma la ferrovia circumetnea è così. Speriamo che resti così ancora tanto tempo. Prima di Adrano sfioriamo un campo di calcio mai completato da anni.
Spesso in Sicilia le opere pubbliche s’iniziano e non si completano. Può darsi che l’attività è ferma per ragioni di “carte”, cioè burocrazia, spesso perché rivalità politiche, inutili,impediscono il completamento;, spesso interviene l’autorità giudiziaria che si confonde tra le “carte” e poi si arriva tardi o con troppo ritardo in Cassazione. I siciliani non sono fatalisti, sono contemplativi, è diverso; molti è vero si danno da fare e diventano ricchi, ma i siciliani non hanno perso la mentalità orientale, un po’ bizantina un po’ Levantina, araba. Vediamo le coltivazioni di pistacchio fino a Bronte ed oltre. Prima di parlare del pistacchio, una fermata del treno a Passo zingaro, scende uno dei pochi contadini rimasti a coltivare la terra, era salito nella vicina stazione di Adrano, seduto accanto a me, prima di scendere, mi aveva confidato che aveva l’auto guasta, che la circumetnea non gli interessava e la potevano togliere subito, anche se vecchio, troppo vecchio per lavorare ancora, non poteva abbandonare i suoi pistacchi che qui si chiamano pure: oro verde. Voleva solo la sua auto vecchia per spostarsi. Costa caro il pistacchio, costa caro soprattutto raccoglierlo, poi bisogna pagare i contributi e i braccianti. I braccianti, sono, anche loro, una razza in via d’estinzione, ora anche stranieri; se lavorano trenta giorni ne vogliono “segnati” cinquantuno all’ufficio di collocamento. Molti proprietari si lamentano per questi “pizzi”, ma poi pagano i contributi all’Inps in più, in fondo il prezzo del pistacchio è remunerativo. I proprietari sempre si lamentano, ma il pistacchio è buono anzi eccezionale, come quello che si produce in Turchia, gli acquirenti pagano e guadagnano meglio rivendendolo in bustine, un po’ ridicole, ma carissime di prezzo. Dopo Bronte il treno si prende d’affanno, a tutto gas attacca la salita verso Maletto, siamo nei pascoli alti di Maniace, il treno a Maletto raggiunge i mille metri d’altitudine: un record assoluto in Sicilia. Maletto è il paese dei “picurara” dei silenzi tra il verde e le valli che sembrano alpine. Pecore tra sassi pieni di muschio, brucano la “veccia”, un’erba di cui vanno ghiotte pure le vacche. Qui c’è l’alpeggio, estate ed inverno, il paesaggio ricordo il verde, il dolce verde incantato d’Irlanda. Non occorre andare in Irlanda, a Sligo oppure a Galway, qui c’è un pezzo di terra anglosassone. Anglosassone era Nelson, a cui i Borboni regalarono una bella e fertile ducea, per i suoi meriti militari: aveva fermato l’arroganza e prepotenza francese nelle acque di Trafalgar. Tutto inutile, la rivoluzione francese fece il suo corso, nel bene e nel male. La rivoluzione francese non è mai arrivata veramente in Sicilia. E’ arrivata la rivoluzione delle “donne”, delle donne che lavorano, delle donne imprenditrici che hanno creato laboratori anche immensi dove si producono capi d’abbigliamento. Bronte, Randazzo, Maletto e alri paesi dell’Ennese e dei Nebrodi sono pieni zeppi di laboratori dove si lavora a “facon”. Al Duca Nelson, come scrivevamo, fu regalata una ducea grande come un immenso feudo. Le malelingue, anche gli storici più precisi, affermano che il duca Nelson non venne mai a Bronte a vedere la sua ducea di Maniace. Può darsi. Sono certamente arrivati i suoi eredi, suoi eredi erano quelle inglesine che venuti a godersi le vacanze in Sicilia, nella ducea del loro avo, per il grande caldo d’agosto, pensarono maliziosamente di spogliarsi nude completamente e fare il bagno in una piccola piscina, che esiste all’interno del castello di Maniace. Erano tutte ignude e rilassate quando un “picuraro” curioso, nascosto tra cespugli e alberi non crede ai suoi occhi di siciliano arrapato. Sarà stato il caldo, oppure un’astinenza forzata tra le pecore del gregge; insomma il “pastorello” non frenò e si lanciò correndo e focoso verso le inglesine nude e sprovvedute. Il pastorello ebbe la peggio. Non ci fu l’orgia da lui prevista, ma un sacco di legnate con sedie di ferro che le belle e nude bagnanti inflissero al giovane in ardore. Il pastorello fu ricoverato con prognosi riservata nel vicino ospedale e con diverse imputazione di reato: tentativo di stupro e altri . “Cunnutu e vastuniatu”. Cornuto e bastonato, perché ormai nessuno corteggia con modi garbati o all’inglese le donne…anche ignude, u “picuraru” poi, quando mai! Rimase rosso di lividi e in…bianco e con infinite grane con la giustizia. Sfortunato pastorello di Maniace. Torniamo a Maletto, che nel verde irlandese, si prepara al Natale con i suoi pochi zampognari che prendono la littorina della circumetnea per andare a Catania, per suonare davanti ai presepi montati da grandi e piccini. Un’occasione per fare buoni soldi. Scendiamo verso Randazzo. L’Etna, come la chiamiamo noi: “a montagna” è piena di neve. Neve bianca e lava nera. Mongibello, dall’arabo: GEBEL, che significa montagna. Tra Maletto e Randazzo un’immensa quantità di piante tipiche del paesaggio etneo. Ho avuto la fortuna di restare sulla littorina con un appassionato palermitano d’insetti, un entomologo; si recava nel museo di Scienze naturali di Randazzo. Da Maletto a Randazzo siamo rimasti soli in treno, e quindi abbiamo avuto il tempo di parlare. Ho ascoltato la descrizione di alcuni rari uccelli e rare piante che si trovano in Sicilia, non ho capito molto, invece, d’insetti, argomento per me molto difficile. L’amico palermitano conosceva pure i cespugli, e mi raccontava che molte piante si trovano solo in Sicilia. Alcune piante sono velenose, come il tasso baccato che vive nei boschi etnei o nel bosco di Mangalaviti. I frutti del tasso baccato si possono mangiare, e gli uccelli ne sono ghiotti, ma le foglie sono velenosissime. Nella campagna non è raro il finocchio marino,( come mai in montagna?), le violacciocche selvatiche, i capperi, ginestre, querce, bagolari, lo spino santo. Piante che magari ammiriamo ma non comprendiamo come si riproducano lì dai tempi in cui l’uomo non era neanche comparso sulla terra. Tra Maletto e Randazzo si trova la grande vallata che scende fino alle contrade di Maniace. Petrosino,fondaco, e dietro la contrada di semantile, pezzo, poi la strada che porta fino a Tortorici e Alcara li fusi, ma siamo già nelle montagne dei Nebrodi. In questo periodo invernale non si vedono molti uccelli, ma mi diceva il mio amico viaggiatore che con la stagione dei fiori, si possono ammirare tante specie di volatili, grandi e piccoli, a portella mandrazzi o portella femmina morta. Una volta,. non tanto tempo fa, in Sicilia volavano i grifoni, uccelli dalle immense ali; scomparvero perché mangiavano i corpi morti delle volpi avvelenate. Le volpi erano un flagello per i contadini; i grifoni, invece, uccelli d’ammirare nei loro ampi volteggi. Spesso per il cattivo ci va dimezzo il buono. Così con l’avvelenamento delle volpi sparirono pure i grifoni. I cattivi rimangono lo stesso: le volpi sono sempre presenti nei boschi dell’etna e non è raro incontrarle; i grifoni, purtroppo, sono spariti.
Il mio compagno di viaggio, entomologo palermitano mi ha riempito la testa di strani nomi, nomi di piante e uccelli, non posso ricordarle tutte. Mi chiedevo dentro di me, quante piante ci sono in Sicilia e quanti animali piccoli e grandi. Come siamo ignoranti delle cose di questa terra. Gli entomologi studiano solo gli insetti, ma finiscono per conoscere tutto il genere umano e tutte le piante. A Randazzo sono sceso insieme al mio nuovo amico palermitano, incontrato in treno .Siamo andati insieme nel museo di scienze naturali di Randazzo. Il museo è bellissimo, ma io non ho resistito molto a tutte le spiegazioni approfondite e logorroiche; alla descrizione di tutti gli uccelli che ci guardono fissi, immobili, imbalsamati testimoni di una natura bella e a volte irrecuperabile. Troppi nomi, troppe piante, troppa ignoranza la mia. La Sicilia delle piante e degli animali è una Sicilia tutta da scoprire (almeno per me!) Ci siamo salutati davanti ad un caffè corretto bevuto in un bar di Randazzo. Bar antico d’almeno cento anni, dove un paffuto proprietario ci spiegava gli intonaci liberty che erano stati recentemente restaurati. Stucchi restaurati male; ma lo stile, l’arte, l’atmosfera del tempo che fu c’era, si faceva strada fra rozze ridipinture. Col mio occasionale amico ci siamo salutati e sono ritornato nella stazioncina di Randazzo. La littorina della circumetnea, da Randazzo a Riposto, attraversa un paesaggio verde e ormai poco coltivato. Pochi passeggeri, sembra un trenino per oziosi come me. Due fidanzati che si punzecchiavano dispettosi, una polacca che mi spiegava come la littorina non si fermava più in tutte le piccole stazioni. Passò pure dritta davanti alla stazione di Passopisciaro. Per potersi fermare bisognava dirlo prima al conducente del treno. Poco male, potevo andare a Passopisciaro in auto, in un’altra occasione, o forse mai. I ricordi bisogna lasciarli come sono, fissi, immobili, lievemente dolci e inutili, tutti o quasi nel sogno . Rivedere la casa d’estate che non è più di proprietà, non è una bella soluzione. La giornata la stavo passando rilassandomi, perché aggravarla di rimpianti? Lontano, il bosco di Malabotta, nell’agro di Moio Alcantara, tutta Valdemone, ma la littorina da Piedimonte corre, gira lesta verso Nunziata di Mascali, brevissima sosta e poi il mare, il porto di Riposto. Il viaggio sta per finire; s’intravedono le piccole navi accostate alle banchine del caricatore. Il mare Jonio, il mare dei Greci. Il porto di Riposto era un porto importante nell’ottocento, ma anche molto prima; porto commerciale ed ora anche un po’ turistico. Oggi è giornata di scuola e di lavoro, ho molto oziato con questa littorina che gira tutta l’Etna. Non posso ritornare a Catania, il trenino si ferma qui. Posso rifare la strada al contrario, non mi conviene: sono ritornato di nuovo bambino.
Santo Catarame (Aristofane junior…) http://www.corrieredaristofane.it/
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Paternò è un centro urbano di medie dimensioni situato nell'entroterra catanese[6] e fa parte dell'area etnea. Il territorio comunale confina nella parte occidentale con Centuripe, in provincia di Enna, e nella parte meridionale con i comuni di Castel di Judica e Ramacca, appartenenti al distretto del Calatino. Il territorio è situato alle pendici sudoccidentali dell'Etna, ha un'altitudine media di 225 m s.l.m., una superficie complessiva di 144,04 km² ed una popolazione che sfiora i 50 000 abitanti. Particolare caratteristica di questo comune, è la sua unità territoriale, che vede l'assenza di vere e proprie zone periferiche. Il centro storico di Paternò infatti, si presenta delimitato con i quartieri satellite Ardizzone e Scala Vecchia-Palazzolo e con il colle su cui sorge la Rocca normanna, che gli abitanti chiamano "Collina storica", essendo la parte in cui vi sono concentrati i più importanti monumenti della città, nonché il suo nucleo originale e antico. A seguito dell'ordinanza emessa dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri entrata in vigore il 20 marzo 2003, e deliberata dalla Giunta regionale siciliana il 19 dicembre, la classificazione sismica attribuita al territorio del Comune di Paternò è quella di Zona 2 (sismicità media Dal punto di vista geomorfologico, il territorio comunale di Paternò è suddiviso in due aree ben definite, con i terreni di origine lavica nelle contrade verso le pendici dell'Etna e i terreni di origine alluvionale lungo la Valle del Simeto e la Piana di Catania. La città, invece, è racchiusa in una conca delimitata dall'antico vulcano preistorico che fu il luogo dove sorse il primo nucleo abitato. Ubicate nella parte nordoccidentale del territorio comunale, le Salinelle, importante sito di interesse naturalistico.
Una buona parte de
territorio paternese ricade nel bacino idrografico del fiume Simeto.
Il territorio, inoltre è caratterizzato dalla presenza di numerose
sorgenti idriche, in quanto si incontrano gli strati lavici
permeabili con quelli argillosi impermeabili, facendo fuoriuscire le
acque provenienti dal bacino idrografico dell'Etna. Le sorgenti più
importanti sono Monafria, Maimonide e Currone. Tra le ipotesi, sono degne di segnalazione quelle dello storico Gaetano Savasta (in Memorie storiche della città di Paternò, 1905), e del linguista Giovanni Alessio, che nei loro studi si sono orientati verso l'ipotesi di un'origine bizantina del nome. In particolare l'Alessio sostiene che il nome di Paternò sia legato a quello del vicino centro di Adernò, anch'esso di origine bizantina, e l'etimologia deriverebbe dal'espressione in lingua greca ep-Adernòn, che significa «verso Adernò». Il Savasta, invece, ha formulato l'ipotesi che il toponimo abbia origine latina e che derivi da Paetram Aitnaion, il cui significato sarebbe «Rocca degli Etnei» (riferendosi all'antico toponimo di Aitna). Ipotesi quest'ultima simile a quella formulata nel XVI secolo dallo storico Leandro Alberti, per il quale il toponimo comparve sotto i Romani. Il geografo arabo Al-Muqaddasi, nella sua descrizione della Sicilia (scritta intorno all'anno 988) denomina la città come Batarnù (una probabile corruzione del termine greco ep-Adernòn) e afferma che il toponimo era preesistente alla dominazione araba. In seguito alla conquista normanna (1061) il sito verrà quindi denominato Paternionis. La frequentazione umana del territorio è attestata a partire dal Neolitico, mentre tracce di insediamenti risalirebbero all'età del rame e del bronzo. La fondazione dell'odierna città di Paternò viene fatta risalire all'epoca anteriore a quella greca, su un sito di origine vulcanica, che fu probabilmente abitato fin dall'età di Thapsos. In origine dovette trattarsi di un villaggio dei Sicani, i quali sarebbero stati successivamente cacciati dai Siculi, che vi si insediarono intorno al IV millennio a.C., sfruttarono il tipo di superficie per cavare dalle rocce i blocchi di lava ed estrarre gli utensili da lavoro e le macine, e vi costruirono edifici sulla parte sommitale del colle vulcanico. Questo nuovo centro abitato assunse il nome di Hybla (????), che per distinguerla dalle altre città con lo stesso nome, fu chiamata Hybla Gereatis (o Hybla Major). Nella stessa epoca e nella stessa area, sorse probabilmente il villaggio di Inessa (??????). A fare menzione di queste due località, fu lo storico greco Tucidide, il quale affermò persino che i due villaggi fossero di origine sicula e li collocò nella medesima zona.
L'odierno abitato di Paternò fu in passato identificato con una di queste due antiche città sicane: secondo il prevosto e storico locale Gaetano Savasta[18] sarebbe stato identificabile con Inessa, mentre l'archeologo Paolo Orsi ipotizzò che si trattasse di Hybla, seguendo in questo alcuni studiosi seicenteschi, Filippo Cluverio (1619), Giovan Battista Nicolosi (1670), e che Inessa corrisponda all'odierno centro di Santa Maria di Licodia[20]. Le fonti sono frammentarie e mancano campagne di scavo sistematiche che consentano di risolvere la questione. Eppure un altro storico locale, il religioso Frà Placido Bellia, nel suo manoscritto dal titolo Storia di Paternò, che terminò nel 1808, vi attestò che nel suo convento furono rinvenute in uno scavo di ghiaia l'ara di cui sopra inciso "Veneri Hyblensi" e una lapide con scritta "Paternò Hybla Major", documenti conservati al Museo Biscari di Catania. Le due città sicule caddero in mano greca attorno al 460 a.C., quando furono assaltate dai Siracusani guidati dal tiranno Gerone I. Ad Inessa si rifugiarono numerosi profughi provenienti da Katane, e fu successivamente denominata Aitna (?????). Esse furono altresì coinvolte nelle guerre tra i Siracusani e gli Ateniesi, da questi ultimi devastate, ed in seguito dai primi riconquistate nel 403 a.C., quando al potere salì Dionisio il Vecchio: ad Aitna Dionisio inviò nel 396 a.C., truppe di mercenari campani al suo soldo, i quali compirono numerose stragi di popolazione, per aver questi favorito gli Ateniesi nel 415 a.C.. Aitna e Hybla, assieme alle altre città della Sicilia orientale, furono successivamente liberate nel 339 a.C. dai Corinzi guidati dal generale Timoleonte, che eliminarono i campani. Tracce dell'epoca greca a Paternò sono testimoniate da dei manufatti rinvenuti sulla rupe basaltica nel 1909, detti gli "argenti di Paternò", che oggi si trovano al Pergamonmuseum di Berlino.
I due centri caddero in
mano ai Romani intorno al 243 a.C., e fu l'inizio di una dominazione
caratterizzata dallo sfruttamento delle loro risorse, dalla
schiavizzazione degli abitanti e dalla fiscalità oppressiva: Aitna e
Hybla, infatti, furono inserite nell'elenco delle città decumane
della Sicilia. All'epoca romana risalgono resti di strutture quali
l'acquedotto e il Ponte di Pietralunga. Tra il IV e il V secolo d.C., la Sicilia passò sotto il dominio bizantino, e, secondo alcuni studiosi (Savasta ed altri), fu in quel periodo che nacque il nuovo toponimo di Paternò, anche se, in effetti, quello bizantino fu un periodo di declino politico ed economico che causò lo spopolamento del territorio, anche a causa delle continue scorrerie e attacchi di popolazioni barbariche e di saraceni. Dell'epoca bizantina si hanno scarse notizie nelle fonti storiche, gran parte delle quali riportano scarne informazioni in merito all'intenso processo di cristianizzazione che portò alla diffusione dello stile di vita monastico e alla costruzione di eremi, tra i quali, quello importantissimo di San Vito (dal VI secolo).
Occupata dagli Arabi
verso il 901, il borgo fu chiamato Batarnù - che fu probabilmente
un'arabizzazione del termine greco ep-Adernòn - e
amministrativamente fu integrata nel Val Demone. Grazie alla
fertilità dei luoghi si assistette ad una costante ripresa delle
attività agricole e pastorizie in tutto il territorio. Infatti, per la feracità dei suoi terreni e la ricchezza di fonti idriche, che rendono il suo territorio adatto alle colture, nel medioevo Paternò ricevette l'appellativo di Civitas Paternio Fertilissima[30], o più semplicemente Civitas Fertilissima, ovvero "città molto fertile".
Il doppio matrimonio del
1089 tra il Conte Ruggero e Adelaide del Vasto e quello del fratello
di costei, Enrico, con la figlia di primo letto del conte normanno,
Flandina, stabilì un'alleanza politica e militare tra gli Altavilla
e gli Aleramici. A seguito di quest'ultimo evento, la contea
paternese passò di ai Del Vasto, dapprima con il già citato Enrico,
a cui succedette nel 1137 il figlio Simone, ed infine nel 1143 il
figlio di quest'ultimo Manfredo, che fu l'ultimo conte aleramico di
Paternò poiché non ebbe eredi legittimi. Nel 1256 il re Manfredi di Sicilia concedette la signoria sulla città all'aleramico Galvano Lancia, suo zio, al quale spettava il suo possesso per diritto materno. Estintasi la dinastia sveva, con la morte di Manfredi e lo sterminio per ordine di Carlo I d'Angiò nel 1268 di tutti i membri maschi della casa ed anche dello stesso Lancia ad essi fedele, Paternò, la cui signoria passò a Manfredi II Maletta, fu occupata dagli Angioini a seguito del tradimento compiuto dal Maletto nei confronti dei reali svevi, il quale offrì la città agli invasor. Dopo la cacciata degli Angioini dall'isola (1299), subentrarono gli Aragonesi. In epoca aragonese, nel 1302, Paternò fu inserita nella cosiddetta Camera Reginale che venne costituita da Federico III d'Aragona come dono di nozze alla consorte Eleonora d'Angiò, poi ereditata dalle Regine che si susseguirono, sino alla sua abolizione. Nel 1348 la signoria di Paternò passò a Blasco Alagona, che governò la città sostenuto dal popolo nella sua lotta contro i Palizzi e i Chiaramonte. Alla morte di Blasco, la guida del governo della città fu assunta dal figlio Artale, che dimorò nel Castello.
Passata al Regio Demanio
nel 1396, il re Martino la assegnò nel 1403 alla sua seconda moglie,
la regina Bianca di Navarra, che due anni più tardi codificò un
sistema di norme civili denominato Consuetudini di Paternò. L'elevazione a rango di stato principesco, che diede quindi maggior prestigio e importanza alla città e agli stessi Moncada, favorì l'afflusso di numerose famiglie nobili e borghesi provenienti dalle altre zone della Sicilia e dalla Spagna[40]. Di questo periodo è di notevole interesse storico un'antica mappa prospettica di Paternò: un disegno ad inchiostro del Seicento scoperto recentemente, che inquadra la Collina e la città sottostante, coi suoi monumenti principali e con scene di vita quotidiana e di giustizia. In quel periodo Paternò, mutò quindi a livello urbanistico, e dopo il terremoto del 1693, la collina perse sempre più il suo ruolo di cuore della città in favore della parte bassa, in forte espansione demografica ed economica. Numerosi furono gli edifici religiosi eretti in città ad opera delle molte confraternite che vi operarono, in particolare nella "parte bassa".
Il dominio dei Moncada
sul comune etneo si concluse nel 1812, anno di promulgazione della
Costituzione siciliana, che assieme ad un'uguaglianza in campo
giuridico, all'abolizione della tortura e del maggiorascato,
prevedeva la cessazione dei diritti feudali.
LA ROCCA E LA COLLINA STORICA
Assurta a simbolo della città, la torre faceva parte di un castello fatto edificare nel 1072 dal Gran Conte Ruggero per garantire la protezione della valle del Simeto dalle incursioni islamiche. Il castello fu assegnato alla figlia di Ruggero, Flandrina, sposa dell'aleramico Enrico di Lombardia. Attorno al castello e al piccolo borgo la popolazione iniziò a crescere grazie ai numerosi mercenari al seguito dei conquistatori normanni e all'arrivo di coloni provenienti dall'Italia settentrionale attirati dai privilegi a loro concessi. Il primo nucleo del maniero fu ben presto ampliato e dalle primigenie funzioni prettamente militari fu utilizzato per usi civili, divenendo la sede signorile della Contea di Paternò che Enrico VI di Svevia assegnò nel 1195 al nobile di origine normanna Bartolomeo de Luci [ consanguineo del sovrano svevo. Il Castello negli anni seguenti ospitò re e regine, tra i quali Federico II di Svevia, la regina Eleonora d'Angiò e la regina Bianca di Navarra. E per concessione di Federico II passò a Galvano Lancia. Il castello di Paternò e i territori sottoposti, infatti, furono inseriti nella cosiddetta Camera Reginale che venne costituita da Federico III d'Aragona come dono di nozze alla consorte Eleonora d'Angiò e che poi venne ereditata dalle Regine che si susseguirono, sino alla sua abolizione. Dopo il 1431 appartenne alla famiglia Speciale e dal 1456 fino alla fine del feudalesimo fu proprietà della famiglia vicereale dei Moncada. Utilizzato come carcere nel XVIII secolo iniziò il processo di degrado e abbandono, ma dalla fine dell'Ottocento ha visto diverse campagne di restauro che gli hanno restituito l'antica possenza. L'edificio è a pianta rettangolare su tre livelli e raggiunge un'altezza di 34 m. Dall'epoca sveva il maniero era coronato da una merlatura ghibellina (come si osserva nel seicentesco Disegno della veduta di Paternò) di cui allo stato attuale resistono solo dei monconi. Particolarmente interessante e gradevole l'effetto di bicromatismo che si crea tra il colore scuro delle murature e le cornici delle aperture in calcare bianco. Al piano terra si trovano una serie di ambienti di servizio e la cappella di S. Giovanni ornata da pregevolissimi affreschi del XX secolo. Al primo piano il grande salone d'armi è illuminato da una serie di bifore. All'ultimo piano quattro grandi ambienti un tempo adibiti per l'abitazione del re sono disimpegnati da un vano delle dimensioni del salone sottostante e disposto trasversalmente ad esso, chiuso su entrambi i lati da due grandi bifore gotiche che dischiudono lo sguardo verso il Simeto e verso l'Etna. (Wikipedia)
La chiesa matrice di Paternò, intitolata a Santa Maria dell'Alto fu fondata nel XII secolo e rifondata nel 1342. Nel XVIII secolo, forse in seguito ai gravi danneggiamenti del terremoto del 1693 l'edificio subì nuove trasformazioni, tra cui il cambio di orientamento, per avere il nuovo accesso rivolto verso la città, e la sostituzione della copertura originale a capriate lignee con una volta in muratura. L'edificio venne inoltre adeguato al gusto barocco.
La chiesa è a pianta basilicale con tre navate, divise da due file di pilastri realizzati con conci in pietra lavica a vista, su cui si impostano archi a tutto sesto sormontati da un cornicione tuscanico. La facciata fu realizzata nel tardo XVIII secolo in stile neoclassico. La monumentale scalinata di accesso collega la chiesa alla città sottostante.
Paternò. La magnifica torre ha finestre di pietra bianca che risaltano sul nero del basalto Nato come avamposto sul fiume Simeto Il castello-torre o donjon di Adrano venne edificato probabilmente negli anni della contea di Ruggero I (XI secolo) come avamposto fortificato per la conquista della piana e della città di Catania. Insieme a quelli delle vicine Paternò e Motta Sant’Anastasia, sarebbe stato costruito per controllare la via d’accesso all’entroterra lungo la valle del fiume Simeto e garantire ai conquistatori il controllo della città di Catania. Ha una pianta rettangolare che misura 20 per 16,70 metri ed un’altezza che raggiunge i 33,70 metri. Alla base l’edificio è cinto da una modesta bastionatura con rondelle angolari di età moderna. L’edificio è stato eretto con la consueta tecnica muraria composta da materiale lavico di varia pezzatura e con cantonali realizzati tramite blocchi di basalto ben lavorati. Lo spessore della muratura varia dai 2,60 ai 2,30 metri. Lo spazio interno del donjon è ripartito in quattro piani oltre il pianterreno: pianterreno e primo piano sono coperti da volte a botte e a crociera. Fu residenza di importanti famiglie, i Pellegrino, gli Sclafani, i Moncada, che dall’alto della sua mole dominarono Adrano e il suo territorio per lungo tempo.
Paternò e Adrano Una città ricca di storia e di grandi tradizioni. Ecco Paternò che nel corso dei secoli ha visto sul proprio territorio bizantini, arabi, svevi, angioini ed aragonesi. Per questo sono numerose e tutte di gran pregio le testimonianze che oggi è possibile ammirare. Dall’ex Monastero della Santissima Annunziata, alla storica chiesa di Santa Barbara alle chiese costruite dall’epoca normanna al Settecento ai palazzi nobili ricchi di storia come Palazzo Alessi (sede istituzionale del Comune di Paternò), Palazzo Moncada, Portale Las Casas. In tutto il suo maestoso splendore, dominando dall’alto della Collina storica, tutta la città e la Piana, ecco il Castello Normanno: monumento simbolo della città, venne fatto erigere nel 1072 dal Gran Conte Ruggero e rappresenta il più grande dei tre dongioni della Valle del Simeto. Il maniero è un grande edificio fortificato ed ha una pianta a forma di parallelepipedo irregolare, con una sporgenza di 1,50 metri che occupa l’intera altezza della costruzione presso l’angolo sud-est. Le dimensioni complessive sono di 24,30 x 18 metri in pianta e 34 metri in altezza, con uno spessore della muratura, realizzata con conci di pietra lavica di varie dimensioni e leggermente sbozzati, pari a 2,60 metro. Un gradevole effetto donano i conci di pietra calcarea ben squadrati presso i cantonali e quelli finemente lavorati delle monofore e delle bifore, creando una bicromia caratteristica del donjon di Paternò. Chiunque visiti il maniero, a parte godere di una vista panoramica mozzafiato sulla Valle del Simeto e sul Vulcano Etna, è ammaliato dalla magnificienza della torre e della bicromia delle pietre di cui è formato. Nei muri perimetrali del castello sono praticate infatti numerose aperture di diversa forma e dimensione, tutte caratterizzate dalla pietra bianca calcarea, che le pone in risalto rispetto alla pietra nera basaltica utilizzato per la costruzione della torre. Le più piccole di queste aperture sono di forma rettangolare, strette e lunghe, ed avevano funzione specificatamente difensiva: sono le classiche feritoie attraverso le quali balestrieri ed arcieri potevano scagliare frecce sugli assalitori. Le finestre vere e proprie sono dette monofore e presentano in genere una forma di ogiva o di arco a pieno centro. Hanno funzione essenzialmente pratica di aerazione ed illuminazione. Le bifore, invece, aggiungono a questa funzione quella decorativa. Queste ultime, per la proporzione, la forma della colonnina centrale, la foggia del capitello e la ghiera esterna, ricordano le bifore di alcuni edifici di Taormina e di Randazzo, e sono tipicamente duecentesche. DOMENICA 3 AGOSTO 2014 LA SICILIA
Il comune è situato alle falde dell'Etna, a 513 metri sul livello del mare, a nord-ovest della città di Catania, su un lastrone magmatico che strapiomba sulla valle del Simeto a meno di 4 km in linea d'aria dal fiume. È un comune appartenente al Parco dell'Etna ed è adiacente a quello dei Nebrodi. In giornate terse il panorama permette di distinguere le colline dell'alto Calatino. Il territorio comunale, ovvero la parte maggiormente abitata, si estende lungo una zona di bassa montagna in una zona boscosa mentre tutto il territorio generalmente condivide la sommità dell'Etna in un punto geometrico teorico con altri nove comuni, in direzione sud-ovest, fino al fiume Simeto, e scorre come una lunga colata lavica dalla sommità dell'Etna con un dislivello complessivo di oltre 3.000 metri. Comprende 3 830 ettari del Parco dell'Etna a cui partecipano altri 10 comuni pedemontani. Confina a nord-ovest con il comune di Adrano, a nord-est con Ragalna e Belpasso, a sud-est con quello di Santa Maria di Licodia e Paternò, a sud-ovest con il comune di Centuripe. In base ai dati dell'Osservatorio Astrofisico di Catania il clima della cittadina è mediterraneo con caratteristiche continentali, con grandi estremi; la temperatura media nel mese di gennaio è di 4 °C, nel mese di luglio di 19 °C con una media annuale di 12 °C.[7] Biancavilla è caratterizzata da: autunni fino a novembre generalmente miti, ma che iniziano verso la fine del mese a portare pioggia e freddo; inverni freddi, con precipitazioni nevose talvolta anche a carattere di blizzard che durano giorni interi; le primavere sono abbastanza fresche, con piogge e non rare grandinate; infine le estati sono molto miti con temperature che nei valori estremi non arrivano solitamente oltre i 39 °C, e in questa stagione si hanno molte giornate di sole ma non è strano imbattersi in piogge, soprattutto durante i pomeriggi ad inizio e fine stagione. Le notti sono abbastanza fresche.
Storia Un gruppo di esuli albanesi, giunti in Sicilia nel XV secolo a causa delle pressioni islamiste turco-ottomane, decise di cercare riparo nel territorio ispanico-aragonese di Sicilia sulle falde dell'Etna, fondando nel 1482 una propria comunità nota inizialmente come "Terra di Callicari". Il centro fu poi chiamato o noto come "Casale dei Greci", "Poggio Rosso" o in latino "Albavillae", per giunger poi, dal 1599, al nome di Biancavilla, forse in omaggio alla regina Bianca di Navarra. Grazie all'abbondante presenza di sorgenti naturali e di grotte laviche, il territorio di Biancavilla fu abitato sin dal paleolitico superiore, dai Sicani prima, e dai Siculi dopo, come testimoniato dai reperti conservati presso il museo civico di Adrano[5] ritrovati in diversi siti archeologici esistenti anche all'interno dell'attuale centro abitato, ma fu successivamente abbandonato. La fondazione dell'abitato risale al XV secolo, quando un gruppo di profughi arbëreshë[14][15] provenienti dai Balcani (dall'Albania e successivamente dalla Morea), guidati da Cesare Masi (Çezari Mëzi), ottennero il permesso di abitare nel sito[16], dal conte Gian Tommaso Moncada, il quale chiese e ottenne la "licentia populandi" dai presidenti del Regno di Sicilia Santapau e Centelles. Detto privilegio venne confermato nel 1501 dal conte Guglielmo Moncada e nel 1502 dal figlio Antonio. Successivamente, nel 1504 i tre privilegi furono redatti in forma pubblica con un nuovo atto, firmato dal giudice Ferdinando Marchisio e dal notaio Luigi Passitano mentre è datata 1568, la conferma di D. Cesare, figlio di D. Francesco, primo principe di Paternò. La colonia fu insediata nella zona allora chiamata Callicari o Poggio Rosso, luogo probabilmente dell'antica Inessa. Gli albanesi, professanti il rito "greco", portarono con sé l'icona della Madre di Dio dell'Elemosina, tuttora oggetto di speciale e ininterrotta devozione[19]. In pochi anni la colonia albanese crebbe, grazie alle condizioni di privilegio concesse dai feudatari Moncada, Principi di Paternò. Non si conosce molto sull'attività civile e religiosa della colonia, poiché gli albanesi non lasciarono nessuno scritto, tranne che si esercitò il rito greco per quasi un secolo e che quando non esistette più un sacerdote per officiare il rito, veniva un "papàs" tutti gli anni delle colonie albanesi della provincia di Palermo per amministrare la Pasqua ai fedeli secondo i propri riti. Nel tempo la posizione geografica nonché la lontananza rispetto agli altri profughi albanesi portò probabilmente alla scomparsa e alla decadenza della componente originaria albanese a Biancavilla e a far prevalere così progressivamente la componente locale siciliana. Biancavilla fu sempre compresa nel feudo di Adernò e nel XVI secolo è citato col nome di Casale dei Greci. Il culto di San Placido, Patrono della città, si diffuse a Biancavilla nel XVII secolo, quando l'abate del vicino monastero di Santa Maria di Licodia nel 1602 alla chiesa madre cittadina le reliquie del santo, il cui culto si era diffuso in tutta la Sicilia, a seguito del rinvenimento a Messina di numerosi resti di martiri nella chiesa di San Giovanni Battista. San Placido fu dichiarato patrono e protettore della terra di Biancavilla, il 23 settembre 1709 dal vescovo di Catania Mons. Andrea Riggio, “per essere sfuggiti alla crudele strage (terremoto gennaio 1693 che distrusse Catania e tutta la Sicilia orientale) [...] perché in futuro (la terra di Biancavilla) non sia distrutta dall'eccidio del terremoto e [...] perché questa devozione rimanga salva nel ricordo dell'evento”. FONTE WIKLIPEDIA https://it.wikipedia.org/wiki/Biancavilla
Quella dei calanchi è un’immagine poco conosciuta della nostra Regione, pur costituendo tra le tante diversità dell’isola un’eccellenza non trascurabile. Dal punto di vista della conservazione dei luoghi questa circostanza è stata fino ad ora un grande vantaggio, in quanto ha permesso il mantenimento delle condizioni naturali originali e il loro rispetto. La scarsa fertilità dei suoli, la povertà dei pascoli, l’assenza di ogni altra risorsa economica differente ha giocato a favore della conservazione della bellezza dei calanchi, che, anzi, nel corso del tempo è solo aumentata. Nelle vallate più interne e più fertili le aree coltivate ad arancio si armonizzano perfettamente con la natura dei calanchi, anzi conferiscono alla stessa un ulteriore tocco nife, conferito dall’ordine e dai colori dei giardini di agrumi.
L’area merita di essere tutelata e rivalutata con un piano di sviluppo che preveda oltre alla conservazione dei luoghi una regolamentazione dell’accesso, una migliore fruizione delle aree più lontane, la segnalazione dei belvedere più belli, la realizzazione di sentieri battuti, l’imposizione di vincoli per una tutela integrale che vieti all’interno ogni attività in contrasto con la bellezza del territorio e del paesaggio. Ma ciò che più ci preme segnalare sono le potenzialità spirituali della zona, a tal proposito ci tornano in mente i brani forti del Vangelo in cui si parla del deserto come di un’area in cui Gesù Cristo si ritira per la preghiera, per la meditazione, per l’ascesi spirituale. Crediamo che la società odierna abbia un bisogno immenso di queste esperienze al fine di recuperare il valore reale delle cose, per un rapporto con il mondo e il terreno che sia epurato dalla dipendenza e che sottragga l’uomo dalla schiavitù della vita materiale, con tutte le conseguenze negative che essa genera. I calanchi con il loro aspetto essenziale, minimalistico, nudo ed osseo, ci dimostrano che la bellezza non è una enfatizzazione dell’aspetto esteriore ma la scoperta e rivalutazione della vita interiore e dei beni spirituali che ad essa sono connessi. Ci sono valori che appartengono alla vita umana che sono alla base di un’esistenza equilibrata e armoniosa, valori che noi abbiamo completamente cancellato in favore di realtà apparentemente più desiderabili, ma meno efficienti, incapaci di portare la vera pace nel cuore. Da queste semplici riflessioni comprendiamo che il Creatore tutto ha realizzato nel mondo per il benessere nostro, prevedendo anche le opere necessarie a stimolare il nostro ritorno alla vita spirituale e al suo amore di Padre premuroso, provvidente e sempre presente. Capo d’Orlando, 03/03/2014 Dario Sirna FONTE: http://camminoin.it/calanchi-di-biancavilla-quarta-parte/
Belpasso «La cultura, cuore della nostra storia è il nostro futuro»
Tra arte, storia, natura, folklore, artigianato, specialità dolciarie, attrazioni acquatiche e commerciali, Belpasso, cittadina di 28mila abitanti, è una tappa strategica alle pendici del Mongibello. «Gode di un vastissimo territorio eterogeneo sotto molti punti di vista - esordisce il giovane presidente del Consiglio comunale, Salvo Licandri - capace anche di raccontare la storia del territorio». Una storia ricca di fascino e che ha lasciato il segno: dai giorni della Regina Eleonora D’Angiò, ai rapporti con i vicini borghi medievali, passando per le calamità legate agli umori distruttivi dell’Etna del 1669 e del 1693 che hanno portato da Malpasso a Fenicia Moncada fino all’attuale “Scacchiera dell’Etna”. «La nostra cittadina – prosegue Licandri - offre diverse peculiarità: monumenti, tradizioni dolciarie, cultura teatrale, “l’oro nero” dell’Etna, ovvero la pietra lavica, senza dimenticare le tradizioni religiose». La bella stagione si presenta dunque come il periodo turisticamente più favorevole. «Belpasso è soprattutto una meta per le ferie estive – ha proseguito Licandri - A segnalare un’impennata di presenze sono i dati che ci provengono da Etnaland, maggiore parco acquatico del Meridione, da Etnapolis, realtà non soltanto commerciale ma soprattutto ricreativa. A ciò si aggiunge anche la struttura dell’anfiteatro nel Parco urbano di piano Garofalo, che offre una rassegna di eventi artistici di alto livello. In questo contesto la forza del paese sono anche le strutture ricettive come i B&b, migliori nel contesto etneo, al completo nei periodi delle maggiori attrazioni come “le spaccate” dei carri di S. Lucia, adesso riprese anche ad agosto, e dell’atteso motoraduno internazionale dell’Etna». «Ricoprire il ruolo di presidente del Consiglio dà molto prestigio, ma anche molta responsabilità. Se parlo di bilancio sento l’obbligo di lavorare in funzione del potenziamento dell’ufficio Europa per individuare somme della Comunità europea per i tanti progetti che Belpasso da troppo tempo ha in cantiere e che finalmente, con la nuodalla tutela ambientale alla valorizzazione dei prodotti agricoli - con il miglior olio d’oliva, le arance rosse, i fichidindia belpassesi meglio noti come “bastardoni” dell’Etna - il passo è breve. Nel ventaglio delle tante risorse del territorio un posto di rilievo va poi alsta guardare il basalto lavico di via Roma, gli storici palazzi e le tante chiese, piene di opere d’arte, per arrivare poi anche all’importante tradizione teatrale. Tutto ciò non è solo il cuore della nostra storia ma deve essere il nostro presente e il nostro futuro. Ecco perché - prosegue Licandri - l’amministrazione, assieme alla fondazione Bufali, ha elaborato dei progetti per reperire i finanziamenti per recuperare i saloni e le aree più suggestive e artistiche della storica struttura di Palazzo Bufali». «Le attrattive: monumenti, tradizioni dolciarie, teatro e la pietra lavica» va amministrazione guidata dal giovane sindaco Carlo Caputo, potrà portare a compimento. Tra i progetti più ambiziosi, la rete di collegamenti sia per l’Etna, attraverso la “tangenziale” che attraversi l’interno del territorio belpassese, sia una superstrada che colleghi il centro urbano a Belpasso sud, velocizzando i collegamenti con Etnapolis, e al futuro parcheggio scambiatore per la nascente metropolitana. Belpasso è una risorsa unica al mondo, una buona fetta di territorio particolarmente suggestiva ricade all’interno dalla riserva del Parco naturale dell’Etna, che deve essere valorizzata, così come questa amministrazione ha pensato nel proprio cronoprogramma». E la cultura. «La spaccata dei “carri di S. Lucia” e la degustazione del torroncino Condorelli, sono attrazioni capaci di far convergere nella “scacchiera dell’Etna” importanti flussi turistici». Così per una lettura completa della storia del territorio etneo, non si può non passare da Belpasso, rifiorita ai primi del 700 con il duro lavoro degli scalpellini e degli artigiani del posto. DOMENICA 3 AGOSTO 2014 LA SICILIA - SONIA DISTEFANO
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Sorge
a m. 442 s.l.m., sul versante sud occidentale dell’Etna. Il comune è
circondato da lusseregianti campagne coltivate per lo più ad agrumi
e uliveti nella parte bassa, e a vigneti nella zona alta. La
ferrovia Circumetnea e l'ex strada statale 121, ideata durante
l'epoca borbonica, che nel centro abitato prende nome di Via
Vittorio Emanuele, attraversano l'abitato. Dal capoluogo di
provincia è ben raggiungibile attraverso la strada a scorrimento
veloce Catania-Paternò. La Città fa parte della provincia,
dell'arcidiocesi e dell'area metropolitana di Catania, ed è inserita
tra i comuni del Parco dell'Etna.
Acquistata una grande quantità di materiali, li chiuse in una fortezza, e con buon numero di stranieri venuti segretamente, s’impadronì della città e se ne fece tiranno. (dal 570 al 555 a.C.) Con perfidia pari all’ambizione ed alla sua crudeltà dell’animo, cercò di allargare i confini del suo dominio, e sottomettere a sé le città Sicane tra cui Inessa. Si volse a Teuta che n’era tiranno e con ambasciata solenne gli fece intendere di desiderare come sposa la figlia.
Tetua, lusingato,
acconsentì; ma quando fu tempo di condurre con sé la giovane, si
fece precedere da soldati in abito di donzelle come se recassero
doni nuziali, e quando furono dentro la città la occuparono senza
ostacoli (secolo V). »
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I tempi del nostro lungo medioevo sono documentati da un patrimonio storico-culturale d’eccezionale importanza. Essi narrano un trascorso di grandezza che i nostri avi hanno costruito o contribuito a costruire. Le migliorate condizioni di vita favoriscono un movimento turistico sempre più in espansione. Noi con l’occhio antico del turista, e non per campanilismo, siamo andati a curiosare, a chiedere, talvolta a cercare e immaginare. Con l’obiettivo della macchina fotografica, come pure con ricerche di archivio e l’ausilio di memorie storiche, abbiamo cercato e fissato quei ruderi che sono o erano gli splendori di una civiltà passata: la nostra. Abbiamo voluto, quindi, immortalare quei "fantasmi" che sono sopravvissuti ad incuria e abbandono cercando di non farli del tutto svanire e portarli a testimonianza e non a leggenda. Siamo andati alla ricerca di documenti che ci permettessero di ricostruire l’economia, la società e la cultura del tempo.
Siamo stati attenti alla spiritualità e religiosità popolare cercando dappertutto di cogliere quei legami che fanno della nostra società una figlia di quella primigenia che l’ha preceduta. Abbiamo, in una parola, cercato le nostre radici. Narrando la storia del passato, ci proponiamo con questo sito di suscitare interesse verso tutto ciò che è segno indelebile di recupero di tradizioni, valori autentici che la massificazione, segno dei nostri tempi, ha inevitabilmente gettato nell’oblio. L'esposizione, concisa e veloce degli avvenimenti, non vuole avere la pretesa di un trattato di storia e neppure quella di uno studio sulla vita politica, economica e sociale di Bronte. Per questo - e per approfondire quanto da noi scritto - vi rimandiamo alle Memorie storiche di Bronte di Benedetto Radice.
Ci auguriamo solo che
quanto realizzato possa servire da piattaforma di rilancio
culturale, sociale ed economico della nostra piccola cittadina.
http://www.bronteinsieme.it/2st/story.html La Capitale italiana del pistacchio!
La Sicilia è l'unica
regione italiana dove si produce il pistacchio ("pistacia vera") e
la cittadina etnea, con oltre tremila ettari in coltura
specializzata, ne esprime l'area di coltivazione principale (più
dell'80% della superficie regionale) con una produzione dalle
caratteristiche peculiari.
Concorreranno la terra e
le sciare dell'Etna, la temperatura o il portainnesto, le tradizioni
di coltura tramandate da padre in figlio, fatto è che la
pistacchicoltura brontese, a differenza dei prodotti di provenienza
americana o asiatica, in massima parte con semi di colore giallo,
produce frutti di alto pregio, molto apprezzati e richiesti nei
mercati europei e giapponesi per le dimensioni e l'intensa
colorazione verde.
La Ducea di Nelson L'Abbazia di Santa Maria di Maniace, chiamata anche Ducea di Nelson, Castello di Nelson e Ducea di Maniace, si trova al confine fra i comuni di Bronte e Maniace, in provincia di Catania. Il complesso è costituito da tre strutture principali: la dimora nobiliare dei duchi Nelson-Bridport (impropiamente detta castello), oggi trasformata in Museo, i resti dell'antica Abbazia benedettina dedicata a Maria Santissima e la chiesetta di Santa Maria di Maniace esempio di architettura religiosa normanna tutto circondato da un grande e splendido parco.
Fu fondata dalla regina Margherita di Navarra nel XII secolo. Verrà donata insieme al feudo nel 1799 da Ferdinando di Borbone all'ammiraglio inglese Horatio Nelson. Oggi il complesso è stato musealizzato. Dopo svariate vicissitudini nel corso dei secoli, tra cui il terremoto del 1693, venne donato ad Orazio Nelson insieme ad un vasto feudo nel 1799 da Ferdinando III. Nel 1981 il Comune di Bronte acquistò la struttura dall’ultimo erede dell’ammiraglio inglese. Alla fine del XIX secolo la casa ducale verrà abitata dal poeta scozzese William Sharp. Sotto il fascismo la ducea fu espropriata agli inglesi e, proprio di fronte all'ingresso principale, fu costruito un gruppo di case assegnate ai braccianti, fu chiamato "borgo Caracciolo" a ricordo del rivoluzionario napoletano i cui propositi erano stati vanificati proprio da Nelson. Degni di nota il portale della chiesa, una Madonna bizantina ivi conservata, quel che resta del giardino interno e la semplice maestosità della croce dedicata "Heroi Immortali Nili" ovvero ad Orazio Nelson che vantava nella sua carriera di condottiero anche una memorabile vittoria sul Nilo. Dai brontesi e dai maniaciesi oggi il complesso è chiamato comunemente "il Castello", anche se la sua struttura ha poco o nulla (eccettuate alcune piccole torri sul torrente Saracena) che richiami l'idea di questo tipo d'edificio.
Bronte ai piedi dell'Etna
Del grandioso tempio
dedicato alla Madonna dalla regina Margherita rimangono le navate,
uno splendido portico gotico-normanno e l'icona bizantina - secondo
la leggenda dipinta da San Luca. Dietro la chiesa, in quelli che
furono i magazzini, alcuni scavi hanno riportato alla luce l'abside
dell'antica costruzione normanna. Inoltre si possono osservare due
torrette medievali ed un grande parco all'inglese. Dell'antico
castello rimane poco, oltre le torrette citate ed una parte della
cinta muraria, in quanto gli ambienti furono riadattati dagli eredi
di Nelson a scopi abitativi o a magazzini al servizio
dell'agricoltura, ma sono visitabili ed espongono alcuni cimeli
d'epoca appartenuti all'ammiraglio. Nel cortile interno vi è una
croce celtica dedicata all'ammiraglio Nelson. Nel parco si trova
invece un piccolo cimitero inglise costrutito nel 1898, dove spicca
una croce celtica in pietra nera dell'Etna, che indica la sepoltura
del poeta scozzese William Sharp. All’interno del Castello si
possono visitare gli appartamenti ducali, la chiesa di Santa Maria
di Maniace con il suo portale gotico normanno ed i suoi dipinti, i
resti dell’abbazia, il museo fotografico della pietra lavica, il
giardino inglese, il grande parco con parco giochi attrezzato e
sculture moderne in pietra lavica, tutti i giorni della settimana
tranne il lunedì, a meno che non corrisponda con giorni festivi in
cui dunque è prevista l’apertura anche il lunedì.
Orario visite: tutti i
giorni: orario invernale 9.00-13.00 e 14.30-17.00 - orario estivo
9.00-13.00 e 14.30-19.00
IL MISTERO DELLA ROCCA CALANNA DI BRONTE: IL GIGANTE DI PIETRA A cura di Enzo Crimi – Divulgatore ambientale e naturalista, già Commissario Superiore del Corpo Forestale della Regione Siciliana
Non sempre, ma spesso le pietre parlano e ci raccontano la storia del loro territorio, le civiltà che da esso sono passate e tutte le loro vicende umane, reali e storiche che a volte si fondono in tutt’uno con il mito, la fantasia e l’illusorio. Meglio conosciuta come il "Roccazzo di Canalaci", è una grande rupe arenaria che si trova a pochi metri dai bordi della strada Statale n° 284, tra i centri urbani di Bronte e Maletto, precisamente all’altezza della contrada “Difesa” di Bronte. E' singolare che seppur di buon interesse archeologico, il sito è di proprietà privata. L’attrattiva paesaggistica di questa rupe, è dovuta alla sua conformazione fisica e all’ubicazione su un lussureggiante pianoro che può considerarsi come anello di congiunzione tra il dominio vulcanico etneo e, più in generale, con i terreni sedimentari posti a settentrione, caratterizzati geologicamente da argille variegate e quarzareniti identificate in letteratura geologica con il nome di “Flysch Numidico”. Questa “rocca”, intrecciata con la leggenda popolare della pantofola della regina Elisabetta I^ d'Inghilterra e del suo patto con il diavolo, riveste un pregevole interesse archeologico, dato che quasi alla sua base si trovano delle cellette funerarie (gruttitti, evidenziate da frecce rosse), preziose tracce del passaggio in vita di grandi civiltà neolitiche, che utilizzavano questi siti per la sepoltura dei loro defunti. Queste grotticelle vengono attribuite da alcuni studiosi ai popoli primitivi Sicani o ai Siculi, mentre per altri esperti, sono risalenti verosimilmente ad epoca Bizantina. Il Prof. Francesco Saverio Cavallari, architetto, archeologo e incisore (n. Palermo 1809 - m. 1896), fu direttore delle antichità siciliane, che ricoprì per oltre trent'anni diventando anche Direttore del Museo di Siracusa. Cavallari fu tra i primi a interessarsi delle popolazioni preelleniche di Sicilia e quando visitò gli insediamenti archeologici di questi luoghi, li attribuì ai Sicani o ai Siculi, sostenendo che in una parte del territorio, posteriormente invaso dalla corrente delle antiche lave, vi avessero avuto dimora popoli antichissimi, cioè i Sicani e vi avessero sepolto i loro morti. Il Prof. Cavallari sosteneva che i Sicani, già presenti in Sicilia anteriormente all’arrivo dei Siculi (giunti dalla penisola sul finire del 2° millennio a.C.), sarebbero stati da questi sospinti in modo cruento verso la parte centro-occidentale dell'isola. Diodoro Siculo, noto storico siceliota, sosteneva invece, che i Sicani furono costretti a rifugiarsi ad Occidente perchè impauriti dalle continue eruzioni dell’Etna.
Le Forre laviche del Simeto La riserva naturale "Forre laviche del Simeto" è l'unica tra quelle previste dal Piano regionale delle Riserve naturali in provincia di Catania, a non essere ancora istituita.
La
riserva include, sinora parzialmente, parte
dell’alto corso del fiume Simeto che presenta un
insieme diversificato di ambienti naturali in buone
condizioni di conservazione, di grande interesse
naturalistico ed ospitanti una ricca biodiversità. In prossimità del Ponte dei Saraceni si incontra un secondo tratto profondamente inciso in rocce laviche appartenenti ai Centri Alcalini Antichi, ai cui fianchi l’alveo di piena, scavato anch’esso sulle lave, presenta le caratteristiche forme d’erosione denominate “marmitte dei giganti”. A valle di quest’area l’alveo del fiume si allarga nuovamente e si svolge per alcuni chilometri, fino alla Contrada Santa Domenica, in una stretta valle affiancata da alte pareti laviche limitanti ampie zone pianeggianti. Di rilievo, in aree esterne all’attuale perimetro, la presenza, in Contrada Santa Domenica, di alcune sorgenti che vanno ad alimentare il Fiume Simeto. Le piccole grotte (“Favare”) da cui scaturisce l’acqua sono ubicate in spesse concrezioni calcaree travertinose formate dalla precipitazione di carbonato di calcio di cui sono ricche le sorgenti.
La presenza di ambienti acquatici, ripari e di forra determina un rilevante interesse per la fauna sia vertebrata sia invertebrata. In particolare, le acque del fiume ospitano comunità macrobentoniche discretamente ricche; la presenza di sorgenti con acque pure nei pressi del corso d’acqua innalza significativamente il livello della biodiversità e determina un apporto idrico che migliora la qualità biologica delle acque. La presenza di diversi ambienti in condizioni di naturalità e di seminaturalità (corsi d’acqua, ambienti lentici, greti ciottolosi, rupi, pascoli, aree boscate, seminativi) rende il territorio dell’area protetta particolarmente interessante anche per la fauna terrestre.
Sotto
l'aspetto vegetazionale il corso d'acqua ospita
estesamente boschi ripari a salici (Salicetum
albo-purpureae) caratterizzati dalla presenza di tre
specie di salice, Salice bianco (Salix alba), Salice
rosso (Salix purpurea) e Salice di Gussone (Salix
gussonei), nonché di Tamerice maggiore (Tamarix
africana), Pioppo nero (Populus nigra) ed Oleandro
(Nerium oleander). In diversi tratti i boschi ripari
a salici e pioppo risultano notevolmente densi e
fisionomicamente evoluti, denotando un ottimo stato
di conservazione. La presenza del Salice di Gussone
riveste, inoltre, particolare interesse in quanto
specie endemica dei corsi d'acqua della Sicilia
nord-orientale. In alcuni tratti con debole
scorrimento delle acque è insediata una vegetazione
palustre a tifa (Typha angustifolia) alla quale si
associano altre idrofite quali la Menta d’acqua
(Mentha aquatica) e lo Zigolo comune (Cyperus
longus).
Tramonto Etneo da Bronte
1860,
quei morti a Bronte che volle Nino Bixio
1 novembre 2010 - Erano le terre della Ducea regalata a Nelson, il vincitore di Trafalgar. Un regalo che, però, unì sofferenze nuove a suprusi antichi.Ma l’episodio che più di ogni altro ce le fa ricordare è legato alla memoria di un luogotenente dell’eroe dei due mondi. Nino Bixio. Bronte, oggi, non prova odio per Nino Bixio. Qualcuno, decenni or sono, gli dedicò pure una via (qualcun altro, decenni dopo, scalpellò via la targa…).
Ma,
certo, l’episodio è nella memoria di quanti, oggi,
in questo periodo di festeggiamenti per i 150 anni
dell’Unità d’Italia, ricordano pure i lutti e le
violenze che la accompagnarono. Soprattutto a danno
delle classi più deboli del Mezzogiorno. Delusi dalla decisione di non applicare ai possedimenti dei Nelson i proclami garibaldini, i “comunisti” brontesi (si chiamavano così, in contrapposizione ai “cappelli”, i borghesi), qualche mese dopo, si rivoltarono, mettendo a ferro e a fuoco la cittadina. Violenze su violenze. Decine di morti. Nino Bixio impose la legge marziale, anche per accontentare gli inglesi, che a Bronte, appunto, avevano un loro avamposto importante per via della ducea dei Nelson. Seguì la feroce repressione dei contadini. Finirono le illusioni sull’impresa garibaldina. Bixio sacrificò agli interessi dei pochi persino la vita di chi, come Niccolò Lombardo, pure lo aveva sostenuto, convinto patriota, nell’impresa dei Mille. Oggi, che al Sud si registra un risveglio dell’orgoglio meridionale in netta contrapposizione al Risorgimento, anche su questo episodio occorrerebbe gettare maggiore luce. http://catania.blogsicilia.it/1860-quei-morti-a-bronte-che-volle-nino-bixio/13212/
IN AUTO:
Bronte è sprovvista di linee autostradali, le più
vicine risultano essere a circa 50 Km, la A19 che
mette in collegamento Palermo con Catania e la A18
che collega Messina con Catania.
L'Etna visto dai Nebrodi
visto che siamo vicini, perchè non fare una capatina sui....
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