LA CITTA' DEI PARCHI COMMERCIALI.

 

A Catania sono previsti nuovi centri commerciali
Non si sa per quale motivo, ma la zona di Catania vuole superare il record di avere molti ipermercati vicini tra di loro. Nei prossimi mesi sarà aperto il nuovo centro commerciale “Gli Arancì” del gruppo Auchan nel quartiere Pigno e il nuovo centro “Ikea” vicino lo svincolo della Zona Industriale Nord della Tagenziale di Catania.

La costruzione del nuovo centro commerciale a San Gregorio di Catania è ferma, perchè Carrefour ha deciso di bloccare per adesso i lavori a causa della crisi economica.

 

Entro il 2012 è prevista l’apertura di un nuovo mega centro commerciale che vuole sfidare Etnapolis e Gli Arancì, il cui nome sarà “Felix” e sarà situato in una zona del comune di Misterbianco. Il nuovo polo dedicato allo shopping sarà in Contrada Cubba, vicino lo svincolo di San Giorgio della Tangenziale di Catania, nel territorio sud del comune di Misterbianco. Il grande parco commerciale sarà di 40.000 mq, con uno shopping center di 45.000 mq e un’area dedicata al tempo libero di 18.500 mq con oltre 6.500 posti auto. Il centro commerciale “Felix”, di proprietà della società “Cualbu Spa” e commercializzato da “Cushmau & Wakefield”, conterrà circa 100 punti vendita. Secondo il progetto, la struttura avrà una forma a trapezio, dove le varie metrature di vendita si affacceranno su una serie di piazze e gallerie. Una grande superficie destinata al supermercato alimentare sorgerà a lato del corpo centrale dello shopping center che ospiterà anche una decina di spazi dedicati ad attività food e di artigianato.

 

 

 

Una veduta d'insieme della zona commerciale alle porte di Misterbianco

 

Felix ingrandirà ancora di più il territorio comunale: Misterbianco si estende dalla zona di San Giovanni Galermo (comune di Catania, a nord) all’Hotel Gelso Bianco (comune di Motta Sant’Anastasia, a sud) ed da Nesima Superiore-San Nullo (comune di Catania, a est) a Piano Tavola (frazione divisa da 4 comuni etnei, ad ovest).

Più precisamente, l’area del nuovo centro commerciale confina a nord con la Strada Provinciale 54, ad est con la Tangenziale di Catania, a sud con il Vallone Cubba ed a ovest con la strada comunale San Francesco. La società ha presentato il progetto all’Eire 2009. Intanto vicino quelle zone sta per nascere l’ospedale San Marco, il nuovo Asse Attrezzato che collegherà A19 Catania-Palermo con Corso Indipedenza e la nuova stazione dei Vigili del Fuoco.

Giuseppe Battiato  http://www.criluge.it/corridoio/?p=4166

 

NON TUTTI, QUESTI SONO SOLO

QUELLI PRINCIPALI.

ETNAPOLIS

PORTE DI CATANIA

CENTRO SICILIA

IKEA

METRO

LE ZAGARE

I PORTALI

KATANE'

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Misterbianco (Mustarjancu in siciliano) è un comune italiano di 49.367 abitanti[3] della provincia di Catania in Sicilia.
Anticamente l'abitato si sviluppava su di un rilievo alle pendici dell'Etna con terre fertili e attraversato dal fiume Amenano. Il nome cittadino deriva da un monastero i cui monaci indossavano un saio bianco, probabilmente domenicani, Monasterium Album, che venne distrutto, assieme all'antico borgo, dall'eruzione del 1669. La ricostruzione nel nuovo sito avvenne grazie all'autorizzazione ad erigere il nuovo comune che gli abitanti chiesero subito al Tribunale del Regio Patrimonio, autorizzazione che si concluse con l'acquisto del nuovo territorio, quello attuale più a valle, avvenuta il 24 novembre 1670 che apparteneva al Convento delle Moniali di S. Giuliano di Catania e pagato al prezzo di 501 onze, 12 tarì e 10 grana. La ricostruzione fu condotta in maniera per quanto possibile fedele alla precedente struttura cittadina. Fu riedificata la piazza dei Quattro Canti, le chiese, i quattro palazzi signorili - Santonocito, Scuderi, Anfuso e Santagati - e buona parte dei monumenti, ivi compresa la stele con la croce, trasportata dall'antico comune e che fu installata sul poggio da cui ha preso il nome l'attuale Poggio Croce.

Casale di Catania fino al 1642, divenne Terra indipendente a seguito dell'acquisto da parte di Gian Andrea Massa, nobile famiglia genovese che lo cedette dopo qualche giorno alla famiglia Trigona, allora baroni di S. Cono e Dragofosso, che nel 1685 ottenne il titolo di duca di Misterbianco.

A Misterbianco vi sono alcune aree archeologiche con reperti del Neolitico, insediamenti greco - romani e bizantini (nella contrada Erbe Bianche) e i resti di un acquedotto d'età romana. Da ricordare i resti dell'antica Chiesa Madre, dedicata a Santa Maria de Monasterio Albo, citata in alcuni documenti trecenteschi, e in alcuni cinquecenteschi sotto il titolo di Santa Maria delle Grazie. Dell'originaria costruzione, distrutta dall'eruzione del 1669, restava fino ai primi anni del 2000 solo parte dell'antico campanile. Adesso a seguito degli scavi archeologici è stata riportata alla luce l'intera navata, il pavimento originale, l'abside, gli altari laterali e gli ambienti circostanti.

Fino alla metà degli anni cinquanta Misterbianco era solo un grosso centro agricolo alle porte di Catania. Negli anni sessanta iniziarono a svilupparsi, nell'area a nord ovest, insediamenti industriali per lo più connessi al settore produttivo edile. La popolazione al censimento del 1971 risultava essere di 18.836 abitanti. A partire dagli anni settanta, in conseguenza dello sviluppo caotico ed irrefrenabile delle costruzioni nelle zone dove ora sorgono le frazioni di Lineri, Poggio Lupo, Serra, Belsito e Montepalma si è verificato un vertiginoso aumento della popolazione, confluitavi dall'hinterland Etneo più povero e dai quartieri più disagiati della città di Catania. Contemporaneamente si è sviluppata a macchia d'olio l'area commerciale/industriale arricchendosi di anno in anno di nuove aziende sempre più importanti, soprattutto nel settore della grande distribuzione, senza trascurare quello ad alto contenuto tecnologico come nel caso dell'Alenia. Il censimento del 1991 registrava già un numero di abitanti di 40.785 unità, dei quali la metà residenti nelle varie frazioni. Il fenomeno, pur in scala più ridotta, prosegue e ciò a causa del sempre più alto costo delle unità immobiliari nel centro di Catania, che spinge molti a cercare alloggio nei comuni circostanti, come Misterbianco.
Chiesa Madre dedicata a S. Maria delle Grazie (parrocchia), Chiesa di San Nicolò (parrocchia), Chiesa di S. Angela Merici (parrocchia), Chiesa della Divina Misericordia (parrocchia), Chiesa S. Bernadetta (parrocchia), Chiesa S. Carlo Borromeo (parrocchia), Chiesa S: Massimiliano Kolbe (parrocchia), Chiesa Beato Cardinale Dusmet (parrocchia), Chiesa del Carmine, Chiesa di S. Giuseppe, Chiesa di S. Rocco, Chiesa di S. Lucia o S. Orsola, Chiesa di S. Margherita, Chiesa della Madonna degli Ammalati, Chiesa di Campanarazzu (vecchia chiesa Madre), Monumento ai Caduti, Monumento a Garibaldi, Monumento a Nunzio Caudullo, Terme romane, Poggio Croce, Palazzo del Senato, Palazzo Ducale, Ospizio, Stabilimento Monaco.

Tra Misterbianco e Catania si trova la più importante zona commerciale della provincia. Si trovano presenti quasi tutte le principali imprese di grande distribuzione di livello europeo. Imprese sia all'ingrosso che al dettaglio, operanti nei settori dell'abbigliamento e dell'arredamento, dell'informatica e delle forniture da ufficio, del bricolage e della refrigerazione.

Una grande area, tra l'attuale zona commerciale e la frazione di Montepalma, ospitava fino a qualche decennio fa una delle più grandi imprese del settore costruzioni, l'impresa Costanzo, travolta dagli scandali del periodo di Tangentopoli[6]. In essa si producevano prefabbricati pesanti in calcestruzzo per uso autostradale, ferroviario e civile, nonché interi edifici industriali, commerciali e per uso civile; l'impresa ebbe anche l'appalto di due lotti dell'allora costruendo Tunnel della Manica ed occupava diverse migliaia di persone nei suoi vari settori di attività, oggi è del tutto abbandonata.

 

 

Periferie e frazioni 

Madonna degli Ammalati è una località estiva frequentata dai misterbianchesi posta in zona collinare a nord-est del centro urbano. La frazione è sorta su una parte dell'area dell'antico abitato di Misterbianco, seppellito dalla lava del 1669, di cui rimasero intatte soltanto alcune parti, ancor oggi visibili oltre alla chiesetta della Madonna degli Ammalati e il campanarazzu, cioè il campanile della chiesa madre sepolta e una parte della costruzione di quella di San Nicolò. Quanto rimasto della chiesetta crollò in seguito al terremoto del 1693 eccetto la parete nord sulla quale si trovava l'affresco raffigurante Maria SS. Aegrotorum (degli Ammalati). Nella prima metà del Settecento il sacerdote Domenico Bruno iniziò a ricostruire la chiesetta restaurando i frammenti di intonaco sopravvissuti e dando inizio al culto alla Madonna degli Ammalati la cui festa dura quattro giorni concludendosi la seconda domenica di settembre; questa inizia con una processione di fedeli che accompagna una campana di 51 kg, sopravvissuta alla lava, ma rifusa nell'Ottocento, dalla chiesa di S. Nicolò, nel centro cittadino, fino alla chiesa del cosiddetto Chianu 'e malati; vengono celebrate varie messe, si esegue la tradizionale "Cantata" nei pressi del "Piano" ove i membri della commissione per i festeggiamenti, con un sacco in mano, aspettano 'o passu (al passaggio) i fedeli per la raccolta delle offerte. Durante le giornate si svolgono aste sacre; la festa si conclude con fragorosi fuochi d'artificio fino a notte fonda. Oggi è una zona residenziale del paese.

L'antico sito di Campanarazzu è raggiungibile lungo la strada che collega la frazione alla strada provinciale 12/1 Misterbianco-San Giovanni di Galermo.

Piano Tavola è suddivisa amministrativamente tra i comuni di Belpasso, Misterbianco, Camporotondo Etneo e Motta Sant'Anastasia. È un grosso borgo circondato da insediamenti industriali ed artigianali che aspira ad essere eretto in comune autonomo. Ha una sua stazione ferroviaria della Ferrovia Circumetnea.

Lineri, e Montepalma sono due grosse frazioni, nelle quali abita circa un terzo della popolazione di Misterbianco, site ad est del centro principale, vicine alla città di Catania.

Le frazioni di Belsito CT, Serra Superiore e di Poggio Lupo si trovano immediatamente a nord di Lineri, a ridosso della strada provinciale 12; le ultime due sono sede di numerose imprese di produzione e commercializzazione di materiale edile.

http://it.wikipedia.org/wiki/Misterbianco

 

Storia e origini dell’antico Campanile di Misterbianco

Nel 1669 una delle eruzioni più disastrose dell’Etna colpì moltissimi centri abitati  e gran parte della città di Catania. Il fiume di lava colpì anche il paese di Misterbianco ricoprendo interamente la Chiesa Madre o di Santa Maria de Monastero Albo eccetto l’alto campanile che nel corso del tempo divenne l’unica testimonianza visibile della catastrofe con le sue sei campane. Nel 1693 seguì un terremoto che rase al suolo il paese e determinò il crollo del Campanarazzu seppur in parte. Pertanto, la struttura diroccata divenne un simbolo che vivificò la memoria dell’antico paese di Misterbianco. La nomenclatura della Chiesa di Santa Maria de Monastero Albo rimanda all’antico nome del centro abitato distrutto detto Monasterium Album appunto, dai diplomi quattrocenteschi.

La Chiesa Madre di Misterbianco, seppur ricoperta dalla lava è una delle poche testimonianze di edificio  rinascimentale della Sicilia orientale, databile tra il  Quattrocento e il Cinquecento. Scavi recenti hanno permesso di riportare alla luce i resti della chiesa tra cui l’intera navata centrale con gli altari laterali, il battistero, i resti di un affresco, l’ingresso principale e il portale laterale. Una fase di scavi successiva ha evidenziato la parte più antica dell’edificio di culto ovvero, una cappella gotica risalente al 1200 – probabilmente il nucleo originario attorno al quale venne edificata la Chiesa Madre. Il sito non è ancora aperto al pubblico.

 

 

L'UNICA testimonianza di arte RINASCIMENTALE della Sicilia Orientale: il CAMPANARAZZU di MISTERBIANCO in provincia di CATANIA

Campanarazzu è il nome che fu dato alle vestigia dell’antico campanile della chiesa Madre sepolta dalla lava del marzo 1669 e che adesso indica non solo il campanile diroccato, ma una intera contrada. Gli scavi realizzati a Campanarazzu per il recupero dell’antica chiesa Madre, edificata tra il ‘400 e il ‘500, ma forse anche prima, pare che sia un fatto unico a livello mondiale, resi possibili per il tipo di lava dell’Etna e per il modo come la chiesa è stata investita dal fronte lavico. A Pompei si è scavato per togliere la cenere, a Campanarazzu si è scavato per svuotare oltre dieci metri di basalto lavico una navata lunga oltre 40 metri e larga nove. Un esperimento mai tentato prima. Considerato che il terremoto del 1693 distrusse tutta la Val di Noto, la chiesa resta un importante, se non unica, testimonianza di arte rinascimentale nella Sicilia orientale.

 

 

foto di Sicilia Antica  leggere anche qui

 

 

LA "RUINA",LA DEVASTANTE COLATA LAVICA CHE,NEL 1669 CAMBIO' CATANIA

 

Questo scatto immortalò,alcuni anni fa,la Chiesa Madre dell’antico paese di Misterbianco,a pochi chilometri da Catania, che fu totalmente sepolta dalla colata ad eccezione del campanile (a sinistra della fotografia) che rimase come ultimo testimone del centro abitato .L’eruzione del 1669 è stato l’evento che più di ogni altro ha condizionato la storia urbanistica del versante meridionale dell’Etna, in quanto, modificando radicalmente l’assetto del territorio, ha condizionato lo sviluppo dei centri abitati nei secoli successivi, influendo anche sulle attività produttive ed economiche. Numerosi storici sono concordi nell’individuare in questo evento eruttivo il momento di rottura dell’equilibrio tra la città di Catania e il suo territorio rurale. L’eruzione durò quattro mesi: in questo periodo furono eruttati circa 600 milioni di metri cubi di lava, con un tasso effusivo medio alla bocca di 58 metri cubi al secondo che sono tra i valori più alti registrati negli ultimi 400 anni. Si formò un vastissimo campo lavico caratterizzato da un’area di 40 km2 e una lunghezza massima di 17 km; si tratta della colata lavica più lunga riconosciuta nel record geologico dell’Etna degli ultimi 15.000 anni. Nella fase iniziale, la colata lavica si divise in due bracci, a est e a ovest, per la presenza dell’ostacolo morfologico rappresentato dal cono di scorie di Mompilieri. Figura 4Il 12 marzo le lave distrussero le borgate di Levuli e Guardia e il paese di Malopasso, avanzando con un fronte largo circa 2 chilometri. Durante la notte del medesimo giorno la colata lavica coprì la chiesa dell’Annunziata, che in linea d’aria distava circa 2 km dalla bocca principale, e distrusse completamente il villaggio di Mompilieri . Il 14 marzo, grazie ad un tasso effusivo di 630 m3/s, il braccio lavico occidentale raggiunse i paesi di San Pietro e Camporotondo. Fra il 15 e il 17 marzo si formò un nuovo braccio diretto verso sud-est, mentre il braccio orientale arrivò presso il paese di San Giovanni Galermo, distruggendolo parzialmente . Dopo due settimane di eruzione il tasso effusivo era diminuito a 170 m3/s e il braccio orientale si arrestò definitivamente dopo aver toccato la località Torre del Grifo, a nord di Mascalucia, e aver danneggiato le terre coltivate di Gravina, raggiungendo una lunghezza di 8,8 km. Nel frattempo, il braccio a ovest aveva raggiunto la sua lunghezza massima di 10 km, espandendosi nel pantano di Valcorrente, al confine con i terreni di natura sedimentaria delle colline chiamate Terreforti. Contestualmente, il braccio che scorreva a sud-est si divideva in diversi flussi che avanzavano nella località Carcarazza, localizzata a circa un chilometro a nord-ovest del paese di Misterbianco. Nel corso di queste due settimane, nei bracci a ovest e a sud-est si iniziarono a formare tunnel lavici. Fra il 26 e il 29 marzo, dal braccio occidentale si generarono nuovi flussi lavici che distrussero San Pietro e Camporotondo, mentre il fronte più avanzato continuava a invadere il pantano di Valcorrente. Negli stessi giorni, il braccio a sud-est cominciò a distruggere alcune case del paese di Misterbianco, che fu completamente sepolto il 30 aprile-

Circa un mese dopo l’inizio dell’eruzione, sebbene il tasso effusivo fosse notevolmente diminuito (30 m3/s), il braccio a sud-est continuava ad avanzare velocemente grazie allo sviluppo dei tunnel lavici. A metà aprile la lava aveva raggiunto e coperto una piccola palude chiamata Gurna di Nicito e minacciava la porzione occidentale delle mura medievali di Catania. Il 16 aprile la colata lavica si addossò,

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La chiesa madre dell’antico paese di Misterbianco che fu totalmente sepolta dalla colata ad eccezione del campanile che rimase come ultimo testimone del centro abitato (Foto S. Branca). Recenti scavi della Soprintendenza ai Beni Culturali e Ambientali di Catania hanno portato in diverse fasi alla luce questo straordinario elemento architettonico risalente al XIV secolo della regione etnea.

 

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Il paese è situato sul versante del monte Etna, dista 12 km da Catania, e si sviluppa su una rupe di origine basaltica, formatasi in epoca glaciale. Data l'imponente massa monolitica, detta, secondo un'antica leggenda, ombelico dell'Etna, tale area ha ricoperto una grande importanza sotto un punto di vista militare.
Territorio

La parte più antica di Motta Sant'Anastasia è stata edificata su un neck, una rupe di origine vulcanica. Una lunga ed intensa eruzione risalente a 550.000 anni fa provocò la formazione di un cono vulcanico.

Nel corso dei secoli, a causa dei processi di erosione, il cono ha assunto l'attuale forma a "rocce colonnari" prismatiche a sezione esagonale e pentagonale più o meno regolari, raggiungendo l'altezza di 65 metri.

Quello di Motta è l'unico esempio di neck presente in Italia. Altri casi si riscontrano in Francia (Le Puy del Velay), in Algeria (Tamanrasset-Ahaggar) e negli U.S.A. (Missouri, Montana, Arizona, Utah, Nuovo Messico). La vegetazione presente sulla roccia è costituita da licheni e fichi d'India (Opuntia Ficus Indica Mill).
Storia Motta, come altre città della Valle del Simeto, ha origini antiche. Studi archeologici risalenti al 1954 nella contrada Ardizzone, attestano la presenza greca nel territorio intorno a secoli V-IV a.C. Il periodo romano, invece, è testimoniato dal ritrovamento di alcune monete risalenti al periodo del grande impero, e da un mosaico rinvenuto in contrada Acquarone, appartenente ad una villa.

Sull'origine del nome Motta Sant'Anastasia esistono diverse ipotesi. Secondo alcuni studiosi Motta (nome preromano) e Anastasia (nome greco-bizantino) hanno significati simili ed indicano la natura del luogo, il tipico rilievo del territorio che da secoli è caratterizzata dal Neck e i dintorni di Motta Sant'Anastasia. Successivamente nei secoli XII-XIV, i due nomi furono accostati ed i cittadini si associarono nella devozione e nel culto di Sant'Anastasia, patrona della cittadina.

 

Motta, fin dal periodo di Dionisio, tiranno di Siracusa, ricoprì un ruolo di notevole importanza come roccaforte di avvistamento e di difesa.

Tale ruolo crebbe durante il periodo normanno con Ruggero d'Altavilla che vi fece edificare una torre per presidiare l'imbocco della piana di Catania e proteggere così i possedimenti normanni dalle continue incursioni saracene. Le caratteristiche del territorio, i resti delle strutture di difesa e quelle abitative evidenziano la tipicità medievale della cittadina. "La Motta", infatti, consisteva in un luogo sopraelevato da dove era possibile controllare l'intero territorio circostante. In Inghilterra, intorno al 1066, sulla "Motta" dei luoghi di conquista, i Normanni costruivano una torre di legno per difendere i territori occupati. Ma in Sicilia, per la carenza di foreste, i Normanni dovettero edificare le loro torri con pietra basaltica. A Motta tale costruzione era stata facilitata dalla conformazione morfologica del luogo, che ben si prestava all'edificazione dell'avamposto difensivo.

Il primo insediamento fuori dalle mura fu il quartiere Urnazza che, intorno al 1500, sorse nei pressi dell'attuale chiesa di Sant'Antonio, allora luogo di sepoltura dei quartieri "Urnazza" e "Matrice".

 

Nel 1526 la città diventò feudo di Antonio Moncada, conte di Adernò, e per quattro secoli, fino al 1900, il castello fu destinato essenzialmente a essere una prigione.

Nella seconda metà del 1600 vi erano a Motta 560 abitanti. Tra la seconda metà del 1700 e il 1800 cominciò meglio a delinearsi la struttura del paese, con la nascita di nuovi quartieri, come quelli di "Croce", "Pozzo", "Sciddichenti".

Nel 1798 gli abitanti di Motta divennero 1400 e nel censimento del 1831 arrivarono a 2181.

Il 1º gennaio 1820 il tribunale di Catania istituì il comune di Motta Sant'Anastasia.
Monumenti e luoghi d'interesse La torre di Motta (o Dongione) fu costruita tra il 1070 e il 1074 (pare sul rudere di una torre araba) per volontà del gran conte Ruggero il Normanno. Il massiccio torrione a pianta rettangolare (con dimensioni: 21,54 x 9 x 17,10 m) è alto circa 21 metri e rappresenta una tipica struttura a carattere difensivo del tardo medioevo. La copertura a terrazza conserva la quasi intatta merlatura,(22 merli a testa arrotondata) se non fosse per uno dei 22 merli che nel 2010 è stato colpito da un fulmine, ma prontamente restaurato.

 

 

La struttura è costituita da tre elevazioni. Solo la prima di queste presenta ancora le finestre originali ad arco a sesto acuto (esterno) e a tutto sesto (interno). Le altre due finestre quadrate, degli altri livelli, come l'attuale porta d'ingresso, risalgono invece al XV secolo.

Il piano terra era destinato ad alloggio militare. In esso sono visibili una serie di feritoie per la difesa.

Sempre al piano terra fu ricavata la cisterna per la raccolta delle acque piovane e dove, come scrive l'umanista Lorenzo Valla, fu rinchiuso il conte di Modica, Bernardo Cabrera. Il primo piano era destinato all'alloggio del comandante della guarnigione. Il secondo piano è caratterizzato da un arco a sesto acuto. Le tre elevazioni erano collegate tra loro da una serie di scale a pioli retrattili di legno. Già nel 1091, il castello venne concesso alla istituenda diocesi di Catania che ne detenne il possesso fino alla fine del XIII secolo. Nel XIV secolo, per diciannove anni (1355-1374) fu dimora del conte di Aidone, Enrico il Rosso.

Dopo essere stato proprietà di Rinaldo Perollo, nel 1408 il castello fu acquistato da Aloisio Sanchez. Successivamente, nel 1526, Antonio Moncada, conte di Adernò, per 1210 once acquistò la terra di Motta ed il castello che rimasero proprietà dei suoi discendenti fino al 1900, anno in cui venne acquistato dal Comune.

L'ERA MEDIEVALE DEI RIONI RIVISSUTA OGNI ANNO.

Sin dall’inizio del XVI Secolo tra i giovani mottesi si era evidenziata la volontà di distinguersi in consorterie contadine e maestranze con un progressivo popolamento del borgo, premessa naturale per la formazione del Comune, che avvenne nel 1820.
Nascevano in questo periodo due fazioni: i CAMPAGNOLI e i MAESTRI, veri partiti della vita amministrativa del paese. Attorno al 1880, si formò successivamente un terzo partito, denominato PANZERA, appendice dei CAMPAGNOLI nella vita amministrativa paesana ma partito a sè per la Festa di Santa Anastasia.
I Maestri tenevano la Piazza, i Campagnoli la zona della Matrice e i Panzera la zona Sud del paese. Solo dopo il 1968, per le mutate esigenze demografiche e urbanistiche del paese, si sentì il bisogno di ridefinire il tessuto sociale e culturale di Motta e si formarono tre RIONI: Maestri, Vecchia Matrice e Panzera.

I RIONI DI MOTTA SANT'ANASTASIA Sin dall’inizio del XVI Secolo tra i giovani mottesi si era evidenziata la volontà di distinguersi in consorterie contadine e maestranze con un progressivo popolamento del borgo, premessa naturale per la formazione del Comune, che avvenne nel 1820.

Nascevano in questo periodo due fazioni: i CAMPAGNOLI e i MAESTRI, veri partiti della vita amministrativa del paese. Attorno al 1880, si formò successivamente un terzo partito, denominato PANZERA, appendice dei CAMPAGNOLI nella vita amministrativa paesana ma partito a sè per la Festa di Santa Anastasia.

I Maestri tenevano la Piazza, i Campagnoli la zona della Matrice e i Panzera la zona Sud del paese. Solo dopo il 1968, per le mutate esigenze demografiche e urbanistiche del paese, si sentì il bisogno di ridefinire il tessuto sociale e culturale di Motta e si formarono tre RIONI: Maestri, Vecchia Matrice e Panzera.

Il rione "MAESTRI" è nato nel XIX sec. con il nome di " Partito Operaio" perchè vi appartenevano operai ed artigiani.Con il passare del tempo il nome muterà da operaio a Giovani Maestri. I Maestri sono situati a nord del paese (Motta S. Anastasia) ed occupano il quartiere "Urnazza", metà della via Vitt. Emanuele, il "Calvario" e P.zza Duca d'Aosta. I colori che da sempre lo contraddistinguono sono il bianco e l'azzurro. Particolare suggestioni riveste, nell'ambito della festa padronale in onore di S. ANASTASIA, la "Calata della Quartine", che rappresentano gli emblemi di ciascun rione

Sito Web  http://www.sbandieratorimaestri.net/

Il Rione VECCHIA MATRICE, con i colori giallo-verde di Santa Anastasia, patrona di Motta, ripropone temi e leggende della storia della Sicilia, arricchendo le proprie parate storiche con le coreografie del gruppo Sbandieratori di “Casa Normanna”, costituiti nel 1971 e ormai noti oltre i confini nazionali. Il 23 Agosto, per la “Discesa delle Quartine”, un corteo storico si snoda per le vie principali del paese, introducendo il vessillo di combattimento. Il Rione Vecchia Matrice è in fermento per tutto l’anno ma soprattutto per i giorni delle Feste Medievali (a cavallo del Ferragosto di ogni anno) e per i giorni della Festa “Grande” in onore di Santa Anastasia, quando le maestranze, i giovani, le donne lavorano alacremente per mesi interi, preparando costumi d’epoca, coreografie, addobbi e strutture architettoniche che trasformano profondamente il borgo di MOTTA fino a farla diventare un centro medievale di sensazionale attrazione turistica.

Sito Web http://www.casanormanna.it/

L'Associazione Culturale "RIONE PANZERA"RIONE PANZERA" è una libera associazione senza fini di lucro, apolitica, a scopo culturale, ricreativo, morale, turistico e folkloristico dedita al recupero e alla valorizzazione delle tradizioni storico culturali di Motta S. Anastasia. Scopo principale dell'Associazione è quello di organizzare i festeggiamenti in onore della Santa Patrona Anastasia.

Sito Web http://www.comune.mottasantanastasia.ct.it/i-rioni/299-rione-panzera.html

Di Stefano, la voce siciliana che ha incantato il mondo
Una voce. Un mito. Di quelli "a lunga durata", che appartengono al passato e che pare non possano avere un ricambio, in questo nostra epoca nella quale i miti (se mai ne esistessero) sono per lo più "radi e getta", si consumano in un breve lasso di tempo.
Giuseppe Di Stefano, scomparso di recente all'età di 86 anni in seguito ai postumi di un'aggressione subita nel dicembre del 2004 in Kenia, ad opera di un gruppo di rapinatori penetrati nella sua casa, è entrato a buon diritto nel mito, e, soprattutto per noi siciliani, resterà uno di quei personaggi di cui essere tanto orgogliosi.
Un grande artista siciliano, nato a Motta Sant'Anastasia ma trasferitosi fin da piccolo a Milano, con il papà calzolaio e la mamma sarta e destinato alla carriera sacerdotale, del quale si ricorderà soprattutto, insieme ai tanti aneddoti di chi ha conosciuto personalmente il "buon Pippo", la voce ben impostata, potente e limpida, che scandiva la parola e la restituiva in una forma che oggi magari potremmo considerare un po' superata - il gruppo nasale-dentale con le due lettere staccate, per esempio - ma che in ogni caso dava una maggiore chiarezza al suono e quindi una più efficace forza espressiva.
Fin dall'immediato dopoguerra, Di Stefano inizia una carriera - per un breve periodo come interprete di musica leggera, con lo pseudonimo di Nino Florio, poi come tenore lirico - che lo porterà sui palcoscenici di tutto il mondo in un quarantennio di successi e di memorabili allestimenti, nei quali la sua presenza scenica e il carisma la fanno da padrone.
Viene diretto, tra gli altri, da Herbert von Karajan ed ha accanto partner di alta qualità, come Renata Tebaldi, Giulietta Simionato, Raina Kabaiwanska, e, soprattutto Maria Callas, che gli è al fianco in varie occasioni musicali e che perde la testa per lui, incrementando la sua fama di grande seduttore che è pendant di quella di formidabile artista.
Anche per la sua irruenza, per quel suo essere solare ed estroverso (ma non sono le migliori qualità di un siciliano?) Pippo Di Stefano s'è guadagnato un posto di rilievo fra i nostri miti.
Nello Pappalardo

 

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Il Cimitero Militare Germanico 

è situato a Motta Sant'Anastasia in provincia di Catania. Vi è sepolto Luz Long campione di atletica (medaglia d'argento in salto in lungo alle olimpiadi di Berlino nel 1936)
Nel 1954 venne stipulato un accordo tra il governo tedesco e quello italiano in base al quale venne scelta un'area in cui seppellire tutti i caduti tedeschi morti durante la seconda guerra mondiale in Sicilia. Il cimitero venne inaugurato il 25 settembre 1965. Dopo importanti lavori di ristrutturazione è stato riaperto ufficialmente il 29 aprile 2011.
Il cimitero è collocato ai margini della strada che conduce al paese di Motta Sant'Anastasia.Adiacente al parcheggio si trova un edificio,dove sono collocati gli uffici amministrativi ed una sala dedicata all'accoglienza dei visitatori, qui sono a disposizione anche gli elenchi con i nomi dei caduti,depliant ed altro materiale invormativo.
Il cimitero militare aveva una struttura che, in origine ,era rettangolare la quale misurava 43 x 32 metri.La struttura ha subito negli anni dei mutamenti ed ha assunto una forma che possiamo definire "semi rettangolare".L'area sepolcrale è collocata nei sotterranei non accessibili,perché murati;qui vi sono sepolti 4.561 caduti tedeschi nella Seconda guerra mondiale.; la raccolta dei corpi è stata effettuata dal Volksbund Deutsche Kriegsgräberfürsorge che si occupa anche della manutenzione dell'area.

 

foto di Francesco Raciti

 

L'ingresso è costituito da un atrio lastricato in travertino.Qui è collocata una stele che recita:
« IN DIESER KRIEGSGRÄBERSTÄTTE RUHEN VIERTAUSENDFÜNFHUNDERTEINUNDSECHZIG DEUTSCHE GEFALLENE DES ZWEITEN WELTKRIEGES, VON IHNEN BLEIBEN VIERHUNDERTEINUNDFÜNFZIG UNBEKANNT! »

Una volta entrati, attraverso una scalinata ci si trova in un cortile denominato Kameradengrab. In questa area è presente una lapide contenente i nomi di 31 soldati che qui sono sepolti. In altre otto lastre di pietra sono ricordati i nomi di 128 soldati tedeschi caduti durante le operazioni in Sicilia negli anni 1941 - 1943. Al centro del cortile è posta una statua in bronzo raffigurante un uomo morente,fortemente espressiva e di ottima fattura. Da questo cortile si può accedere ad altri quattro cortili dove su lastre di ardesia sono ricordati i nomi dei caduti ospitati nei sotterranei.

I quattro cortili ospitano le tombe dei caduti suddivisi per province. In essi sono sepolti:

Cortile Palermo, qui sono sepolti i soldati caduti nelle province di Palermo, Trapani e Agrigento

Cortile Caltanissetta, qui sono sepolti i soldati caduti nelle province di Caltanissetta, Ragusa, Catania e Siracusa

Cortile Messina, qui sono sepolti i soldati caduti nelle province di Messina e di Enna; qui è esplicitamente menzionato il comune di Caronia, dove nel locale cimitero erano stati sepolti oltre 700 soldati tedeschi

Cortile Catania, qui sono sepolti circa 1514 soldati caduti nella provincia di Catania

http://it.wikipedia.org/wiki/Cimitero_Militare_Germanico_di_Motta_Sant%27Anastasia

 

 

La circumetnea, un mondo poetico….  

 

L’ultima volta che ho viaggiato sulla littorina della circumetnea è stato circa cinquant’anni fa, ero un bambino, adolescente,  viaggiavo, quasi sempre, in estate. Da bambini fare un viaggio è un’esperienza meravigliosa. Negli anni cinquanta non erano iniziati i grandi viaggi nazionali e intercontinentali di oggi. La vita era semplicemente respirata tra piccole cose, Catania era più piccola, più paesana, forse si ci conosceva di più, si camminava di più

Allora, viaggiavo sempre con mio padre e mia madre. Mio padre era un uomo bellissimo, alto biondo, con gli occhi verdi, d’origine slava, ma ormai tutti parliamo IN FAMIGLIA a“ccaccarara”, cioè in siciliano d’hoc, e tutti i parenti sono figli “ddò liotru”.

Prendevamo la littorina per andare nella località di Passopisciaro, nel comune di Castiglione di Sicila, dove avevamo una casetta piccola,  non mancavano  le comodità, antica casa, con il gabinetto che si trovava fuori, in giardino in  una casupola minuscola, vicino alle stanze da letto.

Con mio padre e mia madre partivamo la mattina presto.

A volte andavamo con il fratello di mia madre che aveva un’auto fiat- seicento, una seicento nuova degli anni cinquanta, facevamo il giro inverso, prima Acireale, Giarre, Piedimonte. A me piaceva la “littorina”, nell’auto stavo stretto, al chiuso.

Con la littorina potevo vedere di più, stavo più comodo. Il viaggio in ferrovia è diverso, più riposante, la possibilità che la mamma mi passasse con calma un dolcetto: si mangia meglio.

Oggi, negli anni del consumismo senza limiti, prendere la “littorina”, come si chiama ancora, è come fare un viaggio poetico, un viaggio nel passato,perdere tempo, un’analisi della nostra infanzia, come stare nel lettino dello psicanalista e raccontargli tutte le storie di quando eravamo piccoli, felici con poco.

La strada l’ho voluta fare tutta: da piazza Galatea a Riposto, mi sono abbandonato, di mattina presto a questi ricordi, raccolti in fretta, in una mattinata di dicembre, chissà perché.

Diventando vecchi, si ritorna bambini, si afferra la vita con le mani aggrappandosi. L’aurora era appena passata, sono sceso nella “underground”, come si dice oggi( parlando un pò sofisticati, in inglese).  Oggi è un’occasione unica, ritorno indietro di cinquant’anni, oggi il grande miracolo: si ritorna bambini.

Alle sette del mattino non c’è anima viva nella “underground” catanese. La stazione metropolitana di piazza Galatea è bella, più bella delle metropolitane di Roma e di Milano.

Scendendo nel sottosuolo avvolto dalle pareti lucide di mattonelle bianche brillanti, mi accorgo che non c’è controllo, nessun impiegato, nessun viaggiatore solitario come me.  Probabilmente sono spiato dalle telecamere.

Nel marciapiede, nel sottosuolo, vicino alle strette linee ferrate, dopo dieci minuti arriva uno studente, giovane, con libri e quaderni, mi guarda come se fossi un animaletto uscito da un giornalino dove si descrivono extraterrestri.  

 

La mattina in questa stazione della metropolitana si ritrovano tutti, e si conoscono tutti, cambiano alla stazione Borgo, dove aspettano la coincidenza con  i treni all’aperto che girano attorno all’Etna., verso Paternò, Randazzo, Riposto.

Alla stazione Borgo arrivo anch’io, un intruso, un curioso anziano che tutti guardano perché non l’hanno visto mai, un tale ch’è disposto a fare una levataccia, pur di ritrovarsi adolescente.

Un bambino che , forse, vuole anche pensare a suo padre che non c’è più.

Ho portato con me le mie macchine fotografiche.

Cattiva abitudine.  I turisti, quelli veri, sono sempre con le macchine fotografiche in mano, oggi con supertecnologiche camere digitali o piccoli gioiellini computerizzati.

Perché cattive abitudini?  Perché il turista non si abbandona alla novità, sta lì a “catturare” immagini, monumenti, vuole “avere” non vuole “essere”. Viviamo in una società dove tutto si deve” consumare” e consumare in fretta.

Il turista non si fa coinvolgere dalla poesia di piccoli sentimenti, emozioni, frammenti di visioni mattutine artistiche e non artistiche, ma piccole cose di un tempo che fu.

Uomini e cose della vechia Sicilia. Oggi no, sono fortunato, ho tutto il tempo a mia disposizione, posso guardare le vecchie littorine posteggiate, non più riparabili, dove un cane “cirneco” dell’Etna si avvicina con la gamba alzata profanado una vetustà che sa di fascismo, di saluti romani.

La circumetnea non è stata realizzata durante l’era del “fascio”, molto prima, dopo l’unità d’italia. Fu pensata dai Borboni, ma non fecero in tempo a costruire la strada ferrata. Garibaldi arrivò in fretta fece subito l’italia, qui.

La circumetnea, invece, non arrivò subito, dopo quasi venti anni dopo l’unità d’Italia.  Littorina fu il nome che gli diede il fascismo, da “littorio” o “fascio littorio”.

Scendono dal trenino, alle otto quasi del mattino, tanti studenti che si recano a Catania per studiare, c’è pure un vecchio di Maletto con la zampogna, arzillo, più tardi sarà ubriaco di vino. Gli zampognari sono tutti di Maletto, una razza in via d’estinzione. Suonano davanti i presepi, ed è tradizione mai tralasciata che, alla fine della sonatine, gli si regali un bicchiere di vino, alla fine ritornano in paese ubriachi fradici, dormono nei treni delle circumetnea con la zampogna sullo stomaco, sazi, ebri, figli di un dio minore: Dioniso.

A Natale mancano solo due settimane. Il trenino parte orgoglioso strisciando tra le lave di Nesima e mi siedo  vicino a tanti viaggiatori che sono preoccupati della giornata un po’ nuvolosa. Piove, come si dice in Sicilia, “assuppa  viddanu”, cioè con piccole gocce che non fanno male.

I Siciliani non amano la pioggia, si sentono a disagio.  

 

 

 

C’è tanta gente sul treno. Non me l’aspettavo. La professoressa, biondina, carina, giovane, corteggiata da un bigliettaio lavativo,dolce ma lagnoso, che ride sempre.  Salgono tanti studenti, anche loro, lavativi, vanno a Misterbianco e a Paternò. Paternò è una città importante, una città etnea dove ci sono più scuole. Le giovani studentesse non sono come le ragazze siciliane degli anni cinquanta.

Negli anni cinquanta in queste”littorine”, s’incontravano ragazze che neanche ti guardavano, timide, senza fidanzato, accompagnate da genitori o parenti, era una Sicilia “islamica” ormai perduta per sempre.

Ci descrivono ancora oggi,  i settentrionali, con le donne in testa lo scialle nero, madonne con il velo, i vecchi e anche i giovani con la coppola nera .

Non ci sono più questi simboli d’una civiltà antica, i settentrionali sbagliano,  non conoscendo, non visitando la Sicilia, non hanno mai capito nulla di noi.

Le ragazze, pure ragazzine, ora guardano negli occhi i maschietti, sono intraprendenti, vestono con jeans stretti e top provocanti.

I ragazzi ( maledetti) non corteggiano più le ragazze, sembrano “passuluni”, cioè fichi maturi che cadono a terra senza essere “mangiati”.

Le ragazze, a volte, cominciano con discorsi imbarazzanti del tipo. “ho lasciato Luca perché m’annoiavo, forse mi metto con Salvatore ch’è tanto carino, se solo fosse un po’ più vicino a me…”.

I maschi siciliani sono storditi, hanno perso un po’, forse molto, del dongiovannismo, si mettono, i tappi nelle orecchie per ascoltare chiassose canzoni, non guardano le ragazze che gli muoiono davanti.

La fine del maschio siciliano?  E le donne stanno a guardare….

Il trenino ora passa per Piano tavola, nell’area commerciale di Catania,. tra  tante tante piante di fichid’india, che nessuno raccoglie,  qualche bella pianta di  zzamara, pianta grassa che in italiano si dice agave o aloe, gli immancabili agrumi di Paterno, la qualità sanguinello, qualche albero di limone e tanti uccelli caccarazze che volteggiano arroganti di ramo in ramo.

Dopo Piano tavola , subito, la nuova,  quasi pronta Etnapolis.  Etnapolis è una lunga e grande muraglia di cemento, un deposito lungo un chilometro, una megalopoli e non Etnapolis, non c’è nessuna tradizione greca da richiamare, è un “fatto” commerciale dove importanti lobby italiane e straniere hanno deciso che la Sicilia è un grande mercato di consumo.

Niente cambia, così ci considerarono dopo l’unità d’italia i “piemontesi”.  La lunga costruzione di cemento somiglia tanto al quartiere romano di Corviale, un lungo caseggiato, triste, una lunga casa popolare estesa un chilometro, un’idea pazzesca di costruttori post-moderni.

Etnapolis è grande, occuperà tanti giovani, niente male se ogni tanto si perde un “pezzo” di poesia.  

Per fortuna la vicinissima stazioncina di Valcorrente ci restituisce la poesia del paesaggio che per pochi minuti avevamo perduto.

Valcorrente è una fragile stazione della circumetnea, circondata da  fichidindia e con una piccola sala ch’è d’attesa con una porta antica arredata con tendine ricamate finemente.

Purtroppo questa stazioncina minuscola, aggraziata, fra le lave e il verde solitario della campagna, rischia di essere trasformata in una grande stazione moderna per l’utilità di nuove e grandiose iniziative commerciali. Nella stazione di Paternò mi sorprende una strana manovella, girata con ardore da un ferroviere imbaccuccato.

A “manuvella” arrotola un filo robusto d’acciaio che per mezzo di carucole in alto e, per tutto il prospetto della stazione, corre ad abbassare il passaggio a livello che impedisce alle automobili l’entrata nella città di Paternò. Sinceramente non me l’aspettavo.

Sembra un gioco per fanciulli, fatto dai grandi, ma la ferrovia circumetnea è così. Speriamo che resti così ancora tanto tempo.

Prima di Adrano sfioriamo un campo di calcio mai completato da anni.

 

 

Spesso in Sicilia le opere pubbliche s’iniziano e non si completano. Può darsi che l’attività è ferma per ragioni di “carte”, cioè burocrazia, spesso perché rivalità politiche, inutili,impediscono il completamento;, spesso interviene l’autorità giudiziaria che si confonde tra le “carte” e poi si arriva tardi o con troppo ritardo in Cassazione.

I siciliani non sono fatalisti, sono contemplativi, è diverso; molti è  vero si danno da fare e diventano ricchi, ma i siciliani non hanno perso la mentalità orientale, un po’ bizantina un po’

Levantina, araba.   Vediamo le coltivazioni di pistacchio fino a Bronte ed oltre.

Prima di parlare del pistacchio, una fermata del treno a Passo zingaro, scende uno dei pochi contadini rimasti a coltivare la terra, era salito nella vicina stazione di Adrano, seduto accanto a me, prima di scendere, mi aveva confidato che aveva l’auto guasta, che la circumetnea non gli  interessava e la potevano togliere subito, anche se vecchio, troppo vecchio per lavorare ancora, non poteva abbandonare i suoi pistacchi che qui si chiamano pure: oro verde.

Voleva solo la sua auto vecchia per spostarsi.  Costa caro il pistacchio, costa caro soprattutto raccoglierlo, poi bisogna pagare i contributi e i braccianti.

I braccianti, sono, anche loro, una razza in via d’estinzione,  ora anche stranieri;  se lavorano trenta giorni ne vogliono “segnati” cinquantuno all’ufficio di collocamento.

Molti proprietari si lamentano per questi “pizzi”, ma poi pagano i contributi all’Inps in più, in fondo il prezzo del pistacchio è remunerativo.

I proprietari sempre si lamentano, ma il pistacchio è buono anzi eccezionale, come quello che si produce in Turchia, gli acquirenti pagano e guadagnano meglio rivendendolo in bustine, un po’ ridicole, ma carissime di prezzo.

Dopo Bronte il treno si prende d’affanno, a tutto gas attacca la salita verso Maletto, siamo nei pascoli alti di Maniace, il treno a Maletto raggiunge i mille metri d’altitudine: un record assoluto in Sicilia.

Maletto è il paese dei “picurara” dei silenzi tra il verde e le valli che sembrano alpine.

Pecore tra sassi pieni di muschio, brucano la “veccia”, un’erba di cui vanno ghiotte pure le vacche.

Qui c’è l’alpeggio, estate ed inverno, il paesaggio ricordo il verde, il dolce verde incantato d’Irlanda.

Non occorre andare in Irlanda, a Sligo oppure a Galway, qui c’è un pezzo di terra anglosassone.

Anglosassone era Nelson, a cui i Borboni regalarono una bella e fertile ducea, per i suoi meriti militari: aveva fermato l’arroganza e prepotenza francese nelle acque di Trafalgar.

Tutto inutile, la rivoluzione francese fece il suo corso, nel bene e nel male.

La rivoluzione francese non è mai arrivata veramente in Sicilia.

E’ arrivata la rivoluzione delle “donne”, delle donne che lavorano, delle donne imprenditrici che hanno creato laboratori anche immensi dove si producono capi d’abbigliamento. Bronte, Randazzo, Maletto e alri paesi dell’Ennese e dei Nebrodi sono pieni zeppi di laboratori dove si lavora a “facon”.

Al Duca Nelson, come scrivevamo, fu regalata una ducea grande come un immenso feudo.

Le malelingue, anche gli storici più precisi, affermano che il duca Nelson non venne mai a Bronte a vedere la sua ducea di Maniace. Può darsi.

Sono certamente arrivati i suoi eredi, suoi eredi erano quelle inglesine che venuti a godersi le vacanze in Sicilia, nella ducea del loro avo, per il grande caldo d’agosto, pensarono maliziosamente di spogliarsi nude completamente e fare il bagno in una piccola piscina, che  esiste all’interno del castello di Maniace.

Erano tutte ignude e rilassate quando un “picuraro” curioso, nascosto tra cespugli e alberi non crede ai suoi occhi di siciliano arrapato.

Sarà stato il caldo, oppure un’astinenza forzata tra le pecore del gregge; insomma il “pastorello” non frenò e si lanciò correndo e focoso verso le inglesine nude e sprovvedute.

Il pastorello ebbe la peggio. Non ci fu l’orgia da lui prevista, ma un sacco di legnate con sedie di ferro che le belle e nude bagnanti inflissero al giovane in ardore.  Il pastorello fu ricoverato con prognosi riservata nel vicino ospedale e con diverse imputazione di reato: tentativo di stupro e altri .

 “Cunnutu e vastuniatu”. Cornuto e bastonato, perché ormai nessuno corteggia con modi garbati o all’inglese le donne…anche ignude, u “picuraru” poi, quando mai! Rimase rosso di lividi e in…bianco e con infinite grane con la giustizia. Sfortunato  pastorello di Maniace.  

Torniamo a Maletto, che nel verde irlandese, si prepara al Natale con i suoi pochi zampognari che prendono la littorina della circumetnea per andare a Catania, per suonare davanti ai presepi montati da grandi e piccini. Un’occasione per fare buoni soldi.

Scendiamo verso Randazzo.

L’Etna, come la chiamiamo noi: “a montagna” è piena di neve. Neve bianca e lava nera. Mongibello, dall’arabo: GEBEL, che significa montagna.

Tra Maletto e Randazzo un’immensa quantità di piante tipiche del paesaggio etneo.

Ho avuto la fortuna di restare sulla littorina con un appassionato palermitano d’insetti, un entomologo; si recava nel museo di Scienze naturali di Randazzo.

Da Maletto a Randazzo siamo rimasti soli in treno, e quindi abbiamo avuto il tempo di parlare. Ho ascoltato la descrizione di alcuni rari uccelli e rare piante che si trovano in Sicilia, non ho capito molto, invece, d’insetti, argomento per me molto difficile.

L’amico palermitano conosceva pure  i cespugli, e mi raccontava che molte piante si trovano solo in Sicilia. Alcune piante sono velenose, come il tasso baccato che vive nei boschi etnei o nel bosco di Mangalaviti.

I frutti del tasso baccato si possono mangiare, e gli uccelli ne sono ghiotti, ma le foglie sono velenosissime.

Nella campagna non è raro il finocchio marino,( come mai in montagna?), le violacciocche selvatiche, i capperi, ginestre, querce, bagolari, lo spino santo. Piante che magari ammiriamo ma non comprendiamo come si riproducano lì dai tempi in cui l’uomo non era neanche comparso sulla terra.

Tra Maletto e Randazzo si trova la grande vallata che scende fino alle contrade di Maniace.

Petrosino,fondaco, e dietro la contrada di semantile, pezzo, poi  la strada che porta fino a Tortorici e Alcara li fusi, ma siamo già nelle montagne dei Nebrodi.  

In questo periodo invernale non si vedono molti uccelli, ma mi diceva il mio amico viaggiatore che con la stagione dei fiori, si possono ammirare tante specie di volatili, grandi e piccoli, a portella mandrazzi o portella femmina morta.

Una volta,. non tanto tempo fa, in Sicilia volavano i grifoni, uccelli dalle immense ali; scomparvero perché mangiavano i corpi morti delle volpi avvelenate.

Le volpi erano un flagello per i contadini; i grifoni, invece, uccelli d’ammirare nei loro ampi volteggi.

Spesso per il cattivo ci va dimezzo il buono. Così con l’avvelenamento delle volpi sparirono pure i grifoni.

I cattivi rimangono lo stesso: le volpi sono sempre presenti nei boschi dell’etna e non è raro incontrarle; i grifoni, purtroppo, sono spariti.  

 

Il mio compagno di viaggio, entomologo palermitano mi ha riempito la testa di strani nomi,  nomi di piante e uccelli, non posso ricordarle tutte. Mi chiedevo dentro di me, quante piante ci sono in Sicilia e quanti animali piccoli e grandi.

Come siamo ignoranti delle cose di questa terra.

Gli entomologi studiano solo gli insetti, ma finiscono per conoscere tutto il genere umano e tutte le  piante.

A Randazzo sono sceso insieme al mio nuovo amico palermitano, incontrato in treno .Siamo andati insieme nel museo di scienze naturali di Randazzo. Il museo è bellissimo, ma io non ho resistito molto a tutte le spiegazioni approfondite e logorroiche; alla descrizione di tutti gli uccelli che ci guardono fissi, immobili, imbalsamati testimoni di una natura bella e a volte irrecuperabile.

Troppi nomi, troppe piante, troppa ignoranza la mia.

La Sicilia delle piante e degli animali è una Sicilia tutta da scoprire (almeno per me!)

Ci siamo salutati davanti ad un caffè corretto bevuto in un bar di Randazzo. Bar antico d’almeno cento anni, dove un paffuto proprietario ci spiegava gli intonaci liberty che erano stati recentemente restaurati.

Stucchi restaurati male; ma lo stile, l’arte, l’atmosfera del tempo che fu c’era, si faceva strada fra rozze ridipinture.

Col mio occasionale amico ci siamo salutati e sono ritornato nella stazioncina di Randazzo.

La littorina della circumetnea, da Randazzo a Riposto, attraversa un paesaggio verde e ormai poco coltivato.

Pochi passeggeri, sembra un trenino per oziosi come me.

Due fidanzati che si punzecchiavano dispettosi, una polacca che mi spiegava come la littorina non si fermava più in tutte le piccole stazioni.

Passò pure dritta  davanti alla stazione di Passopisciaro.

Per potersi fermare bisognava dirlo prima al conducente del treno. Poco male, potevo andare a Passopisciaro in auto, in un’altra occasione, o forse mai.

I ricordi bisogna lasciarli come sono, fissi, immobili, lievemente dolci e inutili, tutti o quasi nel sogno . Rivedere la casa d’estate che non è più di proprietà, non è una bella soluzione.

La giornata la stavo passando rilassandomi, perché aggravarla di rimpianti?

Lontano, il bosco di Malabotta, nell’agro di Moio Alcantara, tutta Valdemone, ma la littorina da Piedimonte corre, gira lesta verso Nunziata di Mascali, brevissima sosta e poi il mare, il porto di Riposto.

Il viaggio sta per finire;  s’intravedono le piccole navi accostate alle banchine del caricatore.

Il mare Jonio, il mare dei Greci.

Il porto di Riposto era un porto importante nell’ottocento, ma anche molto prima; porto commerciale ed ora anche un po’ turistico.

Oggi è giornata di scuola e di lavoro, ho molto oziato con questa littorina che gira tutta l’Etna.

Non posso ritornare a Catania, il trenino si ferma qui.

Posso rifare la strada al contrario, non mi conviene: sono ritornato di nuovo bambino.

 

Santo Catarame (Aristofane junior…)

http://www.corrieredaristofane.it/

 

 

 

 

Le torri di Adrano, Paternò e Motta Sant'Anastasia

Furono costruite dai Normanni su precedenti costruzioni arabe. Tutte e tre le torri sono perfettamente orientate in direzione dei punti cardinali.

Per l'orientazione50 gli Arabi si basarono su studi astronomici. Essi appresero lo studio degli astri dagli Egiziani, quando nel VII secolo invasero la loro terra. Gli antichi sacerdoti-astronomi di Eliopoli conoscevano i segreti del tempo perché osservavano e studiavano il moto apparente delle stelle. L'utilizzo della posizione degli astri nelle costruzioni egiziane è già stato trattato dagli studiosi Bauval e Gilbert, che hanno individuato l'ubicazione delle piramidi di Giza esattamente seguendo la posizione delle stelle nella cintura di Orione (teoria della Correlazione). Un parallelismo tra la cultura egizia e quella araba in Sicilia è ipotizza-bile nel confronto tra le piramidi e i castelli di Motta S. Anastasia, Adrano e Paternò, costruiti dagli Arabi e riedificati dai Normanni che utilizzarono la manovalanza araba. I castelli, visti da Nord, seguono lo stesso allineamento delle piramidi di Giza, ed in entrambi i casi i tre castelli come le tre piramidi non si allineano nell'insieme ad una linea meridiana principale, bensì lungo il loro asse sud-ovest, con la terza piramide (così come il castello di Motta) spostata verso est, anche la stella più piccola, in alto, della Cintura di Orione è spostata verso oriente, e tutte e tre le stelle sono inclinate in una direzione sud-ovest rispetto all'asse della Via Lattea.51

Il terzo castello, quello di Motta, così come la piramide di Menkaura (Micerino) e la terza stella della Cintura di Orione, è più piccolo rispetto agli altri. Il Nilo è stato associato dagli studiosi Bauval e Gilbert al fiume mitico del cielo chiamato Erida-nus (o Okeanos), che è una costellazione meridionale, nel nostro caso è riconducibile al fiume Simeto.

Inoltre tutte le basi delle piramidi sono allineate lungo meri­diani in modo che ogni faccia fronteggi uno dei punti cardinali.

Come abbiamo già detto anche le torri, così come le suddette costruzioni egiziane, sono tutte orientate in direzione dei punti cardinali.

L'orientazione dei castelli, come quella delle piramidi, è do­vuta all'osservazione astronomica cioè al transito sul meridiano di certe stelle.

L'archeo-astronomo Krupp scrive: "L'apparente collegamento tra i fenomeni celesti e terrestri influenzò profondamente la visione propria degli egiziani [...] (essi) consideravano la levata eliaca di Sirio così importante, che contrassegnarono con questo evento l'inizio del nuovo anno. Ancora più eloquente era il fatto che la levata eliaca di Sirio e la piena del Nilo coincidessero approssimativamente con il solstizio d'Estate".52

http://www.paternogenius.com/C.Rapisarda,%20Simboli%20esoterici%20nei%20monumenti%20della%20provincia%20di%20Catania/Simboli%20esoterici%2020.htm

 

il Dongione di Paterno'

il Dongione di Adrano

il Dongione di Motta S. Anastasia

 

 

 

 

 

 

 

Paternò è un centro urbano di medie dimensioni situato nell'entroterra catanese[6] e fa parte dell'area etnea. Il territorio comunale confina nella parte occidentale con Centuripe, in provincia di Enna, e nella parte meridionale con i comuni di Castel di Judica e Ramacca, appartenenti al distretto del Calatino.

Il territorio è situato alle pendici sudoccidentali dell'Etna, ha un'altitudine media di 225 m s.l.m., una superficie complessiva di 144,04 km² ed una popolazione che sfiora i 50 000 abitanti. Particolare caratteristica di questo comune, è la sua unità territoriale, che vede l'assenza di vere e proprie zone periferiche.

Il centro storico di Paternò infatti, si presenta delimitato con i quartieri satellite Ardizzone e Scala Vecchia-Palazzolo e con il colle su cui sorge la Rocca normanna, che gli abitanti chiamano "Collina storica", essendo la parte in cui vi sono concentrati i più importanti monumenti della città, nonché il suo nucleo originale e antico.

A seguito dell'ordinanza emessa dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri entrata in vigore il 20 marzo 2003, e deliberata dalla Giunta regionale siciliana il 19 dicembre, la classificazione sismica attribuita al territorio del Comune di Paternò è quella di Zona 2 (sismicità media

Dal punto di vista geomorfologico, il territorio comunale di Paternò è suddiviso in due aree ben definite, con i terreni di origine lavica nelle contrade verso le pendici dell'Etna e i terreni di origine alluvionale lungo la Valle del Simeto e la Piana di Catania.

La città, invece, è racchiusa in una conca delimitata dall'antico vulcano preistorico che fu il luogo dove sorse il primo nucleo abitato. Ubicate nella parte nordoccidentale del territorio comunale, le Salinelle, importante sito di interesse naturalistico.


Una buona parte de territorio paternese ricade nel bacino idrografico del fiume Simeto. Il territorio, inoltre è caratterizzato dalla presenza di numerose sorgenti idriche, in quanto si incontrano gli strati lavici permeabili con quelli argillosi impermeabili, facendo fuoriuscire le acque provenienti dal bacino idrografico dell'Etna. Le sorgenti più importanti sono Monafria, Maimonide e Currone.
Sull'origine del toponimo «Paternò» nel corso dei secoli, vari studiosi hanno formulato diverse ipotesi su quale possa essere l'origine o il significato del nome della città etnea.

Tra le ipotesi, sono degne di segnalazione quelle dello storico Gaetano Savasta (in Memorie storiche della città di Paternò, 1905), e del linguista Giovanni Alessio, che nei loro studi si sono orientati verso l'ipotesi di un'origine bizantina del nome. In particolare l'Alessio sostiene che il nome di Paternò sia legato a quello del vicino centro di Adernò, anch'esso di origine bizantina, e l'etimologia deriverebbe dal'espressione in lingua greca ep-Adernòn, che significa «verso Adernò». Il Savasta, invece, ha formulato l'ipotesi che il toponimo abbia origine latina e che derivi da Paetram Aitnaion, il cui significato sarebbe «Rocca degli Etnei» (riferendosi all'antico toponimo di Aitna). Ipotesi quest'ultima simile a quella formulata nel XVI secolo dallo storico Leandro Alberti, per il quale il toponimo comparve sotto i Romani.

Il geografo arabo Al-Muqaddasi, nella sua descrizione della Sicilia (scritta intorno all'anno 988) denomina la città come Batarnù (una probabile corruzione del termine greco ep-Adernòn) e afferma che il toponimo era preesistente alla dominazione araba.

In seguito alla conquista normanna (1061) il sito verrà quindi denominato Paternionis.

La frequentazione umana del territorio è attestata a partire dal Neolitico, mentre tracce di insediamenti risalirebbero all'età del rame e del bronzo. La fondazione dell'odierna città di Paternò viene fatta risalire all'epoca anteriore a quella greca, su un sito di origine vulcanica, che fu probabilmente abitato fin dall'età di Thapsos.

In origine dovette trattarsi di un villaggio dei Sicani, i quali sarebbero stati successivamente cacciati dai Siculi, che vi si insediarono intorno al IV millennio a.C., sfruttarono il tipo di superficie per cavare dalle rocce i blocchi di lava ed estrarre gli utensili da lavoro e le macine, e vi costruirono edifici sulla parte sommitale del colle vulcanico.

Questo nuovo centro abitato assunse il nome di Hybla (????), che per distinguerla dalle altre città con lo stesso nome, fu chiamata Hybla Gereatis (o Hybla Major). Nella stessa epoca e nella stessa area, sorse probabilmente il villaggio di Inessa (??????). A fare menzione di queste due località, fu lo storico greco Tucidide, il quale affermò persino che i due villaggi fossero di origine sicula e li collocò nella medesima zona.

 

 

L'odierno abitato di Paternò fu in passato identificato con una di queste due antiche città sicane: secondo il prevosto e storico locale Gaetano Savasta[18] sarebbe stato identificabile con Inessa, mentre l'archeologo Paolo Orsi ipotizzò che si trattasse di Hybla, seguendo in questo alcuni studiosi seicenteschi, Filippo Cluverio (1619), Giovan Battista Nicolosi (1670), e che Inessa corrisponda all'odierno centro di Santa Maria di Licodia[20]. Le fonti sono frammentarie e mancano campagne di scavo sistematiche che consentano di risolvere la questione.

Eppure un altro storico locale, il religioso Frà Placido Bellia, nel suo manoscritto dal titolo Storia di Paternò, che terminò nel 1808, vi attestò che nel suo convento furono rinvenute in uno scavo di ghiaia l'ara di cui sopra inciso "Veneri Hyblensi" e una lapide con scritta "Paternò Hybla Major", documenti conservati al Museo Biscari di Catania.

Le due città sicule caddero in mano greca attorno al 460 a.C., quando furono assaltate dai Siracusani guidati dal tiranno Gerone I. Ad Inessa si rifugiarono numerosi profughi provenienti da Katane, e fu successivamente denominata Aitna (?????). Esse furono altresì coinvolte nelle guerre tra i Siracusani e gli Ateniesi, da questi ultimi devastate, ed in seguito dai primi riconquistate nel 403 a.C., quando al potere salì Dionisio il Vecchio: ad Aitna Dionisio inviò nel 396 a.C., truppe di mercenari campani al suo soldo, i quali compirono numerose stragi di popolazione, per aver questi favorito gli Ateniesi nel 415 a.C..

Aitna e Hybla, assieme alle altre città della Sicilia orientale, furono successivamente liberate nel 339 a.C. dai Corinzi guidati dal generale Timoleonte, che eliminarono i campani. Tracce dell'epoca greca a Paternò sono testimoniate da dei manufatti rinvenuti sulla rupe basaltica nel 1909, detti gli "argenti di Paternò", che oggi si trovano al Pergamonmuseum di Berlino.

I due centri caddero in mano ai Romani intorno al 243 a.C., e fu l'inizio di una dominazione caratterizzata dallo sfruttamento delle loro risorse, dalla schiavizzazione degli abitanti e dalla fiscalità oppressiva: Aitna e Hybla, infatti, furono inserite nell'elenco delle città decumane della Sicilia. All'epoca romana risalgono resti di strutture quali l'acquedotto e il Ponte di Pietralunga.
Dai bizantini agli arabi Con la caduta dell'Impero romano d'occidente, si persero le tracce delle due antiche città di Aitna e Hybla: secondo il geografo Strabone i due villaggi siculi scomparvero attorno al II secolo a.C..

Tra il IV e il V secolo d.C., la Sicilia passò sotto il dominio bizantino, e, secondo alcuni studiosi (Savasta ed altri), fu in quel periodo che nacque il nuovo toponimo di Paternò, anche se, in effetti, quello bizantino fu un periodo di declino politico ed economico che causò lo spopolamento del territorio, anche a causa delle continue scorrerie e attacchi di popolazioni barbariche e di saraceni.

Dell'epoca bizantina si hanno scarse notizie nelle fonti storiche, gran parte delle quali riportano scarne informazioni in merito all'intenso processo di cristianizzazione che portò alla diffusione dello stile di vita monastico e alla costruzione di eremi, tra i quali, quello importantissimo di San Vito (dal VI secolo).

Occupata dagli Arabi verso il 901, il borgo fu chiamato Batarnù - che fu probabilmente un'arabizzazione del termine greco ep-Adernòn - e amministrativamente fu integrata nel Val Demone. Grazie alla fertilità dei luoghi si assistette ad una costante ripresa delle attività agricole e pastorizie in tutto il territorio.
La dominazione normanna Ruggero d'Altavilla. Paternò fu uno dei primi centri dell'isola liberati dalla dominazione araba ad opera dei Normanni, che vi giunsero nel 1061, ed il sito venne denominato Paternionis: iniziò un periodo di grande splendore civico ed economico. Il principale artefice dell'impresa, fu il condottiero normanno Ruggero d'Altavilla, che dopo aver liberato Messina e gli altri borghi del Val Demone dal dominio musulmano, giunse con le sue truppe a Paternò.
Blasone degli Altavilla Poiché Paternò fu uno dei centri meno islamizzati dal punto di vista etnico, e che la maggioranza della popolazione era di etnia greca, Ruggero vi fece costruire un castello nel 1072 come fortezza per attaccare Catania e le altre zone a maggioranza arabe. La città divenne Contea, che l'Altavilla diede in dote al genero Ugo di Jersey, ed il suo vastissimo territorio includeva diversi monasteri, specialmente benedettini: veri e propri feudi che amministravano le ricche risorse agricole del contado.

Infatti, per la feracità dei suoi terreni e la ricchezza di fonti idriche, che rendono il suo territorio adatto alle colture, nel medioevo Paternò ricevette l'appellativo di Civitas Paternio Fertilissima[30], o più semplicemente Civitas Fertilissima, ovvero "città molto fertile".

Il doppio matrimonio del 1089 tra il Conte Ruggero e Adelaide del Vasto e quello del fratello di costei, Enrico, con la figlia di primo letto del conte normanno, Flandina, stabilì un'alleanza politica e militare tra gli Altavilla e gli Aleramici. A seguito di quest'ultimo evento, la contea paternese passò di ai Del Vasto, dapprima con il già citato Enrico, a cui succedette nel 1137 il figlio Simone, ed infine nel 1143 il figlio di quest'ultimo Manfredo, che fu l'ultimo conte aleramico di Paternò poiché non ebbe eredi legittimi.
Le dominazioni sveva, angioina ed aragonese A seguito del matrimonio avvenuto nel 1186 tra la figlia del re Ruggero II di Sicilia, la principessa Costanza d'Altavilla e l'imperatore Enrico VI, la contea passò sotto la dominazione sveva nel 1194, quando il sovrano germanico la concedette al normanno Bartolomeo de Luci. Da quell'unione, tra Enrico VI e la normanna Costanza, nacque il futuro imperatore Federico II, il quale affidò la città al controllo di Beatrice Lanza.

Nel 1256 il re Manfredi di Sicilia concedette la signoria sulla città all'aleramico Galvano Lancia, suo zio, al quale spettava il suo possesso per diritto materno. Estintasi la dinastia sveva, con la morte di Manfredi e lo sterminio per ordine di Carlo I d'Angiò nel 1268 di tutti i membri maschi della casa ed anche dello stesso Lancia ad essi fedele, Paternò, la cui signoria passò a Manfredi II Maletta, fu occupata dagli Angioini a seguito del tradimento compiuto dal Maletto nei confronti dei reali svevi, il quale offrì la città agli invasor.

Dopo la cacciata degli Angioini dall'isola (1299), subentrarono gli Aragonesi. In epoca aragonese, nel 1302, Paternò fu inserita nella cosiddetta Camera Reginale che venne costituita da Federico III d'Aragona come dono di nozze alla consorte Eleonora d'Angiò, poi ereditata dalle Regine che si susseguirono, sino alla sua abolizione.

Nel 1348 la signoria di Paternò passò a Blasco Alagona, che governò la città sostenuto dal popolo nella sua lotta contro i Palizzi e i Chiaramonte. Alla morte di Blasco, la guida del governo della città fu assunta dal figlio Artale, che dimorò nel Castello.

Passata al Regio Demanio nel 1396, il re Martino la assegnò nel 1403 alla sua seconda moglie, la regina Bianca di Navarra, che due anni più tardi codificò un sistema di norme civili denominato Consuetudini di Paternò.
L'infeudamento della città Il periodo di magnificenza di Paternò durò fino al XV secolo: nel 1431 il re Alfonso I d'Aragona vendette la città a Niccolò Speciale, poi ritornata alcuni anni più tardi al Regio Demanio e, infine, venduta definitivamente nel 1456 a Guglielmo Raimondo Moncada.
Età moderna Con i Moncada la città venne infeudata e, seppur inizialmente furono buoni amministratori, ne causarono un lento ma inarrestabile declino. Poco più di un secolo dopo, da semplice feudo, Paternò divenne principato nel 1565 su investitura di Filippo II di Spagna, che nominò primo principe di Paternò, il conte Francesco I Moncada.

L'elevazione a rango di stato principesco, che diede quindi maggior prestigio e importanza alla città e agli stessi Moncada, favorì l'afflusso di numerose famiglie nobili e borghesi provenienti dalle altre zone della Sicilia e dalla Spagna[40]. Di questo periodo è di notevole interesse storico un'antica mappa prospettica di Paternò: un disegno ad inchiostro del Seicento scoperto recentemente, che inquadra la Collina e la città sottostante, coi suoi monumenti principali e con scene di vita quotidiana e di giustizia.

In quel periodo Paternò, mutò quindi a livello urbanistico, e dopo il terremoto del 1693, la collina perse sempre più il suo ruolo di cuore della città in favore della parte bassa, in forte espansione demografica ed economica. Numerosi furono gli edifici religiosi eretti in città ad opera delle molte confraternite che vi operarono, in particolare nella "parte bassa".

Il dominio dei Moncada sul comune etneo si concluse nel 1812, anno di promulgazione della Costituzione siciliana, che assieme ad un'uguaglianza in campo giuridico, all'abolizione della tortura e del maggiorascato, prevedeva la cessazione dei diritti feudali.
http://it.wikipedia.org/wiki/Patern%C3%B2

 

 

 

LA ROCCA E LA COLLINA STORICA

 

Assurta a simbolo della città, la torre faceva parte di un castello fatto edificare nel 1072 dal Gran Conte Ruggero per garantire la protezione della valle del Simeto dalle incursioni islamiche. Il castello fu assegnato alla figlia di Ruggero, Flandrina, sposa dell'aleramico Enrico di Lombardia. Attorno al castello e al piccolo borgo la popolazione iniziò a crescere grazie ai numerosi mercenari al seguito dei conquistatori normanni e all'arrivo di coloni provenienti dall'Italia settentrionale attirati dai privilegi a loro concessi. Il primo nucleo del maniero fu ben presto ampliato e dalle primigenie funzioni prettamente militari fu utilizzato per usi civili, divenendo la sede signorile della Contea di Paternò che Enrico VI di Svevia assegnò nel 1195 al nobile di origine normanna Bartolomeo de Luci [ consanguineo del sovrano svevo. Il Castello negli anni seguenti ospitò re e regine, tra i quali Federico II di Svevia, la regina Eleonora d'Angiò e la regina Bianca di Navarra. E per concessione di Federico II passò a Galvano Lancia. Il castello di Paternò e i territori sottoposti, infatti, furono inseriti nella cosiddetta Camera Reginale che venne costituita da Federico III d'Aragona come dono di nozze alla consorte Eleonora d'Angiò e che poi venne ereditata dalle Regine che si susseguirono, sino alla sua abolizione. Dopo il 1431 appartenne alla famiglia Speciale e dal 1456 fino alla fine del feudalesimo fu proprietà della famiglia vicereale dei Moncada. Utilizzato come carcere nel XVIII secolo iniziò il processo di degrado e abbandono, ma dalla fine dell'Ottocento ha visto diverse campagne di restauro che gli hanno restituito l'antica possenza.

L'edificio è a pianta rettangolare su tre livelli e raggiunge un'altezza di 34 m. Dall'epoca sveva il maniero era coronato da una merlatura ghibellina (come si osserva nel seicentesco Disegno della veduta di Paternò) di cui allo stato attuale resistono solo dei monconi. Particolarmente interessante e gradevole l'effetto di bicromatismo che si crea tra il colore scuro delle murature e le cornici delle aperture in calcare bianco.

Al piano terra si trovano una serie di ambienti di servizio e la cappella di S. Giovanni ornata da pregevolissimi affreschi del XX secolo. Al primo piano il grande salone d'armi è illuminato da una serie di bifore. All'ultimo piano quattro grandi ambienti un tempo adibiti per l'abitazione del re sono disimpegnati da un vano delle dimensioni del salone sottostante e disposto trasversalmente ad esso, chiuso su entrambi i lati da due grandi bifore gotiche che dischiudono lo sguardo verso il Simeto e verso l'Etna. (Wikipedia)

 

La chiesa matrice di Paternò, intitolata a Santa Maria dell'Alto fu fondata nel XII secolo e rifondata nel 1342. Nel XVIII secolo, forse in seguito ai gravi danneggiamenti del terremoto del 1693 l'edificio subì nuove trasformazioni, tra cui il cambio di orientamento, per avere il nuovo accesso rivolto verso la città, e la sostituzione della copertura originale a capriate lignee con una volta in muratura. L'edificio venne inoltre adeguato al gusto barocco.

 

La chiesa è a pianta basilicale con tre navate, divise da due file di pilastri realizzati con conci in pietra lavica a vista, su cui si impostano archi a tutto sesto sormontati da un cornicione tuscanico. La facciata fu realizzata nel tardo XVIII secolo in stile neoclassico. La monumentale scalinata di accesso collega la chiesa alla città sottostante.

 

Paternò. La magnifica torre ha finestre di pietra bianca che risaltano sul nero del basalto

Nato come avamposto sul fiume Simeto Il castello-torre o donjon di Adrano venne edificato probabilmente negli anni della contea di Ruggero I (XI secolo) come avamposto fortificato per la conquista della piana e della città di Catania. Insieme a quelli delle vicine Paternò e Motta Sant’Anastasia, sarebbe stato costruito per controllare la via d’accesso all’entroterra lungo la valle del fiume Simeto e garantire ai conquistatori il controllo della città di Catania.

Ha una pianta rettangolare che misura 20 per 16,70 metri ed un’altezza che raggiunge i 33,70 metri. Alla base l’edificio è cinto da una modesta bastionatura con rondelle angolari di età moderna.

L’edificio è stato eretto con la consueta tecnica muraria composta da materiale lavico di varia pezzatura e con cantonali realizzati tramite blocchi di basalto ben lavorati. Lo spessore della muratura varia dai 2,60 ai 2,30 metri.

Lo spazio interno del donjon è ripartito in quattro piani oltre il pianterreno: pianterreno e primo piano sono coperti da volte a botte e a crociera. Fu residenza di importanti famiglie, i Pellegrino, gli Sclafani, i Moncada, che dall’alto della sua mole dominarono Adrano e il suo territorio per lungo tempo.

 

  

Paternò e Adrano

Una città ricca di storia e di grandi tradizioni. Ecco Paternò che nel corso dei secoli ha visto sul proprio territorio bizantini, arabi, svevi, angioini ed aragonesi.

Per questo sono numerose e tutte di gran pregio le testimonianze che oggi è possibile ammirare. Dall’ex Monastero della Santissima Annunziata, alla storica chiesa di Santa Barbara alle chiese costruite dall’epoca normanna al Settecento ai palazzi nobili ricchi di storia come Palazzo Alessi (sede istituzionale del Comune di Paternò), Palazzo Moncada,

Portale Las Casas. In tutto il suo maestoso splendore, dominando dall’alto della Collina storica, tutta la città e la Piana, ecco il Castello Normanno: monumento simbolo della città, venne fatto erigere nel 1072 dal Gran Conte Ruggero e rappresenta il più grande dei tre dongioni della Valle del Simeto. Il maniero è un grande edificio fortificato ed ha una pianta a forma di parallelepipedo irregolare, con una sporgenza di 1,50 metri che occupa l’intera altezza della costruzione presso l’angolo sud-est. Le dimensioni complessive sono di 24,30 x 18 metri in pianta e 34 metri in altezza, con uno spessore della muratura, realizzata con conci di pietra lavica di varie dimensioni e leggermente sbozzati, pari a 2,60 metro. Un gradevole effetto donano i conci di pietra calcarea ben squadrati presso i cantonali e quelli finemente lavorati delle monofore e delle bifore, creando una bicromia caratteristica del donjon di Paternò.

Chiunque visiti il maniero, a parte godere di una vista panoramica mozzafiato sulla Valle del Simeto e sul Vulcano Etna, è ammaliato dalla magnificienza della torre e della bicromia delle pietre di cui è formato. Nei muri perimetrali del castello sono praticate infatti numerose aperture di diversa forma e dimensione, tutte caratterizzate dalla pietra bianca calcarea, che le pone in risalto rispetto alla pietra nera basaltica utilizzato per la costruzione della torre. Le più piccole di queste aperture sono di forma rettangolare, strette e lunghe, ed avevano funzione specificatamente difensiva: sono le classiche feritoie attraverso le quali balestrieri ed arcieri potevano scagliare frecce sugli assalitori.

Le finestre vere e proprie sono dette monofore e presentano in genere una forma di ogiva o di arco a pieno centro.

Hanno funzione essenzialmente pratica di aerazione ed illuminazione. Le bifore, invece, aggiungono a questa funzione quella decorativa.

Queste ultime, per la proporzione, la forma della colonnina centrale, la foggia del capitello e la ghiera esterna, ricordano le bifore di alcuni edifici di Taormina e di Randazzo, e sono tipicamente duecentesche.

DOMENICA 3 AGOSTO 2014 LA SICILIA

 

 

 

 

Il comune è situato alle falde dell'Etna, a 513 metri sul livello del mare, a nord-ovest della città di Catania, su un lastrone magmatico che strapiomba sulla valle del Simeto a meno di 4 km in linea d'aria dal fiume.

È un comune appartenente al Parco dell'Etna ed è adiacente a quello dei Nebrodi. In giornate terse il panorama permette di distinguere le colline dell'alto Calatino.

Il territorio comunale, ovvero la parte maggiormente abitata, si estende lungo una zona di bassa montagna in una zona boscosa mentre tutto il territorio generalmente condivide la sommità dell'Etna in un punto geometrico teorico con altri nove comuni, in direzione sud-ovest, fino al fiume Simeto, e scorre come una lunga colata lavica dalla sommità dell'Etna con un dislivello complessivo di oltre 3.000 metri. Comprende 3 830 ettari del Parco dell'Etna a cui partecipano altri 10 comuni pedemontani. Confina a nord-ovest con il comune di Adrano, a nord-est con Ragalna e Belpasso, a sud-est con quello di Santa Maria di Licodia e Paternò, a sud-ovest con il comune di Centuripe.

In base ai dati dell'Osservatorio Astrofisico di Catania il clima della cittadina è mediterraneo con caratteristiche continentali, con grandi estremi; la temperatura media nel mese di gennaio è di 4 °C, nel mese di luglio di 19 °C con una media annuale di 12 °C.[7] Biancavilla è caratterizzata da: autunni fino a novembre generalmente miti, ma che iniziano verso la fine del mese a portare pioggia e freddo; inverni freddi, con precipitazioni nevose talvolta anche a carattere di blizzard che durano giorni interi; le primavere sono abbastanza fresche, con piogge e non rare grandinate; infine le estati sono molto miti con temperature che nei valori estremi non arrivano solitamente oltre i 39 °C, e in questa stagione si hanno molte giornate di sole ma non è strano imbattersi in piogge, soprattutto durante i pomeriggi ad inizio e fine stagione. Le notti sono abbastanza fresche.

 

Storia

Un gruppo di esuli albanesi, giunti in Sicilia nel XV secolo a causa delle pressioni islamiste turco-ottomane, decise di cercare riparo nel territorio ispanico-aragonese di Sicilia sulle falde dell'Etna, fondando nel 1482 una propria comunità nota inizialmente come "Terra di Callicari". Il centro fu poi chiamato o noto come "Casale dei Greci", "Poggio Rosso" o in latino "Albavillae", per giunger poi, dal 1599, al nome di Biancavilla, forse in omaggio alla regina Bianca di Navarra.

Grazie all'abbondante presenza di sorgenti naturali e di grotte laviche, il territorio di Biancavilla fu abitato sin dal paleolitico superiore, dai Sicani prima, e dai Siculi dopo, come testimoniato dai reperti conservati presso il museo civico di Adrano[5] ritrovati in diversi siti archeologici esistenti anche all'interno dell'attuale centro abitato, ma fu successivamente abbandonato.

La fondazione dell'abitato risale al XV secolo, quando un gruppo di profughi arbëreshë[14][15] provenienti dai Balcani (dall'Albania e successivamente dalla Morea), guidati da Cesare Masi (Çezari Mëzi), ottennero il permesso di abitare nel sito[16], dal conte Gian Tommaso Moncada, il quale chiese e ottenne la "licentia populandi" dai presidenti del Regno di Sicilia Santapau e Centelles. Detto privilegio venne confermato nel 1501 dal conte Guglielmo Moncada e nel 1502 dal figlio Antonio. Successivamente, nel 1504 i tre privilegi furono redatti in forma pubblica con un nuovo atto, firmato dal giudice Ferdinando Marchisio e dal notaio Luigi Passitano mentre è datata 1568, la conferma di D. Cesare, figlio di D. Francesco, primo principe di Paternò.

La colonia fu insediata nella zona allora chiamata Callicari o Poggio Rosso, luogo probabilmente dell'antica Inessa. Gli albanesi, professanti il rito "greco", portarono con sé l'icona della Madre di Dio dell'Elemosina, tuttora oggetto di speciale e ininterrotta devozione[19].

In pochi anni la colonia albanese crebbe, grazie alle condizioni di privilegio concesse dai feudatari Moncada, Principi di Paternò. Non si conosce molto sull'attività civile e religiosa della colonia, poiché gli albanesi non lasciarono nessuno scritto, tranne che si esercitò il rito greco per quasi un secolo e che quando non esistette più un sacerdote per officiare il rito, veniva un "papàs" tutti gli anni delle colonie albanesi della provincia di Palermo per amministrare la Pasqua ai fedeli secondo i propri riti.

Nel tempo la posizione geografica nonché la lontananza rispetto agli altri profughi albanesi portò probabilmente alla scomparsa e alla decadenza della componente originaria albanese a Biancavilla e a far prevalere così progressivamente la componente locale siciliana. Biancavilla fu sempre compresa nel feudo di Adernò e nel XVI secolo è citato col nome di Casale dei Greci.

Il culto di San Placido, Patrono della città, si diffuse a Biancavilla nel XVII secolo, quando l'abate del vicino monastero di Santa Maria di Licodia nel 1602 alla chiesa madre cittadina le reliquie del santo, il cui culto si era diffuso in tutta la Sicilia, a seguito del rinvenimento a Messina di numerosi resti di martiri nella chiesa di San Giovanni Battista.

San Placido fu dichiarato patrono e protettore della terra di Biancavilla, il 23 settembre 1709 dal vescovo di Catania Mons. Andrea Riggio, “per essere sfuggiti alla crudele strage (terremoto gennaio 1693 che distrusse Catania e tutta la Sicilia orientale) [...] perché in futuro (la terra di Biancavilla) non sia distrutta dall'eccidio del terremoto e [...] perché questa devozione rimanga salva nel ricordo dell'evento”.

FONTE WIKLIPEDIA https://it.wikipedia.org/wiki/Biancavilla

 

 

 

 

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LE DUNE DI BIANCAVILLA

Quella dei calanchi è un’immagine poco conosciuta della nostra Regione, pur costituendo tra le tante diversità dell’isola un’eccellenza  non trascurabile. Dal punto di vista della conservazione dei luoghi questa circostanza è stata fino ad ora un grande vantaggio, in quanto ha permesso il mantenimento delle condizioni naturali originali e il loro rispetto. La scarsa fertilità dei suoli, la povertà dei pascoli, l’assenza di ogni altra risorsa economica differente ha giocato a favore della conservazione della bellezza dei calanchi, che, anzi, nel corso del tempo è solo aumentata. Nelle vallate più interne e più fertili le aree coltivate ad arancio si armonizzano perfettamente con la natura dei calanchi, anzi conferiscono alla stessa un ulteriore tocco nife, conferito dall’ordine e dai colori dei giardini di agrumi.

 

L’area merita di essere  tutelata e rivalutata con un piano di sviluppo che preveda oltre alla conservazione dei luoghi una regolamentazione dell’accesso, una migliore fruizione delle aree più lontane, la segnalazione dei belvedere più belli, la realizzazione di sentieri battuti, l’imposizione di vincoli per una tutela integrale che vieti all’interno ogni attività in contrasto con la bellezza del territorio e del paesaggio.

Ma ciò che più ci preme segnalare sono le potenzialità spirituali della zona, a tal proposito ci tornano in mente i brani forti del Vangelo in cui si parla del deserto come di un’area in cui Gesù Cristo si ritira per la preghiera, per la meditazione, per l’ascesi spirituale. Crediamo che la società odierna abbia un bisogno immenso di queste esperienze al fine di recuperare il valore reale delle cose, per un rapporto con il mondo e il terreno che sia epurato dalla dipendenza e che sottragga l’uomo dalla schiavitù della vita materiale, con tutte le conseguenze negative che essa genera.

I calanchi con il loro aspetto essenziale, minimalistico, nudo ed osseo, ci dimostrano che la bellezza non è una enfatizzazione   dell’aspetto esteriore ma la scoperta e rivalutazione della vita interiore e dei beni spirituali che ad essa sono connessi. Ci sono valori che appartengono alla vita umana che sono alla base di un’esistenza equilibrata e armoniosa, valori che noi abbiamo completamente cancellato in favore di realtà apparentemente più desiderabili, ma meno efficienti, incapaci di portare la vera pace nel cuore. Da queste semplici  riflessioni comprendiamo che il Creatore tutto ha realizzato nel mondo per il benessere nostro, prevedendo anche le opere necessarie a stimolare il nostro ritorno alla vita spirituale e al suo amore di Padre premuroso, provvidente e sempre presente.

Capo d’Orlando, 03/03/2014

Dario Sirna

FONTE: http://camminoin.it/calanchi-di-biancavilla-quarta-parte/

 

 

Adrano ( o Adernò) si estende alle pendici sud-occidentali dell'Etna, in una zona collinare che affianca la Piana di Catania ad est ed il fiume Simeto ad ovest. La città è situata ad un'altezza di 560 metri sul livello del mare, ha una superficie di 8.251 ettari e dista 35 km dal comune di Catania.
L'attuale toponimo risale al 1929 e riprende quello della città di Adranon fondata da Dionigi il Vecchio di Siracusa nel 400 a.C.[3] e dedicata ad Adranos, dio siculo della guerra.

I romani tradussero il nome in Hadranum, gli arabi ribattezzarono la città Adarna, i normanni la chiamarono Adernio, e gli angioini Adernò.

Secondo uno studioso del XIX secolo, Giovanni Sangiorgio Mazza, il tiranno siracusano avrebbe tuttavia fondato Adranon su un più antico centro siculo, identificabile con l'antica Inessa, in seguito denominata Aitna (Diodoro Siculo, Bibliotheca historica, 11, 76, 1), alla quale apparterrebbe il tempio del dio Adrano. Inessa protrebbe essere il nome con cui i siculi chiamavano l'Etna.

I Siculi Exquisite-kfind.png Per approfondire, vedi la voce Siculi.

Le radici di Adrano affondano nel Neolitico riportandoci ai Siculi che provenienti dalla costa jonica verso il X secolo a.C. s'insediarono nel territorio Etneo e fondarono la città del Mendolito, di questa città ormai sepolta sopravvive oggi nel territorio di Adrano la cinta muraria, le porte e le tracce di abitazioni, una necropoli dalle caratteristiche sepolture a cupoletta (forse d'ispirazione micenea) e numerose iscrizioni sicule. Resti di insediamenti siculi fioriti tra il X e il V secolo a.C. sono presenti ad ovest del paese e presso il fiume Simeto, nell'antica Mendolito, città di fondazione sicula oggi in parte sepolta.
Adranon  Nel 400 a.C. fu fondata da Dionigi il Vecchio di Siracusa la città greca di Adranon, per accrescere il controllo siracusano nella zona. Adranon, infatti, rappresentava un importante punto strategico, poiché garantiva il controllo del Simeto e della città di Centuripe, possedimento siculo che si ergeva su una altura presso la sponda opposta del Simeto. Nel 344 a.C., Timoleonte di Corinto dirigendosi verso Siracusa, nei pressi di Adranon sbaragliò le truppe di Iceta, tiranno di Leontinoi. Timoleonte vincitore, secondo la leggenda, fu accolto con clamore dalla città di Adranon, di cui divenne signore.

A sud di via Catania è stata localizzata la polis greca fondata da Dionigi il Vecchio nel 400 a.C. Imponenti sono i resti del muro di cinta, della cittadella, che parte da via Catania, contrada Buglio e arriva all'enorme baratro, chiamato Rocca dagli abitanti di Adrano. A parte lo scavo della sovrintenza, che ha messo alla luce un'abitazione con un pregevole pavimento, che attualmente versa in totale abbando e soggetta ad atti vandalici e la sistemazione ai fini turistici della zona di contrada Buglio, nei pressi delle mura, che dovrebbe costituire l'accesso all'area archeologica, il resto dell'area è utilizzato per attività agricole intensive ed è minacciato dall'espansione edilizia e dall'opera dei tombaroli. L'area meriterebbe la giusta salvaguardia da riservare all'unica cittadella greca, ancora quasi intatta, presente sull'Etna, paragonabile come ampiezza a Morgantina, una Pompei siceliota.

I Viceré

Dal 1412 al 1515, regnarono ad Adrano i Moncada, sotto i Viceré Aragonesi. Giovan Tommaso Moncada Conte di Adrano, restaurò il Castello di Adrano facendolo circondare da un bastione, costruì la chiesa di S. Sebastiano. I Ventimiglia, costruirono palazzi nel centro di Adrano, uno dei quali diverrà nel XVI secolo sede del Devoto Monte di Pietà e nel XIX sede del Municipio. In questo periodo si costituì il nucleo amministrativo di Adernò, composto da funzionari di ceto nobile (il capitano di giustizia, i 4 giurati, il tesoriere, il giudice civile, il giudice criminale, l'archivista, il mastro notaro, il castellano e il governatore del conte). Adrano adesso contava seimila abitanti.
Dai Borbone al Regno d'Italia.

Dopo il breve regno Piemontese e il successivo dominio austriaco che piegò la popolazione a causa dell'eccessiva tassazione, verso la seconda metà del '700, con l'avvento dei Borboni, la situazione economica migliorò, la popolazione cominciò a crescere: nel 1874 Adrano contava 6.623 abitanti. Nel 1820 a seguito della rivolta di Palermo, si succedettero tumulti ad Adrano, Biancavilla e Bronte, furono costituiti comitati per sostenere il colonnello Pietro Bazan, ma il comitato di Adrano fu scovato così la città fu mira dell'esercito punitivo dei Borboni.

Il movimento antiborbonico fu in un primo momento sedato, ma riprese durante la cosiddetta Primavera dei popoli nel 1848. Rivoluzionari adraniti guidati da Pietro Cottone accorsero in sostegno alla città di Catania che si piegava ai cannoni dell'esercito Borbonico, che infine occupò Catania, Biancavilla, Paternò e Adrano. La Spedizione dei Mille di Giuseppe Garibaldi, infiammò nuovamente speranze di libertà tra i patrioti, mentre per le classi meno abbienti poco cambiò, infatti, i moti contadini che chiedevano la spartizione delle terre, furono sedati dai garibaldini prima e dall'esercito di Vittorio Emanuele dopo.

Dal 1862 al 1867, una serie di lavori per il miglioramento della città: il primo impianto di illuminazione pubblica, quotazione delle terre comunali, inaugurazione del primo liceo, lavori per il lastricamento della via Garibaldi, inaugurazione dell'ospedale, la creazione di una centrale telegrafica ed elettrica ecc. Adernò era tra i più ricchi centri commerciali della provincia, ma le condizioni dei ceti poveri non erano migliorate e questi furono colpiti dal vaiolo nero e dal colera, che furono la causa di tumulti e ribellioni giustificati dalla fame, tumulti che sfociarono nel brigantaggio.

http://it.wikipedia.org/wiki/Adrano

 

 

 

Il Ponte dei Saraceni

La provincia catanese offre numerosi percorsi e scenari suggestivi, soprattutto perché si divide tra il mare e la montagna. A dividersi la scena, però, sono anche storia e natura, soprattutto negli angoli meno battuti. Poco fuori la città di Adrano, immerso tra scenari fiabeschi e natura selvaggia, si trova un ponte dal nome esotico ed evocativo: il Ponte dei Saraceni. Il percorso per raggiungerlo non è lungo – in macchina dalla città sono 15 minuti – ma prevede l’attraversamento di una stradina di campagna. La sua storia è legata a quella dell’Isola: i primi a costruirlo furono i romani, ma in seguito all’invasione islamica gli arabi lo ricostruirono dandogli probabilmente la forma che lo caratterizza e che ne ha ispirato il nome. Durante il Medioevo, con l’arrivo dei normanni, divenne una via di collegamento centrale tra la provincia ennese e Catania.

Appena arrivati si ha subito l’impressione di essere fuori dal tempo: il grande arco a sesto acuto s’incastona come un diamante nel grigio-azzurro delle Forre laviche del Simeto, le gole di roccia aguzza scavate dal fiume sul basalto derivato da antiche eruzioni dell’Etna e che dal 2000 fa parte dei Siti di Interesse Comunitario. Tutt’intorno solo lo scroscio dell’acqua e il soffiare del vento tra gli alberi. Una passeggiata naturalistica con un tocco fantasy che vi permetterà di sentirvi un po’ cavalieri e un po’ esploratori.

Altra piccola chicca: nel 2015 Repubblica lo ha inserito tra i trenta ponti più belli d’Italia. A regnare incontrastato e a dettare forme e colori su tutto quanto si estende ai suoi piedi è il vulcano Etna.

Fonte: Sicilia Segreta

 

 

Il "Ponte dei Saraceni" è una delle opere civili più belle e storicamente più interessanti del Medioevo siciliano. Il ponte resiste da circa mille anni alle sollecitazioni non indifferenti del maggior fiume della Sicilia, "il Simeto", caratterizzato da una variegata struttura geologica che prevede l'alternanza di cascate, gole e colate laviche. Il fiume precipita per un buon tratto nelle cosiddette "Gole" creando un naturale gioco d'acqua di grande suggestione. La contrada è denominata "Salto del Pecoraio" in omaggio ad una antica leggenda secondo la quale un pastore innamorato saltava dall'una all'altra sponda per recarsi dalla sua amata. Nella limitrofa contrada del Mendolito si trova l'area della più estesa, e forse più evoluta, città ellenica della Sicilia: la Città Sicula del Mendolito, del IX- V sec. a.C.. Di questa città è stata individuata la cinta muraria e messa in luce recentemente la monumentale Porta Sud.

 Dai ritrovamenti archeologici nella città del Mendolito, possiamo dedurre che nel luogo dove oggi sorge il ponte, già in età neolitica, poteva esistere una struttura, possibilmente un passaggio, costituito da una passerella in legno, per esigenza di commercio e scambi fra le città sorte sulle vie del Simeto, frequentata da numerosi viaggiatori che batterono sempre le stesse vie per poter attraversare il Simeto. E' probabile che durante la dominazione romana sull'isola, si ritiene opportuno sostituire con una solida architettura in pietra, il vecchio passaggio siculo-greco sul Simeto. Nasceva così una delle "viae frumentariae" che servivano a trasportare le considerevoli derrate frumentarie dalla Sicilia centro-orientale, ai porti della costa ionica, per l'uso e l'alimentazione degli abitanti della capitale.

 Quindi il ponte faceva parte di un'antichissima strada, che dalla Sicilia nord-orientale, lungo il corso dei fiumi Alcantara e Simeto portava alla piana di Catania, con diramazioni per Regalbuto, Troina, Agira, Centuripe, Adernò, Paternò, Catania e Lentini. Esso collega il territorio di Adrano con quello di Centuripe.

 Costruito in epoca romana in muratura, della quale ci rimangono le basi dell'arco maggiore, successivamente con l'occupazione islamica, gli Arabi lo rifecero probabilmente per ripristinare l'attività del ponte a seguito di un crollo dovuto forse ad una piena del Simeto. Così sostituirono all'arte romana i canoni della loro architettura, curando gli effetti cromatici, con l'alternanza di pietre chiare e scure nelle ghiere degli archi. La struttura che ne viene fuori, ad arco acuto, tipica di tutta l'architettura islamica, aquisterà così snellezza e leggerezza. Il ponte, in epoca normanna, faceva parte di un importante asse viario che collegava la città di Troina, prima capitale del regno di Ruggero I di Altavilla, con Catania.

 

 Con l'arrivo dei Normanni e fino al XVIII sec., il ponte e tutto il vasto territorio attorno ad esso, faceva parte di vari feudi, tra cui il feudo dei Duca di Carcaci. Il terremoto del 1693 causò forti danni al ponte, facendo crollare l'ultima arcata verso levante e lasciando malconci l'arcata principale e l'altra arcata piccola ad ogiva a fianco dalla maggiore. Nel corso del '700 molti furono i lavori di restauro e di riparazione e fino alla prima metà del '700 l'unica viabilità esistente per recarsi a Catania passava proprio per il Ponte dei Saraceni. Solo alla fine del '700, il ponte fu declassato ad un semplice "sentiero" e perdette la sua importante funzione di raccordo tra interno e sbocco a mare.

 Anche la nascita di nuove vie di comunicazione, più comode, contribuirono a far perdere la sua importanza. In seguito, la costruzione del ponte-acquedotto di Biscari (1761-66, 1786-91) che attraversava il Simeto lungo il Guado della Carruba, contribuì maggiormente a far perdere l'originaria funzione del Ponte dei Saraceni.

 Dell'antica struttura oggi se ne conserva solo l'arcata maggiore centrale, in stile gotico. Le altre arcate, una più piccola anch'essa gotica e un'altra romana, andarono distrutte durante l'alluvione del 1948 e ricostruite in seguito. Sotto il ponte, il fiume scava profonde gole nel basalto lavico a causa delle acque turbolente.

 Dall'anno 2000 il sito in cui sorge il Ponte dei Saraceni è all'interno del S.I.C. (Sito di Interesse Comunitario) denominato Riserva Naturale "Forre laviche del Simeto".

 Le “Forre laviche del Simeto” sono gole, con pareti di altezza variabile tra i 5 e i 15 metri, scavate dal fiume Simeto nel basalto formatosi in seguito a colate laviche provenienti dall'Etna.

comune.adrano.ct.it

COME ARRIVARE

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l Cirneco in Sicilia 

di Marco Belfiore, allevamento “dell’Ovo”
Il Cirneco è presente in Sicilia da almeno tre millenni, questo è testimoniato da ritrovamenti fossili, numismatici e letterari.

Lungo il corso del Fiume Simeto, in territorio di Paternò, in provincia di Catania in località Pietralunga attorno al 1960 è stato ritrovato uno scheletro di un cane, risalente all’incirca al 1400 a.C., di circa 45 cm di altezza e con la testa molto somigliante al tipo Cirneco, purtroppo di questo importantissimo reperto di carattere naturalistico-biologico, che doveva essere trasferito al museo L.Pigorini di Roma, non si ha più traccia…

All’ingresso di Siracusa, nella Necropoli del ”Fusco”, dentro una tomba sono stati ritrovati nel 1992 tre scheletri di cani risalenti al III secolo a.C.. Le tre teste dolicocefale e con gli assi cranio-facciali leggermente divergenti non si distaccano da quelle di un Cirneco. Probabilmente i cani appartenevano ad un cacciatore e sono stati uccisi alla sua morte per essere sepolti assieme al padrone.

Nei mosaici della famosa Villa del Casale di Piazza Armerina in provincia di Enna è raffigurata una muta di cani che sbranano Atteone, ma più di qualsiasi altra raffigurazione importanza rilevante ha la monetazione siciliana dal V al III secolo a.C. che testimonia la presenza del nostro Cirneco nell’Isola sin da epoche antichissime. Le prime sono quelle di Adrano per seguire poi in ordine cronologico quelle dei Mamertini, di Segesta, Erice, Mozia, Panormos, Piakos, Selinunte, Agirion, Paropos, Siracusa, Camarina e Messana.

Proprio su Adrano parla Eliano attorno al II secolo d.C. nel suo “Perì Zoon idiotetos” e nella sua opera, tradotta nel 1864 dal tedesco Rudolph Hercher, riporta un passo relativo ai cani sacri del Dio Adranos risalente all’ 800 a.C. : “Vi sono cani sacri, anzi essi sono i ministri ed i servitori del dio, i quali, non meno di mille di numero, superano i molossi per la bellezza……costoro durante il giorno dimenano la coda verso coloro che si avvicinano al tempio…..di notte sbranano con inaudita violenza anche i maestri nell’arte di rubare”, sia Santi Correnti cheCiaceri sostengono che i cani citati da Eliano fossero Cirnechi. Il paese di Adrano, alle pendici dell’Etna, è da consediderarsi la culla del Cirneco, nel suo museo si trova un interessante statuetta risalente al 1100 a.C. raffigurante un cane con orecchie ritte e muso a punta.

http://cirnecoetnaadozioni.jimdo.com/il-cirneco-dell-etna/cirneco-in-sicilia/

I cani del dio Adrano

“Chi ti pozzano manciari li cani!” E’ un’imprecazione siciliana, che si rivolge contro un malfattore per augurargli di venire sbranato da cani inferociti. Ebbene questo “augurio” affonda le radici nel mito e in particolare nel culto del dio Adrano. Come ci raccontano alcuni storici, sulle pendici dell’Etna, nei pressi dell’odierna Paternò, sorgeva un tempio con all’interno una statua che raffigurava il dio armato con una lancia, simbolo della potenza del vulcano.
Al tempio di Adrano, situato nei pressi del laghetto Naftia, accorreva una gran folla di fedeli, proveniente da ogni parte dell’isola.
La leggenda racconta che a custodire il tempio ci fossero numerosi cirnechi, dei cani da caccia tipici dell’Etna di origine egizia, razza derivante dallo sciacallo sacro al dio Anubis, e che questi cani fossero così intelligenti da mostrarsi accoglienti nei confronti dei fedeli che si presentavano al tempio con molti doni, e aggressivi e spietati nei confronti di chi si avvicinava al luogo di culto con cattive intenzioni. I cani del dio Adrano si avventavano contro gli spergiuri e i ladri intenzionati a fare bottino e li sbravanavo senza pietà. Da allora si augura la stessa sorte a tutti gli imbroglioni.

http://www.blogsicilia.eu/i-cani-del-dio-adrano/

 

La leggenda dei fratelli Palici e del dio Adrano

 

Voi non lo sapete, ma i siciliani furono i primi geologi della storia dell'umanità :-)
Riuscirono a dare una spiegazione scientifica al fatto che l'Etna eruttasse dicendo che la colpa fosse dei ciclopi, dei diavoli o di Re Artù (lo abbiamo visto nelle storie che ho scritto precedentemente). In questa leggenda, che sarebbe una delle più antiche della Sicilia, si darà invece una spiegazione 
scientifica sul ribollire delle acque del lago Naftia, vicino Palagonia, prima capitale della Sicilia fondata da Ducezio (Paliké).
Questo lago esiste ancora ma non è visibile in quanto i suoi gas, come ho letto su wikipedia, sono sfruttati industrialmente.
I fratelli Palici sono figli di Giove e della ninfa Talia. Giove si sa, è il più grande latin lover di tutti i tempi, fa più figli lui che la mia gatta che rimane incinta quando ancora allatta. O meglio, non è che li faccia lui, li fa fare a migliaia di donne all'insaputa della moglie Giunone che, giustamente, si arrabbia "tanticchia".

I fratelli Palici nacquero sottoterra perchè Talia, la loro madre, aveva paura che Giunone potesse ucciderli. La nascita dei fratellini provocò il ribollire delle acque del lago Naftia e gli abitanti del luogo dedicarono loro un tempio molto importante (dei resti del tempio è rimasto ben poco).
In questo luogo di culto si facevano grandi giuramenti e chi osava giurare e poi mentiva, veniva punito con la morte oppure con la cecità.
Ovviamente nessuno osava giurare il falso davanti al tempio.
Per questo motivo è nata un'espressione che mia nonna utilizzava spesso quando doveva giurare qualcosa: "orba di tutti i du occhi", oppure "privu di la vista di l'occhi", cioè che io sia accecato se dico il falso.
Un altro tempio famoso, vicino Paternò, è quello del dio Adrano.
I cani che facevano da guardia al tempio erano mille cirnechi dell'Etna.
Si racconta che i cirnechi erano dei cani intelligentissimi tanto che accolgievano festanti tutti i visitatori del tempio. Aiutavano le persone con problemi di deambulazione, accompagnavano a casa gli ubriachi, ma sbranavano coloro che andavano al tempio per rubare, i bugiardi o chi aveva cattive intenzioni.
Da qui, è nata l'espressione siciliana "chi ti pozzanu manciari li cani", come forma di imprecazione contro qualcuno che fa una cosa malvagia.
Autore: Alessandra Cancarè

http://www.lamiasicilia.org/storie-e-leggende/leggenda-fratelli-palici-e-dio-adrano

 

MENDOLITO

Isabella Di Bartolo

La più grande città indigena della Sicilia antica è ancora senza nome. L'ultimo baluardo dell'identità isolana prima dei Greci si trova alle pendici dell'Etna, nei pressi di Adrano. In una contrada dall'epiteto suggestivo: Mendolito. Terra di mandorli. Terra fertile che nella metà del VI secolo a. C. era abitata da una comunità coraggiosa che si difese, anche culturalmente, dai Greci che colonizzavano la Sicilia orientale. E fu proprio per proteggersi dall'avanzata greca che la città Sicula innalzò le sue poderosa mura di pietra lavica tutt'intorno al suo abitato esteso oltre 80 ettari e rafforzò la porta di ingresso sud con due torrioni. Un sistema difensivo che permise a questi Siculi di salvare la propria etnia, le proprie tradizioni.

A distanza di oltre 2.500 anni, Mendolito è una terra da scoprire. Una città ancora da portare alla luce. Il primo ad accorgersi della straordinaria valenza di questo sito immerso nelle campagne fu Paolo Orsi che qui, nel 1898, seguì Petronio Russo, un prete che faceva dell'archeologia la sua più grande passione e che dedicò la sua vita alla ricerca dell'antico territorio di Adrano. Orsi morì prima di poter avviare una campagna di scavi ma descrisse, con meraviglia, quel che aveva compreso osservando i primi resti di un insediamento indigeno che chiamava "la città Sicula di Mendolito". Fu poi Paola Pelagatti a scavare, negli anni '60, sulla scorta delle parole scritte da Orsi nei suoi taccuini. Vennero così alla luce i primi due rinvenimenti straordinari: la Porta sud e la più lunga iscrizione anellenica (cioè nella lingua degli indigeni) pubblica finora mai scoperta.

Nel 1988, la Soprintendenza di Catania subentrò alla tutela del sito dapprima di competenza della Soprintendenza di Siracusa e affidò le indagini all'archeologa Gioconda Lamagna che diresse varie campagne di scavo sino all'ultima, nel 2009, ancora oggi in fase di pubblicazione. Furono proprio queste analisi a far meglio comprendere i tratti distintivi di una società complessa, forte, coraggiosa e ricca anche artisticamente. «La città delle contrade Mendolito è il centro abitato simbolo della civiltà Sicula - dice l'archeologa Lamagna - cioè di quella popolazione di origine Italica che abitava alle pendici del Vulcano. Una comunità che volle distinguersi dai Greci ormai protagonisti della Sicilia orientale, e volle evidenziare la propria diversità dalla civiltà greca come mostra in maniera inequivocabile l'iscrizione della Porta Sud. Una lunga fila di lettere ancora da decifrare ma che era posta alla destra dell'ingresso, ad altezza d'uomo, quindi visibile a tutti coloro che entravano in città. Un'iscrizione che tutti, dunque, avrebbero dovuto leggere che doveva essere un'autocelebrazione della città stessa».

Gli abitanti di questa sorta di roccaforte conservano usanze tipiche dell'Italia meridionale da cui i Siculi provenivano come, appunto, la posizione dell'iscrizione e alcune tradizioni funerarie. «Abbiamo rinvenuto tracce delle sepolture infantili a enchitrismos, ovvero all'interno di vasi - prosegue l'archeologa -. Come accadeva in alcuni centri dell'Italia meridionale e non in Grecia, dunque, i feti e i bambini che non avevano compiuto ancora i 3 anni venivano sepolti all'interno di queste forme vascolari: un tratto distintivo di una comunità che mostra con evidenza come questa città avesse conservato tracce del suo passato e volesse ancora mantenerlo».

Una società di un'epoca ancora senza monete che utilizzava il bronzo anche come materiale di scambio. È questa un'interpretazione degli studiosi legata a un altro rinvenimento straordinario: un Ripostiglio. Fu Orsi con grande difficoltà a recuperare questo tesoro trovato da un contadino nel 1908 dentro un grande vaso. L'uomo lo aveva già in parte venduto ma l'archeologo di Rovereto riuscì, piano piano, a ricomprarlo: oltre 900 kg di bronzo. Lingotti, lance, cinturoni e poi ancora fibule, pendagli. Un tesoro che riempie un'ala del Museo archeologico di Siracusa, intitolato a Paolo Orsi che riuscì a riportare alla luce la Sicilia antica.

E tra le vetrine del Museo di Siracusa, oggi diretto proprio da Gioconda Lamagna, si trovano anche altri reperti di Mendolito tra cui la celebre iscrizione in pietra che gli studiosi di tutto il mondo tentano ancora oggi di decifrare.

Qui si trova, l'una accanto all'altra, la concezione dell'arte Sicula e quella Greca. Nella stessa vetrina sono esposti infatti due guerrieri, due piccole statue in bronzo: una opera di un artigiano Siculo con un cinturone simile a quelli rivenuti nel ripostiglio; l'altro, di fattura greca e dunque di età più tarda che riecheggia lo stile di Pitagora di Reggio ed è noto come il Bronzetto (o Efebo) di Adrano. Un capolavoro di cui Orsi si era innamorato e che aveva acquistato proprio da Petronio Russo; lo teneva gelosamente nella sua direzione e lo mostrava, con orgoglio, a pochi eletti. «Due diversi modi di intendere l'arte - dice l'archeologa Lamagna -, due diverse concezioni plastiche, entrambe di immenso valore. Il guerriero che ha combattuto la sua battaglia e ha ancora in sé l'energia, l'adrenalina».

L'ultimo scavo a Mendolito svela un altro modus vivendi della comunità Sicula legata al cibo, alla quotidianità. «Abbiamo ritrovato una grande casa - dice Gioconda Lamagna - con muri elevati sino al soffitto e che dovevano essere protetti da un pesante tetto di tegole e decorato da antefisse. Un magazzino come svela la presenza di vasi a terra, sulla banchina che lo costeggia su tre lati e probabilmente anche appesi. Vasi che custodivano derrate alimentari e che erano dunque una sorta di deposito per più famiglie, certamente nobiliari. Gli scavi hanno anche accertato il crollo del tetto, forse per un terremoto».

Nessuna certezza sulla fine di questa città fortificata e sulle fattezze urbanistiche, oltre che sulle sue aree sacre e luoghi di ritrovo. Tutto è ancora nascosto sotto gli agrumeti e le campagne di Mendolito che celano un tassello fondamentale per la comprensione della civiltà Sicula prima dell'arrivo dei Greci.

Ma Mendolito custodisce in sé un altro grande elemento che connota, da sempre, questo scorcio della Sicilia: il legame millenario tra uomo e Vulcano. «L'archeologia ai piedi dell'Etna è quella della pietra lavica - dice Gioconda Lamagna - che è possente ma difficilissima da lavorare come mostrano le mura e le case di Mendolito. Qui, come negli altri centri abitati alle pendici della Montagna, si mostra con straordinaria evidenza il rapporto tra uomo e Etna».

La città senza nome racchiude in sé la forza che lega l'uomo alla natura. Il mistero che lega il territorio al suo Vulcano. Mendolito è l'emblema della vita ai piedi dell'Etna che dà e toglie. La montagna che rende fertile la terra e poi, facendola sussultare o ricoprendola di fuoco, la distrugge. Per poi farla rinascere ancora.

  11/01/2015

 

Belpasso (Belpassu o Malpassu in siciliano) è un comune italiano di 26.414 abitanti della provincia di Catania in Sicilia.
Gli abitanti sono detti belpassesi (malpassoti in siciliano). Il paese di Belpasso sorge alle pendici dell'Etna, a sud del Vulcano e il territorio comunale si estende dalla sommità del vulcano fino al confine meridionale della provincia di Catania.

Il paese è caratterizzato da una pianta a scacchiera, insolita per la Sicilia, adottata al momento dell'ultima ricostruzione: questa si basò infatti su uno schema razionale, con isolati simmetrici di forma quadrata, disegnato dal mastro Michele Cazzetta. Quasi tutte le vie non hanno nomi specifici ma si distinguono semplicemente in "rette" e "traverse", seguite da un numero.
La prima menzione del paese, con il nome di Santa Maria del Passo risale al 1305. Il successivo toponimo di Malpasso (Malupassu) derivava dalle caratteristiche della zona: passu indica, infatti, una zona con frequente passaggio, mentre malu, aggiunto all'inizio, si riferiva a luogo pericoloso e disagevole (dal latino malus) o, più probabilmente, alla presenza di alberi di mele (da malum). Gli abitanti del paese presero il nome di malpassoti.

 


 

 

TRA L'ERUZIONE E IL TERREMOTO, FENICIA MONCADA
Erano trascorsi appena trent'anni dall'autonomia, allorché gli abitanti di Malpasso (da malipassus, passo del melo) furono provati da una tremenda sciagura: l'eruzione dell'Etna. Il 7 marzo 1669 il fuoco del vulcano seminò il panico tra gli abitanti che si videro costretti e ricostruire altrove. E la ricostruzione fu avviata lo stesso anno in contrada Carmena, vicino Valcorrente, a sei chilometri dal luogo sepolto dalla lava. Il nuovo sito fu chiamato Fenicia Moncada.
Un gruppo di famiglie della distrutta Malpasso s'insediò invece nel quartiere La Guardia creando il sito di Stella Aragona. Nel 1693 un violento terremoto distrusse Fenicia Moncada.

NASCE BELPASSO
La ricostruzione fu avviata in località più vicino al sito di Stella Aragona in zona San Nicola a nord del piano Garofalo. Il nuovo sito venne chiamato con il toponimo augurale di 'Belpasso', terra di pertinenza del Duca di Montalto.
L'incarico di predisporre l'assetto urbano venne affidato a mastro Michele Cazzetta.
Nel 1693 iniziarono i lavori rispettando il tracciato a scacchiera predisposto dal Cazzetta fino ad una certa altezza del territorio, ricollegandosi, poi, tramite l'attuale via Vittorio Emanuele, con il quartiere Stella Aragona.
Il tracciato regolare a reticolo di strade che s'incrociano ad angoli retti, è il cuore dell'attuale centro di Belpasso con le sue strade che si chiamano tutte rette e traverse. Solo la principale via Roma fa eccezione in questa funzionale toponomastica, insieme alle piazze Umberto e Duomo.

 

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Molto interessante è l'analogia con il paese di Malpaìs sito a nord della più orientale delle Canarie, Lanzarote (ES). Il nome Malpaìs deriva da paìs malo poiché Malpaìs fu ripetutamente distrutto dalle colate laviche provenienti dal cratere che si trova nelle vicinanze della cittadina, tanto da meritarsi l'appellativo di cattivo paese. Probabilmente anche l'origine del nome Malupassu risente dell'influenza spagnola derivante dalla dominazione avuta in Sicilia dal 1516 al 1713. Altra analogia a supporto di tale tesi è la natura del terreno, in entrambi i casi generato da colate laviche ed interessato da piogge di ceneri vulcaniche e lapilli di bassa granulometria provenienti dai vicini crateri di emissione.
A Malpasso (malupassu in siciliano) appartenevano una serie di borghi e villaggi: Guardia di Malpasso e Bottighelle, a nord-ovest, Nicolosi, a nord-est, Sant'Antonio, a sud, e ancora, Annunziata di Malpasso, Fallachi, Misericordia di Malpasso, Fondaco Vecchio e Fondaco Nuovo. Il paese venne distrutto dall'eruzione dell'Etna del 1669, che interessò in parte anche Catania, coperto il paese da uno spesso strato di lava fuoriuscita da un cratere, apertosi a nord dell'abitato di "Mompilieri" (Monti Rossi). Gli abitanti superstiti lo rifondarono, in una zona piuttosto distante dall'originario abitato, all'epoca denominata "contrada Grammena". Il nuovo centro prese il nome di Fenicia Moncada, derivata dall'araba fenice e dalla potente famiglia dei Moncada, principi di Paternò e feudatari della zona, e gli abitanti ebbero nome di "fenicioti". Anche questo centro venne tuttavia abbandonato, a causa delle distruzioni subite con il terremoto del 1693.
Il paese attuale venne rifondato una seconda volta in una zona ancora diversa, all'epoca conosciuta come "Piano Garofalo", a cura della locale famiglia Bufali con il benaugurante nome di Belpasso.

La prima menzione del paese, con il nome di Santa Maria del Passo risale al 1305[3]. Il successivo toponimo di Malpasso (Malupassu) derivava dalle caratteristiche della zona: passu indica, infatti, una zona con frequente passaggio, mentre malu, aggiunto all'inizio, si riferiva a luogo pericoloso e disagevole (dal latino malus) o, più probabilmente, alla presenza di alberi di mele (da malum). Gli abitanti del paese presero il nome di malpassoti.
Molto interessante è l'analogia con il paese di Malpaìs sito a nord della più orientale delle Canarie, Lanzarote (ES). Il nome Malpaìs deriva da paìs malo poiché Malpaìs fu ripetutamente distrutto dalle colate laviche provenienti dal cratere che si trova nelle vicinanze della cittadina, tanto da meritarsi l'appellativo di cattivo paese. Probabilmente anche l'origine del nome Malupassu risente dell'influenza spagnola derivante dalla dominazione avuta in Sicilia dal 1516 al 1713. Altra analogia a supporto di tale tesi è la natura del terreno, in entrambi i casi generato da colate laviche ed interessato da piogge di ceneri vulcaniche e lapilli di bassa granulometria provenienti dai vicini crateri di emissione.
A Malpasso (malupassu in siciliano) appartenevano una serie di borghi e villaggi: Guardia di Malpasso e Bottighelle, a nord-ovest, Nicolosi, a nord-est, Sant'Antonio, a sud, e ancora, Annunziata di Malpasso, Fallachi, Misericordia di Malpasso, Fondaco Vecchio e Fondaco Nuovo.

 

 

 

Il paese venne distrutto dall'eruzione dell'Etna del 1669, che interessò in parte anche Catania, coperto il paese da uno spesso strato di lava fuoriuscita da un cratere, apertosi a nord dell'abitato di "Mompilieri" (Monti Rossi). Gli abitanti superstiti lo rifondarono, in una zona piuttosto distante dall'originario abitato, all'epoca denominata "contrada Grammena". Il nuovo centro prese il nome di Fenicia Moncada, derivata dall'araba fenice e dalla potente famiglia dei Moncada, principi di Paternò e feudatari della zona, e gli abitanti ebbero nome di "fenicioti". Anche questo centro venne tuttavia abbandonato, a causa delle distruzioni subite con il terremoto del 1693.
Il paese attuale venne rifondato una seconda volta in una zona ancora diversa, all'epoca conosciuta come "Piano Garofalo", a cura della locale famiglia Bufali con il benaugurante nome di Belpasso.

http://it.wikipedia.org/wiki/Belpasso

 

Cavaliere, è un vero piacere!

A Belpasso, suo paese natale, il Cavaliere del lavoro Francesco Condorelli rappresentava una istituzione, così come la sua industria dolciaria che, proprio lo scorso anno, ha festeggiato trenta anni di attività e di successi derivati, in massima parte, dai torroncini commercializzati in tutto il mondo.

La notizia della scomparsa di Condorelli, ha offerto l’occasione per scoprire un personaggio che con i suoi 91 anni di esistenza pienamente vissuta, ha contrassegnato una pagina positiva dell’imprenditorialità siciliana sin da quando, ventunenne, nel 1933, divenne proprietario della pasticceria di Borrello. Spirito irrequieto e curioso, Condorelli conobbe anche l’esperienza dell’emigrazione. Per un breve periodo della sua vita, su sollecitazione di un conoscente, decise di trasferirsi in Istria e nel 1939 giunse a Pola. L’avventura istriana fu breve, così come quella che lo portò, dopo la guerra, a Malta. Tornato definitivamente in Sicilia, nonostante fosse provato dai combattimenti e dalla prigionia patita in un campo di Tunisi, mostrò tutta la sua tempra .
La storia dell’industria dolciaria Condorelli

imgPasticcere per passione, Condorelli si fece protagonista della locale vita imprenditoriale. La sua pasticceria cominciò ad essere frequentata dalle numerose comitive di gitanti che passavano da Belpasso, per salire a fare escursioni sull’Etna.

Il Cavaliere maturò poi l’idea di realizzare un morbido torrone monodose in seguito ad una cena in casa di una vedova a Venaria Reale, in provincia di Torino. Quella sera il dolce era proprio una stecca di torrone che venne rotto con un grosso coltello in parti diseguali. A Condorelli, che era l’ospite fu dato il pezzo più grosso e questo non gli sembrò giusto, per non parlare dei problemi di masticazione che, a causa della durezza, creava soprattutto alle persone anziane.

Gli balenò allora l’idea di un torrone morbido, dal gusto delicato, incartato in porzioni singole. E da qui il salto di qualità perché il marchio Condorelli divenne presto sinonimo di torroncino e fu esportato in tutto il mondo.

Oggi nell’industria dolciaria Condorelli si trasformano ogni giorno settemila chili di mandorle per confezionare 15 mila chili di torrone morbido ricoperto con sette glasse diverse. L’industria dà lavoro a 54 dipendenti fissi, a 66 stagionali e a 96 agenti, che coprono tutto il territorio nazionale. Sono cifre imponenti e – siamo certi - destinate ad accrescersi con la istituzione della Fondazione, nata per ricordare uno dei più importanti imprenditori siciliani nel settore dolciario.

 

CONDORELLI: GULLOTTA, CONOSCERLO E' STATO UN VERO PIACERE

Catania, 20 ago. - (Adnkronos) - ''Sembra un gioco ma non lo e', conoscerlo e' stato un vero piacere''. Con lo slogan utilizzato per pubblicizzare i torroncini Leo Gullotta ha voluto ricordare il cavalier Francesco Condorelli, morto all'eta' di 91 anni martedi' sera. Gullotta, che degli spot tv e' stato il testimonial, ha parlato del rapporto che lo legava a Condorelli. ''La nostra era una vera amicizia, era un uomo straordinario di grande onesta'. Una persona che ha saputo far crescere il suo lavoro''. Occhiali neri per nascondere la commozione, Gullotta e' stato tra i primi a presentarsi in casa Condorelli appena appresa la notizia della morte del cavaliere.

''Ho perso un'altra persona perbene che ho avuto il piacere di conoscere 18 anni fa. Da allora avevamo costruito un rapporto con radici salde. Condorelli riusciva a regalare un sorriso a chiunque gli si presentasse davanti, incontrarlo e' stata una delle esperienze piu' importanti della mia vita''.

 

 

BELPASSO : UN PAESE DA AMARE
Nelle foto aeree, Belpasso presenta la forma di una scacchiera, con rette e traverse che s'intersecano in un tessuto viario unico tra i paesi del circondario. Dall'alto è incantevole ammirare le case dai tetti rossi disposti in petali sfrangiati orlati dal verde cupo dei campi. Il cono fumante dell'Etna (dal greco "Monte ardente" o "gettante fuoco" denominato dai saraceni Monte Gibel da cui Mongibello) incombe, ora pacifico ora minaccioso, sempre presente e profondamente legato alla storia di Belpasso.

Ci sono diverse versioni del perchè e stato chiamato Malpasso, a noi piace quello che :racconta Patrick Brydone:in ASCESA sull’ ETNA 1770“il nostro padrone di casa a Nicolosi ci ha parlato dello strano destino delle magnifiche campagne vicino a hybla , poco distante da qui.
Queste terre erano cosi famose per la loro fertilità, e specialmente per il miele che venivano chiamate MEL PASSO. Ad un dato punto però furono invase dalla lava dell’etna e rese completamente sterili, e allora , con una specie di bisticcio, il nome venne cambiato in MAL PASSO.”

Le origini del paese sono certamente antiche come testimoniato dalla presenza di aree di frequentazione in età preistorica - neolitica e della prima metà dell'era del bronzo, di resti di acquedotti e ponti di epoca romana (Valcorrente - Sciarone Castello, Masseria Pezzagrande) e medievale con resti di colonnati in pietra lavica di un castello e di un piccolo arco acuto della Chiesa S. Maria La Scala nell'omonimo monastero (eretto in contrada Diaconia in periodo normanno). La storia del periodo tra il XII ed il XIII secolo è legata a quella di Federico II D'Aragona e Eleonora D'Angiò concessagli in sposa dal padre Carlo II in cambio della propria libertà.

 

 

Belpasso - la chiesa di S. Antonio Abbate


Federico, divenuto re di Sicilia nel 1296, era solito viaggiare tra Paternò e Malpasso e a soggiornare spesso in quest'ultimo territorio. Alla morte di Federico, Eleonora D'Angiò assieme ad alcune amiche si trasferì definitivamente in una casa di Malpasso (i cui resti sono tuttora esistenti) immersa nel quartiere Guardia, a poche centinaia di metri dal monastero dei benedettini di S. Nicolò l'Arena, ove morì nel 1343. A Malpasso, pertanto, Eleonora rimase legata per la tranquillità del sito, la salubrità del clima e l'amenità di quei boschi che favorivano la preghiera e la contemplazione. Le notizie risalenti a quest'epoca, sono quasi riferite a vicende di vita quotidiana intrisa a volte di suggestioni e credenze popolari, dato che l'intensa attività del vulcano nel corso dei secoli non ha certamente contribuito ad aiutare nella non semplice ricostruzione delle vicende legate ai popoli della zona.

Certo è che Belpasso assieme a Paternò, fin dai tempi più antichi, costituiva una realtà sociale ben coesa. Nel 1456 Guglielmo Raimondo Moncada, conte di Adornò, comprò dal re Alfonso re di'Aragona lo stato di Paternò e Malpasso. La convivenza tra i due Stati, però, fu alquanto problematica e segnata da continue liti tra i sudditi del Feudo di Paternò.
Dopo alcune richieste a seguito di richiesta di indipendenza degli abitanti di Malpasso, il Duca di Montalto e Principe di Paternò Don Luigi Guglielmo Moncada con atto pubblico del 5 luglio 1636 decise di dividere il territorio, assegnando alla Università di Malpasso una parte del territorio per una giurisdizione autonoma.

https://flic.kr/p/omoAUY

 

 

 

Belpasso «La cultura, cuore della nostra storia è il nostro futuro»

 

Tra arte, storia, natura, folklore, artigianato, specialità dolciarie, attrazioni acquatiche e commerciali, Belpasso, cittadina di 28mila abitanti, è una tappa strategica alle pendici del Mongibello.

«Gode di un vastissimo territorio eterogeneo sotto molti punti di vista - esordisce il giovane presidente del Consiglio comunale, Salvo Licandri - capace anche di raccontare la storia del territorio». Una storia ricca di fascino e che ha lasciato il segno:  dai giorni della Regina Eleonora D’Angiò, ai rapporti con i vicini borghi medievali, passando per le calamità legate agli umori distruttivi dell’Etna del 1669 e del 1693 che hanno portato da Malpasso a Fenicia Moncada fino all’attuale “Scacchiera dell’Etna”.

«La nostra cittadina – prosegue Licandri - offre diverse peculiarità: monumenti, tradizioni dolciarie, cultura teatrale, “l’oro nero” dell’Etna, ovvero la pietra lavica, senza dimenticare le tradizioni religiose».

La bella stagione si presenta dunque come il periodo turisticamente più favorevole.

«Belpasso è soprattutto una meta per le ferie estive – ha proseguito Licandri - A segnalare un’impennata di presenze sono i dati che ci provengono da Etnaland, maggiore parco acquatico del Meridione, da Etnapolis, realtà non soltanto commerciale ma soprattutto ricreativa. A ciò si aggiunge anche la struttura dell’anfiteatro nel Parco urbano di piano Garofalo, che offre una rassegna di eventi artistici di alto livello. In questo contesto la forza del paese sono anche le strutture ricettive come i B&b, migliori nel contesto etneo, al completo nei periodi delle maggiori attrazioni come “le spaccate” dei carri di S. Lucia, adesso riprese anche ad agosto, e dell’atteso motoraduno internazionale dell’Etna».

«Ricoprire il ruolo di presidente del Consiglio dà molto prestigio, ma anche molta responsabilità. Se parlo di bilancio sento l’obbligo di lavorare in funzione del potenziamento dell’ufficio Europa per individuare somme della Comunità europea per i tanti progetti che Belpasso da troppo tempo ha in cantiere e che finalmente, con la nuodalla tutela ambientale alla valorizzazione dei prodotti agricoli - con il miglior olio d’oliva, le arance rosse, i fichidindia belpassesi meglio noti come “bastardoni” dell’Etna - il passo è breve.

Nel ventaglio delle tante risorse del territorio un posto di rilievo va poi alsta guardare il basalto lavico di via Roma, gli storici palazzi e le tante chiese, piene di opere d’arte, per arrivare poi anche all’importante tradizione teatrale.

Tutto ciò non è solo il cuore della nostra storia ma deve essere il nostro presente e il nostro futuro. Ecco perché - prosegue Licandri - l’amministrazione, assieme alla fondazione Bufali, ha elaborato dei progetti per reperire i finanziamenti per recuperare i saloni e le aree più suggestive e artistiche della storica struttura di Palazzo Bufali».

 «Le attrattive: monumenti, tradizioni dolciarie, teatro e la pietra lavica» va amministrazione guidata dal giovane sindaco Carlo Caputo, potrà portare a compimento. Tra i progetti più ambiziosi, la rete di collegamenti sia per l’Etna, attraverso la “tangenziale” che attraversi l’interno del territorio belpassese, sia una superstrada che colleghi il centro urbano a Belpasso sud, velocizzando i collegamenti con Etnapolis, e al futuro parcheggio scambiatore per la nascente metropolitana.

Belpasso è una risorsa unica al mondo, una buona fetta di territorio particolarmente suggestiva ricade all’interno dalla riserva del Parco naturale dell’Etna, che deve essere valorizzata, così come questa amministrazione ha pensato nel proprio cronoprogramma». E la cultura. «La spaccata dei “carri di S. Lucia” e la degustazione del torroncino Condorelli, sono attrazioni capaci di far convergere nella “scacchiera dell’Etna” importanti flussi turistici». Così per una lettura completa della storia del territorio etneo, non si può non passare da Belpasso, rifiorita ai primi del 700 con il duro lavoro degli scalpellini e degli artigiani del posto.

DOMENICA 3 AGOSTO 2014 LA SICILIA -  SONIA DISTEFANO

 

 

 

Sorge a m. 442 s.l.m., sul versante sud occidentale dell’Etna. Il comune è circondato da lusseregianti campagne coltivate per lo più ad agrumi e uliveti nella parte bassa, e a vigneti nella zona alta. La ferrovia Circumetnea e l'ex strada statale 121, ideata durante l'epoca borbonica, che nel centro abitato prende nome di Via Vittorio Emanuele, attraversano l'abitato. Dal capoluogo di provincia è ben raggiungibile attraverso la strada a scorrimento veloce Catania-Paternò. La Città fa parte della provincia, dell'arcidiocesi e dell'area metropolitana di Catania, ed è inserita tra i comuni del Parco dell'Etna.
La storia dell’odierna Santa Maria di Licodia, ha origine remotissime che si perdono nell’oblio del tempo e della storia. Secondo quando affermano numerosi storici, la città odierna sorge in loco dell’antica città di Inessa, le cui genesi risalirebbe all’epoca della dominazione Sicana della Sicilia, ovvero al secolo XII o XI a.C. Ciò trova riscontro in un testo dell’autore greco Polieno il Macedone, il quale al capito V dei suoi “Stratagemmi” narra di un artificio di Falaride a danno della città di Inessa;
« Tetua Tiranno di Inessa fu vittima di uno stratagemma di Falaride venuto in Sicilia, nella città di Agrigento, con l’incarico dell’esazione del pubblico denaro per l’erezione del tempio di Giove.

 

Acquistata una grande quantità di materiali, li chiuse in una fortezza, e con buon numero di stranieri venuti segretamente, s’impadronì della città e se ne fece tiranno. (dal 570 al 555 a.C.) Con perfidia pari all’ambizione ed alla sua crudeltà dell’animo, cercò di allargare i confini del suo dominio, e sottomettere a sé le città Sicane tra cui Inessa. Si volse a Teuta che n’era tiranno e con ambasciata solenne gli fece intendere di desiderare come sposa la figlia.

Tetua, lusingato, acconsentì; ma quando fu tempo di condurre con sé la giovane, si fece precedere da soldati in abito di donzelle come se recassero doni nuziali, e quando furono dentro la città la occuparono senza ostacoli (secolo V). »
Gerone I tiranno di Siracusa, si impose con la forza per affermare l’autorità delle città doriche sulle calcidiche. Marciando quindi su Catania, la conquistò, popolandola di coloni greci e siracusani e mutò il suo nome in Etna, dal vicino vulcano nell’anno 476 a.C.
Al suo breve governo successe il fratello Trastibulo, che però a causa del suo mal governo dovette fuggire. Caduta la dinastia Gelonica, i catanese cacciati dalla loro patria, approfittando della disfatta di Trastibulo e con l’ausilio del principe siculo Ducezio, marciarono verso la città. Gli etnei (catanesi), cacciati dalla città, ottennero di potersi ritirare nella città di Inessa, che occuparono nel 461 a.C. In memoria dell’antica patria perduta essi ne mutarono il nome in Etna.
http://it.wikipedia.org/wiki/Santa_Maria_di_Licodia

 

 

 

 

 

 

 

 

I tempi del nostro lungo medioevo sono documentati da un patrimonio storico-culturale d’eccezionale importanza.

Essi narrano un trascorso di grandezza che i nostri avi hanno costruito o contribuito a costruire.

Le migliorate condizioni di vita favoriscono un movimento turistico sempre più in espansione.

Noi con l’occhio antico del turista, e non per campanilismo, siamo andati a curiosare, a chiedere, talvolta a cercare e immaginare.

Con l’obiettivo della macchina fotografica, come pure con ricerche di archivio e l’ausilio di memorie storiche, abbiamo cercato e fissato quei ruderi che sono o erano gli splendori di una civiltà passata: la nostra.

Abbiamo voluto, quindi, immortalare quei "fantasmi" che sono sopravvissuti ad incuria e abbandono cercando di non farli del tutto svanire e portarli a testimonianza e non a leggenda. Siamo andati alla ricerca di documenti che ci permettessero di ricostruire l’economia, la società e la cultura del tempo.

 


 

Siamo stati attenti alla spiritualità e religiosità popolare cercando dappertutto di cogliere quei legami che fanno della nostra società una figlia di quella primigenia che l’ha preceduta. Abbiamo, in una parola, cercato le nostre radici.

Narrando la storia del passato, ci proponiamo con questo sito di suscitare interesse verso tutto ciò che è segno indelebile di recupero di tradizioni, valori autentici che la massificazione, segno dei nostri tempi, ha inevitabilmente gettato nell’oblio.

L'esposizione, concisa e veloce degli avvenimenti, non vuole avere la pretesa di un trattato di storia e neppure quella di uno studio sulla vita politica, economica e sociale di Bronte. Per questo - e per approfondire quanto da noi scritto - vi rimandiamo alle Memorie storiche di Bronte di Benedetto Radice.

Ci auguriamo solo che quanto realizzato possa servire da piattaforma di rilancio culturale, sociale ed economico della nostra piccola cittadina.
Bronte trae origine da 24 casali, popolati di contadini e pastori.

 


Sempre in lotta per l’esistenza, i brontesi hanno conservato una natura fortemente determinata, libertaria e raramente disponibile al compromesso. Il giureconsulto Antonino Cairone ed il capitano d'armi Matteo De Pace con Luigi Terranova condannati a morte per aver gridato Viva il re di Francia ne sono un fulgido esempio.
E forse non a caso è nato a Bronte il filosofo Nicola Spedalieri che per primo in Italia parlò dei diritti dell’uomo e non è un caso che i brontesi siano stati anche protagonisti dei Moti siciliani tendenti ad affermare i principi dell’autonomia e dell’indipendenza (1820 e 1848-1849), soprattutto, dei sanguinosi Fatti del 1860 che durante la spedizione dei Mille ci procurarono oltre ad una dura repressione l’accusa infamante di "lesa umanità" e della rivolta contro i dazi del 1911.

http://www.bronteinsieme.it/2st/story.html

La Capitale italiana del pistacchio!

La Sicilia è l'unica regione italiana dove si produce il pistacchio ("pistacia vera") e la cittadina etnea, con oltre tremila ettari in coltura specializzata, ne esprime l'area di coltivazione principale (più dell'80% della superficie regionale) con una produzione dalle caratteristiche peculiari.
Bronte, Eden di pistacchio, con un frutto dal gusto e dall'aroma universalmente riconosciuti come unici e particolari.
L'"oro verde", così è denominato il "pistacchio verde di Bronte", rappresenta la principale risorsa economica del vasto territorio della cittadina etnea.

Concorreranno la terra e le sciare dell'Etna, la temperatura o il portainnesto, le tradizioni di coltura tramandate da padre in figlio, fatto è che la pistacchicoltura brontese, a differenza dei prodotti di provenienza americana o asiatica, in massima parte con semi di colore giallo, produce frutti di alto pregio, molto apprezzati e richiesti nei mercati europei e giapponesi per le dimensioni e l'intensa colorazione verde.
Il pistacchio brontese è dolce, delicato, aromatico. Soprattutto è unico. Fra le varie qualità coltivate nel Mediterraneo e nelle Americhe possiede colori e qualità organolettiche che ne fanno un unicum in tutto il mondo con un suo sapore soave che i frutti prodotti altrove non  hanno.
Viene apprezzato nei mercati italiani ed esteri per l'originalità del gusto e l'adattabilità in cucina e in pasticceria. E' usato nell'industria dolciaria sopratutto per preparare torte, paste, torroni, mousse, confetti, gelati, e granite, ma è squisito anche nei primi e secondi piatti o arancini; è utilizzato anche nella preparazione degli insaccati (ottimo nelle mortadelle e nelle soppressate) e nel settore cosmetico.
A Bronte se ne raccolgono oltre 30 mila quintali e, quello con guscio (la "tignosella") si vende a circa 18,00/20,00 euro al chilo e a 38,00/40,00 quello senza guscio ("sgusciato").
 Una ricchezza di quasi 15 milioni di euro che rappresenta poco più dell’1% della produzione mondiale di pistacchi.
L'ottanta per cento del prodotto brontese è esportato all'estero, sopratutto in Europa, il restante 20% trova impiego nell'industria nazionale (il 55% industria delle carni insaccate, il 30% nell'industria dolciaria ed il 15% nell'industria gelatiera, con un rapporto gelateria industriale/artigianale che potrebbe essere del 60/40%).
Il frutto viene commercializzato sotto diverse forme: Tignosella (pistacchio non sgusciato), pelato (sgusciato e privato dell'endocarpo), granella, farina, bastoncini, affettato o pasta di pistacchio.
Certamente quasi nessun agricoltore brontese vive più di solo pistacchio: la coltivazione occupa solo una parte dell'impegno lavorativo e fornisce una fetta di reddito; è in pratica una seconda attività, ma essenziale per la sopravvivenza della famiglia e della comunità e forse è più la passione che l'economia a spingere i brontesi ad impiantare ancora alberi di pistacchio (che daranno i primi frutti solo dopo circa dieci anni).
Nella zona si contano quasi mille produttori, la maggior parte con piccoli appezzamenti di terreno sciaroso di meno di un ettaro e qualche grosso produttore con un multiplo di ettari.
Il frutto raccolto viene in genere smallato ed asciugato ad opera del produttore stesso, che poi vende il suo pistacchio in guscio alle aziende esportatrici o lo conferisce alle cooperative.
http://www.brontepistacchio.it/

 

 

 

 

 

 

La Ducea di Nelson
Contrada Eranteria - Bronte (CT)

L'Abbazia di Santa Maria di Maniace, chiamata anche Ducea di Nelson, Castello di Nelson e Ducea di Maniace, si trova al confine fra i comuni di Bronte e Maniace, in provincia di Catania. Il complesso è costituito da tre strutture principali: la dimora nobiliare dei duchi Nelson-Bridport (impropiamente detta castello), oggi trasformata in Museo, i resti dell'antica Abbazia benedettina dedicata a Maria Santissima e la chiesetta di Santa Maria di Maniace esempio di architettura religiosa normanna tutto circondato da un grande e splendido parco.

 

 

 

Fu fondata dalla regina Margherita di Navarra nel XII secolo. Verrà donata insieme al feudo nel 1799 da Ferdinando di Borbone all'ammiraglio inglese Horatio Nelson. Oggi il complesso è stato musealizzato. Dopo svariate vicissitudini nel corso dei secoli, tra cui il terremoto del 1693, venne donato ad Orazio Nelson insieme ad un vasto feudo nel 1799 da Ferdinando III. Nel 1981 il Comune di Bronte acquistò la struttura dall’ultimo erede dell’ammiraglio inglese. Alla fine del XIX secolo la casa ducale verrà abitata dal poeta scozzese William Sharp. Sotto il fascismo la ducea fu espropriata agli inglesi e, proprio di fronte all'ingresso principale, fu costruito un gruppo di case assegnate ai braccianti, fu chiamato "borgo Caracciolo" a ricordo del rivoluzionario napoletano i cui propositi erano stati vanificati proprio da Nelson. Degni di nota il portale della chiesa, una Madonna bizantina ivi conservata, quel che resta del giardino interno e la semplice maestosità della croce dedicata "Heroi Immortali Nili" ovvero ad Orazio Nelson che vantava nella sua carriera di condottiero anche una memorabile vittoria sul Nilo. Dai brontesi e dai maniaciesi oggi il complesso è chiamato comunemente "il Castello", anche se la sua struttura ha poco o nulla (eccettuate alcune piccole torri sul torrente Saracena) che richiami l'idea di questo tipo d'edificio.

 

Bronte ai piedi dell'Etna

 

Del grandioso tempio dedicato alla Madonna dalla regina Margherita rimangono le navate, uno splendido portico gotico-normanno e l'icona bizantina - secondo la leggenda dipinta da San Luca. Dietro la chiesa, in quelli che furono i magazzini, alcuni scavi hanno riportato alla luce l'abside dell'antica costruzione normanna. Inoltre si possono osservare due torrette medievali ed un grande parco all'inglese. Dell'antico  castello rimane poco, oltre le torrette citate ed una parte della cinta muraria, in quanto gli ambienti furono riadattati dagli eredi di Nelson a scopi abitativi o a magazzini al servizio dell'agricoltura, ma sono visitabili ed espongono alcuni cimeli d'epoca appartenuti all'ammiraglio. Nel  cortile interno vi è una croce celtica dedicata all'ammiraglio Nelson. Nel parco si trova invece un piccolo cimitero inglise costrutito nel 1898, dove spicca una croce celtica in pietra nera dell'Etna, che indica la sepoltura del poeta scozzese William Sharp. All’interno del Castello si possono visitare gli appartamenti ducali, la chiesa di Santa Maria di Maniace con il suo portale gotico normanno ed i suoi dipinti, i resti dell’abbazia, il museo fotografico della pietra lavica, il giardino inglese, il grande parco con parco giochi attrezzato e sculture moderne in pietra lavica, tutti i giorni della settimana tranne il lunedì, a meno che non corrisponda con giorni festivi in cui dunque è prevista l’apertura anche il lunedì.
www.comune.bronte.ct.it

Orario visite: tutti i giorni: orario invernale 9.00-13.00 e 14.30-17.00 - orario estivo 9.00-13.00 e 14.30-19.00
Ingresso a pagamento - Tel./fax 095.690018

 

 

IL MISTERO DELLA ROCCA CALANNA DI BRONTE: IL GIGANTE DI PIETRA

A cura di Enzo Crimi – Divulgatore ambientale e naturalista, già Commissario Superiore del Corpo Forestale della Regione Siciliana

Non sempre, ma spesso le pietre parlano e ci raccontano la storia del loro territorio, le civiltà che da esso sono passate e tutte le loro vicende umane, reali e storiche che a volte si fondono in tutt’uno con il mito, la fantasia e l’illusorio. Meglio conosciuta come il "Roccazzo di Canalaci", è una grande rupe arenaria che si trova a pochi metri dai bordi della strada Statale n° 284, tra i centri urbani di Bronte e Maletto, precisamente all’altezza della contrada “Difesa” di Bronte. E' singolare che seppur di buon interesse archeologico, il sito è di proprietà privata.

L’attrattiva paesaggistica di questa rupe, è dovuta alla sua conformazione fisica e all’ubicazione su un lussureggiante pianoro che può considerarsi come anello di congiunzione tra il dominio vulcanico etneo e, più in generale, con i terreni sedimentari posti a settentrione, caratterizzati geologicamente da argille variegate e quarzareniti identificate in letteratura geologica con il nome di “Flysch Numidico”.

Questa “rocca”, intrecciata con la leggenda popolare della pantofola della regina Elisabetta I^ d'Inghilterra e del suo patto con il diavolo, riveste un pregevole interesse archeologico, dato che quasi alla sua base si trovano delle cellette funerarie (gruttitti, evidenziate da frecce rosse), preziose tracce del passaggio in vita di grandi civiltà neolitiche, che utilizzavano questi siti per la sepoltura dei loro defunti. Queste grotticelle vengono attribuite da alcuni studiosi ai popoli primitivi Sicani o ai Siculi, mentre per altri esperti, sono risalenti verosimilmente ad epoca Bizantina. Il Prof. Francesco Saverio Cavallari, architetto, archeologo e incisore (n. Palermo 1809 - m. 1896), fu direttore delle antichità siciliane, che ricoprì per oltre trent'anni diventando anche Direttore del Museo di Siracusa. Cavallari fu tra i primi a interessarsi delle popolazioni preelleniche di Sicilia e quando visitò gli insediamenti archeologici di questi luoghi, li attribuì ai Sicani o ai Siculi, sostenendo che in una parte del territorio, posteriormente invaso dalla corrente delle antiche lave, vi avessero avuto dimora popoli antichissimi, cioè i Sicani e vi avessero sepolto i loro morti. Il Prof. Cavallari sosteneva che i Sicani, già presenti in Sicilia anteriormente all’arrivo dei Siculi (giunti dalla penisola sul finire del 2° millennio a.C.), sarebbero stati da questi sospinti in modo cruento verso la parte centro-occidentale dell'isola. Diodoro Siculo, noto storico siceliota, sosteneva invece, che i Sicani furono costretti a rifugiarsi ad Occidente perchè impauriti dalle continue eruzioni dell’Etna.

 

 

 

 

Le Forre laviche del Simeto 

La riserva naturale "Forre laviche del Simeto" è l'unica tra quelle previste dal Piano regionale delle Riserve naturali in provincia di Catania, a non essere ancora istituita.

La riserva include, sinora parzialmente, parte dell’alto corso del fiume Simeto che presenta un insieme diversificato di ambienti naturali in buone condizioni di conservazione, di grande interesse naturalistico ed ospitanti una ricca biodiversità.
Di estremo interesse sono anche gli aspetti geologici e geomorfologici. All’uscita delle gole laviche della Cantera, attualmente non incluse nella istituenda riserva naturale ma che costituiscono probabilmente l’ambiente più peculiare e spettacolare, il fiume scorre per una decina di chilometri, fino alla località Pietrerosse, in uno stretto alveo posto al limite tra le lave dei Centri Alcalini Antichi, ad est, ed i terreni sedimentari ad ovest.
In corispondenza del Ponte Passo Paglia ha inizio il tratto della riserva. Da qui alla Contrada Pietrerosse, sulla sponda destra, affiorano le cosiddette Argille Variegate, di età cretacea, caratterizzate da caratteristici colori grigio, rosso e verdastro, la cui erosione ha determinato l’instaurarsi di aree calanchive. Le lave presenti sulla sponda sinistra formano, invece, alte pareti sub-verticali caratterizzate da affioramenti di spettacolari basalti colonnari.

In prossimità del Ponte dei Saraceni si incontra un secondo tratto profondamente inciso in rocce laviche appartenenti ai Centri Alcalini Antichi, ai cui fianchi l’alveo di piena, scavato anch’esso sulle lave, presenta le caratteristiche forme d’erosione denominate “marmitte dei giganti”. A valle di quest’area l’alveo del fiume si allarga nuovamente e si svolge per alcuni chilometri, fino alla Contrada Santa Domenica, in una stretta valle affiancata da alte pareti laviche limitanti ampie zone pianeggianti. Di rilievo, in aree esterne all’attuale perimetro, la presenza, in Contrada Santa Domenica, di alcune sorgenti che vanno ad alimentare il Fiume Simeto. Le piccole grotte (“Favare”) da cui scaturisce l’acqua sono ubicate in spesse concrezioni calcaree travertinose formate dalla precipitazione di carbonato di calcio di cui sono ricche le sorgenti.

 

 

 

La presenza di ambienti acquatici, ripari e di forra determina un rilevante interesse per la fauna sia vertebrata sia invertebrata. In particolare, le acque del fiume ospitano comunità macrobentoniche discretamente ricche; la presenza di sorgenti con acque pure nei pressi del corso d’acqua innalza significativamente il livello della biodiversità e determina un apporto idrico che migliora la qualità biologica delle acque. La presenza di diversi ambienti in condizioni di naturalità e di seminaturalità (corsi d’acqua, ambienti lentici, greti ciottolosi, rupi, pascoli, aree boscate, seminativi) rende il territorio dell’area protetta particolarmente interessante anche per la fauna terrestre.

Sotto l'aspetto vegetazionale il corso d'acqua ospita estesamente boschi ripari a salici (Salicetum albo-purpureae) caratterizzati dalla presenza di tre specie di salice, Salice bianco (Salix alba), Salice rosso (Salix purpurea) e Salice di Gussone (Salix gussonei), nonché di Tamerice maggiore (Tamarix africana), Pioppo nero (Populus nigra) ed Oleandro (Nerium oleander). In diversi tratti i boschi ripari a salici e pioppo risultano notevolmente densi e fisionomicamente evoluti, denotando un ottimo stato di conservazione. La presenza del Salice di Gussone riveste, inoltre, particolare interesse in quanto specie endemica dei corsi d'acqua della Sicilia nord-orientale. In alcuni tratti con debole scorrimento delle acque è insediata una vegetazione palustre a tifa (Typha angustifolia) alla quale si associano altre idrofite quali la Menta d’acqua (Mentha aquatica) e lo Zigolo comune (Cyperus longus).
Renato De Pietro
http://www.legambientecatania.it/conservazionenatura/forre_laviche_del_simeto.html

 

 

Tramonto Etneo da Bronte

 

1860, quei morti a Bronte che volle Nino Bixio
di Antonella Folgheretti

 

1 novembre 2010 - Erano le terre della Ducea regalata a Nelson, il vincitore di Trafalgar. Un regalo che, però, unì sofferenze nuove a suprusi antichi.Ma l’episodio che più di ogni altro ce le fa ricordare è legato alla memoria di un luogotenente dell’eroe dei due mondi. Nino Bixio.

Bronte, oggi, non prova odio per Nino Bixio. Qualcuno, decenni or sono, gli dedicò pure una via (qualcun altro, decenni dopo, scalpellò via la targa…).

Ma, certo, l’episodio è nella memoria di quanti, oggi, in questo periodo di festeggiamenti per i 150 anni dell’Unità d’Italia, ricordano pure i lutti e le violenze che la accompagnarono. Soprattutto a danno delle classi più deboli del Mezzogiorno.
Esattamente 150 anni fa a Bronte il braccio destro di Giuseppe Garibaldi, e i suoi reparti dei Mille, repressero duramente la sanguinosa rivolta di quei contadini che avevano creduto agli inviti alla rivolta contro i Borboni in nome di un anelito ad un mondo migliore.
La storia dei fatti di Bronte è ben descritta nel sito internet bronteinsieme.it
Il 2 giugno del 1860 i contadini di Bronte credettero a quanto diceva loro Garibaldi con il suo proclama: “Giuseppe Garibaldi comandante in capo delle forze nazionali in Sicilia, in virtù dei poteri a lui conferiti, decreta: Art. 1. Sopra la terra dei demani comunali da dividersi, giusta la legge, fra i cittadini del proprio comune, avrà una quota senza sorteggio chiunque si sarà battuto per la Patria. In caso della morte del milite questo diritto apparterrà al suo erede. Art. 2. La quota, di cui è parola all’articolo precedente, sarà uguale a quella che sarà stabilita per tutti i capi di famiglia poveri non possidenti.. “.

Delusi dalla decisione di non applicare ai possedimenti dei Nelson i proclami garibaldini, i “comunisti” brontesi (si chiamavano così, in contrapposizione ai “cappelli”, i borghesi), qualche mese dopo, si rivoltarono, mettendo a ferro e a fuoco la cittadina.

Violenze su violenze. Decine di morti.

Nino Bixio impose la legge marziale, anche per accontentare gli inglesi, che a Bronte, appunto, avevano un loro avamposto importante per via della ducea dei Nelson. Seguì la feroce repressione dei contadini. Finirono le illusioni sull’impresa garibaldina.

Bixio sacrificò agli interessi dei pochi persino la vita di chi, come Niccolò Lombardo, pure lo aveva sostenuto, convinto patriota, nell’impresa dei Mille.

Oggi, che al Sud si registra un risveglio dell’orgoglio meridionale in netta contrapposizione al Risorgimento, anche su questo episodio occorrerebbe gettare maggiore luce.

http://catania.blogsicilia.it/1860-quei-morti-a-bronte-che-volle-nino-bixio/13212/

 

IN AUTO: Bronte è sprovvista di linee autostradali, le più vicine risultano essere a circa 50 Km, la A19 che mette in collegamento Palermo con Catania e la A18 che collega Messina con Catania.
Per chi proviene da Catania: S.S. 284 che da Adrano porta fino a Randazzo -> vedi cartina
Per chi proviene da Messina: A18 fino a Fiumefreddo, S.S.120 che porta al Bivio Cerda, prendendo poi lo svincolo che da Randazzo porta a Bronte -> vedi cartina
Per chi proviene da Cesarò: S.P.87 che da P.Serra porta fino al Bivio Cantara, tramite la S.P. 17-III -> vedi cartina

 

 

Le vette innevate dell'Etna, il gigante che non smette mai far udire la propria voce, sono ben visibili: si potrebbe quasi dire che sia sufficiente stendere un braccio per raggiungerle.
Così non è, ma a Maletto la montagna si sente e si vive.

La pietra aspra davanti alla dolcezza della fragola che ha mutato, dalle radici, l'economia e le sorti di questo centro: il più alto di tutta la zona etnea.
Nel mondo, Maletto significa fragola: anzi, no, sarebbe più corretto chiamarle fragoline.
Sono dolci e piccole, un colore intenso che pare rifarsi alla maestosa luce della lava vulcanica che scorre fra rocce e sentieri scavati dal tempo.

I contadini di Maletto l'hanno scoperta quasi cinquant'anni fa: e, da quel momento, la fragola ha invaso le loro giornate di lavoro.
Le fragoline di Maletto diventano, abbandonata la terra, supporto alla pasticceria di prestigio.
Circolano per il mondo partendo, però, da questa cittadina di pochi abitanti: a metà tra il vulcano e la valle del Simeto.
A Maletto, la fragola è lavoro.
E, allora, hanno scelto di celebrarla.
 Mentre l'estate inizia a farsi sentire, bussando alle porte più estreme della provincia etnea: la sagra diventa realtà.
A Maletto, la fragola si fa mostra. Una mostra che, in realtà, ha tutte le fattezze delle sagre popolari. Visitatori che, durante tre giorni d'inizio giugno, si prendono le strade del paese per conoscere il sapore, l'odore, l'intensità della fragolina di Maletto.
Per loro che giungono quasi a sfiorare il vulcano, gli abitanti del posto mettono in pratica tutta la maestria acquisita nel tempo.

Una torta enorme viene sfornata ed offerta.
Mille chili di sapore e fragole: è la tradizionale torta donata a tutti i visitatori della sagra.
Perchè, a Maletto, la fragola nasce nei boschi, si forma e cresce nei campi a ridosso del maestoso sovrano di lava e lapilli, e, infine, si fa gusto ricercato nel mondo.

http://www.etnastyle.it/2012/03/maletto-tra-fragole-e-feste.html

 

Adagiato sul fianco di una collina argillosa e ad un tiro di schioppo dalla cima dell'Etna e dal cielo, l'abitato di Maletto si bea dell'abbraccio di una natura straordinariamente generosa.
Paesaggi mozzafiato quasi s'incalzano, susseguendosi ravvicinati e stupendi anche per la loro varietà. Giù vallate ricche di suggestioni digradano fino a farsi pianura, mentre i terrazzamenti a monte, fitti di frutteti, vigneti e fragoleti, salendo via via cedono il passo ai boschi di castagno e di querce, e poi agli alberi di leccio e di pino laricio, e quindi ai faggi ed alle betulle aetnensis endemiche, approdate in Sicilia durante le glaciazioni. Oltre i 2100 metri, macchie di arbusti anticipano i tappeti di spino santo, avamposto vegetale al deserto lavico delle alte quote.

 


La bellezza di questi luoghi ha affascinato sin dall'antichità, sicché insediamenti umani si ebbero - attorno all'attuale Maletto - fin dal primo millennio avanti Cristo. Certo è che vi abitarono i Siculi, e che successivamente giunsero prima i Greci e poi i Romani, i Bizantini e gli Arabi, i Normanni e gli Svevi. E ad uno di questi ultimi, il conte Manfredi Maletta, si deve in particolare l'origine, oltre che il nome, di Maletto: egli nel 1263 fece innalzare sulla rocca una torre fortificata, detta Castello, attorno alla quale si raccolse un primo nucleo di abitanti. Nel 1358, Castello e feudo di Maletto passarono alla famiglia Spatafora , che fino al 1812 ne rimarrà feudataria. La costruzione dell'attuale centro storico fu avviata alla fine del XV secolo, quando si edificarono i quartieri oggi attorno al Castello, e proseguì nei primi anni del secolo successivo con la realizzazione del palazzo baronale degli Spatafora e dell'annessa chiesa di San Michele Arcangelo, nonché dì magazzini e di un loggiato, d'una locanda e di un fondaco. Fu comunque a partire dal 1619, quando a Maletto il re di Spagna riconobbe il titolo di principato, che l'abitato si sviluppò maggiormente, assumendo l'aspetto definitivo conservatosi ai giorni nostri.

http://www.comune.maletto.ct-egov.it/La_Citt%C3%A0/Storia/Il_Paese/index.asp

 

 

Maniace, piccolo paesino della Provincia di Catania è posto tra gli ultimi declivi nord-occidentali dell’Etna e le pendici meridionali dei monti Nebrodi. Maniace ha origini antichissime, le prime notizie certe infatti, risalgono al periodo della dominazione degli arabi, quando il luogo si chiamava Ghiran- Ad – Daqiq, ossia Grotte della Farina.

Di questo periodo Edrisi, il più grande geografo arabo vissuto alla corte del Conte Ruggero, dice che : “Ghiran- Ad- Daqiq è prospero villaggio in pianura con mercato e mercati e opulenza per ogni dove” L’attuale denominazione si deve a Giorgio Maniace, il generale bizantino che nel 1040 in questa vallata sconfisse un esercito di arabi, il condottiero a ricordo della battaglia lasciò un’icona bizantina della Vergine e il Bambino.

Era consuetudine del tempo che i signori o i condottieri di Costantinopoli portassero a loro seguito delle immagini sacre. Per venerare e custodire l’icona nasce una prima chiesetta e nel 1173 Margherita di Navarra affascinata dalla bellezza dell’immagine fa edificare l’abbazia di Santa Maria di Maniace.

L’abbazia grazie ai suoi monaci benedettini diviene un importante e fervido centro culturale e religioso tanto che il luogo si offre come meta di Santi Abati e Sovrani. L’edificio sacro è un pregevole esempio dell’architettura romanica, il suo portale è un insigne monumento della scultura normanna legato nelle sue forme plastiche all’insegnamento romanico proveniente dal cantiere monrealese e aperto a quelle che sono le nuove proposte gotiche che arrivano dalla Francia.

Il terribile sisma del 1693 che colpisce buona parte della Sicilia orientale distrugge anche parte della chiesa , la quale resta priva della sua zona absidale. Nel 1799 l’ex feudo benedettino , integrato ad altre terre e a territori appartenenti al comune di Bronte, viene innalzato al rango di ducato e offerto in dono da Ferdinando IV re di Napoli a Horatio Nelson.

 

L’odierno abitato si è formato nel corso del XX secolo quando contadini e pastori provenienti da Tortorici, solcando le antiche Trazzere dei Nebrodi iniziarono ad affacciarsi nelle vallate di Maniace in cerca di fortuna e di un pezzo di terra da coltivare, i contadini tortoriciani, così iniziarono a popolare questo territorio, frazione di Bronte. Nel 1975 si resero protagonisti di un movimento indipendentista, con lo scopo di ottenere l’autonomia amministrativa dal comune di Bronte. Il 1 aprile del 1981 l’ex feudo diviene il 57 comune della provincia di Catania sotto l’antica denominazione di Maniace.

http://www.prolocomaniace.it/

Il Castello di Maniace

Negli antichissimi tempi era in quei pressi un «casale» fondato dal famoso generale bizantino Giorgio Maniace (primo fondatore del castello omonimo di Siracusa) e dal quale prese nome tutta la borgata (1038 circa).
La interessante attuale dimora fu edificata sugli avanzi della antica Abbazia Benedettina di : Maniace (voluta dalla regina Margherita, vedova di Guglielmo I il normanno, sul 1173) ; dagli eredi dell'ammiraglio inglese Lord Orazio Nelson, vincitore di Abukir, che nel 1799 ricevette la terra e il ducato di Bronte, da Ferdinando I, rè delle due Sicilie, quale segno di gratitudine per il determinante aiuto prestategli.
Alla morte del detto ammiraglio, avvenuta nella famosa battaglia di Trafalgar, feudo e titolo pervennero al fratello Guglielmo (1806) e poi agli eredi di questi.
Breve ma tragica è la storia del castello poiché esso fu testimone, ed in parte causa, delle tremende giornate dell'Agosto 1860 nelle quali la feroce repressione di Nino Bixio insanguinò il paese.
Ciò accadde perché durante la rivoluzione italiana di quel tempo (alla quale tanti illustri siciliani sacrificarono anche la vita) all'annuncio della vittoria franco-italiana nel nord, anche la Sicilia volle scuotere il così detto giogo borbonico, invocando Garibaldi. A Bronte, come altrove, sorsero comitati segreti mentre si attendeva dalla rivoluzione che la immensa «ducea» donata al Nelson dal Borbone, con la caduta di questi, venisse restituita alla comunità.
Molto preoccupato per tali notizie, il console inglese di Catania richiese a Garibaldi, il quale dopo la battaglia di Milazzo si trovava a Messina, un pronto aiuto di soldati per proteggere dalla furia del popolo il castello e gli altri beni inglesi a Bronte. Ed il dittatore, per le buone relazioni tra Italia e Inghilterra, inviò sul luogo il generale Bixio con l'incarico di soffocare la rivolta e salvare il castello dal saccheggio altrimenti inevitabile.
La missione venne compiuta ed anche la castellana, duchessa Nelson fu salva ma... la repressione, sanguinosa e spietata, rimase tristemente viva nella storia del luogo.
Il castello, col suo giardino ben curato e circondato dal grande parco selvaggiamente suggestivo, conserva all'interno numerosi interessanti cimeli del glorioso ammiraglio.
Molto antiche sono due piccole torri, sotto una delle quali il vecchio muraglione di cinta viene a volte aggredito dalla furia delle acque del grande torrente che lo lambisce.
Interessante la piccola chiesa con il meraviglioso intatto portale arabo-normanno che tanto ricorda quelli assai noti della cattedrale di Monreale. Attuale proprietario Lord Bridport duca di Bronte, discendente del Nelson.

http://www.castelli-sicilia.com/links.asp?CatId=81  (comprese le fotografie)

 

 

 

L'Etna visto dai Nebrodi

 

 

 

visto che siamo vicini, perchè non fare una capatina sui....

 

Di origine prettamente medioevale, giace però su un territorio in cui si sono incontrate le più disparate civiltà: greci, romani, bizantini, ebrei, arabi, normanni, aragonesi hanno lasciato tracce di alto valore documentario ed artistico in essa.
Le origini del suo nome sono tuttora un mistero legato alla sua fondazione.
Le antiche mura e i resti di un bagno che ancora oggi rimangono a Randazzo, ci attestano che qui c’era un centro di abitazione sin dal tempo dei Romani in Sicilia, anzi l’Arezzo, Filoteo degli Omodei, il Riccioli ed altri vogliono che Randazzo fosse abitata prima delle colonie greche.

 

 

 


Il toponimo deriverebbe, secondo l’Amari (Storia dei musulmani di Sicilia), da un patrizio bizantino governatore di Taormina degli anni 714-745 (VIII secolo) di nome Randàches (o Randag). Esso compare per la prima volta in un diploma di Ruggero II del 1144, al quale segue, alla metà del XII secolo, un privilegio dello stesso Ruggero concernente gli abitanti di S. Lucia in territorio di Milazzo, i quali sono equiparati ai "lombardi Randacii". Esso proverebbe il precedente insediamento di una colonia di "lombardi" nel territorio randazzese, che si aggiunse ai preesistenti nuclei greco e latino. Attorno al 1154 il geografo arabo del re Ruggero II El-Edrisi descrive Randazzo come un villaggio "del tutto simile ad una cittadina con un mercato che pullula di mercanti e artigiani", testimoniandone il particolare periodo di prosperità economica.
Lo storico Arezzo crede invece che Randazzo sia sorta sulle rovine di quella “Trinacium” (da Tiracia, città fondata da coloni greci) che fu distrutta dagli arabi nel IX secolo, il cui nome, corrompendosi, sarebbe divenuto Rinacium, da cui Randadum.
È opinione del geografo Filippo Cluverio che l’odierna Randazzo sorgesse nel luogo già occupato dall’antica "Tissa", questa ipotesi è suffragata da reperti archeologici rinvenuti nella zona e risalenti al periodo greco e attraverso Tissa si sarebbe sviluppata la civiltà ellenica lungo la Valle dell’Alcantara (l’antico Akenises). Anche Cicerone nomina l’antica Tissa nelle sue orazioni contro Verre, come soggiorno di laboriosi agricoltori che non poterono opporsi alle vessazioni di quel rapace pretore inviato dai romani in Sicilia.

 

Della cittadina, che si trova a 754 m s/m, sembra accertata, tuttavia, la presenza di insediamenti umani nel territorio dell’attuale Randazzo a partire dal VI secolo a.C., come testimoniano i numerosi reperti archeologici risalenti a quell’epoca rinvenuti nelle contrade S. Anastasia e Mischi. Gli esiti di ulteriori campagne di scavo attesterebbero la persistenza di agglomerati abitati nelle epoche successive fino all’epoca della dominazione araba dell’isola, durante la quale Randazzo pare abbia assunto un rilevante ruolo strategico, mantenuto, in seguito, durante il periodo normanno, al quale risale l’edificazione del presidio munito e della cinta muraria. E fu proprio alla sua particolare posizione strategica nell’itinerario che, dall'interno dell’isola, portava da Palermo a Nicosia per poi diramarsi nelle due direzioni di Catania o Messina che Randazzo dovette la sua configurazione di città possesso del demanio regio e sottratta, per questo, alle infeudazioni.

 

 Infatti Randazzo diviene città demaniale della Vallo di Demone e gli viene dato l’appellativo di “Plaena” da Federico II nel Parlamento di Messina dell’anno 1233, e il santo patrono della città è San Giuseppe. Ma l'attuale città è di origine bizantina e infatti a pochi chilometri da Randazzo si possono visitare i ruderi dì antiche chiese bizantine chiamate Cube.
Sino al sec. XVI vi si parlavano tre lingue: il greco nel quartiere San Nicola, il latino nel quartiere Santa Maria e il lombardo nel quartiere San Martino, essendosi la città formata dall'unione di tre differenti gruppi etnici; ad opera dei lombardi divenne una roccaforte dei re normanni in lotta contro gli arabi. Randazzo ha conservato quasi interamente il suo aspetto medievale essendo stata sempre risparmiata dal vulcano pur essendo il comune più vicino al cratere centrale dell’Etna (15 km circa).

La particolare collocazione della città come snodo nelle comunicazioni della parte interna della Sicilia la fece scegliere, come sede nel 1943 del comando militare tedesco durante la seconda guerra mondiale. La città venne quindi bombardata duramente dagli Anglo-Americani e soprattutto le incursioni aeree continuarono a martoriarla dopo l'abbandono dei militari tedeschi. Gli alleati infatti avevano avuto delle informazioni errate e sospettavano che a Randazzo vi fossero nascoste ingenti truppe tedesche.
Monumenti e luoghi d'interesse 

Il Palazzo Reale (Casa Scala) Costruito sotto gli ultimi re normanni. In questo palazzo soggiornarono: Giovanna Plantageneto figlia di Enrico II d'Inghilterra e moglie di Guglielmo II di Sicilia; Costanza d'Altavilla moglie dell’Imperatore Enrico VI lo svevo; Enrico VI del Sacro Romano Impero; Federico II del Sacro Romano Impero; tutta la corte aragonese, fra cui Giovanni e Federico III; nel 1535 Carlo V del Sacro Romano Impero, di passaggio per Randazzo.
Anticamente il comune lo vendette alla famiglia Chillia e poi passò alla famiglia Scala e ancora oggi è segnalato, nei libri d’interesse artistico e turistico, come Casa Scala o Palazzo Scala, ed è sito nel quartiere di San Martino, prospiciente in via Umberto I° e confinante da levante con via Vagliasindi e da ponente via Mercurio. In stile gotico, a tre piani fuori terra, composto di un piano terreno con tre arcate di essi ne esiste solo una (Via Volta Scala), di un primo piano pericolante, in seguito al terremoto del 2 gennaio 1693. “..Fu abbassato del pari il terzo Piano Superiore ove albergò l’Imperatore Carlo V, piccola porzione del quale oggi serve di Casa Comunale, sotto alla quale vi è l’Officina Postale, e la stanza della Guardia Urbana, per il Buon Ordine in questa Città…” Esso fabbricato aveva dalla parte di prospetto (Via Umberto) sette finestre bifore al primo piano, ed altrettante al secondo piano. Dopo la demolizione del secondo piano, in seguito a modifiche subite da detto palazzo, le finestre del primo piano in parte furono convertiti in finestroni moderni, e solo rimangono delle antiche costruzioni due finestre a colonnine all’angolo sud-ovest di esso fabbricato e la finestra murata (Via Lombardo) da cui si affacciò Carlo V che in suo onore fu chiusa affinché nessuno mai più potesse servirsene.
Il Museo Archeologico "Paolo Vagliasindi" ospitato nella fortificazione del Castello “Carcere” raccoglie i reperti ritrovati in contrada S. Anastasia a Randazzo dall'archeologo Paolo Vagliasindi. La collezione, tra le più importanti della Sicilia, comprende pezzi del VI – III secolo a.C. tra cui l’Oinochoe che per la raffigurazione del mito di Fineo è uno dei quattro esemplari rimasti al mondo. Il Museo è suddiviso in 5 sale: nella sala centrale Oinochoe oltre ai pezzi più pregiati della collezione sono esposti oggetti in bronzo e la raccolta numismatica di Paolo Vagliasindi; la sala Jonica ospita i pezzi più antichi con reperti di età ionica e corinzia; nella sala della Ceramica Nera sono esposti esemplari di età attica ricoperti da vernice nera; la sala Attica espone ceramiche di manifattura attica del V secolo a.C.; nella sala Ellenistica sono esposte ceramiche di epoca ellenistica del IV secolo a.C. In una sala del Castello è collocata la collezione di Pupi Siciliani della famiglia Russo composta da 37 marionette che rappresentano i personaggi dell’epopea storica della chanson de Roland. La collezione fu realizzata tra il 1912 e il 1915 dallo scultore Emilio Musumeci e utilizzata dal puparo messinese Ninì Calabrese. Collezione di grande valore che è servita per allestire una rappresentazione alla presenza del Re Umberto II.

Il Museo Civico di Scienze Naturali ospita la collezione Ornitologica Priolo composta da 2250 esemplari di uccelli italiani ed esotici tra i quali il Grifone dell’Etna e l’Avvoltoio dagli anelli che, ormai estinti, fino a qualche decennio fa solcavano i cieli dell’Etna e la collezione Naturalistica Lino composta da fossili, minerali, rocce e conchiglie ritrovate inSicilia. Il Museo è suddiviso in 6 sale: sala n. 1 Geologia (collezione Lino); sala n. 2 Fauna Marina (collezione Lino); sala n. 3 Fauna Esotica; sala n. 4 Uccelli Esotici; sala n. 5 Fauna di Sicilia (Diorama del Grifone); sala n. 6 Collezione Ornitologica Priolo; Grotta Del Gelo; Grotta del Gelo
Il Parco Polivalente Sciarone è il polmone verde della città. Si trova a poca distanza dal centro ma immerso nell’ambiente unico del Parco dell’Etna. Nel parco è possibile passeggiare nel “sentiero natura” ed osservare le diverse colate laviche che hanno lambito Randazzo, la flora composta da alberi di betulla, castagno e roverella ed anche la fauna etnea costituita da volpi, istrici, ricci e conigli selvatici che rendono questo ambiente molto suggestivo. All’interno è anche disponibile un’area attrezzata per pic nic con 5 punti cottura, 16 tavoli (per un totale di 128 posti a sedere) acqua potabile e 4 servizi igienici.
Manifestazioni ed Eventi

Il 15 agosto si tiene la festa in onore di Maria SS. Assunta, patrona del paese. Nel primo pomeriggio lungo la via Umberto viene fatta sfilare "a Vara" un fercolo risalente al XVI secolo, alto circa 18 metri. Sulla Vara trovano posto circa trenta bambini che raffigurano i misteri della morte, dell'assunzione e dell'incoronazione della Vergine Maria. Il 19 marzo in onore di S. Giuseppe, compatrono della città, scuole e uffici pubblici restano chiusi e nel pomeriggio si svolge fin dal 1982 una tradizionale fiaccolata.

http://it.wikipedia.org/wiki/Randazzo

 

 

Il Lago Gurrida

è un gioiello incastonato nel territorio del Parco dell’Etna, in quel versante settentrionale che guarda i Nebrodi. Si tratta dell’unica zona umida del territorio etneo, nata nel 1536 in seguito allo sbarramento del corso del Torrente Flascio provocato da una eruzione. Le acque, non potendo procedere oltre, sono state costrette dalle lave ad espandersi in un vasto pianoro a 800 metri d’altitudine, dove, in seguito, sono stati impiantati i vigneti. Nella bella stagione il lago si ritira e le acque restano imprigionate solamente in un bacino artificiale, creato alcuni decenni fa. In inverno, e sino alla primavera quando avviene lo scioglimento delle nevi, il Flascio colma i limiti naturali del lago, con un apporto variabile a seconda della stagione, e i vigneti restano sommersi anche per 3-4 metri. Al Lago di Gurrida il Parco dell’Etna ha realizzato un Sentiero Natura (dotato di punti di osservazione numerati ed indicazioni segnavia), attualmente in ristrutturazione. Si tratta di un itinerario agevole (lungo due chilometri) che accoglie anche gli escursionisti diversamente abili.

 

Oltrepassato il cancello d’ingresso dell’Azienda Agricola “Gurrida”, ritrovandosi in un ambiente tipico delle masserie etnee, si costeggia il vigneto (punto di osservazione numero 1) i cui tralci restano sommersi dalle acque nel periodo di piena. Le viti si sono adattate a queste particolari condizioni che conferiscono alle uve qualità organolettiche esclusive, che si riflettono anche nella qualità degli ottimi vini. Frontalmente si staglia contro il cielo la sagoma dell’Etna. I limiti del bacino naturale sono facilmente distinguibili dal campo lavico del 1536, che mostra lave a corda e lastroni. I coni spenti che si individuano a distanza, sono quelli di Monte Spagnolo (a sinistra) e Monte Maletto. Il paesaggio del versante nord-occidentale del vulcano è messo in risalto dal punto di osservazione 2.

Continuando a costeggiare il vigneto si raggiunge il bordo del bacino artificiale (p.o.3), in cui si specchiano pioppi e cannucce di palude. Realizzato negli anni ’70, lo specchio d’acqua, che in estate non si prosciuga, rappresenta un richiamo per gli uccelli di passo. Al Gurrida nidificano pendolino e cornacchia, mentre soggiornano uccelli acquatici migratori fra cui aironi, anatre, garzette. Fra le altre specie è stata notata anche la cicogna. Il pieno delle presenze nell’avifauna giunge in inverno ed in primavera, periodi in cui sono osservabili (utilizzando gli appositi capanni), fra le altre specie, pavoncelle, beccaccini, pivieri, pettegole, combattenti, piovanelli, codoni, fischioni, folaghe. E il riposo dei migratori rappresenta il quarto punto di osservazione. Di rilievo la presenza di anfibi e rettili fra cui la testuggine palustre. Un giro intorno al bacino consente di osservare l’areale in cui si spandono le acque del Flascio (il cui corso è visibile a Nord-Ovest). Fra le specie vegetali presenti vi sono le piante degli ambienti acquatici, i salici, il pioppo nero, il ranuncolo, i  garofani d’acqua.

https://www.etnalife.it/etna-il-lago-gurrida/

 

 

 

 

 

la Cassino di Sicilia

LA BATTAGLIA DI RANDAZZO - 13 luglio - 13 agosto 1943 - di Salvatore Rizzeri

 

 

Medaglia d'argento al merito civile conferita alla città di Randazzo dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi:

«Comune, occupato per la posizione strategicamente favorevole dall'esercito tedesco, fu sottoposto per trentuno giorni, tanto da essere definito "la Cassino di Sicilia", a violentissimi bombardamenti che provocarono numerose vittime civili e la distruzione dell'intero abitato. Ammirevole esempio di spirito di sacrificio ed amor patrio.»

 

Questa storia ebbe inizio tanti anni or sono, era il mese di Luglio del 1943, l'alba del dieci vide il più potente convoglio che mai fino allora avesse solcato il Mediterraneo, sbarcare i propri mezzi sulle spiagge di Gela, Licata e Capo Pachino. Si trattava della Settima Armata alleata agli ordini del Generale Eisenhower che in seguito sarebbe divenuto Presidente degli Stati Uniti. Direttamente sottoposte a lui le rispettive armate: l' Ottava Armata inglese comandata dal Gen. Montgomery e la Quinta Armata americana comandata dal Gen. George Patton. Agli inglesi fu affidato il compito di avanzare in direzione di Siracusa Catania e giungere a Messina, le forze americane dovevano invece avanzare attraverso il centro dell'isola, conquistare Palermo e infine raggiungere Messina. La conquista della Sicilia non fu cosi facile come descritta nei libri di scuola e si concluse con la occupazione di Messina il giorno 17 agosto da parte delle truppe del generale Patton. Una volta sbarcate le forze americane avanzarono sulla direttrice Mazzarino - Troina – Randazzo, dove ebbe luogo una delle battaglie più cruente della campagna di Sicilia; le truppe tedesche, ben decise a consentire il graduale abbandono dell'isola al grosso del loro esercito, si erano attestate in posizione vantaggiosa sulle alture intorno alla città e con l'ausilio dei loro pezzi da 88 e della contraerea, cominciarono a far strage degli avamposti alleati.
Possiamo dire che qui ha inizio la nostra storia. Per superare il difficile stato di impasse fu deciso l'intervento delle fortezze volanti, del 39° Reggimento, nonchè della Nona Divisione. Lungamente per cinque - sei giorni furono mandate all'assalto truppe marocchine e canadesi che non riuscirono nell'intento di aprirsi un varco verso Randazzo, mentre la città veniva centrata da migliaia di bombe sganciate nel corso delle 84 incursioni di cui venne fatta oggetto. Il 13 luglio iniziò il bombardamento di Randazzo condotto dalla 9^ AF (Air Force) americana, con gli aerei B-25 e P-40 e dalla NATAF (North West Tactic Air Force), con i bombardieri Wellinghton. I bombardamenti seguirono nei giorni 18-19-20. Il 21 gli attacchi impegnarono venti aerei B-25. Ma l’attacco più forte fu sferrato il 1° Agosto allorché furono impiegati più di duecentotrenta bombardieri P-40. Gli attacchi si ripeterono il 7 agosto con più di sessanta bombardieri B-25, l’8 con oltre novanta B-25 e il 10. L’11 agosto fu l’ultimo giorno di bombardamenti a cui fu soggetta Randazzo. Oltre 90 B-25 bombardarono ponti, strade, ferrovie e l’area cittadina. Circa centosettanta P-40 bombardarono direttamente Randazzo. I contadini mentre mietevano in montagna vedevano passare sopra la loro testa, a bassa quota, i bombardieri che si dirigevano verso Randazzo lasciando cadere centinaio di bombe.
Gli alleati si accanirono particolarmente contro Randazzo in quanto la sua conquista, per l’importante posizione strategica che essa rappresentava, avrebbe aperto la strada alle truppe Anglo-Americane per una rapida conquista di Messina e quindi di tutta l’Isola. Consapevole di ciò il comando Italo-tedesco aveva piazzato a Randazzo e nelle sue campagne una potente difesa contraerea che abbattè diversi bombardieri alleati, causa questa che scatenò ancor di più la reazione alleata contro la città. Alla gente venne dato l’ordine di sfollare e non si trovò di meglio che rifugiarsi nei casolari di campagna, all’interno delle cantine e nei palmenti dei vigneti sparsi lungo le pendici dell’Etna (Località “Cisternazza“), negli anfratti e nelle numerosissime grotte che si aprono all’interno del ciglione lavico in fondo al quale scorre il fiume Alcantara, ad est della città, in località “Allegracore“ e “Città vecchia“.

Al suono della sirena, che preannunciava l’imminente arrivo delle fortezze volanti, la gente si nascondeva dove poteva. In particolare per evitare di essere colpiti dalle numerosissime schegge vaganti causate dalle esplosioni, ci si rifugiava all’interno dei tini dei palmenti, molto più sicuri di altri luoghi. Ci si nutriva con quanto si era riuscito a portare da casa e con quel poco che la natura e i pochi animali ti offrivano, (Latte di capra e di pecora, bacche, qualche raro frutto di bosco). Parecchi civili trovarono la morte sotto i bombardamenti, in quanto presuntuosamente vollero rimanere nella città, rifugiandosi nelle chiese che pensavano non sarebbero state colpite. Le cattedrali di San Nicola e San Martino, così come tante altre piccole chiesette della città, invece non vennero risparmiate e subirono la stessa sorte delle abitazioni private. La perdita del patrimonio artistico e monumentale fu enorme, ben il 75% del patrimonio immobiliare venne abbattuto e con esso tutti i tesori d’arte che vi erano contenuti. La forte resistenza Italo-tedesca costrinse il generale Omar Bradley a creare un diversivo aggirando le forze dell'asse con un percorso attraverso le montagne verso Cesarò e monte Pelato, in una marcia piena di difficoltà per la natura impervia dei luoghi. Il due di Agosto il Gen. Bradley ed il Gen. Eddy presentarono, il loro piano ai "GO-Devils" del Colonnello De Rhoan comandati dal Maggiore Charles Fort (s3), ed essi segretamente iniziarono la loro azione nel cuore dei Nebrodi la notte del 5 agosto.
Intanto il 60° Reggimento di fanteria continuava la indimenticabile " 100 hour silent march", attraverso le montagne, e nonostante le perdite subite da parte dei "nebelwerfer" tedeschi, il Colonnello De Rhoan proseguì nella sua avanzata riuscendo a catturare la cima “Camolato“ del Monte Soro e il noto laghetto detto Biviere di Cesarò. Questa posizione raggiunta gli consentì quindi di occupare Cesarò alle 6,55 della mattina del giorno otto; dopo la cattura di Cesarò gli uomini del 60° iniziarono a percorrere la strada che unisce questo paese a Randazzo, contemporaneamente anche truppe inglesi della 78° divisione, provenienti da Catania erano in marcia verso Randazzo. In conseguenza di ciò i guastatori tedeschi dopo aver abbondantemente minato la strada, indietreggiarono e oltrepassata una Randazzo semidistrutta dai bombardamenti aerei si diressero verso Polverello - San Piero Patti .

Questa strada divenne tristemente famosa col nome "The death road". Le mine tedesche erano poste alla distanza una dall'altra di circa 20 yard e coordinate per esplodere insieme ad altre mine anti tank da un meccanismo, tutto ciò costrinse le truppe americane ad abbandonare la strada principale per lunghi tratti ed ad aprirne di nuovi.
Sulla strada per Randazzo avanzavano vicini i "Raiders "e i "Falcons" del Colonnello "Paddy" Flint, la notte del 13 agosto bivaccarono presso il punto in codice " hill 1364 (cadillac) " probabilmente il ponte distrutto di Randazzo, mentre i guastatori tedeschi, truppe ben addestrate e motivate, rapidamente cercavano di raggiungere la statale 113 a nord, per poi lasciare l'isola. La notte del dodici la compagnia C del 15° genieri costruì una strada attraverso il bosco di Manglaviti di Floresta ( praticamente un territorio inattraversabile ), strada che completò entro giorno 13 e ciò consentì il transito dei grossi camion da 2,5 tonnellate. Occupata Floresta rapidamente il 60th fanteria occupò il " nostro " bivio di Polverello da loro indicato " Cape D'orlando - Randazzo road " e qui un’ altra volta gli uomini del 15° genieri costruirono una strada di 12 miglia che attraversò il territorio e che consentì giorno 14 agosto agli esploratori del Reconnaisance platoon, assieme al 60th fanteria di ricongiungersi alla Nona Divisione, (Hitler nemesis), con la terza divisione (Rock of the Marne). Per gli uomini della nona divisione la campagna di Sicilia era finita. Il venti agosto Eisenhower annunciò la fine dei combattimenti in Sicilia .
I danni e le distruzioni apportate da un numero ingiustificato e sconsiderato di incursioni aeree da parte degli alleati, ridussero Randazzo in uno stato miserando da cui non si è più ripresa. Infatti a quasi 70 anni dai drammatici avvenimenti, in città sono ancora numerose e visibili le tracce apportate da tale assurdo accanimento bellico. Le Amministrazioni comunali insediatesi nell’immediato dopoguerra, uno strano connubio tra la vecchia classe nobiliare che aveva ancora una volta cambiato casacca per continuare a mantenere i secolari privilegi e la classe popolare emergente, per la cecità, la poca lungimiranza e l’incompetenza politica che li caratterizzò, non seppero o non vollero sfruttare le grandi risorse finanziarie e le opportunità (Piano Marshall), messe a disposizione dal nuovo Stato Repubblicano per la completa ricostruzione della città.
E'questo un breve sunto di una pagina di storia che riguarda molto da vicino la città di Randazzo, alla luce degli avvenimenti succedutisi e della loro importanza potremmo dire che "la storia ci ha solo sfiorati"

http://www.randazzomedievale.it/index.php?option=com_content&view=article&id=48&Itemid=43

 

 

IL LAGO GURRIDA

Ubicato a Sud del paese di Randazzo, sul versante nord-ovest dell'Etna, è l'unico esempio in Europa di lago di sbarramento lavico originatosi in seguito all'ostruzione di una parte della valle sottostante, avvenuta ad opera di una colata del 1536, che ha determinato, a monte della parte ostruita, l'accumulo delle acque del fiume Flascio.
Il "Lago" si trova in territorio di Randazzo, come già espresso dal Recupero, sorge a 835 m s.l. del mare su una depressione argillosa che raccoglie le acque piovane e soprattutto quelle del fiume Flascio, ha una superficie di circa 800 mq. con un circuito molto irregolare di circa 6 Km e con una area di impluvio di circa 52 Kmq.
? Le acque di un bacino così vasto non possono essere smaltite per semplice evaporazione, per cui non avendo il "Lago" emissari esterni superficiali si deve per forza pensare a sfoghi sotterranei che peraltro esistono e diventano abbastanza visibili in piena estate, quando la cavità perde tutta l'acqua e lascia intravedere sul fondale buche e piccoli crepacci che servono ad assorbire l'acqua che si raccoglie soprattutto con le piene invernali e primaverili del fiume Flascio.
Il "Lago" raggiunge in media i 3 o 4 m di profondità, per cui il suo stato idrografico dipende essenzialmente dal rapporto tra la quantità d'acqua recata dal Flascio e dagli altri torrentelli laterali e quella assorbita dalle buche e fessure del suo fondo. Tali aspetti del "lago" sono molto analoghi alle depressioni, coperte spesso da fanchiglia e argille, del Carso e delle montagne delle vicine Slovenia e Serbia, dove però alle inondazioni esterne si sostituiscono spesso sorgenti sotterranee (Cfr. O. Marinelli, Alcune particolarità morfologiche della regione circumetnea, Riv. Geog. Ital., 1896). Sino alla fine del secolo scorso la vita di questa massa d'acqua si era svolta secondo le ferre leggi della natura, per cui si avevano le piene invernali e primaverili con gravi danni per le colture vicine a causa dei continui travasi d'acqua e le secche estive, quando l'estensione lacustre veniva sfruttata come zona da pascolo molto ricercata per la sua erba grassa e ricca d'acqua Agli inizi del nostro secolo si tentò di ridurre l'area umida con lavori di prosciugamento e di bonifica che tutto sommato non attecchirono e quindi non ne alterarono la superficie, sino ad alcuni decenni fa quando l'impianto di aree vignate nella parte Nord mise in serio pericolo la vita di tutta quella zona lacustre. Per fortuna in tempi recenti la zona interessata è stata inserita nel perimetro del Parco dell'Etna, per cui oggi può godere di tutta la protezione per preservarsi al meglio per le prossime generazioni. Non si parla di cure particolari poichè queste ultime consistono e si limitano solo a profonde falciature delle alte erbe che circondano il "Lago e che vengono effettuate dagli agenti del Corpo Forestale in determinati periodi dell'anno. Oggi il "Lago" presenta parecchi endemismi vegetali molto importanti che meritano l'attenzione di tutti perchè possano conservarsi e riprodursi nel miglior modo possibile in quel piccolo ecosistema che comprende acqua, piante, insetti e fauna soprattutto avicola. Tra le piante ricordiamo il ranuncolo, le margheritine molto ambientate nel sito, i salici, i giunchi ed altre erbe di diversa altezza che vivono la loro esistenza lungo l'arco delle diverse stagioni. Sono presenti in buon numero anche rosacee, trifogli e garofani d'acqua.

 

 

Il lato Ovest del "Lago" è coperto da folti saliceti che con la loro intricata vegetazione impediscono il passaggio diretto ai molti visitatori che in primavera non mancano di certo perchè attratti soprattutto dalla stupenda fioritura di queste piante legate all'acqua. In conclusione possiamo ben dire che il "Lago" Gurrida, dal punto di vista botanico presenta numerose piante rare che difficilmente si trovano in altre aree della Sicilia, se escludiamo alcune zone umide dei vicini Nebrodi e qualche sito delle Madonie. Dal punto di vista faunistico il "Lago" non ha molta importanza ma si presenta come un ottimo punto stagionale di appoggio per numerose specie di uccelli come aironi ed anitre che si fermano colà durante le loro migrazioni e che spesso nidificano nei suoi dintorni. Per tutte queste particolarità, l'area lacustre della Gurrida merita di essere conservata e possibilmente valorizzata con tutte le sue essenze vegetali, con la sua fauna e con gli aspetti idrografici e paesaggistici. L'area, unica zona umida del vulcano, costituisce un ambiente di particolare bellezza per la morfologia delle lave e rappresenta lo spartiacque tra il torrente della Saracena, da una parte, e il fiume Alcantara, dall'altra. Tra i due corsi ve n'è un terzo, il Flascio che alimenta stagionalmente il lago Gurrida, secco per quasi tutto il periodo estivo.?? Inserito nell'itinerario di un sentiero natura realizzato dall'Ente Parco dell'Etna, che ha inizio da un ponte in legno che attraversa un vigneto sommerso nei mesi?invernali, il lago presenta una grossa ricchezza faunistica e floristica, prospera soprattutto nel periodo invernale e primaverile. Per quanto riguarda la fauna, il lago Gurrida, essendo l'unica distesa d'acqua della zona montana dell'Etna, è particolarmente rinomato, poichè consente la sosta di numerose specie di uccelli, migratori e non (oltre 150 secondo l'ornitologo catanese A. Priolo


Fra di essi si riscontrano l'anatra moretta (Aythya nyroca), chiamata "carbunaru" in dialetto, il falco cuculo (Falco vespertinus), che effettua in gruppo dei voli acrobatici quando caccia gli insetti, il tuffetto (Tachybaptus ruficollis), che si tuffa ripetutamente nelle acque del lago, la ballerina gialla (Motacilla cinerea), detta in dialetto "tremacuda", e l'averla capirossa (Lanius senator), chiamata localmente "bellaronna", grazie al colore delicato del suo piumaggio. Inoltre, sulle acque del lago, si possono osservare l'airone cenerino, il germano reale, le garzette, e le folaghe, che giungono in autunno per poi spostarsi verso le località di svernamento in Africa. È presente anche l'airone rosso, che si ferma in particolar modo lungo i canali di drenaggio per catturare gli anfibi e i pesci di cui si nutre. Il maggior numero di uccelli si osserva in inverno e in primavera: anatre fra cui i codoni, i fischioni, le marzaiole, e le morette, in livrea nuziale, cercano i germogli delle piante sommerse di cui si nutrono. Le pavoncelle cercano il cibo sui prati umidi, mentre i pivieri, i beccaccini, le pettegole, i combattenti e i piovanelli sorvolano l'acqua poco profonda alla ricerca del cibo. Infine, si osservano specie ittiofaghe quali il cormorano (Phalacrocorax carbo), la cicogna bianca (Ciconia ciconia), la cicogna nera (Ciconia nigra) ed il falco pescatore (Pandion haliaetus), che si nutrono dei pesci (tinche, carpe, gambusie, ecc.) introdotti da alcuni anni nelle acque del lago.? In prossimità del lago sono stati realizzati diversi punti di osservazione, oltre a sentieri che permettono una visita agevole anche ai disabili.

http://www.etnatourism.it/itinerari.php?id=6

COME RAGGIUNGERE IL LAGO GURRIDA

 

IL BARONE DI RANDAZZO E IL SUO NIDO DELL'AQUILA

Verso la fine del 1800 il barone Vagliasindi di Randazzo si fece costruire una dimora sul monte Colla che domina la valle dell’Alcantara: “un nido d’aquila” come amava ripetere agli amici. Questo complesso, immerso nei boschi dei Nebrodi, è composto da un grande casa patrizia circondata da un giardino all’italiana, una chiesetta ,le case per il massaro ed i contadini, la stalla ed altri edifici attigui, poco distante un delizioso lago artificiale.
La proprietà che si estendeva per 500 ettari era il centro di una economia legata al territorio. Dopo la morte del barone la masseria ha cambiato diversi proprietari andando lentamente in rovina. Negli anni 60’ venne acquistata dal Prof. Claudio Faranda con l’intento di ripristinare il complesso ormai abbandonato ed utilizzarlo per le vacanze verdi. La casa patrizia della masseria è stata da poco ristrutturata grazie ai finanziamenti POP Europa/Regione e trasformata in una bella struttura agrituristica con circa 50 posti letto.
Attualmente è gestita dall’Agritur Monte Colla che con i suoi 50 ettari di territorio offre, oltre ai prodotti locali e casarecci, la possibilità di effettuare l’equiturismo ed il trekking nei boschi del parco dei Nebrodi. 
Da Randazzo, con l’auto, si prende la direzione per Maniace, superato il ponte sul fiume Flascio al Km 179 si gira a destra per i vivai della forestale. Oltrepassato il vivaio e le case attigue si lascia l’asfalto e si prosegue a destra per lo sterrato che costeggia il fiume per circa 4 Km passando davanti al cancello del demanio forestale delle Caronie fino al piccolo ponte sul fiume. Si attraversa il ponte e si prosegue in salita per altri 2 Km per arrivare davanti al cancello della caserma forestale di Zarbata (1095 m slm) dove si posteggia l’auto. Si oltrepassa il cancello e si comincia a salire, tralasciando le deviazioni, immersi nel bosco di roverelle e faggi. Dopo circa 90 minuti si arriva ad un bivio panoramico (1405m slm). L’occhio spazia dall’Etna alla valle del Flascio a verdi boschi dei Nebrodi; si prende a destra per il sentiero panoramico che dopo 20minuti porta ad un altro bivio. Si devia a destra per una piccola discesa e si giunge alla nostra meta. E’ possibile raggiungere la Masseria di monte Colla anche con il fuoristrada.

 

Da Randazzo, andando in direzione di Maniace ,sulla curva che precede il ponte sul fiume Flascio si diparte a destra uno sterrato che sale ripidamente. Dopo circa 7 Km in continua salita ,molto panoramica e senza possibilità di errore si giunge alla Masseria. Questo percorso è l’antica regia trazzera Monte Colla – Casal Floresta.
Giovanni Musumeci

http://www.provincia.ct.it/informazioni/la-rivista/sommario/2002/Maggio/filepdf/38.pdf

 

 

 

 

 

 

I MEGALITI A MONTALBANO ELICONA - La Stonehenge siciliana


Pochi sono i luoghi sul nostro pianeta dove le potenti forze della natura si concentrano per creare un’atmosfera così magica ed ancestrale da far quasi dimenticare di stare sulla mortale Terra e di assaporare invece la sublimità dei campi elisi. L’area megalitica dell’Argimusco sembra esser uno di questi.
Essa si estende su un vasto altipiano compreso tra i 1165 ed i 1230 m.s.l.m., al centro del territorio abacenino, laddove l’asprezza dei Peloritani lascia spazio alla dolcezza dei Nebrodi. Ci troviamo in provincia di Messina, nell’isola di Sicilia, in Italia.
Situate nei pressi del borgo di Montalbano Elicona e della Riserva Naturale del Bosco di Malabotta, le rocche dell’Argimusco rappresentano uno dei rari esempi di complessi megalitici naturali dell’intera Italia meridionale. In questo sito naturalistico, conosciuto ancora da pochi, regnano incontrastate pietre millenarie avvolte da un silenzio che è spezzato solo dai suoni degli armenti e dall’ululato del vento.
Ed è proprio l’azione degli agenti atmosferici, principalmente il vento e l’acqua, che ha modellato le enormi rocce, creando megaliti dalle particolari figure antropomorfe e zoomorfe. In seguito l’uomo scoprì questo luogo senza tempo, iniziando a frequentarlo, a contemplarlo ed a utilizzarlo. Tra gli svariati motivi di utilizzo uno tra tutti acquisì ben presto primaria importanza: l’osservazione del cielo. Così le rocce megalitiche e l’intero paesaggio furono scelti per praticare l’astronomia, per decifrare i movimenti degli astri, giungendo a scoprire l’alternarsi delle stagioni e fissare le basi per un pratico e utile calendario. Ciò è accaduto migliaia di anni fa in diversi luoghi della Terra.
E sembra che ciò avvenisse proprio all’Argimusco, un pianoro dove si svolgevano riti sacri, dove la terra si unisce al cielo formando il paesaggio sacro per eccellenza. Questo luogo atavico ben presto diventò un osservatorio astronomico naturale, e molte delle pietre in esso presenti furono lavorate per fini precisi. E così ancora una volta la Sicilia, crocevia di popoli e viaggiatori, e straordinario contenitore di tradizioni provenienti da civiltà diverse, sembra possedere anche un sito molto importante di età megalitica. Un luogo che da molti è stato già definito come la ‘Stonehenge siciliana’.

http://www.archeoastronomia.com/it/index.html

 

come arrivare a Montalbano Elicona: Da Catania: Autostrada Catania - Messina a seguire Messina - Palermo uscita Falcone, oppure Strada Statale direzione Randazzo.

 

 

Solicchiata è un piccolo paesino, una delle più grandi delle sette frazione di Castiglione di Sicilia situato sul versante Nord dell’Etna a quota 700 metri sul livello del mare all’interno del Parco dell’Etna, sulla strada Nazionale 120, fra i centri di Randazzo km 12 e Linguaglossa km 7.

E’ posta su un bellissimo altopiano dove si può ammirare uno splendido paesaggio: le case sparse del paesino, gli alberi verdi che rendono l’aria leggera e respirabile, i vigneti simili a boschi, gli ulivi sempreverdi, la brulla sciara; l’Etna da una parte sovrasta ogni cosa , mentre dall’altra i Nebrodi e i Peloritani fanno quasi da cornice e su di essi appaiano adagiati i paesi Moio Alcantara, Malvagna, Santa Domenica Vittoria, Roccella Valdemone, il Castello di Francavilla, Castiglione di Sicilia, con i verdeggianti noccioleti di Cerro, ed in fondo una buona parte della valle del fiume Alcantara, una valle piena di storia e di tradizioni, dove hanno combattuto molti popoli, dai Sicani ai Siculi, dai Greci ai Romani, dai Bizantini agli Arabi, dai Normanno Svevi ai Francesi agli Spagnoli, e gli Alleati nell’ultima guerra mondiale.

Per secoli il prodotto che ha sostenuto l’economia di intere famiglie di Solicchiata è stato il vino. Anche se ormai poche, sono le vigne rimaste dove si ricava ancora un buon vino rosso, tipico, per gusto, profumo e gradazione, del versante nord dell’Etna e dei suoi terreni di sabbia vulcanica poco profondi.

La caratteristica fondamentale di questi vigneti sono i terrazzamenti fatti con muretti in pietra e scorie laviche, che contraddistinguono notevoli estensioni di terreno.

L’aspetto paesistico di questi vigneti costruiti è singolare ed è caratterizzato da alcuni elementi di base:

- i muretti dei terrazzamenti, alti da mezzo metro a due metri circa;

- le stradelle pedonali interne (rasole) in pietra e terra vulcanica assestate a mano;

- le scalette con gradini di pietra lavica tagliata che collegano le rasole fra terrazzamenti successivi;

- i grandi cumuli (torrette) a forma di “ ziggurat “, alti anche parecchi metri, costruiti come depositi di pietre avanzate dallo spietramento del terreno;

- i muri di recinzione dei vigneti, alti circa due metri, di pietrame lavico a secco bene assestati;

- i coni della terra (munzeddi), dovuti alla zappatura stagionale.

I vini che si ottengono nelle contrade: di Moltedolce, Rampante, chiuse di Barbagallo, Moganazzi, Puntalemarino, appartengono alla migliore produzione della zona etnea. Tutti questi terreni sono zona di vini DOC

Anticamente quasi ogni vigna possedeva il proprio palmento, vista la grande diffusione della viticoltura soprattutto fino alla metà del secolo scorso. Dei ricavati della campagna, l’uva era l’unica vera grande fonte di reddito degli abitanti alla quale davano tutta l’attenzione necessaria.

Il periodo della vendemmia era infatti una festa, tutti grandi e piccoli, raccoglievano l’uva la cui lavorazione avveniva nei palmenti, strutture abbastanza attrezzate anche per ricevere notevole quantità di mosto.

I vini che si producano nel territorio di Solicchiata sono esportati in tutto il mondo e che la fregiano come città del vino DOC.

La Vendemmia si svolge secondo le antiche tradizioni agricole, con strumenti e metodi immutati nel tempo, che garantiscono ancora la bontà del vino. Consentano anche di vivere, ad ottobre, mese della vendemmia, l’immagine, i sapori e gli odori straordinari della raccolta e pigiatura del mosto. Il vitigno di base la maggior parte è il Nerello Mascalese, il Nerello Cappuccio, il Catarratto Bianco e la Minella Bianca, allevato ad alberello una varietà tipica dell’Etna e del suo eccezionale sottosuolo. L’Etna Rosso – a denominazione d’origine controllata, è il più nobile tra i vini di Solicchiata: ha il colore Rosso rubino sapore secco morbido, ricco di corpo, bouquet vellutato gradazione sui 13°, può essere abbinato agli arrosti di carne bianche e rosse, va servito alla temperatura di 18°C.

L’Etna Bianco – a denominazione d’origine controllata: ha il colore paglierino vivo e brillante, sapore, fresco e rotondo, bouquet intenso gradazione sui 12°, si sposa splendidamente con i piatti a base di pesce e frutti di mare, va servito alla temperatura di 10° C.

L’Etna Rosato – a denominazione d’origine controllata: si distingue per la sua limpidezza, l’odore di fruttato, il gusto abboccato ed armonico, gradazione 12°, è ideale abbinarlo per tutti i piatti della cucina etnea, va servito alla temperatura di 14°C.

http://www.solicchiata.it/

 

Catenanuova venne fondata intorno al 1727-1733 dal Principe Andrea Giuseppe Riggio-Statella nel suo feudo di Melinventre secondo il volere della madre. Quest'ultima, rimasta vedova, nel proprio testamento redatto il 21 luglio 1713 richiedeva al figlio ed erede universale di fondare una nuova città "...in qual futuro tempo nel suo fegho di Melinventre si frabicasse la Terra e vi fosse fondato l'Arcipretato..." nella piccola chiesa della Sacra Famiglia, già esistente poiché edificata dopo il terremoto dell'11 gennaio 1693.

Andrea Riggio prese l'investitura del feudo di Melinventre l'8 marzo 1722 all'età di 20 anni. Essendo poco più che adolescente, attese circa un decennio prima di eseguire le volontà della madre, tanto che, nel 1726 inoltrò richiesta per la fondazione del nuovo centro urbano a sua Maestà il Re di Sicilia Carlo VI, affinché gli venisse concessa l'autorizzazione. Carlo VI in data 11 settembre 1726 accordò la richiesta avanzata dal Principe Andrea Riggio, anche se il permesso definitivo gli fu dato nel 1731.
Palazzo di Città

Tra il 1731 e il 1736 Catenanuova divenne un piccolo nucleo urbano ed ebbe la sua piena autonomia, il Principe dunque, fece erigere il suo palazzo che servì anche da municipio (abbattuto nel 1976 per edificare quello attuale) di fronte alla predetta chiesa, e alcune abitazioni attorno ad esso, così iniziò il processo di popolazione. Fece spianare ampie e rette vie e nel giro di poco tempo Catenanuova assunse il ruolo di cittadina vera e propria.

Il nome derivò da Aci Catena (CT), da cui deriva anche il nome della famiglia del fondatore, "Principi della Catena", ossia "Principi di Aci Catena", derivante a sua volta dal culto alla Madonna della Catena. Dizione etimologica tuttora usata per indicare Aci Catena in lingua siciliana: "a Catina"; infatti inizialmente la chiamarono Terra della Nuova Catena, poi Catena la Nuova, e infine Catenanuova.

Lo stemma venne creato unendo quattro blasoni, rispettivamente quelli della famiglia paterna e materna del fondatore, vale a dire Riggio-Saladino e Statella-Paternò. Tale simbolo venne utilizzato come sigillo comunale dal 1736 al 1812, e inoltre venne scolpito in bassorilievo nel fonte battesimale di marmo (del 1738) e dipinto sulla base del simulacro della compatrona, Maria Santissima delle Grazie (del 1750), entrambi nella Parrocchia San Giuseppe.

Altri palazzi vennero edificati nel corso del XIX secolo.

Appartenne alla Provincia di Catania dalla sua nascita fino al 1926, quando Enna fu eretta capoluogo di provincia. Il 7 aprile 2003 è stato decretato il nuovo stemma e gonfalone comunale (vedi Armoriale dei Santi).

http://it.wikipedia.org/wiki/Catenanuova

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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