La produzione di pasta in Sicilia ha origini lontane ed è testimoniata
da documenti storici. Nel 1154 il geografo arabo Al-Idrisi riferisce nel
suo Libro di Ruggero, relativamente alla produzione di tryia ("antenati”
degli spaghetti) a Trabia, centro poco distante da Palermo. Questa si
considera la prima testimonianza scritta sulla produzione di pasta secca
che dalla Sicilia si sarebbe poi diffusa in tutta l’Italia.
Oltre alle innumerevoli tipologie di pasta, la cucina siciliana merita una menzione speciale per i condimenti ugualmente ricercati e vari, principalmente a base di pesce, verdure e formaggio. Tra i più antichi si ricordano quello con le sarde, che conosce anche diverse varianti a seconda della zona, ma che nasce da una base di pesce, finocchietto, pinoli, uva sultanina, zafferano e pomodoro. Come non citare gli spaghetti alla Norma, omaggio di Catania al concittadino Vincenzo Bellini e alla sua eroina? Qui ingredienti semplici come il pomodoro fresco, la ricotta salata, le melanzane e il basilico si fondono per dare vita ad un piatto tra i più gustosi e rinomati. La pasta ncaciata è invece tradizionalmente un piatto del giorno di Ferragosto e viene preparata in maniera differente nelle diverse province, ma la base è sempre un insieme di verdure, insaccati (salame e salsiccia) e formaggio.
Al contrario, la sobrietà della quaresima porta in tavola piatti
come la pasta ca muddica (pasta con la mollica), condita con un
prelibato e ricco insieme di mollica di pane abbrustolito, pinoli,
uvetta e finocchietti selvatici.
Se alla festa della patrona Sant’Agata sono legati dolci deliziosi, al Carnevale catanese appartiene un piatto altrettanto voluttuoso ma di certo più esagerato: la pasta che’ cincu puttusa. Questo speciale formato, un maccherone con un buco centrale più grosso e quattro laterali più piccoli, oltre ad essere un inno all’abbondanza, è anche particolarmente adatto a raccogliere il corposo ragù che l’accompagna. Questa ricetta, tipica solo di questo specifico periodo dell’anno, ha un’origine incerta, ma di sicuro è legata ai “riti propiziatori” del periodo che precede la Quaresima. Ci sono, però, due scuole di pensiero a riguardo: una che ritiene che in origine i buchi fossero sette e che il sugo si dovesse preparare con salsiccia e stufato; e un’altra (probabilmente più moderna) che parla di cinque “puttusa” e un ragù preparato con cotenna e salsiccia. Qualunque sia quella originaria, entrambe le ricette sono molto ricche e possono essere ricondotte all’antica superstizione secondo la quale il giovedì grasso si debba mangiare abbondantemente e a sazietà per non cadere negli inganni dello “zuppiddu” (uno dei tanti modi con viene personificato il diavolo). Lo zoppetto, infatti, aveva l’abitudine di tentare gli uomini con il cibo. Non a caso un vecchio proverbio (citato in “Usi e costumi credenze e pregiudizi del Popolo siciliano” di Giuseppe Pitrè) dice: “Lu Jòviri zuppiddu cu’ nun si càmmara, è peju pr’iddu!“. Che significa in sostanza: “peggio per chi durante il giovedì dello zoppetto non mangia di grasso“. Ed è per questo che a Catania il giovedì grasso (ma spesso anche il martedì!) questo primo “esagerato” sotto ogni aspetto, dal formato della pasta agli ingredienti del sugo, appare in tutte le tavole. La callosità, poi, di questo specifico formato di pasta la rende particolarmente adatta a raccogliere il tipico sugo di pomodoro arricchito con salsiccia di maiale, cotenna, puntine e pezzi di costata.
Qualcuno dei miei affezionati lettori mi ha fatto
pervenire delle garbate critiche sul fatto che, durante le feste
carnascialesche, avrei tralasciato di trattare i piatti tipici del Carnevale
per soffermarmi sui carciofi.
Faccio ammenda, anche se osservo che sarebbe stato troppo
banale parlarne in occasione del carnevale, e vengo alla ricetta del sugo. A
Catania i condimenti rossi della cucina tradizionale sono essenzialmente
due: “a sarsa” (la salsa di pomodoro fresco con aglio e basilico, condimento
d’elezione per la pasta cosiddetta alla “Norma”) e “u sugu”, che prevede
vari tipi di carne cotti con cipolla e concentrato
di pomodoro. Il termine catanese per il concentrato è “astrattu”, con una
tipica apparente inversione di significato per un
prodotto che riduce all’essenza il pomodoro, privandolo dell’acqua,
salandolo e prosciugandolo. Ma “astrattu” non significa astratto, bensì
estratto, allo stesso modo in cui a Catania l’essenza viene definita come
“assenza”.
Come stava scritto nel famoso elenco degli ingredienti
del gelataio catanese che vantava la presenza di
vera frutta nel suo gelato di fragola, la composizione era: fragola e
“assenza” di fragola. Cosicché, in termini filosofici, si potrebbe dire che
a Catania la sostanza o quintessenza consiste nella sua assenza, ovvero che
l’essere coincide con il nulla.
Ma veniamo adesso alla ricetta del sugo, un piatto per
stomaci forti, pensato ai tempi in cui il duro lavoro manuale, soprattutto
nei campi, richiedeva grandi quantità di energia, cibi ricchi di grassi e
colesterolo, e che vi propongo in una versione per
quanto possibile leggera e sgrassata.
Ingredienti per 12 persone
800 di carne di manzo per spezzatino 400 grammi di carne
di maiale (spalla) tagliata a pezzetti per spezzatino 400 grammi
di salsiccia di suino (con soltanto sale e pepe) di calibro grosso olio
d’oliva q.b. concentrato di pomodoro o, in alternativa, passata di
pomodoro siccagno di Sicilia sale q.b. zucchero q.b. acqua q.b (se usate il
concentrato) un bicchiere di vino rosso (Nero d’Avola) 500 grammi di cipolle
rosse di Tropea se graditi, grani di pepe nero caciocavallo ragusano
stagionato grattugiato q.b.
Preparazione
In un ampio tegame antiaderente ponete a soffriggere con
olio d’oliva la cipolla finemente tritata, fatela imbiondire e continuate a
cuocerla a fuoco lento fin quando non sia ben morbida, eventualmente
aggiungendo, di tanto in tanto, un po’ d’acqua.
Fate cuocere fino a quando il sugo non avrà raggiunto
la densità desiderata, considerando che la carne
si deve sfaldare facilmente e contribuire così ad addensare il sugo.
Mentre il sugo cuoce, provvedete a sgrassare la
salsiccia.
Con questo sugo si fa anche dell’ottima pasta al forno,
ma sarà l’argomento della prossima puntata. Intanto buon appetito, ma se non
volete infrangere i divieti della Quaresima, aspettate che arrivi Pasqua e
mangiate di magro!
Pasta alla catanese “che’ cincu puttusa” (con i 5 buchi) (di Rachele Sanfilippo) Ci siamo, è arrivato Carnevale e si sa, il periodo che precede la Quaresima, è un’occasione in più per esagerare anche a tavola! Per celebrare alla grande questa festa degli eccessi, ecco un primo godurioso che, nella sua preparazione, racchiude anche un secondo di carne. Si tratta della pasta 5 buchi, i particolari maccheroni con un buco centrale più grosso e quattro laterali più piccoli, che si preparano con un sugo grasso o con un ricco ragù. Questo particolare formato di pasta infatti, si consuma nel Catanese sin dai primi giorni di febbraio, quando iniziano i festeggiamenti per la patrona Agata e continua la sua presenza in tavola, fino alle abbuffate del martedì e del giovedì grasso. Poche sono le aziende locali che la producono e sugli scaffali dei supermercati è introvabile in altri periodi dell’anno; bisognerebbe farne una scorta proprio in questo periodo (ne esiste addirittura una versione a 7 buchi). La tradizione la impone da anni, ma l’origine è incerta; di sicuro però, la callosità ed il formato sono adattissimi a trattenere il sugo. C’è tutta la sicilianità dei profumi dei sughi che preparavano le nostre nonne e c’è una corposa componente di carne da servire come secondo. Ma la libera esecuzione del condimento non svaluterà l’imponenza del sontuoso piatto: quindi libero sfogo alla vostra fantasia.
NATA PER UNO SBAGLIO La pasta 5 buchi, i particolari maccheroni con un buco centrale più grosso e quattro laterali più piccoli, sono sicuramente i protagonisti delle tavole siciliane , si preparano con un sugo grasso o con un ricco ragù. Questo particolare formato di pasta infatti, si consuma nel Catanese sin dai primi giorni di febbraio, quando iniziano i festeggiamenti per la patrona Agata e continua la sua presenza in tavola, fino alle abbuffate del martedì e del giovedì grasso. Poche sono le aziende locali che la producono e sugli scaffali dei supermercati è introvabile in altri periodi dell’anno; bisognerebbe farne una scorta proprio in questo periodo (ne esiste addirittura una versione a 7 buchi). La tradizione la impone da anni, la callosità ed il formato sono adattissimi a trattenere il sugo. Si dice che lo “zoppiceddru” che era una delle tante personificazioni del diavolo, aveva il compito di pervertire gli uomini mediante la voluttà, l’allegria e la spensieratezza, attraverso le grandi abbuffate. Il sugo che di solito accompagna tale pastosa prelibatezza renderebbe difficile la digestione pure al demonio . Comprende la salsiccia (GRASSISSIMA) di maiale , la cotenna e le puntine di maiale. Il ragù deve contenere qualsivoglia angolo grasso del maiale , poi passata di pomodoro e un poco di concentrato di pomodoro, cipolla bianca molto grande da soffriggere, sale e pepe per condire .
La leggenda narra che la pasta a 5 buchi nasce da uno sbaglio; un pastaio catanese in onore dei festeggiamenti di S.Agata dovette preparare una buona quantità di maccheroni per una nobile famiglia catanese, ma sbagliò le dimensioni ed ebbe l’idea di unire i maccheroni in 5 e in 7, dando vita così alla pasta a 5 buchi. La pasta nata da un errore, da una bugia non poteva però essere accostata alla Santa Patrona di Catania, appunto S.Agata che si festeggia il 5 Febbraio, ma venne rinominata pasta di Carnevale. Buon carnevale a tutti. Fonti : Maghetta.it
v arianti
ECCOLA QUI, E' GIA' SUL PALCO
DEL TEATRO MASSIMO BELLINI
(cliccaci sopra come la
ricotta salata)
PASTA CA CUCUZZA FRITTA E RICOTTA SALATA (ricetta originale di Nonna Grazia, famosa Monsù al servizio della Nobiltà catanese nel primo Novecento.)
I ngredienti per 4 persone: 1 Cipolla rotonda grossa 2 zucchine (Cucuzzi di 40 jorna); 1 pomodoro; olio extra vergine d'oliva; Ricotta salata per grattugiare; 400 grammi di penne rigate o bucatini.
Preparazione (grazie a Francesco Raciti)
Gli anelletti,tipico formato di pasta siciliana, sono protagonisti del piatto che vi descriverò. Questa ricca pasta al forno, conosciuta anche come "timballo di anelletti" e, volgarmente, "pastacolforno", fa parte della tradizione gastronomica palermitana che, come spesso accade, è legata alla sua storia. I primi timballi, che nascono a Palermo, furono elaborati durante la dominazione araba nel IX secolo, per poi diffondersi, in forme diverse, in tutta l'isola. Importanza fondamentale, per i siciliani, assume il facile trasporto. Capita spesso, infatti di vedere gruppi di persone, in gita fuori porta, che tirano fuori dalla cesta da picnic, un timballo di anelletti pronto da poter consumare sul luogo.
È il
"piatto unico" per eccellenza dove, nelle molteplici versioni, ritroviamo gli
ingredienti di cui solitamente si compone un pasto intero: la pasta asciutta, la
carne ed il contorno di verdure. Gli elementi principali sono il ragù di carne
ed i piselli, tuttavia, stagionalmente possono variare, così possiamo ritrovare
chi, ad esempio, utilizza le melanzane, l'uovo sodo, cubetti di salame o
prosciutto e quant'altro. Tutto è legato all'usanza dei luoghi. Mia madre, per
esempio, usava mettere uova sode affettate, pezzetti di salame e primosale.
Quella che vi descrivo è come la faccio io, perché risulta più leggera per la
digestione. Ingredienti per sei persone 600 grammi d anelletti 500 grammi tritato di carne (possibilmente misto, vaccina-maiale) 1 cipolla 1 carota, 2 coste di sedano Un ciuffo di prezzemolo 2 chiodi di garofano 2 foglie di alloro Una scatoletta di concentrato di pomodoro (250 grammi). Parmigiano grattugiato 250 grammi piselli freschi al netto delle bucce (vanno bene anche i pisellini surgelati) ½ bicchiere di vino bianco. Sale e pepe q.b. Per la besciamella (circa mezzo litro) 50 grammi di burro 50 grammi di farina 4-6 tazze di latte freddo ½ cucchiaino di sale Una presa di pepe macinato al momento Noce moscata grattugiata Procedimento per la besciamella Scaldare il burro in una tegame a calore moderato. Aggiungere la farina, fuori dal fuoco, e mescolare con un cucchiaio di legno cercando di non far formare grumi. Rimettere sul fuoco e seguitare a mescolare per circa un minuto, senza far colorire il miscuglio. Unire 4 dl di latte freddo e seguitare a mescolare finche la salsa non bollirà. Aggiungere il sale, il pepe e la noce moscata; cuocere a fuoco basso per altri dieci minuti circa, regolando la densità della salsa, aggiungendo tutto il latte rimasto o solo una parte (a seconda del bisogno, o una salsa fluida o densa). Far cuocere per altri venti minuti circa e la salsa è pronta. Procedimento per gli anelletti al forno Soffriggere in un tegame con l'olio, la cipolla, la carota, il sedano ed il prezzemolo tritati. Aggiungere il tritato di carne e farlo rosolare, a fuoco vivace, facendo attenzione a sgranarlo bene con un cucchiaio di legno, quindi sfumare con il vino bianco. Unire sale, pepe, foglie di alloro, chiodi di garofano e il concentrato di pomodoro sciolto in poca acqua tiepida e ultimare la cottura. Intanto cuocere i piselli (se usiamo quelli surgelati, li scongeliamo in acqua salata bollente con 1 foglia di alloro e un pizzico di zucchero), scolarli e unirli al ragù. Infine, amalgamare al ragù con i piselli la besciamella.
Cuocere gi anelletti al dente e, quando saranno pronti amalgamarli con
il ragù (tenendone da parte un poco che servirà
per ricoprire il timballo) e il parmigiano grattugiato. Oliare una
teglia e spolverarla con il pangrattato, adagiarvi gli anelletti già
amalgamati con il ragù ed infine ricoprire con il ragù messo da parte.
(Se volete inserire altri ingredienti, come ad esempio, fettine di
primosale, uovo sodo affettato, salame o altro, versare nella teglia uno
strato di pasta amalgamata col ragù, quindi fare uno strato di questi
ingredienti e ricoprirli con il resto degli anelletti conditi. Ricoprire
infine con il resto del ragù). di Daniele Billitteri --------------- Scordatevi le lasagne o la pasta al forno, una volta provato ‘u taganu di Aragona non tornerete mai più indietro! Sontuoso piatto della tradizione siciliana, soprattutto agrigentina, ‘u taganu o tianu è il tipico piatto della cittadina di Aragona, nel cuore della Sicilia Nord-orientale, alle porte di Agrigento. La storia narra che fu realizzato con tutti gli ingredienti che una donna teneva nella sua dispensa e poi cotto in un tegame di terracotta (il ‘taganu’ o ‘tianu’, appunto). Anticamente, veniva utilizzato un vaso di creta per far mescolare tutti gli odori e i sapori e valorizzarne così la cottura; il vaso veniva poi rotto a fine cottura, per servire la pietanza. Oggi, questo piatto ricco e supernutriente viene cotto in un tegame di terracotta, e viene usato per i giorni di festa, primo fra tutti la Pasqua. fonte Siciliafan __________________
C’era una volta un principe arabo di nome Tum-Allah, viveva nel regno di suo padre e passava le sue giornate andando a caccia con i suoi amici e scrivendo la storia della sua terra bellissima. Il principe era un buongustaio, inventava nuove ricette (che scriveva in un libro segreto) e aveva nelle sue cucine cuochi che venivano da ogni parte del mondo .Il piatto che mangiava con più gusto era la gallina in brodo servita insieme al riso, alle polpettine e a piccoli pezzi di formaggio. Era tanto goloso del suo piatto preferito che quando pensava di star fuori per qualche giorno i cuochi dovevano portarsi dietro galline, formaggi, spezie, pentoloni, sacchi di riso e tanti, tanti utensili da cucina: sembrava ogni volta quasi un trasloco! Un giorno suo padre re Terek si ammalò, mandò a chiamare il figlio e gli disse:- Figlio mio, si avvicina il giorno della mia consueta visita nelle nostre terre di Sicilia ma la mia malattia non mi consente di affrontare un viaggio così lungo, dovrai andare tu al mio posto.- Tum-Allah fu ben felice di accettare perché era curioso di visitare nuove terre, di conoscere nuove persone e soprattutto di scoprire usi, costumi e ricette da scrivere nel suo libro segreto; così si preparò alla partenza e indovinate quali furono le prime persone ad essere avvertite? Ma i cuochi naturalmente!! Al palazzo ci fu gran fermento e dopo qualche giorno il principe era pronto a partire. Caricata la nave e imbarcati i passeggeri, si apprestarono a fare questo viaggio in terre a loro sconosciute. Approdarono nel piccolo attracco di Trezza ( l’attuale Aci Trezza ) e si trovarono di fronte allo spettacolo di una terra ricca di colori, di profumi che non si aspettavano. Appena sbarcato il principe vide venirgli incontro un giovane sorridente, scalzo e con in testa uno strano copricapo rosso a forma di cappuccio che nella sommità aveva un laccio intrecciato che finiva con un piccolo “giummo” verde. Il giovane, appena fu in presenza del principe si tolse il copricapo ed inchinandosi rispettosamente salutò il principe:- Benvenuto eccellenza, il mio nome è Turiddu e sarò felice di accompagnarla in questi giorni che passerà qui in Sicilia.-Il giovane Turiddu fu subito simpatico al principe tanto che per l’indomani organizzarono una battuta di caccia alle pendici dell’Etna. I cuochi del principe, di buon mattino, precedettero i cacciatori per montare fornelli e pentoloni e preparare il pranzo; furono cotte dieci galline, cento polpettine, formaggi ed un sacco intero di riso per sfamare tutti. Quando il principe ed il suo seguito, stanchi della caccia, tornarono al campo, trovarono un pranzo degno di un re.Si sedettero a tavola e il principe volle Turiddu accanto per continuare a chiacchierare . I servitori sistemarono le vivande al centro della tavola e tutti cominciarono a mangiare servendosi con le mani; tutti tranne Turiddu che con calma tirò fuori da un cestino una “mappina” dove erano avvolte in altrettante, grosse, foglie di vite, quattro “beccafico” di sarde .Il principe lo guardò esterrefatto mentre Turiddu prendeva i pesci ripieni dalla coda e cominciava a gustarli.– Sua signoria vuole favorire?- Chiese Turiddu porgendo una foglia d’uva come se fosse un piatto prezioso.– Certamente, con piacere!- Rispose il principe e addentando il pesce ripieno di pangrattato, uova, formaggio e prezzemolo lo trovò tanto gustoso da chiedere a Turiddu la ricetta per il suo libro .– Mi dispiace eccellenza- rispose Turiddu: -ma non so la ricetta, la chiederò a Ketty, la mia fidanzata, è lei che mi prepara queste buone cose quando vado a caccia!- L’indomani si ritrovarono ancora tra i boschi dell’Etna e ancora una volta, a pranzo, Turiddu non si unì agli altri ma tirò fuori dal suo cestino un involto di carta gialla, pesante, al suo interno quattro sfere dorate che emanavano un magnifico profumo:- Sua signoria vuole favorire? Oggi Ketty mi ha preparato gli arancini di riso.- Il principe incuriosito dalla forma e dal profumo addentò un arancino scoprendo il ripieno di pezzetti di carne al sugo, i piselli, le uova sode e pensò: “Chissà se esiste un modo per poter gustare la mia prelibata gallina in brodo senza fare tanta fatica? Chissà se i miei cuochi sarebbero capaci di inventare un piatto buono, saporito e comodo da trasportare come quelli che prepara Ketty?”Ma non disse nulla. L’indomani aspettò con ansia di vedere cosa la fidanzata avesse preparato al suo amato ed effettivamente a pranzoTuriddu tirò fuori dal suo cestino ancora una volta la sua mappina ed all’interno c’erano delle fette di scacciata, fragranti e profumate come appena sfornate.– Vuole favorire sua signoria?- E il principe guardò meravigliato quella che poteva sembrare una grossa fetta di pane che però al suo interno nascondeva carne, verdure, formaggio, cioè un vero e proprio pranzo da tenere in mano! Tornato nel suo paese il primo pensiero fu quello di bandire un concorso tra tutti i cuochi del regno per trovare un piatto come quelli gustati in Sicilia.Ma nessuno dei cuochi ci riuscì; furono spennate e cotte decine e decine di galline, furono bolliti sacchi di riso e centinaia di polpettine, furono fatte a piccoli pezzi forme intere di formaggio ma niente si avvicinava ai piatti di Ketty. Il principe però non si arrese e, vedendo che nessuno al suo paese riusciva ad accontentarlo partì di nuovo per la Sicilia con una nave carica di ogni ben di Dio deciso a trovare ciò che cercava.Figuratevi la sorpresa di Turiddu quando gli dissero che il principe Tum-Allah voleva parlare con lui e la sua fidanzata!Si presentarono al cospetto del principe che disse a Ketty: -Ho potuto apprezzare i piatti che cucini per Turiddu e vorrei che preparassi anche per me una pietanza che sia facile da trasportare così che io possa sempre mangiare la mia gallina in brodo.- Ketty si mise all’opera e, aiutata da Turiddu, spennò la gallina, la fece cuocere, spezzettò il formaggio, preparò le polpettine e mise tutti gli ingredienti all’interno di due strati di riso che aveva fatto cuocere nel brodo della gallina. L’indomani mattina si presentò al principe con quel piatto che sembrava una torta dorata.-Eccellenza ecco la pietanza che mi avete richiesto, l’ho chiamata “tummala” in vostro onore e spero che sia di vostro gradimento.-Il principe guardò la torta di riso pregustandone il sapore, la affettò, scoprendone il gustoso segreto, la addentò e… gli occhi gli si illuminarono! Era proprio il piatto che voleva! Ringraziò i due fidanzati che ricevettero in dono: un appezzamento di terreno, un premio in denaro e tutte le ricette del libro segreto del principe per poter vivere una vita felice. Ed ecco che, la nostra Ketty, l’allora fidanzatina di Turiddu e oggi nonna felice, ci regala la sua ricetta segreta della “Tummala di riso” che ha realizzò tanti anni fa in onore del principe Tum-Allah. https://www.fancityacireale.it/wordpress2/il-pranzo-del-principe-la-tummala-di-riso-di-nonna-ketty/ _________
La pasta ‘ncaciata era un piatto
robusto, e poteva essere considerato come un
piatto unico. Contiene infatti
carboidrati, verdure con le loro vitamine e gli antiossidanti, le proteine del
formaggio e grassi nobili come l’olio extravergine di oliva. Ingredienti per 4 persone: un cavolfiore viola da 500 grammi; 300 grammi di pasta corta (fusilli, maccheroni, spaccatelle); 12 olive nere; 6 acciughe (12 filetti) ben dissalate; 1 spicchio d’aglio; 4 cucchiai di olio extravergine d’oliva; la scorza di mezzo limone grattugiato; 100 grammi di caciocavallo non stagionato; 50 grammi di caciocavallo ragusano stagionato (grattugiato) o, se preferite un sapore più forte, di pecorino (pepato stagionato o “piacentino”); 50 grammi di pangrattato che avrete fatto abbrustolire in una padella antiaderente e senza olio fino a quando avrà raggiunto un colore marrone chiaro (e attenzione a rimescolare continuamente con il cucchiaio di legno per evitare che si bruci). Lavate e pulite il cavolfiore ricavandone dei ciuffetti. Mettetelo a cuocere insieme al torsolo che avrete anch’esso pulito dalle parti dure e tagliato a pezzetti. Lessate il tutto in abbondante acqua salata e scolate quando è ancora al dente. Prendete i torsoli e due ciuffetti e poneteli nel bicchiere del frullatore a immersione. Aggiungete un po’ d’acqua tiepida e frullate formando una crema abbastanza liquida. Nel frattempo mettete e a cuocere la pasta. Saltate in una capiente padella antiaderente i ciuffetti di cavolfiore con l’olio, l’aglio (che toglierete), le olive nere denocciolate e tagliate a pezzetti.
Quando la cottura del cavolfiore
sarà terminata (dev’essere morbido), aggiungete le acciughe. Stendete il caciocavallo non stagionato tagliato a fettine o cubetti.
Stendete un secondo strato di
pasta e cavolfiore e versatevi sopra il formaggio grattugiato mescolato con
il pangrattato abbrustolito. Infine coprite con la crema di cavolfiore. il gastronomo educato http://www.cataniapubblica.tv/cucina-arriva-il-gastronomo-educato-e-vi-mette-tutti-a-tavola-oggi-pasta-ncaciata/
Con questo nome nel dialetto della nostra città, si indica la pasta con i fagioli freschi. Potremmo definirla la versione estiva della classica pasta e fagioli, ma molto più saporita. In questo periodo tutti i banchi dei mercati offrono questa gustosa varietà di fagioli dal guscio rosso acceso. la triaca è il termine dialettale catanese per indicare i fagioli freschi. Da questa parola, deriva anche un aggettivo “triacusu“. Possiamo tradurlo in spocchioso, persona piena di boria. Inoltre, un detto tipico è l’espressione: “basta nun fari triaca” che in italiano, potremmo tradurlo in: “Smettila di dire bugie troppo grosse“. Sicuramente, in nessuno dei due casi l’accezione è molto positiva. Il termine triaca nell’Ottocento veniva utilizzato per denominare un particolare medicamento: un intruglio, un composto di vari ingredienti che pare avesse tantissime proprietà curative. Intanto, pensiamo a curare lo stomaco con un bel piatto di triacapasta e buon appetito a tutti! _________________ I fagioli, come tutti i legumi, prima di essere consumati vanno lavati sotto l’acqua corrente. Nel caso della triacapasta, i fagioli vanno prima sgusciati e poi puliti. Dopo di che si può procedere alla cottura. Gli ingredienti che ci occorrono sono: fagioli freschi sgusciati, una cipolla bianca, qualche foglia di sedano, carote tagliate a rondelle, pomodoro fresco sbucciato, olio extra vergine d’oliva, sale e pepe. Il procedimento è semplicissimo. Mettere tutti gli ingredienti in una pentola e portare a ebollizione. Quando i fagioli sono semi cotti, buttare la pasta ed aspettare la cottura. Prima di servire, condire con un filo d’olio extra vergine d’oliva. I fagioli così cucinanti sono ottimi anche come zuppa. In quel caso si consiglia di accompagnarla con un pezzo di buon pane catanese La triacapasta è una zuppa che ha tante versioni. Quella un più mistica prevede l’aggiunta dell‘olio Santo al posto dell’olio extravergine d’oliva. L’olio santo è l’olio piccante ricavato dalla macerazione dei peperoncini. Una ricetta più dell’introterra del catanese, prevede anche l’aggiunta della cucuzza dei 40 ionna, la zucchina tipica del periodo estivo. La zucchina, pulita e sbucciata viene messa nella pentola di cottura insieme agli altri ingredienti. Non ultimo è possibile congelare i fagioli freschi in bustine di plastica e conservarli per poter gustare la triacapasta anche in inverno. In questo caso, si potrà aggiungere un pò di cavolfiore che darà una maggiore cremosità al piatto. Come tutti i legumi, anche la triaca, ha un elevato contenuto proteico. In particolare, nella triacapasta vi è una doppia razione di carboidrati, contenuti sia nella pasta che nei fagioli. Non mancano le proteine, le fibre e le vitamine del gruppo B, che se abbinate ai cereali apportano un ottimo valore nutritivo e permettono un buon funzionamento dell’intestino. I legumi freschi possono essere mangiati anche senza pasta, garantendo comunque un elevato apporto di calcio, potassio, ferro e fosforo. Ma con la pasta…. è tutta un’altra storia! Piccole curiosità derivanti dal termini triaca fonte https://catania.italiani.it/triacapasta-i-fagioli-freschi-della-cucina-catanese/
LE FAVE Con la primavera la cucina si veste di nuovi colori e si arricchisce di nuovi ingredienti. Arrivano le fave, legumi che non hanno bisogno di un periodo dell'anno specifico per essere consumati, ma che in questo momento danno il meglio. Infatti, nei mesi primaverili è possibile mangiare fave crude fresche o cucinarle senza ammollo. Con pochi grassi e calorie, sono l'alimento ideale anche per le diete ipocaloriche. Scopriamo tutti i trucchi per cucinare le fave. Per scegliere le fave migliori bisogna per prima cosa valutare il baccello. Deve essere lucido, duro, croccante, di un verde brillante, e rompersi alla pressione con uno schiocco. A differenza dei piselli, le fave si deteriorano subito, quindi è facile distinguere con un solo sguardo i baccelli freschi da quelli più vecchi. Come prepararle Come per tutti i legumi secchi, anche le fave hanno bisogno di essere messe in ammollo almeno per 12 ore prima di essere cucinate. Esistono due tipi di fave secche, quelle con la buccia e quelle decorticate. In questo caso cambia il tempo di ammollo richiesto prima della cottura: 16-18 ore per le fave secche con la buccia, 8-10 ore per le fave decorticate. Tuttavia si possono cucinare le fave senza ammollo nel caso si utilizzino i legumi appena estratti dal baccello, ottimi sia con pane e formaggio che in insalata. I singoli semi sono coperti da una pellicina esterna bianca che va eliminata prima di cucinare le fave. Per eseguire facilmente l'operazione, basta sbollentare i semi per 5 minuti. Se si vuole dare alla ricetta un gusto più erbaceo, basta ridurre il tempo di bollitura. Dopo aver lessato le fave, passale sotto un getto di acqua fredda ed elimina la pellicina che le riveste. L'operazione serve per rendere la fave più digeribili. Tuttavia, se i semi sono piccoli, l'operazione non è necessaria.
Come cucinarle Le fave possono essere protagoniste di molti tipi di cottura diversa. Ad esempio si possono preparare delle fave al forno, un secondo piatto gustoso, da accompagnare magari con patate e verdure lesse. Unendo in una casseruola un soffritto di cipolla, mettere le fave in forno a 180 gradi per 25 minuti, con olio e prezzemolo. Per cuocere le fave al vapore è sufficiente utilizzare la cottura a castello (in questo caso potete seguire la ricetta per le fave al Bimby) oppure mettere i legumi in un recipiente sopra una pentola piena di acqua bollente, ottenendo delle gustosissime fave lesse. Il metodo di preparazione più diffuso è quello delle fave in umido. Dopo aver soffritto olio e aglio per un paio di minuti, unire le fave e nel frattempo riscaldate l'acqua. Condire le fave con sale e pepe e versare l'acqua calda nella casseruola, abbassare la fiamma, coprire e far cuocere per circa 15 minuti. Come conservarle e congelarle Benché ci sia il baccello e la pellicina a proteggerle, le fave non devono rimanere troppo in frigo. Infatti, si tratta di un legume molto delicato che può resistere per due o tre giorni, poi si anneriscono e di rovinano. Per questo, se non si ha intenzione di consumarle subito, è meglio congelarle. Si possono mettere in sacchetto sia pulite sia sbollentate per un paio di minuti.
https://www.salepepe.it/tecniche-base/tipi-verdura/come-cucinare-le-fave/
Macco di fave siciliano: dalla “carne dei poveri” è nato un piatto speciale Si tratta di un piatto della tradizione contadina, di antichissima tradizione. Non tutti lo sanno, ma è stato inserito nella lista dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali Italiani (P.A.T). Alcune ricette tipiche siciliane hanno il pregio di rinfrancare il corpo e lo spirito. Basta un assaggio per sentirsi subito coccolati e rincuorati. Il merito è della splendida cucina popolare della Sicilia, che ha saputo dare vita a piatti unici, con pochi e semplici ingredienti. U maccu è uno di quei piatti: una crema di fave secche e sgusciate, che non ha bisogno di fronzoli per essere deliziosa. Il macco di fave siciliano è particolarmente legato all’Agrigentino e alla città di Raffadali, ma si cucina in tutta la Sicilia. Non tutti lo sanno, ma le origini sono davvero antiche e affondano le radici nell’antica Roma. La sua bontà gli ha permesso di arrivare ai giorni nostri e di essere sempre apprezzato: si cucina in particolari ricorrenze, ma è buono in ogni occasione. Scopriamo tutto quello che c’è da sapere sul piatto. Come abbiamo anticipato, pare che il macco di fave si mangiasse già nell’antica Roma. Il nome, infatti, deriva dal tardo latino e vuol dire “schiacchiare, ridurre in poltiglia”. Si collega a “Maccus”, dal greco “maccuan”, cioè “fare il cretino”, un personaggio delle farse popolari romane (un progenitore di Pulcinella). Questa macchietta era come i “servi sciocchi” del Settecento: quei mangiatori ingordi che si rimpinzavano di alimenti grossolani. Già Aristofane, nel 450 a.C., nella sua commedia “Le rane” parla di una pietanza a base di fave schiacciate, che Eracle mangiava per trarre forza e nutrimento. Nella tradizione il macco è un cibo contadino per eccellenza, poiché permette di riempirsi la pancia con poco. Esistono anche dei proverbi siciliani ad esso dedicati, come “Cogghiri l’ogghiu supra ‘u maccu” (raccogliere l’olio sul macco), per parlare di una persona tirchia. Le fave sono arrivate in Italia 5mila anni fa. Erano, in passato, il nutrimento tipico dei meno abbienti e, per questo, le si chiamava la “carne dei poveri“. Si tratta, infatti, di legumi ricchi di proteine, fibre e sali minerali. Dato che sono composte all’84% di acqua, aiutano anche la funzione depurativa dei reni. In tante località della Sicilia si coltivano le fave, non solo per il consumo alimentare, ma anche perché è una pianta “miglioratrice”, che aiuta cioè a rinnovare terreni argillosi e pesanti. Per la ricetta del macco di fave siciliano si consigliano le fave “cucivule”, cioè che si sfaldano facilmente in cottura. Sono perfette le fave larghe di Leonforte, un Presidio Slow Food della provincia di Enna.
U maccu è strettamente legato alla festa di San Giuseppe, viene preparato tradizionalmente il 19 marzo in tante città della Sicilia e, in alcuni paesini, viene consumato in grandi tavolate collettive, che riuniscono la cittadinanza. A Raffadali è un piatto tipico della festa della Madonna del Rosario. Il primo fine settimana di ottobre si celebra cucinando u maccu. Di solito si prepara con le fave secche sgusciate, ma ne esiste anche una variante con le fave verdi. In ogni caso i legumi vengono sbucciati due volte: prima si tolgono dal baccello, poi si privano della loro pellicina. Si tratta di una crema di fave cotte con cipolla o cipollotto, spesso aromatizzata con il finocchietto selvatico. In alcune versioni viene anche arricchita con erbette o verdure fresche, come i vurrani, cioè la borragine. Si dice che la miglior maniera di gustare il Macco sia “ru fili ri pasta cu maccu e ricotta frisca a tignitè” (con due fili di pasta e ricotta in abbondanza). Una ricetta tipica è quella dei “lolli che’ favi” ragusani, a base di pasta fresca. Se preparate il macco di fave siciliano in abbondanza, il giorno dopo potete gustarlo fritto (qui la ricetta): un antipasto speciale! https://www.siciliafan.it/macco-di-fave-siciliano/
L’abbiamo fatta l’altra sera. Non mi trovavo gli spaghetti da sminuzzare come vuole la tradizione e abbiamo “calato” (termine polivalente Marca Liotru) i ditali ma la sostanza, eccellente, è uguale. A parte la nota purea di fave, per quanto riguarda la pasta esistono due tipologie siciliane: 1) pasta ‘co Maccu a base di fave secche. Disponibili tutto l’anno, a Catania si preparano soprattutto a San Giuseppe. 2) pasta ‘co Maccu a base di fave fresche. Disponibili in primavera e inizio estate. “Maccu di faviane” (o maccu i faviani) ovvero, come lo chiamano a Catania, “Maccu virdi”. A quelle secche, che dovrebbero essere ammollate per quasi 20 ore con il finocchietto e il bicarbonato, preferisco quelle fresche che possono essere subito cucinate e “ammaccate”. Da quel che leggo, da maccare del tardo latino, ossia nell’italiano schiacciare, ammaccato, che poi si trasforma nel termine siciliano “Maccu”.
Piatto unico, ricco di energie e proteine, il Macco ha rappresentato per tantissimi anni il cibo delle classi meno abbienti. In sostanza – nel senso più proteico del termine - era anche una salvezza, considerati i lavori logoranti di un tempo. Fino al secolo scorso, i proprietari terrieri concedevano il pasto principale ai loro braccianti con scodelle di Macco scondito, a differenza delle tante e sostanziose ricette che si trovano oggi con ingredienti aggiunti grazie al benessere. Quindi fave e basta, nient’altro. Solo in giornate particolari come quella della trebbiatura si concedeva anche la pasta che, se in abbondanza, i contadini conservavano anche per la cena, friggendola in padella con olio bollente. Come si fa? Al soffritto di cipolla aggiungere le fave sgusciate (prive del baccello e dell'escrescenza che ricopre il seme) e il finocchietto tagliuzzato. Allungate con acqua e lasciate cuocere a fuoco basso per circa due ore, ammaccando sempre finchè si sfaldino. A fine cottura versate gli spaghetti sminuzzati con l’aggiunta di acqua di cottura e condite con sale, pepe e olio crudo. Quel che resta a pranzo, anche a cena. Uno dei piatti preferiti del sottoscritto. Come dicevo prima, i contadini conservavano la pasta avanzata dal pranzo anche per la cena, friggendola in padella. La faceva mia madre, mia suocera, che a cena presentavano questa sorta di frittata di spaghetti col macco, coperta da crosticine in superficie e da tagliare in saporitissime fette come si fa con una torta. Per conto mio, ho provato a farla: un disastro. Allora ho chiesto aiuto al mio amico chef Angelo Giuliano il quale mi ha suggerito di tagliare a cubetti la pasta fredda, infarinarla appena e poi passarla nell’olio bollente. Così come faceva sua nonna, tutto qui. A procedimento finito, gli ho fatto vedere questa foto. Mi ha risposto che (ahahah!, dai Angelo, sono orribili!) si notava bene la croccantezza ma, secondo me, bluffava in nome dell’amicizia! Comunque, sono antiche tradizioni culinarie che oggi quasi nessuno fa più; difficile trovare chi te le fa, chi ti autorizza a farlo o chi te le spiega via internet. Fra alcune poco chiare, eccone una (credo che l’autrice sia catanese) che illustra molto bene la preparazione di questa torta: https://www.langolodelleprelibatezze.it/spaghetti-fritti.../ Buon appetito. M.R.
Preparazione riportata nel napoletano Liber de coquina del 1300: "prendi frave infrante e scelte bene e quando le avrai bollite, tolta l'acqua, lava molto bene e rimettile nello stesso vaso con poca acqua tiepida e sale, in modo che siano ben coperte dall'acqua, e gira spesso col cucchiaio; quando saranno cotte, togli dal fuoco e schiaccia fortemente con un cuchiaio, poi lascia riposare un po' e quando scodellerai aggiungi del miele o dell'olio soffritto con cipolle, e mangia"
(da "I sapori lontani della cucina siciliana" di Gino Schilirò - Lancillotto e Ginevra Editori
“AMURI O BRORU DI CICIRI ?"
E' un’espressione in siciliano che, nelle varie forme locali, esprime un concetto semplice: Amare non è sufficiente all’amore. L’amore è un atto umano che esige impegno, pianificazione, costruzione quotidiana. Chiaro che il vecchio detto due cuori e una capanna non è mai stato vero.
Amuri e brodu di ciciri è lo smascheramento di questa ipocrita romanicheria da fotoromanzo. Almeno questa è l’interpretazione corrente. L’Amuri e brodu di ciciri è un’espressione ironica, è uno sdire, cioè lo si dice per dire esattamente il contrario. Due cuori e una capanna non sono sufficienti per rendere gli uomini felici. Ci vuole altro. Ci vuole elasticità, impegno, ci vuole denaro, ci vuole disponibilità ad accomodare le cose, a saper aspettare momenti migliori, non facendosi abbattere da eventi imprevedibili. Ci vuole pazienza. Dunque un semplice piatto di minestra non basta. Chiaro che l’idea d’amore è cambiata tantissimo negli ultimi decenni. è una cosa deliziosa se si sa esaltarne gli ingredienti senza aggiungere inutili se non dannosi orpelli gastronomici. I legumi (tutti i legumi) sono gustosi di per sé, hanno un sapore forte e intrigante e aggiungere altra roba è solo per rovinarne il sapore. (poi ognuno fa come crede) Nella tradizione gastronomica e culturale siciliana i ceci sono un elemento ricorrente e fondamentale. Poco appariscenti, vero, però onnipresenti. Per chi non lo sapesse il baccello dei ceci non è come quello di fave e piselli. Ogni baccello è un piccolo palloncino che premuto scoppietta in un allegro pop! Il gusto del cece verde non è eccezionale: non è dolce e delicato come le fave e i piselli, è alquanto insipido, ma il bello stava nel rumore del baccello premuto tra pollice e indice. I ceci tostati (la calia) è la cosa più siciliana che si possa immaginare. Per secoli sono stati l’accompagnamento sfizioso di matrimoni, ricorrenze e feste varie. Se gli americani hanno i popcorn, i siculi hanno la calia. In genere la calia la si trova nature nelle bancarelle delle feste patronali. La farina di ceci è alla base delle panelle, una sorta di frittelle con le quali si imbottiscono panini conditi con pepe e limone. Pane e panelle è un cibo da strada tipico di Palermo e più in generale della Sicilia occidentale. Non bisogna dimenticare la leggenda del famoso shibboleth dei Vespri Siciliani. Chiunque non fosse stato in grado di pronunciare correttamente la parola ciciri (era il caso degli oppressori francesi) sarebbe stato ucciso. Comunque siamo davanti ad un vero amore per i ceci che è passato per la bocca, è giunto nella panza e è rimasto in eterno nella cultura isolana.” Mia mamma, ha sempre cucinato i ceci in maniera semplice e con pochi ingredienti, proprio per non perdere il sapore unico di questo magnifico legume. Vi propongo la sua ricetta, che poi ho fatto mia. ( Panza e Prisenza) https://www.fancityacireale.it/
AMURI O BRORU DI CICIRI? Copione teatrale di Alfio Bonanno
"Amuri è broru ri ciciri” e altro ancora L'espressione siciliana sui ceci che, nelle varie forme locali, esprime un concetto semplice: amare non è sufficiente all’amore. Amuri è broru ri ciciri è quindi un’espressione alquanto politicamente scorretta, è uno sdire, cioè lo si dice per dire esattamente il contrario, proprio perchè un semplice piatto di minestra, per quanto a volte anche riscaldata, non basta. Per amare ci vuole infondo veramente poco, l’invaghimento di un momento, cedere all'impulso sessuale idealizzare l'oggetto dell'amore e immaginare un improbabile “e vissero felici e contenti” per amare si deve essere pronti a soffrire. L’amore è un atto umano che esige impegno, pianificazione, costruzione quotidiana. Amuri e brodu di ciciri è lo smascheramento di questa ipocrita romanicheria da fotoromanzo. Almeno questa è l’interpretazione corrente. Ma probabilmente all’origine non era così. Amore e zuppa di ceci infondo non è molto lontano da Due cuori e una capanna. Forse all'inizio la "e" non era una congiunzione il detto sosteneva che per essere sereni basta poco, la felicità è fatta di cose semplici: l’amore e il minimo indispensabile per sopravvivere (una minestra calda, un rifugio ecc.). Allora acidamente uno smaliziatissimo sentire popolare liquida tutto questo struggimento di cuore come una banale insulsa brodaglia facile da digerire e da evacuare rumorosamente. L’amore è una zuppa di ceci. Due cuori e una capanna non sono sufficienti per rendere gli uomini felici. Ci vuole altro. Ci vuole elasticità, impegno, ci vuole denaro, ci vuole disponibilità ad accomodare le cose, a saper aspettare momenti migliori, non facendosi abbattere da eventi imprevedibili. Ci vuole pazienza. Dunque un semplice piatto di minestra non basta. I ceci, sono chiamati in ballo anche da altre espressioni popolari: “Iu ricu ciciri... e tu rispunni favi”, usata quando, durante un dialogo, non ci si comprendende; "Oji rici ciciri e dumani rici favi”, per ndicare chi da un giorno all'altro cambia atteggiamento o opinione ed ancora “Caminari 'ncapu i ciciri” oppure “Mi lassasti addinucchiuna supra i ciciri”. Due modi di dire che indicano un momento particolarmente difficile, qualcosa di scomodo, qualcosa di non gradito. I ceci sono pure causa di meteorismo e questo ha provocato spesso ilarità associando i peti alla pietanza . Questo succede perché essendo ricchi di fibre i legumi provocano fermentazione nell’intestino e dunque produzione di gas intestinale. I ceci arrivarono in Sicilia probabilmente con i greci Il cece, Cicer Arietinum, è uno dei legumi più diffusi al mondo e dalle origini antiche. Occupa il terzo posto nel consumo mondiale di legumi dopo fagioli e soia e sono il frutto contenuto nel baccello della pianta, di forma irregolare e di colore crema. In genere vengono utilizzati, dopo esser stati lessati in acqua lievemente salata e aromatizzata, con alloro, rosmarino, sedano o salvia e come alimento base per molte ricette tradizionali siciliane, come le panelle o la farinata . A Roma la notorietà del cece era tale da dedicargli il cognomen di una delle famiglie più note. Cicerone, infatti, discendeva da un suo antenato che aveva una verruca a forma di cece sul naso, da noi appunto conosciuto con il cognome Cicerone, appellativo con cui l'antenato di Marco Tullio era distinto, a causa di alcune escrescenze sul viso che sembravano ceci (in latino "cicer"). I ceci tostati (la calia) è la cosa più siciliana che si possa immaginare. Per secoli sono stati l’accompagnamento sfizioso di matrimoni, ricorrenze e feste varie. I ceci sono stati oltre che un alimento protagonisti della storia siciliana. Per un pugno di ceci si scatenò una controversia tra monarchia e chiesa chiamata controversia liparitana, scoppiata nel 1711sulla tassazione della merce esposta per la vendita da parte di delegati del vescovo , che portò a scomuniche e sentenze che si protraggono per certi versi ancora oggi con il mancato pagamento dell'ICI da parte della chiesa . Durante i vespri siciliani, nel 1282, iniziò una vera e propria “caccia ai francesi” i quali, visto il rischio di linciaggio, iniziarono a travestirsi da popolani siciliani. A tal proposito i rivoltosi adottarono un metodo originale quanto infallibile per stanarli. Iniziarono ad andare in giro con un pugno di ceci in tasca ed interrogavano i sospetti chiedendogli come si chiamasse quel legume. Per i poveri francesi pronunciare correttamente la parola “ciciri” era praticamente impossibile e in migliaia vennero individuati ed uccisi. Si fa presto a dire amore e broru di ciciri. Fonti : operaincerta.it – di Carlo Branciforti ; palermoviva.it – Samuele Scirò
A Catania questa prelibatezza la chiamiamo così, ma in
italiano è la pasta con i tenerumi. Cosa sono?? Pensavo che crescessero
ovunque!! Per quei 2 o tre in italia che non lo sapesse i tenerumi sono le
foglie tenere e i germogli della zucchina lunga.
E' un piatto tipicamente estivo perchè solo in questo
periodo la natura, gentilmente ce li regala. Io quest'anno preparo il mio piatto
con i taddi da cucuzza del mio GiardinOrto!!
E' ovviamente per me hanno tutto un'altro sapore, perchè
sono stata io ha comprare delle piantine minuscole, seminarle e annaffiarle, per
cui la soddisfazione di preparare questo piatto questa volta è certamente
maggiore.
Ingredienti
Un paio di mazzi di taddi di 'cucuzza Aglio Pomodorini
freschi o al limite pelati Formaggio grattuggiato Peperoncino
Procedimento
Lavare i taddi per bene e tagliuzzarli a coltello
finemente... Rosolare dell'aglio e aggiungervi dei pomodori (freschi o pelati)
e salare...
Dopo qualche minuto aggiungere i taddi e un pò di acqua (io
ne metto poca e man mano se necessita ne aggiungo dell'altra) e cuocere
per una mezz'oretta abbondante, finche le vostre verdurine non saranno cotte. A
cottura ultimata, aggiungere ancora un pò di acqua e mettere una pasta corta.
Servire con un filo di olio EVO a crudo, una spolverata di
peperoncino e una manciata abbondante di formaggio grattuggiato
Vi assicuro che è un primo gustosissimo e salubre!!
Provatelo!!
http://idolcidiagata.blogspot.it/2011/07/pasta-che-taddi-da-cucuzza.html
‘i
cozzuli dda Plaja”, Le Telline, che in dialetto catanese vengono chiamate “cozzuli" necessitano di estate, mare calmo e caldo, per raggiungere la giusta maturità e raccoglierle così ben piene. Plaja è termine spagnolo che indica la spiaggia di sabbia chiara, finissima. Per antonomasia la Plaja, a Catania, è il litorale sabbioso che si estende a sud della città per oltre 3 km. Qui, facendo il bagno, basta affondare la mano tra la sabbia del sublitorale e si trovano questi bivalvi, saporitissimi che si possono consumare in tanti modi, anche crudi. Un modo per praparli è la ricetta degli Spaghetti con le Telline. Ingredienti per 2 persone: 300 gr di telline, olio EVO, tre-quattro cucchiai, 3 spicchi d’aglio, 140 gr di spaghetti, pepe nero macinato al momento, un cucchiaio di prezzemolo tritato minutamente (facoltativo), salsa di pomodoro fresco due cucchiai. In una padella di grosse dimensioni scaldare l’olio con l’aglio vestito e schiacciato, aggiungere le telline appena sciacquate e far cuocere finché si aprono (pochi minuti). Aggiungere il cucchiaio di prezzemolo (s'è gradito) e saltarvi la pasta precedentemente portata a ¾ di cottura, aiutandosi con poca acqua della cottura della pasta. Comporre il piatto aggiungendo sulla pasta un cucchiaio di salsa di pomodoro fresco (se gradita), una macinatina di pepe nero e, sopra, le telline che sono rimaste in padella. Finiti gli spaghetti ogni tellina va prelevata con le mani, rigorosamente, e portata alla bocca per gustare il mollusco che è ancora attaccato ad una delle valve.
La pasta con le sarde viene attribuita a un cuoco arabo che ebbe il compito di sfamare le truppe durante l'assedio di Palermo. Poteva contare solo su due ingredienti: la pasta e le sarde pescate da giorni. Li amalgamò assieme, aggiunse molto finocchietto selvatico per stordire il male odore del pesce "fitusu" e per evitare un'intossicazione generale aggiunse pinoli ed uvetta che si credeva avessero poteri medicamentosi.
(da "I sapori lontani della cucina siciliana" di Gino Schilirò - Lancillotto e Ginevra Editori
LA VERSIONE CATANESE
PASTA CCO FINOCCHIU RIZZU (Pasta con alici, finocchietto selvatico e mollica) (ricetta originale di Nonna Grazia, famosa Monsù al servizio della Nobiltà catanese nel primo Novecento.) Ingredienti per 8 porzioni. N°3 cipolle rotonde medie N°6 foglie di alloro grammi 75 di vino cotto da mosto kg 1,4 di passata di pomodoro (MUTTI) Kg 1 di alici grammi 300 di pangrattato N° 3 acciughe, un pizzico di peperoncino rosso macinato N°6 mazzetti di finocchietto selvatico grammi 200 uva sultanina una busta di pinoli 1/2 cucchiaino di cannella macinata Grammi 700 di fusilli o penne rigate due spicchi di aglio un ciuffetto di prezzemolo grammi 100 di pecorino macinato due noci di burro tre ore di tanta buona volontà Preparazione Deliscare le alice e dopo averle ben pulite fare scolare per bene nell'acqua. Dunque tritare due belle cipolle e fare soffriggere n una pentola di adeguate dimensioni con alcune foglie di alloro e del peperoncino sempre con cautela. Quando la cipolla diventa dorata, aggiungere la passata di pomodoro con aggiunta di acqua (almeno un litro) e aggiustare con un poco di sale. Nel frattempo, dopo aver pulito anche il finocchietto, mettere a bollire per qualche minuto per poi recuperare l'acqua di cottura verde che servirà poi per la cottura breve della pasta. Soffriggere la terza cipolla in una padella sempre con delle foglie di alloro e fare inbiondire la cipolla, aggiungere il finocchietto cotto e tagliuzzato a piccolissimi pezzi con l'aggiunta dei pinoli e dell'uva sultanina e dell'olio quanto basta. Dunque fare cuocere alcuni minuti, poi spegnere e far riposare. A questo punto, il sugo del pomodoro ha già fatto la sua metà cottura e si possono aggiungere le alice deliscate, il vino cotto da mosto e la cannella macinata. Poi portare a fuoco lento a fare cuocere per addensare la miscela senza dover mescolare troppo, altrimenti il pesce si disintegra . In una padella far abbrustolire lentamente il pangrattato, poi metterlo a riposare; nella stessa padella ben pulita si riscalda dell'olio per sciogliere le acciughe con dell'aglio finissimamente tritato, dunque spegnere il fornello e aggiungere il pangrattato abbrustolito sull'olio con l'aglio e le acciughe e aggiungere del prezzemolo finamente tritato e una buona manciata di pecorino macinato . A questo punto abbiamo tutti gli ingredienti e mettiamo a bollire la pasta nell'acqua di cottura del finocchietto. Si raccomanda una cottura brevissima perchè la pasta deve essere metà cottura visto che dopo andrà in forno. Su una teglia fare una base con il composto-mix di finocchietto e sugo, le alici e una manciata di pangrattato; dunque aggiungere la pasta e coprire con finocchietto e sugo con le alici e una spruzzatina di formaggio e ripetere a strati fino a raggiungere il riempimento della teglia. Versare il sugo rimanente chiudendo con del pangrattato e alcuni pezzetti di burro che abbiamo messo anche sotto. a 180 gradi per 15 minuti. (grazie a Francesco Raciti)
PASTA A MILANISA. All’età di 9/10 anni ho sentito per la prima volta che a casa mia si preparavano anche piatti stranieri (Milano era praticamente un altro continente). Dopo molti anni ho capito che la pasta a milanisa era uno dei piatti più tipicamente siciliani della nostra cucina. La pasta a Milanisa è una delle tante varianti della più famosa “Pasta con le sarde”. Il nome non tragga in inganno perché con la città di Milano questo piatto non ha nulla in comune. Il nome del piatto sembra trarre origine dai flussi migratori di lavoratori siciliani dal sud al nord. Si trattava di un modo per alimentare i ricordi della terra d’origine utilizzando gli ingredienti che si riusciva a trovare. L’abbinamento pasta/pesce nella cucina siciliana ha dato vita ad un “filone” vastissimo con cui si potrebbe scrivere un intero capitolo. La cucina popolare è nata fondamentalmente dal bisogno di combattere la fame allora imperante. Attraverso l’uso degli ingredienti che ci si poteva procurare con una certa facilità si metteva giù il pranzo con la cena. Un piatto con poveri ingredienti (come tradizione della cucina dell’isola) che unisce il dolce del finocchietto selvatico con il sapore più deciso delle acciughe salate e una nota di croccantezza data dalla “muddica atturrata” cioè il pangrattato abbrustolito. Come formato di pasta vi consiglio di usare i bucatini, perfetti per questa ricetta. Se invece volete rimanere sulla tradizione cliccate su Pasta con le sarde e il gioco è fatto. FONTE: https://www.fornellidisicilia.it/ricetta/pasta-a-milanisa/
Muddica atturrata: storia del “formaggio dei poveri” nato da una leggenda La mollica di pane “atturrata”, cioè abbrustolita, è un marchio di fabbrica della cucina siciliana. Nelle ricette tipiche siciliane compare spesso, conferendo ai piatti un gusto e una consistenza unica. Ammettiamolo: le ricette siciliane sono proprio leggendarie. I piatti della Sicilia più famosi sono entrati a far parte della storia della cucina italiana, senza doversi neanche sforzare troppo. D’altronde, si tratta di grandi prelibatezze, che hanno conquistato i palati esaltando materie prime semplici, a volte quasi banali. Gli ingredienti, curati da mani sapienti, hanno prodotto quel ricco ricettario che ancora oggi ci delizia. Tra le preparazioni più conosciute, c’è indubbiamente anche la muddica atturrata. Se non sapete di cosa si tratta, ve lo spieghiamo subito: mollica di pane abbrustolita. “Atturrare” significa abbrustolire (e deriva dal nome del processo di tostatura del caffè). Questo verbo viene anche usato in modo più ampio, per indicare l’azione di infastidire (“Mi stai atturrando!“). La pasta ca’ muddica atturrata affonda le sue radici nella tradizionale cucina povera, alla quale bastava unire pangrattato, acciughe sott’olio ed estratto di pomodoro per creare qualcosa di unico. Il pane raffermo veniva utilizzato a mo’ di formaggio grattugiato ed è per questo motivo che la mollica abbrustolita viene chiamata “formaggio dei poveri”, perché le classi meno abbienti non potevano permettersi il formaggio. È interessante notare come, oggi, il “formaggio dei poveri” sia diventato un ingrediente di piatti raffinati, tanto cari anche agli chef stellati.
la leggenda e le varianti La preparazione della pasta con la mollica abbrustolita presenta analogie con altri piatti che si preparano in diverse parti d’Italia. Esiste, infatti, la cosiddetta “pasta mollicata”, presente nella cucina lucana e in quella calabrese. Sebbene la mollica sia l’ingrediente di base, ovviamente, le ricette risultanti sono diverse. Le origini di questo piatto sono remote e contornate da un alone leggendario. Una prima testimonianza di pasta con la mollica risalirebbe all’alto Medioevo e si localizzerebbe ad Armento, in provincia di Potenza. Nel 976, il piatto venne preparato da una popolana per celebrare la vittoria dei suoi paesani che, guidati dai monaci bizantini, bloccarono gli invasori saraceni. Secondo la leggenda, il giorno prima della battaglia, la donna assistette ad una apparizione della Vergine Maria che, anticipandole la vittoria contro il nemico, le donò un ferretto per preparare la pasta per rifocillare i suoi paesani. La donna vi aggiunse mollica di pane raffermo, sbriciolandola e friggendola nell’olio. Difficile dire quanto ci sia di vero in questa storia. Più certa, invece, la presenza di piatti di pasta preparati con la mollica in diverse zone.
Come molti sapranno già, il pesce è uno degli alimenti più amati e consumati da parte dei catanesi. Ormai da tempo, è diventato quasi un tratto distintivo della tradizione culinaria locale; prova ne sia, la gran quantità di ricette che si sono sviluppate e consolidate radicalmente nel territorio etneo. Tanto per fare un esempio calzante di quanto appena detto, una delle delizie più gettonate ed apprezzate sono i cosiddetti “masculini”, conosciuti anche come alici. Non esiste, infatti, catanese che almeno una volta nella vita non ne abbia assaporato l’irresistibile gusto; il luogo migliore dove trovarle è proprio la nota “ Piscaria” di Catania. Qui ci sono una miriade di banchi strapieni di pesce freschissimo; in ogni angolo della pescheria, per di più, ci sono pescivendoli che, oltre ad occuparsi della vendita del pescato, si dilettano ad intrattenere la gente con dei simpatici aneddoti legati alla pesca, alla cucina e agli antichi detti popolari. Che ci crediate o meno, anche i “masculini" vantano una storia davvero interessante ; sul loro conto, infatti, esiste un’antica leggenda che ha per protagonisti i celebri re Artù e Morgana. Secondo antiche testimonianze, Artù soggiornò per un po' di tempo tra i boschi dell’Etna; a quanto pare, sembra che abbia dimorato con la sorellastra Morgana in un antro incantato. A tal proposito, si dice che quest’ultima girovagava per le selve con la speranza di trovare delle erbe curative in grado di salvare il fratello malato. Infatti, costui era rimasto gravemente ferito a seguito della battaglia combattuta contro Mordred. Perciò, Morgana, preoccupata per la sua salute, non smise mai di andare in cerca di qualche rimedio naturale che lo potesse rimettere in forze. Fu così che, per pura casualità, un giorno si imbatté in un contadino al quale raccontò del fratello morente e dei vani tentativi compiuti per guarirlo. Coinvolto dal suo turbamento, stette lì ad ascoltarla per tutto il tempo.
Maccheroncini con "masculini", pinoli, uvetta, muddica e finocchietto selvatico (Made in Catania)
Vedendola afflitta, le disse pure che l’indomani sarebbe tornato da lei con una “medicina” dotata di ingredienti speciali. Così, mantenendo la parola data, il giorno seguente si presentò al suo cospetto con un canestrello di mascolini che conteneva anche una discreta quantità di “Finocchiu rizzu” e un pezzo di pane raffermo. La tradizione riporta alcune parole che il campagnolo avrebbe pronunciato prima di fargliene dono: “Sono i frutti della nostra terra, del nostro mare e delle mani delle nostre donne; per secoli e secoli sono stati il cibo della nostra gente, che è forte, sana e rinasce ogni giorno sfidando le tempeste del mare e le durezze della terra”. Piena di gratitudine, promise lui che avrebbe onorato quanto le era stato generosamente dispensato; dopodiché prese il cesto e andò a preparare l’intruglio per Artù, che al mattino successivo si svegliò forte come un leone. Ecco perché, spesso, si sente parlare in giro dei bucatini di Morgana; ma in realtà c’è di più: difatti, è opinione comune credere che tale “leccornia” sia una specialità che le donne preparavano mescolando con maestria cibi di terra e mare. Non casualmente, il piatto comprende gli stessi ingredienti che vengono riportati nell’episodio leggendario. Ad ogni modo, per renderlo gustoso e saporito, bisogna seguire dei passaggi ben precisi: prima di tutto è necessario sminuzzare la cipolla, facendola soffriggere insieme alle alici in una padella con dentro una discreta quantità di olio extra vergine d’ oliva. A seguire, si aggiunge lo zafferano nella stessa pentola d’ acqua in cui si è precedentemente bollito il finocchio e fatta ammorbidire l’uvetta. In ultimo si prosegue inserendo i bucatini che, a metà cottura, devono essere scesi e rosolati insieme al sugo fino a che si cuociano del tutto. Livio Grasso - Fonte: https://www.balarm.it/news/il-piatto-magico-che-salvo-la-vita-di-un-re-i-masculini-di-catania-tra-sapore-e-leggenda-129073
LA VERSIONE PALERMITANA
Gli ingredienti principali sono le sarde, la pasta e il finocchietto. La sarda è un pesce azzurro assai diffuso nel mediterraneo. Appartiene allo stesso gruppo delle acciughe o alici, ma è più grassa e deve per questo essere cucinata non oltre le otto ore dalla pesca per non comprometterne il sapore. Si pesca soprattutto da marzo a settembre. Le sarde (o sardelle) previste per questo piatto devono essere quelle fresche e non possono essere sostituite con le sardine sott’olio. Devono essere nettate e sfilettate, eliminando la testa, la coda e la lisca, quindi lavate e asciugate tra due panni puliti. Quanto alla pasta, sono generalmente indicati tre tipi di pasta, tutti di semola di grano duro: i bucatini; i perciatelli, leggermente più grossi dei bucatini e chiamati anche col nome generico di maccheroni; i mezzani o mezzi ziti. Il finocchietto di montagna di cui si parla nelle ricette è il finocchio selvatico. Nella pasta con le sarde se ne utilizzano le parti più tenere e verdi, i germogli, i rametti più giovani e le tipiche foglie piumose (o barba), che si possono raccogliere in campagna dalla primavera all’autunno e cioè nello stesso periodo in cui è possibile trovare nei mercati le sarde freschissime. Gli altri ingredienti della ricetta "classica" sono: cipolle, acciughe salate, uva passolina, pinoli, una bustina di zafferano, olio, sale e pepe.
Per tre o quattro persone:
500 g di sarde fresche, 500 g di bucatini,
500 g di finocchietti selvatici, 2 cipolle medie o 1 cipolla piuttosto grossa, 3
acciughe salate, 50 g di uva passolina e altrettanti di pinoli, una bustina di
zafferano, olio, sale e pepe. Preparazione: Lessare per una ventina di minuti i finocchietti in tanta acqua salata, quanta ne servirà poi per la pasta (4 litri per 500 g), scolarli e tritarli. Tenere da parte l’acqua. In un tegame, scottare le sarde in 1 dl d’olio extravergine d’oliva (un minuto per lato), scolarle e riservarle. Mettere a soffriggere nello stesso tegame le cipolle finemente affettate fino a leggerissima coloritura e unire quindi i finocchietti, le sarde, l’uva passolina (rinvenuta in acqua tiepida per mezz’ora), i pinoli, sale e pepe. Cuocere a fuoco basso, mescolando, per amalgamare la salsa. Dopo una ventina di minuti, unire le acciughe che sono state dissalate, lavate, asciugate e infine sciolte in un tegamino con un cucchiaio d’olio caldo. Cuocere ancora per 15 minuti, sempre mescolando e unire quindi una bustina di zafferano, sciolto in un cucchiaio dell’acqua di cottura dei finocchietti. Mettere intanto a cuocere la pasta nell’acqua di cottura dei finocchietti. Scolarla al dente e unirla al condimento. Lasciare riposare per qualche minuto prima di servire.
La pasta col nero di seppia è un must della cucina siciliana. Detta “pasta co niuru de sicci”. I pregiudizi sono tanti, e il colore mette timore, ma per chi prova questa pasta, il sugo nero come la pece e il sapore del mare in bocca, è difficile da dimenticare. Le seppie e il loro nero si sposano benissimo con la pasta, qualche pomodorino, e non può mancare il pecorino. Ma sono ottime da mangiare anche come secondo, facendo la classica scarpetta al sugo per finire. Questo particolarissimo primo piatto è uno dei tanti esempi di furbizia delle nostre donne siciliane, che, dovendo rinunciare agli ingredienti costosi e di prima scelta, hanno creato dal nulla una vera opera d’arte! Cu campa ri mmiria muori ri raggia (chi vive invidiando gli altri muore rodendosi il fegato). fu così che mentre i nobili si futtievano a pasta cu i sicci a facciazza ri mischinazzi ca unn’avianu mancu l’uocchi pi chianciri (mentre i nobili potevano permettersi di mangiare la pasta con le seppie alla faccia dei poveracci), le massaie, invece di rodersi il fegato, ebbero la geniale idea di usare le sacche delle seppie, ricche di prezioso e profumato inchiostro, per ricreare, senza le seppie, un primo piatto che profumasse di mare senza far rimpiangere la seppia stessa. Un trionfo di sapori dal colore nero assolutamente originale! Piatto da condividere però con le persone a voi più care, con cui avete piena confidenza: la pasta col nero si mancia cu u bavagghiu (col bavaglino), gli schizzetti sono, per quanto siate abili con gli spaghetti, inevitabili, e le risate sono incontenibili… provate ad indovinare anche il “colore” di queste risate; diciamo che non è il piatto ideale per un primo appuntamento! https://www.cucinadisicilia.it/
ricetta originale di Grazia Spartano (1916-2006), famosa Monsù al servizio della Nobiltà catanese nel primo Novecento. Ingredienti per 4 persone: 2 grosse seppie circa 800 gm. - 2 grosse cipolle - 140 gm concentrato di pomodoro - 700 gm passata di pomodoro - 1/2 litro di acqua - olio extra vergine di oliva - 100 gm di vino cotto da mosto - 4 foglie di alloro - 1/2 cucchiaino di cannella - peperoncino macinato quanto basta - 1/2lito di vino bianco - 400 g. di spaghetti o bucatini - pecorino vecchio.
Preparazione
Grazie a Francesco Raciti. Soprattutto per le fotografie, splendide come il piatto di sua nonna.
FOOD & DRINKA pasta co niuru de sicci: a ricetta di Tuccio Musumeci e i “conna” di Mario Rapisardi! Che a Catania si vedano cose strane non è di certo una novità. L’intera provincia è ricca di aneddoti e piatti intriganti che incuriosiscono la mente e stimolano il palato. Tuttavia, niente fa più scalpore di un piatto legato alla tradizione siciliana orientale che parli di “niuru” e di “conna”. Ed ecco allora che viene fuori la storia della famosa pasta co niuru de sicci, ovvero pasta con il nero di seppia. Un nero che a Catania ha colorato non solo la spiaggia di S.Giovanni Li Cuti, ma anche le origini di questo piatto secondo Tuccio Musumeci e i “conna” ovvero il tradimento in cui fu coinvolto il poeta Mario Rapisardi. Vediamo insieme questi aneddoti curiosi e la ricetta! Ci ficiunu i conna a Mario Rapisardi! Si diceva un tempo che bastasse essere poeti per fare innamorare le donne. Grande sbaglio. A quanto pare sin dai tempi più antichi ” fimmina di panza fimmina di sustanza“. Esattamente. Cari miei la maniera più azzeccata per conquistare una donna è farla mangiare bene! Ecco in cosa sbagliò Mario Rapisardi quando ancora era il novello sposino di Gisella Foianesi. Si racconta che quando la giovane donna venne per la prima volta a Catania, fu servita a tavola la pasta co niuru dei sicci. Gisella, non avendo mai visto un piatto così, rimase inorridita e si rifiutò di assaggiarla. Fu allora che Rapisardi e sua madre forzarono la donna ad assaggiare il piatto. Uomo catanese, ma lo capirai mai che quando una donna dice no è no, a maggior ragione se di mezzo c’è la suocera? Mi sa di no. E si racconta che Gisella fu da quel momento che iniziò ad avere le prime divergenze con Rapisardi, fino a quando, alla fine, si consolò con Verga. Rapisardi, a pasta co niuru ti scunsau u matrimoniu! Interessante e divertente è l’origine della pasta co niuru de sicci a Catania secondo l’attore catanese Tuccio Musumeci. Quest’ultimo alla richiesta dell’Etna Wine News di una ricetta catanese culinaria, spedì quella da pasta co niuru de sicci e spiegò come l’origine del piatto sia legata alla vita quotidiana che si svolge ai piedi del vulcano. Ecco qualche esempio classico. Oltre o niuru da lava, c’è a fila a posta ca ti fa scurari u cori quindi viri tuttu niuru. Quannu u maritu tonna a casa ca muggheri sa viri niura. Come recitava una poesia di Martoglio “quantu po’ un pilu di na fimmina“, Musumeci sottolinea addirittura come “u pilu” è niuru macari. Insomma secondo la sua visione i catanisi virunu tuttu niuru, quindi a pasta co niuru ci sta sempri, da sempri e pi sempri! Ritornando a questo piatto tanto amato dai catanesi, in realtà è ancora dubbio se realmente la ricetta appartenga alla cucina del vulcano. Infatti insieme ai catanesi, messinesi e siracusani rivendicano come propria l’antica ricetta e preparazione. Anche se, come ben si sa, i catanisi “una non sa fanu passari” e anche loro sostengono ardentemente che il piatto sia catanese al 100%. La preparazione del piatto è molto laboriosa, ma lineare. Bisogna innanzitutto svuotare e lavare bene le seppie, tagliarle a pezzetti e lasciarle asciugare per qualche minuto. Svuotando le seppie, trattenere un bicchierino di nero di seppia con il quale condire il piatto a metà cottura. Nel frattempo, soffriggere la cipolla con olio d’oliva e mettere le seppie nella stessa padella cuocendole a fuoco lento per circa dieci minuti. In seguito aggiungere il concentrato di pomodoro e il bicchierino di nero. Far cuocere le seppie fino a quando non diventeranno morbide. Infine calatici a pasta, cunsatila co pecorino e arricriativi! Buon appetito catanesi! http://catania.italiani.it/pasta-co-niuru-de-sicci-ricetta-tuccio-musumeci-conna-mario-rapisardi/
La cucina di una regione ricca di tradizioni, come la Sicilia, difficilmente si abbandona a nuove pietanze. Dimenticando per un attimo arabi, francesi e spagnoli, ecco un primo che non rientra nella tradizione gastronomica siciliana. Ripiddu 'nnivicatu, montagna innevata in italiano, e un primo piatto frutto di un'invenzione moderna di un cuoco catanese. Si tratta di un riso al nero di seppie presentato a piramide, con la punta condita con ricotta, e sulla cima salsa di pomodoro piccante. Il piatto rappresenta l'Etna innevato e col fuoco al centro.
Per 6 persone: 500 gr di riso per
risotto, 500 gr di seppie, 50 gr di parmigiano grattuggiato Tritate finemente una cipolla e soffrigetela, a fuoco medio, assieme allo spicchio d'aglio schiacciato. Aggiungete il concentrato di pomodoro, le sacche del nero ed i pezzettini di seppia. Salate e fate cuocere per circa quaranta minuti fino ad ottenere una salsa densa, nera e bordata di rosso. Intanto a parte, fate soffriggere in olio, un'altra cipolla tritata, senza farla dorare. Aggiungete il riso e mescolando, bagnate con il mezzo bicchiere di vino, facendolo evaporare. Unite un mestolo d'acqua e fate cuocere per dieci minuti circa, facendo attenzione che il riso non si attacchi. Unite a questo punto la salsa con il nero di seppia e portate a termine la cottura, rimescolando sempre ed aggiungendo, di tanto in tanto, un poco d'acqua. Sistemate il riso a forma di cono su un piatto di portata e decoratelo con la ricotta mischiata alla salsa di pomodoro e al parmigiano per simulare le colate di lava. Spolverate infine con il prezzemolo tritato. Piatto creato da Giuseppe La Rosa - Rist. La Siciliana (CT)
LA VARIANTE DI QUESTO SITO: "U MUNGIBEDDU" Primo piatto a base di maccheroni a cinque buchi (cincu purtusa) al nero di seppie. Trattasi della variante del famoso “Ripiddu nivicato” di un noto ristorante di Catania, preparato con riso, ricotta fresca ed estratto di pomodoro a mò di colata. Questa versione, invece, è ancora di più “marca Liotru”. Rispetto al riso, che scivola, è stato utilizzato un taglio di pasta tipicamente catanese: i maccheroni a cinque buchi, cucinati solo durante il giovedì grasso a Carnevale (dopo è introvabile) e prodotti appositamente in questo formato per meglio “acchiappare” il sostanzioso ragù alla carne di maiale. I cinque canali, infatti, imprigionano così tanto il ripieno da fare di ogni maccherone una ricca e gustosa prelibatezza (e penne lisce mute!). Invece del sugo di carne, qui è stato utilizzato il noto sugo al nero di seppie, pescate stamattina e che, ovviamente, provengono dal golfo di Catania: il migliore per sapori! Ecco, quindi, il piroclastico manto dell’Etna, con il nero magma che si ingrotta sui fianchi del vulcano! Per simulare la neve, invece della ricotta fresca è stata utilizzata la ricotta salata di Vizzini, altro autoctono prodotto. Infine, un po’ di peperoncino locale (poi sparso come lapilli che cadono sui versanti) come colata lavica. Non mi dilungo a spiegare la ricetta del sugo al nero di seppie. Si trova dovunque. Il risultato ? Non ve lo dico, immaginatelo!
Ingredienti: 400 gr di canocchie - 3 pomodori o passata - Aglio - prezzemolo, peperoncino - Olio evo, - Sale q.b. 01) Staccare le teste (dove ci sono le chele) e metterle da parte 02) Con una forbice tagliare i carapaci lateralmente, a sinistra e a destra, fino ad arrivare alla coda e farla diventare una punta. 03) Sollevare la crosta superiore (anche questi scarti vengono messi da parte, assieme alle teste), togliere la polpa col dito e metterla da parte. 04) In una padella soffriggere aglio e prezzemolo sminuzzati e mezzo peperoncino. Appena dorati, aggiungere i pomodori o la passata, sale q.b. e cuocere per 5 minuti. 05) In una casseruola, soffriggere gli scarti e le teste con: olio, due spicchi d’aglio e prezzemolo tagliato grosso. Dopo 1 minuto versare un bicchiere contenente vino bianco per metà e acqua per l’altra metà. Lasciare sfumare. 06) Schiacciare con un cucchiaio di legno gli scarti per 5-6 minuti fino ad ottenere il prezioso fumetto che verseremo nella padella attraverso un colino retato. Se possibile, bollire gli scarti rimasti (dentro un divisore) assieme alla pasta. 07) Accendere il fuoco sulla padella. Due minuti prima dei suoi tempi di cottura, scolarci sopra la pasta, un cucchiaio di acqua di cottura e la polpa messa da parte. Risottare per 2-3 minuti. 08) portare a tavola con una spolverata di prezzemolo fresco. Buon appetito!
Per la pasta alle vongole, in Sicilia esistono due scuole di pensiero: la scuola Bianca e la scuola Rossa.
La scuola Bianca crede in una sola ricetta: e non contempla il pomodoro. Vongole, aglio e prezzemolo. Tuttalpiù sfumati leggermente con un goccio di vino bianco. Si esaltano le vongole e non occorre altro. La scuola Rossa prevede l'inclusione della polpa o persino della salsa di pomodoro nella ricetta. E niente vino bianco. Io le ho provate tutte, ovviamente. E mi piacciono tutte. Ma come sempre, credo che la verità stia nel mezzo.
Il rito inizia dalla scelta degli ingredienti. Occorrono le vongole veraci, più fresche e più grandi possibile. E poi del pomodoro rosso e profumato. Impossibile qui in Spagna ritrovare l'odore e il sapore di quello che coltiva mio padre in Sicilia come hobby tra una lezione di matematica e un consiglio di classe, ma andando al mercato della Boqueria e cercando bene si può trovare qualcosa di rassomigliante. E poi occorrono i pomodori datterini. Piccoli pomodori come quelli di Pachino, ma dalla forma allungata, a pera, rossissimi e dolcissimi. E poi aglio, tanto prezzemolo fresco e un buon vino bianco. Non serve altro. Gli spaghetti, li scegliete voi. A volte io uso anche quelli integrali. E le persone con cui condividerli, quelle speciali che volete coccolare, anche quelle, sceglietele con cura. Sono vostre, soltanto vostre. chef tino - etoile d'or CT http://www.petitchef.it/ricette/spaghetti-alle-vongole-e-pomodorini-fid-432921
Il "Mauro" è un'alga il cui nome scientifico è Chondracanthus teedei. E' presente, in realtà, nelle coste di tutto il mondo, in Sicilia cresce sugli scogli vulcanici e rappresenta una specialità tipica del litorale catanese per la sua apprezzata consistenza callosa e l’intenso sapore “di mare”. Servita come insalata con un po’ di olio, sale e limone, ha una consistenza quasi carnosa, è davvero gustosa e ti lascia in bocca un sapore di mare per tanto tempo. Chi è più anziano lo ricorda perchè lo vendevano per strada (siamo o no i maestri dello street food?) dentro la carta paglia gialla. Poi l'inquinamento del mare lo ha reso quasi introvabile. Qualcuno sostiene che si chiami Mauro perchè (dicono che era abbondante in quella zona costiera) in onore del santo patrono di Acicastello, ma la cosa non convince. In verità, la sua zona è Santa Tecla, Riposto, Stazzo, tutte frazioni di Acireale. Cresce lì, quando trova acque pulite. Ormai è diventato anche un piatto famoso siciliano, cucinato con patelle e pomodorini e poi affogato nelle linguine saltate. Di leva ero in Capitaneria e a volte dalla motovedetta lo issavamo a bordo con il mezzo marinaio, quando ci trovavamo nelle acque acesi. Quello che ho fotografato si trova alla Pescheria, non so se sia fresco ma era bello a vedersi ma ricorda le nostre Scuola medie quando, all’uscita, si mangiava crudo in tutta tranquillità. Per la sicurezza, si dovrebbero usare le stesse accortezze come per le cozze: crude a tuo rischio e pericolo, cotte si va alla grande. Comunque, spettacolare e da provare! Le patelle sono molluschi dotati di una conchiglia conica, sottile, dal contorno grossolano, che si adatta alla superficie alla quale l'animale aderisce. La bocca presenta un organo caratteristico, detto radulaL e la parte inferiore della radula contiene una fila di denti, classificato come il materiale biologico più resistente finora conosciuto. (Mimmo Rapisarda)
linguine con Alga Mauro, pomodorini di Pachino e patelle
Il tempo del mauro ... perduto Il periodo è questo, ma bisogna sapere dove andare e, nonostante ciò, essere fortunati. Poter gustare il "mauro" - o "u mauru", in dialetto catanese - è infatti ormai talmente raro da essere una delizia da veri gourmet. Si tratta di un'erba marina dai lunghi filamenti callosi, un'alga commestibile che fino a qualche decennio fa cresceva spontaneamente lungo le coste laviche catanesi e della Sicilia orientale, ma che adesso è quasi scomparsa a causa dell'inquinamento. Inutile chiedere alla Pescheria e nei ristoranti di pesce di Piazza duomo o di Acitrezza; a restare legati a questa specialità sono alcuni ristoratori lungo la Timpa ed a Stazzo (nei pressi di Acireale), e giusto un paio di commercianti della zona di Ognina, a Catania. "Ogni venerdì me lo porta un vecchietto - spiega Tino, titolare di una rivendita di frutti di mare in piazza Mancini Battaglia - che lo raccoglie insieme a suo figlio in una località vicino Acireale. Trovarlo è così difficile che neanche lui vuole far sapere dove riescono a prenderlo". Un "segreto professionale" che, tuttavia, non turba la serenità del rivenditore e dei suoi clienti: "Credo sia una località poco inquinata - continua Tino - perché so che per crescere ha bisogno di acque limpide". Magari, perciò, si chiude un occhio su tracciabilità e sicurezza alimentare, ma volentieri si apre la bocca per assaggiare una prelibatezza tipica che rischia l'oblìo: "La domenica è già terminato - prosegue il commerciante - perché ho dei clienti affezionati che vengono qua apposta". Come ogni sciccheria marinara, di solito si consuma crudo: "Cinquanta anni fa mia mamma se lo mangiava a mare mentre lo raccoglieva - ricorda Tino - ma c'è chi lo preferisce condito con sale e limone, o chi lo salta in padella". Sono questi i mesi migliori in cui tentare la fortuna: l'alga trova il suo habitat ideale da aprile a giugno. Una vaschetta da 100 grammi costa più o meno tre euro. Ben 30 euro al chilo, ma vale per la memoria. Francesca Marchese
LA PASTA SECCA: PRIMOGENITURA SICULO-ARABA La pasta fresca fatta in casa, in Sicilia, dove il frumento è buono ed abbondante, dovrebbe avere origini lontane. I Greci vi trovarono sicuramente una sfoglia fatta di farina ed acqua simile al loro “laganon” che cuocevano sul fuoco. Con i Romani un simile impasto era il “laganum”, che insieme al condimento veniva cotto al forno. Orazio, uomo semplice e frugale, scrive: “torno a casa alla mia scodella di lasagne con ceci e farro.” La primogenitura della pasta, preparata e seccata (axutta) al sole di Sicilia per poter essere esportata, è stata da sempre siciliana. Gli Arabi nomadi nel loro continuo vagare potevano portare l'incorruttibile “pasta axiutta” e a diffonderla contribuirono con la loro diaspora anche gli Ebrei. La pasta era ed è preparata con grano duro (u frummentu saracinu) che in Sicilia trovò l'habitat ideale; dopo si diffuse nel Meridione d'Italia. Plinio scrisse: «Un paese fertilissimo di grani, in modo tale che non solo soddisfa i suoi già numerosissimi abitanti, ma ne ha potuto dare agli abitanti di altre provincie». Anche gli Ateniesi per la loro povera alimentazione vegetariana erano chiamati mangia foglie. Pitagora aveva scritto: «Amici miei, evitate di corrompere il vostro corpo con cibi impuri; ci sono campi di frumento, mele così abbondanti da piegare i rami degli alberi, uva che riempie le vigne, erbe gustose e verdure da cuocere…… La terra offre una grande quantità di ricchezze, di alimenti puri che non provocano spargimento di sangue né morte». Il geografo Idrisi nel 1152 scrive nel suo libro Il diletto di chi è appassionato per le peregrinazioni attraverso il mondo (conosciuto come il Libro di Ruggero): «A ponente di Termini vi è l'abitato di Trabia (arabo Al-Tarbih), sito incantevole, ricco di acque perenni e mulini, una bella pianura e vasti poderi nei quali si fabbricano vermicelli in tale quantità da approvvigionare, oltre ai paesi della Calabria, quelli dei territori dei Musulmani e dei Cristiani». La farina per la preparazione della pasta veniva prodotta nei numerosi mulini ad acqua, allora presenti in Sicilia. Ibn Hawqal nel 977 nel Libro delle vie e dei reami, (Leida 1973) scriveva: “….Circondata da numerosi corsi d'acqua che scendono da ovest ad est; la loro corrente è capace di far girare dei mulini che sono difatti attivi in diverse località”. Solo nel Medioevo, tra gli Arabi e i Siciliani inventori della pasta secca, è valso l'uso di bollire la pasta nell'acqua, nel brodo e raramente nel latte e la condivano con burro e formaggio. Veniva servita scotta insieme a piatti di carne o pesce, abitudine che persiste ancora nel nord Europa. In Sicilia non vi è mai stato il gusto della pasta scotta. É antico il detto popolare: a pasta ‘sa masticari (la pasta si deve sentire fra i denti). Naturalmente le modalità di condire, presentare la pasta variano nelle diverse culture. Si attualizza che ci viene tramandato, sempre tramandato. Presentare ad un siciliano spaghetti scotti come contorno ad un piatto di carne sarebbe una profanazione. La pasta fresca veniva (ora sempre più raramente) preparata "in casa" dalle massaie siciliane ripetendo modalità vecchie di millenni. La Sicilia, pur mantenendo la tradizione greco-romana della pasta lavorata a sfoglie, presto ha adottato il modellamento manuale realizzando pasta di diverse forme. La pasta fatta in casa, per chi poteva permettersela, fino agli anni Cinquanta del secolo scorso non era un lusso, come è diventata oggi, ma una necessità. Solo nelle festività si comprava la costosa pasta industriale. I poveracci. che non avevano come fare la pasta fresca, nelle festività, quando potevano, compravano a “scamozzatura”, scarti di diversi tipi di pasta che i bottegai vendevano per pochi picciuli. La pasta secca in Sicilia, da produzione artigianale diventa industriale e viene commercializzata e partirà alla conquista dell'Italia e del mondo.
LA BUFALA DEGLI SPAGHETTI ORIGINARI DALLA CINA E LA ROTTA PALERMO-GENOVA. La bufala risale ad un'articolo apparso su "Maccaruni Journale" del 1939. Quando Idrisi scrive della produzione e commercializzazione della pasta siciliana, Marco Polo doveva attendere un secolo per venire al mondo (1254-1324). La prima ricetta di pasta importata dalla Sicilia si trova nel ricettario di Martino Corno cuoco del Patriarca di Aquileia (De Arte Coquinaria per vermicelli e maccarroni siciliani, XI sec.) La pasta ebbe grande diffusione in Sicilia da far lievitare i prezzi. Le autorità palermitane, il 17 ottobre 1371 decretarono un calmiere per i “maccarruni blanki di symula e lasagni di symula e maccarruni di farina e lasagni di farina”. Un altro calmiere risale al 1548 dove i maccarruna di simula dovevano vendersi a 7.2 denari a rotolo, quelle di farina a 4.2 a rotolo e i vermicelli a 5,2 a rotolo. I calmieri venivano pubblicizzati dal banditore con il loro marchio al suono del tamburo. E’ stata siciliana la netta distinzione. tra semola e farina. A Palermo vi è il cortile del Semolaio dove vi erano magazzini per la produzione e la vendita della semola. I maccheroni, per il prezzo accessibile, potevano essere acquistati anche dai "poveracci" e per tanto tempo vennero considerati cibo rustico e plebeo. Addirittura nel 1400 venne coniato l'aggettivo "maccaronico" per indicare una lingua o uno scritto di scarso valore letterario o scientifico. Il latino maccheronico è stato la lingua ufficiale della goliardia siciliana. Sempre a Palermo sorse alla fine del 400 la corporazione dei pastari e nel 1605 fu istituita la maestranza dei "vermicellari". Le corporazioni divennero così potenti da ottenere l'esclusiva nella produzione della pasta, pene severe venivano inflitte a chi produceva pasta fuori dalle corporazioni. Ancora a Palermo si consumano i vermiceddi di tria (arabo itriyah). In un atto notarile del 5 agosto 1447 è riportato che nel rione della Kalsa vi era la ruga dei maccarunari (oggi Via dei Maccaronai) dove si produceva e si vendeva pasta. Negli atti di beatificazione di frate Guglielmo da Scicli del 1273 si parla di maccarrones. I mercanti genovesi, che a Palermo godevano di dazi doganali preferenziali, avevano aperto empori nei porti di Sicilia erano rappresentati da un console a Messina, importavano la pasta di Sicilia e la rimettevano in commercio con il loro marchio. Il notaio genovese Ugolino Scarpa, nel testamento di certo Ponzio Bastone del 1247 scrive di una "baniscetta plenas di macarones". Serventi e Sabban nel loro trattato “La pasta. Storia e un cibo universale (Bari 2004)” scrivono che negli archivi del notaio Scriba di Genova si trovano vari contratti redatti tra il 1157 e il 1160 che stabilivano termini delle operazioni commerciali tra la Repubblica ligure e la Sicilia normanna. Genova presto diventerà unaa grande produttrice di pasta. Le maestranze e il grano dei pastifici genovesi provenivano dalla Sicilia. Esistono atti del XIII e XIV secolo che documentano la produzione.
I PASTIFICI NAPOLETANI Solo nel 1500 la pasta viene confezionata a Napoli. Benedetto Croce afferma che a Napoli i maccheroni erano considerati un cibo esotico fin alla fine del '500 e i “mangia maccaruni” era un insulto ai siciliani (Storie e leggende napoletane, Bari 1919). Nell'ordine, “mangia maccarroni” sono stati i siciliani, i napoletani e finalmente tutti gli italiani. Nel 1776 venne realizzata a Napoli la prima maccarroneria meccanica di proprietà reale; ha prodotto maccheroni fino al 1825 quando venne sostituite da più moderni torchi metallici. La crescente richiesta di pasta e la necessità di migliorare le norme igieniche aveva spinto il re delle due Sicilie, nel 1823, ad ordinare all'ingegnere Cesare Spadaccini nuovi macchinari che automatizzassero la produzione della pasta per eliminare «l'abominevole uso di gramolare la pasta con i piedi». Sembra che in Sicilia fin dal 1400 esistesse 'n'cegnu (congegno) per produrre i vermicelli, costituito da un tubo di legno chiuso da una placca di rame forato. Nel tubo veniva posto l'impasto, pressato da un pistone uscivano i vermicelli che venivano tagliati secondo la lunghezza voluta. I Napoletani avranno in comune con i Siciliani gli epiteti mangia foglie, mangia maccarruni e terruni.
PERSONAGGI STORICI CHE APPREZZARONO I “MACCARONI” La letteratura italiana è ricca, da Boccacio a Sacchetti, da Ariosto a Goldoni, a Giacomo Casanova di apprezzamenti per i maccheroni. Addirittura Leonardo da Vinci architettò una macchina per prepararli e nel discusso Codice Romanoff riporta una serie di ricette tra cui la zuppa siciliana affumicata di Gaudio a base di pasta: «Prepara un impasto con farina, tuorlo d'uovo e acqua di rose, taglialo poi in striscie sottili, che devi ulteriormente far passare tra i rulli. Lascia seccare al sole per due o tre giorni le strisce di pasta, quindi mettile in un bel brodo grasso assieme a del formaggio grattugiato, erbette aromatiche dolci, e un pò di zafferano per dare colore. Cuocile su fuoco a carbone senza coprirle con teli, in modo che acquistino un sapore affumicato. Gaudio vorrebbe aggiungere al brodo una bottiglia di vino a testa, ma io non posso farlo perchè ho notato che a lui fa venire meteorismo e lo fa sempre addormentare a tavola».
Maestro Martino (XV secolo) riporta nel suo “Libro de arte coquinaria” le modalità di preparazione dei maccheroni siciliani: "Piglia de la farina bellissima, et inpastala con biancho d'ovo con acqua rosa, ovvero con acqua communa. Et volendone fare doi piattell non gli porre più che uno o doi bianchi d'ova, et fa questa pasta ben dura; dappoi fanne pastoncelli longhi un palmo o più, et sottile quanto uno spagho, et ponilo sopra il ditto pastoncello, et dagli una volta con tutte doi le mani sopra una tavola, dapoi caccia fore il ferro, et ristira il maccherone pertusato in mezo. Et questi maccharoni se deveno seccare al sole, et dureranno doi o tre anni, specialmente facendoli de la luna de agusto; et cocili in acqua o in brodo di carne el mettegli in piattelli con caso grattugiato in bona quantità, butiro frescho et spetie dolci. Et questi tali maccharoni vogliono bollire per spatio de doi hore.”
Anche il fiorentino Bartolomeo Sacchi detto Platina (1421-1481), dà indicazioni su come preparare i maccarruna siciliani: «Manipola per bene della farina bianca ben setacciata insieme con chiare d'uovo, acqua di rose o acqua semplice. Poi tira la sfoglia e fanne delle strisce sottili come la paglia, che taglierai a pezzi per traverso. Con mano leggera infilavi dentro uno stilo di ferro in modo che quando lo estrarai i singoli pezzi rimangon vuoti all'interno. Falli essiccare al sole e ti dureranno anche per due o tre anni, specie se confezionati con la luna di agosto». Proprio a Platina, la cui opera "De Honesta Valuptate", tradotta in varie lingue, è ricca di ricette di pasta, si deve la grande diffusione dei maccarruna non solo in Italia ma anche in Europa. Nei caffè delle capitali europee del settecento consumare maccarruna era di gran moda. Nel 1700 sorse a Londra il Macaruni club dove la aristocrazia londinese consumava maccheroni. Con i ricettari di Martino e Platina la pasta diventa un alimento non solo italiano ma europeo. Dalla Sicilia non è partita alla conquista del Nord solo la pasta ma riso, agrumi, zucchero, spinaci, melanzane e carciofi.
Goethe, nel suo diario del 23 aprile 1787 scrive: «Non essendovi qui alberghi, fummo ospitati da una cortese famiglia che ci cedette un'alcova sopraelevata, con una grande stanza adiacente. Una tenda verde separava noi e i nostri bagagli dai padroni di casa, che nel grande locale attiguo fabbricavano maccheroni della specie più prelibata, piccoli, bianchissimi; i meglio pagati di tutti sono quelli che, preparati i bastoncini lunghi un dito, vengono poi arrotolati e piegati dalle sottili dita delle fanciulle, fino ad assumere la forma di chiocciole. Ci sedemmo vicino a quelle belle ragazze, ci facemmo spiegare il procedimento e apprendemmo che nel loro lavoro usavano il frumento migliore e più duro, chiamato grano forte. Qui è l'abilità manuale che conta, assai più che quando ci si avvale di macchine e di forme. Il piatto di maccheroni che ci servirono era squisito; ma purtroppo, dissero, non disponevano neppure per una sola porzione della qualità più perfetta, introvabile fuori di Girgenti, anzi fuori di casa loro. Quelli che mangiammo ci parvero non aver l'uguale per bianchezza e per delicatezza di gusto.. »
Leggendo il diario di Goethe rivedo mia madre china sul marmo della cucina che con mani scarne e nervose, con gesti immutati da secoli, impasta, stende e arrotola. Nascono lasagne, tagliatelle, tagliolini, gnocchi, matasse di paste sottili arrotolate e maccheroni col buco che nel trapanese chiamano busiate (da buso filo di giunco utilizzato per attorcigliare la pasta). Ogni forma ha un suo nome, un suo sapore ed esige un condimento. appropriato che dà il carattere e l'identità alla pasta. I condimenti sono tanti e qualche volta strani. Gli spaghetti conditi con nero di seppia, piatto nato fra i pescatori, che la moglie fiorentina del poeta catanese Mario Rapisardi defini “tenebroso cibo di gente selvatica causando i primi screzi col marito che si conclusero con la separazione”.
I maccarruna sono stati una nostalgica attrazione per i viaggiatori che visitavano la Sicilia, come ricorda il milanese Ortensio Lando, segretario di Lucrezia Gonzaga, nel Commentario delle più notabili e mostruose cose d'ltalia e altri luoghi (Venezia 1553) scrive: “Veramente ti porto grande invidia, imperoché fra un mese, se i venti non ti fanno torto, giungerai nella ricca isola di Sicilia, e mangerai di què maccheroni i quali hanno preso il nome dal beatificare: soglionsi cuocere insieme con grassi caponi e caci frechi, da ogni lato stillanti buttiro e latte, e po' con liberale e larga mano vi soprapongono zucchero e cannella della più fina che trovar si possa: ohimè che mi viene la saliva in bocca sol a ricordarmene!».
La stessa nostalgia esprime Tomasi di Lampedusa in “Luoghi della mia prima infanzia”: “Da una di esse. illustre per meriti gastronomici, andavano anche talvolta a far colazione, e talvolta essa, dopo un complesso sistema di preavvisi e segnali, mandava per mezzo di un ragazzotto, che traversava di galoppo la piazza sotto il sole accecante, una immensa zuppiera colma di di zito alla siciliana, con carne tritata, melanzane e basilico e che, ricordo, era davvero una pietanza da déi rustici e primigeni. Il ragazzotto aveva l'ordine preciso di posarla sulla tavola da pranzo, quando eravamo di già seduti, e prima di andarsene ingiungeva: "A signura raccomannu: u cascavaddu, ingiunzione forse saggia, ma che non venne mai ubbidita".
Anche il lombardo Alberto Arbasino, è affascinato dai maccheroni siciliani e ambientando il suo romanzo "Specchio delle mie brame" a Palermo scrive dell'abbuffata di pasta della baronessina Francesca: «Inghiotte a tavola enormi timballi e pasticci, cupamente, in silenzio, con una predilizione insana per i maccheroni al gratin. Li pretende speziati, fumanti, bollenti, rigurgitanti di tartufi e di fegati! Non bada ai soufflès, mal sopporta le crèpes, respinge le mousses, e stringe il coltello davanti ad ogni vivanda en croûte. Soltanto maccheroni!».
I maccheroni furono identificati col popolo meridionale. Cavour nel 1858 scrive a Costantino Nigra ambasciatore a Parigi, alludendo all'annessione del Meridione, «i maccheroni sono cotti e noi li mangeremo». Per Cavour l'annessione del Meridione è stata solo una mangiata di maccheroni! Quando Garibaldi con i suoi Mille sbarcò a Marsala le nostre massaie prepararono per i "liberatori" pentoloni di maccaroni consiti con una saporita salsa di tonno. I garibaldini erano giunti col culto del riso e ritornarono nei loro paesi con la nostalgia della pasta. Addirittura Garibaldi, dopo Teano, si ritirò a Caprera portando un sacco di farina, una cassa di maccaroni e alcuni semi.
La pasta non ha lasciato la tavola degli italiani. Solo Giacomo Leopardi ne "I credenti" criticava i Napoletani mangiatori di maccheroni. Il napoletano Gennaro Quaranta con simpatica ironia rispondeva al malinconico poeta: «Ma se tu avessi amato i maccheroni più dei libri, che fanno l'umor nero non avresti patito aspri malanni. E vivendo tra pingui buontemponi giunto saresti rubicondo ed allegro forse fino ai novanta o ai cent'anni».
I futuristi, nei loro deliranti proclami di rinnovamento volevano eliminare la pasta. Filippo Tommaso Marinetti nel manifesto sulla gastronomia del 1932 scrive: «Convinti che nella propabile conflagrazione futura vincerà il popolo più agile e più scattante, noi futuristi crediamo innanzitutto necessaria l'abolizione della pasta asciutta assurda religione gastronomica italiana. La pasta asciutta per quanto gradita al palato è una vivanda passatista perchè rende scettici, lenti e pessimisti!”. A Marinetti la pasta asciutta piaceva e spesso veniva colto nel ristoranti a mangiare spaghetti. Deriso gli canticchiavano: «Marinetti dice basta/messa al bando sia la pasta/poi si scopre Marinetti/che divora gli spaghetti.!”
Ma Giuseppe Prezzolini (1882-1982) nel suo saggio Maccheroni &C., Rusconi, (Milano 1998) ribatte: L'opera di Dante è il prodotto di un singolare uomo di genio, mentre gli spaghetti sono l'espressione del genio collettivo del popolo italiano. Gli spaghetti hanno diritto di appartenere alla civiltà italica come e più di Dantes.
Una vivace pennellata sulla passione dei siciliani per i maccaroni ce la dà Vitaliano Brancati ne I piaceri: «Erano lenti e misurati, e nel masticare portavano sempre il medesimo passo come l'esperto alpinista in una lunga scalata. Quando erano alla frutta, uno di loro alzava la testa dal monte di bucce, che riempiva il suo piatto, e sospirava: "I maccherroni al forno!". "Si." diceva l'altro, "nemmemo se mi dessero un milione, tornerei a mangiare le lasagne, ma un piatto di maccheroni al forno sarebbe un'altra cosa!". L'ospite batteva le mani, e faceva spuntare i maccheroni al forno. "Che sorpresa, che lieta sorpresa!" gridavano i due, lasciando a metà la decima pesca. "Via, questo piatto!"
Con i Siciliani la pasta emigrò in tutti i continenti divenendo in meno di un secolo un alimento globale. Nel 2000 I'UNESCO ha incluso la pasta tra i patrimoni immateriali dell'umanità. Nel 2015 la pasta entrò da protagonista all'Exposizione Universale di Milano dove è sta celebrata la Giornata Mondiale dell Pasta (World Pasta Day).
Prof. Gino Schilirò ________ Fonte: SPIGOLATURE STORICHE SULLA CUCINA DI SICILIA – Gino Schilirò – Aracne editrice 2019. E sclusiva concessione del Prof. Schilirò per mimmorapisarda.it. Pertanto, si consiglia di non attuare opere di sciacallaggio omettendo la fonte.
Agnolotti siciliani Si tratta di una pasta farcita di forma quadrata o rettangolare, il cui ripieno è normalmente costituito da ricotta, salsiccia, salvia e cannella. Anelli Piccoli anelli di pasta di semola di grano duro, utilizzati soprattutto nella preparazione di timballi e pasticci da forno. I condimenti maggiormente utilizzati per questo tipo di pasta sono i ragù di carne arricchiti di formaggio, in particolare di caciocavallo e i sughi di melanzana, sempre con l’aggiunta di dadini di formaggio locale. Sono preparati con semola di grano duro e acqua e normalmente trafilati al bronzo. Una vera specialità siciliana, ottimi per le paste al forno, come vuole la tradizione isolana. Cannaruzzini I comuni rigatoni, in Sicilia prendono il nome di cannaruzzuni. Questo tipo di pasta era tradizionalmente utilizzata nei matrimoni che si festeggiavano in casa, anche in questo caso sotto forma di timballo di carne macinata, uova sode, sugo, pepe nero, peperoncino piccante. Catanesella E’ un maccherone grosso e corto, tipico di Catania, anche questo impiegato soprattutto nella preparazione dei timballi. Capiddu d’ancilu Il nome significa “capello d’angelo” o capelvenere. A Catania "Scuma (schiuma)". Si tratta quindi di spaghettini finissimi spezzettati, da servire in brodo o con un sugo molto leggero e possibilmente semplice. Con questo tipo di pasta viene preparata la scuma cc’u meli, la spuma con il miele, dolce dal gusto particolarmente delicato. Cuscusu Come è facile intuire si tratta del classico cous cous arabo. Viene realizzato facendo piccole palline di farina di semola ed acqua, che vengono preparate in un apposito contenitore detto mafaradda, dove la semola viene lavorata con le mani in senso rotatorio, bagnandola con acqua salata fino a quando non prendere la forma di piccolissimi grani. In un secondo momento viene condita con un filo d’olio d’oliva e quindi messa ad essiccare su un canovaccio. Il Cuscusu viene cucinato a vapore, con un recipiente particolare, la cuscusera, e subisce diverse cotture, prima di essere condito. Normalmente si condisce con verdure e aromi, ma nelle zone in cui è particolarmente diffuso, come il Trapanese, costituisce la base per la zuppa di pesce o viene portato in tavola con carne di agnello, di maiale, fave e finocchietto selvatico, di cui in Sicilia si fa ampio utilizzo. Ditalini E’ un tipo di pasta corta, cilindrica, rigata o liscia, tipica della tradizione popolare siciliana. Viene normalmente condita con preparazioni semplici. In certi casi solo con ricotta fresca stemperata in qualche cucchiaio dell’acqua di cottura o con i broccoli, a cui vengono aggiunti uva sultanina, pinoli, caciocavallo o pecorino. Filatu E’ una sorta di vermicello tirato a mano. Il nome infatti deriva dall’atto di filare l’impasto di semola o di farina di grano duro, uova e zafferano. Lasagne cacate Piatto tipico del periodo natalizio, diffuso principalmente nell'area di Modica in provincia di Ragusa, ma molto noto anche nella Sicilia occidentale. La tradizione vuole che la ricetta di queste lasagne sia stata elaborata durante il dominio aragonese. Il nome si riferisce ironicamente al fatto che un tempo il loro consumo era riservato esclusivamente alla nobiltà. “Cacato” sta infatti ancora oggi per persona un po’ snob. Si tratta di lasagne all’uovo, larghe, con il bordo arricciato, condite con ragù ricchi e corposi, a base di carne, ricotta e altri formaggi. Gli ingredienti della ricetta classica prevedono uova intere, di ragù di salsiccia e cotenna di maiale, pomodoro, ricotta fresca, pecorino grattugiato, sale e pepe. Maccaruna I Maccaruna, o Maccarruna, fatti in casa, sono una tipica pasta siciliana. Il termine indica diversi tipi di pasta, tutti preparati secondo l’uso tradizionale del ferretto. La tradizione vuole che la pasta non manchi per Carnevale, sulle tavole dei siciliani. E la pasta favorita sono proprio li maccaruna dí zitu a stufato o cu lu sucu di carne di maiale, immancabile per li sdírri, come per Sammartino- per cui si dice ad ogní porcu veni lu sò Carnílivari. Nel trapanese i maccheroni si chiamano Busiati. In questo caso l’impasto è reso senza uova e il condimento tradizionale è costituito dal noto pesto alla trapanese, a base di pomodori, mandorle, aglio, basilico e pangrattato. Le origini di questa pasta si perdono nel tempo. Se ne trova una ricetta nel Liber de arte coquinaria, scritto dal cuoco Maestro Martino vissuto attorno alla metà del XV secolo. L’impasto è preparato con farina di grano duro, sale, uova (sebbene alcune ricette non ne prevedano l’uso) e acqua tiepida. Da questa si ricavano bastoncini dello spessore di un grissino e della lunghezza di 20 cm circa. I bastoncini vengono poi lavorati per l’ottenimento dei maccheroni, premendo gli spiedi sulla pasta. A questo punto vengono sfilati e lasciati essiccare all’aria aperta. In questo caso l’abilità della massaia, soprattutto in tempi andati, si misurava sul numero di maccheroni che era capace di preparare per volta. Maccu di granu Si tratta di una particolare tipologia di pasta che ricorda il Cuscusu. Viene infatti reso da frumento macinato, dapprima grossolanamente tra due sassi e in un secondo momento lessato in acqua salata e condito con olio, sale, pepe e finocchietto selvatico, particolarmente utilizzato nella cucina isolana. In tempo di guerra, questo piatto rappresentava una pietanza comune e diffusa, in molti casi consumata anche in sostituzione di pane e pasta. Scialbò Altra tipologia di lasagne con i bordi arricciati, nota anche come Reginella. Tipica della zona centrale della Sicilia, ed in particolare di Enna, prende il nome dal francesismo con cui si indicava la ruche di ornamento delle vesti femminili. La ricetta del condimento di queste lasagne è caratterizzata da una miscela di sapori che rimanda alle tradizioni della grande cucina nobiliare siciliana: ragù di carne tritata, cipolla, pomodoro, insieme a zucchero, cannella e cioccolato. Taccuna di mulinu E’ il nome che prendono le lasagne fatte in casa nel siracusano, in particolare a Noto. La loro particolarità è nell'impasto, che deve 'ncutugnári, cioè essere lavorato sino ad assumere la forma e la consistenza voluta. Dalle sfoglie che se ne ricavano si fanno dei rotoli che vengono tagliati con un coltello e poi distesi ad asciugare all'ombra e al fresco, per almeno 2 ore. Taccúna deriva con tutta probabilità da táccu, la stecca del biliardo così chiamata dagli spagnoli e quindi, per somiglianza alle lunghe strisce di pasta, sottili ed eleganti. Queste grossolane tagliatelle sono condite solitamente con un sugo di pomodoro al quale vengono aggiunte melanzane fritte e un’abbondante spolverata di ricotta salata. Tagghiarina Anche in questo caso si tratta di tagliatelle dalla sfoglia piuttosto spessa, ma non tipicamente isolane. Si servono condite con sughi vari, sebbene il più utilizzato in Sicilia sia quello con le fave. http://www.lapastaebasta.it/content.php?id=20
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