Invitare a cena un catanese : 5 cose che non dovete arrisicarvi a fare

Silvia Trigilio 22/10/15

 

Avvezzo al mare e solito alla montagna (etnea, s’intende), imbattibile venditore, essere dotato di indubbio fascino, inconfutabile ingegno, raro senso artistico, invidiabile loquela, insuperabile nella produzione di supercazzole di sicuro effetto e freddure che vi lasceranno disarmati.

Il catanese eccelle in tutto (persino in modestia), perché il suo DNA possiede un gene su cui gli scienziati non sono ancora riusciti a pronunciarsi e che dunque manca di una vera e propria denominazione scientifica: quello che gli permette di cascari sempri a ditta, ovvero, cavarsela in ogni situazione, risultando peraltro oltremodo simpatico.

Se decidete di invitare a cena un catanese, quindi, dovete essere preparati: siete tenuti a conoscere per filo e per segno le 5 cose che non vi dovete arrisicare (azzardare) a dire o a fare.  Menza parola…’mbare!

 

1.  I convenevoli, “picchì su i maccarruni c’allinchiunu a panza”

A differenza di quanto detto a proposito del pescarese, il catanese non è interessato alla cura dei dettagli e non presta attenzione ai convenevoli. Il suo pragmatismo lo porta a badare alla sostanza piuttosto che alla forma, picchì a chiacchiera è bella, ma su’ i maccarruni c’allinchiunu a panza (la chiacchiera è bella, d’accordo, ma è con i maccheroni che ci si sazia…), quindi prendete il detto alla lettera: piatti abbondanti. Anche perché Egli possiede due caratteristiche che riescono a farvi innamorare di lui per essendo letali alla vostra sensibilità: può ironizzare su tutto con un tempismo e una fantasia linguistica schiacciante, e non ha peli sulla lingua, quindi siate vigili, accura.

La cosa più carina e premurosa che potrebbe dirvi, di fronte ad una parca portata, è “’Mbare, nun c’era mancu bisognu c’alluddavi u piattu” (amico, compagno, fratello, stando così le cose potevi evitare di sporcate il piatto).

 

2. Mai dire Calcio Catania

Ogni volta che un catanese mette al mondo un altro catanese, insieme al gene della catanesità, gli trasmette delle verità inconfutabili che nessuno mai si sognerebbe si sfidare:

1. Sant’Agata, Santa Patrona della città 

2. Catania Calcio (che resti fra noi, l’ordine di priorità è inverso).

Quindi (ancora una volta) accura: il calcio è sempre un buon argomento per rompere il ghiaccio durante una cena, ma non con un catanese, non in questo periodo. Perché non sarebbe carino da parte vostra rigirare il coltello nella piaga e perché potreste fare le quattro del mattino e andare a letto con in testa l’eco di un nome, che ai rossazzurri fa ormai lo stesso effetto della parola “Palermo”: Pulvirenti.

 

3. Menù vegetariano: “Ah cchi ti paru ‘na capra?”

E con questo non vogliamo dire che la sensibilità vegana e vegetariana non abbia toccato la città etnea, anzi. Ma sopravvive con forza una compagine autentica, ancorata alla tradizione del territorio  e alla sua storia, che tutela con rigore uno stendardo dell’identità: a puppetta ‘i cavaddu. E la polpetta di cavallo, badate bene, non va considerata un piatto tipico, ma un obbligo etico e morale, un simbolo che parla della città quanto il Liotro che sovrasta la Piazza del Duomo e l’Etna che si staglia in tutta la sua maestosità contro il cielo e dietro i palazzi di una via Etnea percorsa da bravi chistiani e mammoriani.

Il panino con la carne di cavallo è un rito che un catanese deve periodicamente rispettare, preferibilmente compiendo un pellegrinaggio da Achille, in via Plebiscito, o ‘na ‘za Paola, nei pressi del Castello Ursino.

Per concludere: prima di rischiare di perdere la sua amicizia proponendogli un menù vegetariano, assicuratevi che abbia realmente abbracciato questa filosofia di vita, o vi sentirete probabilmente dire “Evva?! A chi ti pari ca sugni na capra?”

 

4. Non bestemmiare: la parmigiana dev’essere bella ‘nsivata

Se volete fare i salutisti di fronte ad una parmigiana, livatici manu: la parmigiana, dev’essere bella ‘nsivata (unta a dovere).  Quindi niente melanzane arrostite ma rigorosamente fritte perché sarebbe una bestemmia culinaria insostenibile. Insostenibile quanto chiamare l’arancino “arancina”: a Catania  è peccato mortale, lo sapevate no?

 

 5. Non ti offendere ‘mbare: “sapi bello, ma u miu sapi ancora chiù bello”

A questo punto, avete deciso di inserire nel vostro menù il vostro cavallo di battaglia (no, stavolta la polpetta non c’entra) sperando che il catanese si pieghi al complimento? Ma allora siete veramente ‘ntonteri! Noneeee!!! Perché anche se avete vinto il “bastaddu affucatu award” (ipotetico premio per il miglior cavolfiore viola affogato, che a Catania viene denominato, per l’appunto, bastaddu), il catanese porterà la forchetta alla bocca esternando piacere e soddisfazione, vi farà dei gran complimenti, vi chiederà cosa ci mettete e “quantu ‘u lassasti ‘ndo focu, u bastaddu?”. È a quel punto, quando penserete di avercela fatta, quando sarete convinti di avergli strappato la vittoria, che lui vi colpirà alle spalle con un : “Bello sapi ‘mbare, bello pi daveru, ma nun t’affenniri, chiddu da me campagna sapi ancora ‘chiù bello!” (E’ squisito, squisito davvero, amico mio, ma senza offesa, gli ortaggi delle mie terre hanno un gusto superiore).

Perché di qualunque cosa si tratti, il catanese sa farla meglio, anzi, come dice Mattia Serpotta, illustre studioso di catanesità, “Se un inglese non sa fare qualcosa, si ferma e impara. Se un catanese non sa fare qualcosa, si ferma e te la spiega”.

 

Infine, un monito, un suggerimento, un consiglio: se volete penetrare l’animo del catanese fino in fondo, dovete imparare a leggere bene tra le righe, sviscerare le metafore e stare dentro la sua ironia. E se c’è un modo per farlo, è capire che per un catanese, tra il dire e il fare, c’è di mezzo un ‘mbare, con tutto l’universo di significati che questa parola racchiude e che un catanese ha saputo spiegare in modo ineguagliabile in un suo post.

A te che hai deciso di invitare a cena un catanese, buon appetito, ‘mbare.

 

Autore: Eugenio Schininà

http://www.ilgiornaledelcibo.it/invitare-a-cena-un-catanese-cose-da-non-fare/

 

 

ALCUNI PROVERBI SICILIANI SUL CIBO

 

Pani e vinu rinforza ‘u schino

(pane e vino rinforzano la schiena)

 

Furmaggiu, pira e pani, non è cibu di viddani

( formaggio pere e pane sono cibo di contadini )

 

Lu bonu vinu, fa bonu sangu

( buon vino fa buon sangue)

 

Trigghi, sardi e masculini di Jnnaru e opi di Marzu

( triglie, sarde ed alici a Gennaio ope a Marzo )

 

Lu cafè santiannu e u ciucculatu ripusannu

( il caffe caldissimo la cioccolata riposata )

 

Metti lu pani a li denti ca la fami si senti

( metti il pane fra i denti che la fame si sente )

 

Risu, m’accalu e non mi isu

( il riso considerato poco energetico fa abbassare ma non ti da la forza di rialzarti )

 

Vinu vecchiu e ogghiu novu

( consuma vino invecchiato ed olio nuovo )

 

Cu mangia vavalaggi caca corna e cu mangia carrubbi caca ligna

( tutto dipende dalla qualità della materia prima che si usa )

 

Lassa chi mangiari e non chi fari

( lascia da mangiare ma mai ciò che devi fare )

 

Quannu c’è broru assai minuzza pani, accussi si fannu li scialati boni

( a tanto brodo aggiungi pane e ti sazierai )

 

Falla comu la voi sempri è cocuzza

( Cucinala come vuoi sempre zucca rimane )

 

Diu manna ‘u viscottu a cu non havi denti

( Dio è generoso con chi non può usufruirne )

 

Di lu voscu ‘na bedda faciana, di lu mari ‘na bella murina, di lu ciumi ‘n’ancidda di tana, di la jiaggia ‘na bedda jiaddina

( da ogni zona la sua preda: dal bosco un fagiano, dal mare una murena, dal fiume un anguilla e dal pollaio una gallina )

 

A tavula ci voli facci di monicu

( a tavola ci vuole faccia da monaco ossia mai vergogna )

 

Tri sunu li boni muccuni: ficu, pessica e muluni

( tre sono i buoni bocconi: fichi, pesche e meloni )

 

 

 

 

 

Solo l'immaginazione oggi può riprodurre le ricette di Vincent La Chapelle, cuoco francese famoso per il servizio prestato alle dipendenze di Lord Chesterfield sino al 1732 e poi del principe Guglielmo d'Orange.

Fu autore di un ricettario ricco di preparazioni complicate e di ingredienti non solo costosi ma, ormai, inottenibili: dove procurarsi, avendo i soldi, cinquanta lingue di canard o d'oca per preparare degli entremets da servire caldi?

La raffinatezza esula dal nostro secolo. Nessuno potrebbe mai presentare un autentico pranzo proprio così come lo concepivano e gustavano le élites del XVIII secolo, ma alcune fra le ricette di La Chapelle sono oggi riproponibili, ed una di queste è la "entrèe de pommes d'amour".

Barbara Keatcham Wheaton ne riferisce con qualche imbarazzo la preparazione dicendo che di norma se ne servono due per piatto, e sono "delle collinette di carni bianche messe su a forma di seni e serviti caldi", e che il realismo era spinto sino alla imitazione dei capezzoli col prosciutto ed alla utilizzazione della pelle d'un tenero maialino di latte.

La Chapelle assicurava che facevano bella figura, e ne proponeva una variante a base di pesce da servire nei giorni di magro.

Dovette arridergli successo perché lo si è ritrovato in tanti menus sebbene – tiene a dire la Keatcham Weaton – "questa cruda allusione al martirio di Sant' Agata non sia ritenuta di gusto da tutti".

 

 

 

L'imitazione sorprendente a tavola è praticata da millenni. Il primo esempio che viene in mente per noi è quello legato alle paste alimentari, a cominciare dal "fari 'na pampina di pasta" e fino a tutte le fogge che se ne manipolano.

Essendo vegetariano, Empedocle offrì in sacrificio un bue di pasta di mandorla; a Serse fu servito del pesce ottenuto abilmente sagomando delle carote; Ateneo riferisce di un cuoco che ad Atene apparecchiò "carne salata alla maniera del pesce salato", cosa assurda perché la carne costava più del pesce; per non dire delle mille e mille surprises della cena di Trimalcione.

Idoli di pane si trovano segnalati, all'epoca di Carlo Magno e Pipino, nello "Indiculus superstitionum et paganiarum". Ma sempre Ateneo riferisce un passo di Sosibio che nel suo saggio su Alcmane dice che si chiamano "kribanai" dei soffici panetti dalla forma di mammella.

Nel commento alla edizione datane dalla Salerno si apprende che queste brioches venivano consumate in occasione di banchetti rituali organizzati a Sparta dalle donne allorché veniva intonato un canto per celebrare una "Vergine", nella quale alcuni hanno voluto riconoscere Artemide.

Singolare testimonianza, se si considera l'analogia, almeno nella foggia, con un dolce monacale che qualche pasticciere ancora oggi ripropone. A farne a Catania erano gli Amato : nel loro catalogo del 1859 offrivano "Paste di Miele dette minne di Vergine" ma non più in quello del 1906.

Meno singolare apparirà ciò a chi ricorda che Artemide era venerata quale protettrice delle ragazze e che ex-voto raffiguranti seni e vulve sono stati trovati nel santuario di Artemide Kalliste, e da chi sa che anche a Mineo c'è l'Arcudìa, la "grotta dell'orsa", legata a misteriose riunioni femminili.

Un anonimo messinese F. R. D., un "gulutu" che viveva nel 1857 a Palermo, celebrando le produzioni dolciarie dei monasteri palermitani ne canta in una ottava che inizia con questi versi: "Di li Virgini poi li beddi minni / quanto eccellenti su, tutti lu sannu" e che è chiusa dal distico "Biniditta la mamma chi li vinni / biniditti ddi manu chi li fannu".

Un analogo componimento, stampato anonimo a Palermo in quegli stessi anni, è reticente perché si autocensura elogiando "li beddi pastizzotti… vuccuni di suli Cavaleri, /e cu' li tasta poi ci torna arreri".

A parlarne in uno scritto che celebra la vita a Palermo nel '700 è poi Pitré che testualmente scrive: "In tutto l'anno tenevansi in alta fama le suore del monastero delle Vergini con le impareggiabili loro "sussameli" e, meglio, con certi loro pasticci, il nome de' quali, "minni d'i Virgini" (mammelle di vergine) si presta ancora oggi ad un bizzarro, e un po' salace bisticcio".

Nell'ultimo monastero a produrre e vendere dolci rimasto a Palermo per tutti gli anni '60 del secolo scorso, "e Virgini" – com' era inteso – si potevano acquistare conchiglie e pastizzotti che, privi di liffia e poco più grandi di un bocconotto, non suscitavano associazione indecente alcuna nella maggior parte degli acquirenti. E mentre nell' attesa si rifletteva, e si stabiliva un dialogo intimo che non sfiorava mai l'indiscrezione, la amabile modestia con la quale ti accoglievano da dietro la grata e te li porgevano attraverso la ruota, persuadeva che si trattava non di induzione tentatrice ai vari peccati della Gola ma di antico exemplum convincente, bonaria lezione salutare ad edificazione.

Senza che sapessero del rito delle donne spartane, e senza che riflettessero sul messaggio recondito, subliminale, di tali simboli archetipici di identità femminile, nel pestare mandorle e zucchero nei mortai sino allo sfinimento e nel manipolare quei pastizzotti e quelle conchiglie con amore, e segnando i tempi di lievitazione e di cottura col recitare paternostri o credi, esse dovevano essere convinte della forza di tale catechesi che, sbocconcellata, andava dritta al cuore per quel di mistico e di misterioso che ogni pezzo racchiudeva e che ci fa, quindi, ricordare dei milloi che a Enna era devozione mangiare in occasione della festa di Demetra e, pur restando evidenti le intenzioni devote, fa escludere che tali dolci corrispondano agli apparati concettuali della Controriforma.

E' ipotesi plausibile che a La Chapelle se non da "esprit mal tourné" l'idea sia venuta da dolci analoghi a quelli siciliani manipolati da monache francesi.

Chiaro, se non esplicito, era quel messaggio, servito sui piatti nel secolo libertino, quando il cibo era mezzo di seduzione, per la atmosfera di intimità, pei piaceri che si gustano, per l'attesa di voluttà destata.

Legami sottili ci fanno conoscere eterne rappresentazioni dei valori di Verità e Devozione sempre presenti nel nostro quotidiano.

(Carmelo Spadaro di Passanitello)

 

 

 

 

  • Per eliminare i cattivi odori rimasti nel forno, dopo averlo pulito, cuocetevi alcune bucce d'arancia a 180°C.

  • Se la torta raffreddata resta attaccata alla teglia, rimettetela nel forno caldo per qualche minuto.

  • Molte ricette consigliano di aggiungere il prezzemolo solo a fine cottura. In effetti, a contatto con il calore perde sapore e colore. Perciò è opportuno metterne una parte durante la cottura e il resto alla fine: magari mescolato a un poco di aglio tritato.

  • Per evitare che i piselli, dopo la cottura, perdano il bel colore verde e appaiano spenti e sbiaditi, aggiungete un poco di zucchero all'acqua.

  • Non digerite la peperonata? Provate ad aggiungere alla salsa di pomodoro un cucchiaino di zucchero.

  • E' curioso, ma per regalare un pizzico di sapore in più alle preparazioni basta unire un poco di zucchero alle vivande salate e un poco di sale a quelle dolci.

  • L'uovo in frigorifero va conservato, con la parte piccola verso il basso. La sua freschezza si riconosce dal fatto che, se immerso in acqua fredda, non resta a galla e una volta aperto nel piatto si presenta tondo e duro nel tuorlo e denso nell'albume.

  • Prima di cucinare le uova, ricordarsi che non bisogna cuocerle subito dopo averle tolte dal frigorifero. Per farle rendere al meglio, bisogna lasciarle per qualche minuto a temperatura ambiente.

  • Il modo migliore per sgusciare bene un uovo sodo? Rotolatelo sul tavolo con il palmo della mano, la sua superficie si sgretolerà, e il guscio si staccherà facilmente.

  • Volete l'insalata croccante? Mettetela il un recipiente con acqua e ghiaccio per qualche minuto. Scolatela e asciugatela con delicatezza, poco prima di condirla.  

  • Le mele dureranno più a lungo, se li sistemate con il picciolo rivolto verso il basso, un altro suggerimento: evitate di tenerle insieme con altra frutta.

  • Se dovete usare il cioccolato per i dolci, mettetelo in frigorifero. Il freddo lo rende duro, e sarà più facile spezzarlo o grattugiarlo.

  • Per cuocere bene una pizza, ungete la teglia con un filo d'olio. Non usate sulla teglia la carta da forno o il foglio di alluminio, perché con il calore a 200° la carta si brucia, e il foglio di alluminio tende ad attaccarsi.

  • Le bistecche diventeranno più morbide, se le lasciate immerse in un composto di olio e aceto, per 2 ore circa, girandole di tanto in tanto.

  • Per mantenere il basilico intatto e fresco almeno per un paio di giorni, non mettetelo in frigorifero perchè va a male, ma immergete il suo gambo in un recipiente pieno d'acqua.

  • Se immergete una monetina di rame (c'è ne sempre qualcuna in casa), nell'acqua del vaso dei fiori freschi, questi si manterranno freschi molto di più.

  • Per impedire che l'aglio germogli, mettetelo in un contenitore, dopo averlo diviso a spicchi e copritelo con del sale grosso da cucina.

  • Per fare risplendere la vostra caffettiera d'alluminio, strofinatela con sale fino e aceto per qualche minuto. Il risultato è assicurato.

  • Per evitare che i bottini si stacchino, cuciteli con il filo di seta.

  • Per far sparire l'odore del melone dal frigorifero, mettetegli dentro per una notte, una patata sbucciata tagliata a metà.

  • Per pulire le superfici di vetro senza lasciare tracce, mescolate 1 litro d'acqua e un tappo di ammorbidente liquido.

http://www.grifasi-sicilia.com/piccolisegretiincucina.htm

 

 

 

 

 

 

Segreti e curiosita' sulla cucina siciliana

 

 

Un viaggio nelle curiosità della cucina siciliana, è una sorta di navigazione nei percorsi formatisi nel corso dei secoli in un patrimonio alimentare unico in Italia.

Spaghetti, maccheroni, vermicelli, a giudicare da quanto ci tramanda un vecchio documento conservato al Museo Nazionale della paste alimentari di Roma, nascono intorno all'anno 1000, a Trabia in provincia di Palermo. Da qui la pasta, fatta essiccare al sole della Sicilia, veniva spedita nei paesi mussulmani. La fantasia dei Siciliani nel condire la pastasciutta è ormai nota in tutto il mondo; sono infatti innumerevoli le varietà di sughi e salse che concorrono alle varie preparazioni ottenendo intingoli da carni, pesci, verdure, frutti di mare, uova e formaggi.

Nel Cinquecento in Italia la pasta era considerata una stranezza o un lusso. Facevano eccezione i Siciliani chiamati già allora "mangiamaccheroni". La maggior parte della pastasciutte siciliane sono sempre arricchite con altri ingredienti che la fanno diventare un sostanzioso piatto unico. Il motivo di questa caratteristica è da ricercare nel fatto che una volta la pasta asciutta rappresentava la sola portata del pasto della maggior parte degli abitanti dell'Isola.

Forse in nessuna regione d'Italia come la Sicilia gli ortaggi occupano un posto così importante in cucina.

E' stato il regno vegetale per molto tempo a fornire alle classi popolari il cibo principale per la loro alimentazione quotidiana. Le donne Siciliane poi con la loro creatività arricchivano questi ortaggi con fantasiose modifiche che contribuivano a far diventare la preparazione un piatto da servire come portata unica.

Il pesce spada viene pescato nei mesi da aprile a settembre quando, seguendo dalla notte dei tempi lo stesso itinerario, giunge a gruppi nel mare Mediterraneo dal mar dei Sargassi e attraversa lo stretto di Messina.

Nella Valle del Belice, si produce un formaggio pressoché unico nel suo genere. Il suo nome è "vastedda" (nel dialetto siciliano è il termine con cui si indica una forma di pane) deriva dalla sua forma rotonda (20 / 25 cm di diametro) e di forma schiacciata, con il bordo molto convesso, e si tratta di un formaggio ottenuto dal latte intero della pecora della Valle del Belice.

La "vastedda" è un formaggio fresco che viene prodotto tutto l'anno ma che dà il meglio di sé solo nel periodo estivo perché solo in questa stagione il latte prodotto da questi animali è ai massimi livelli di aromaticità è dì presenza dei ,componenti che consentono la fermentazione.

La peculiarità della "vastedda" è la lavorazione a pasta filata, rarissima nei formaggi di latte ovino, in quanto la caseina del latte di pecora non facilita la filatura.

Crispeddi o Fritteddi (Frittelle) Le frittelle in Sicilia, sono tradizionali nel periodo Natalizio, in alcune zone vengono preparate per S. Giuseppe (19 marzo) e per S. Martino (11 Novembre). In altre zone si preparano per tutte due le Festività, oppure per tutto l'anno. 

Caciu all'Argentera Questo formaggio, prende il nome da un argentiere fallito. Questi non potendo comprare la carne, perchè costava molto, si mise a preparare questo formaggio, perchè il suo odore gli ricordava le buone pietanze a base di carne. Vastiedda Ragusana Nella zona di Ragusa si differenzia nella forma a ruota, nel suo impasto vengono mescolati semi sambuco. Esso è caratteristico nella Festa di Pentacoste; la tradizione popolare gli attribuisce valore propiziatorio

e quindi esso viene consumato in grande quantità. 

Salmoriglio. Il nome "Salmoriglio" proviene da "Salamoia". E' una tipica salsa siciliana con la quale si condiscono tutte le carni ed i pesci arrostiti; in Sicilia per "arrostire" si intende solo la cottura alla brace. La salsa viene spalmata sui cibi prima, durante e dopo la cottura. 

Miele di Ferula. A Sortino si produce il miele di Ferula, tra i più buoni d'Italia. Il suo nome deriva dal legno di cui sono fatte le arnie.

Cuccìa. L'origine di questo piatto e araba. E' tradizionale per il giorno S. Lucia (13 dicembre), il suo uso è propiziatorio. La leggenda narra che a causa di una tremenda carestia il popolo stava morendo di fame, quando all'improvviso arrivò nel porto di Palermo una nave carica di frumento, era il 13 dicembre............

La "Scacciata" è tipica del Catanese; il ripieno però varia da luogo a luogo ed anche il nome della focaccia cambia secondo la forma. Infatti se è rettangolare, bassa e schiacciata viene detta "scaccia" o "scaccetta"; se è rotonda e cotta in una tortiera perchè ben gonfia e ricca "'mpanata". Il ripieno è in genere semplice, ma può essere più o meno elaborato. Si hanno scacce con ricotta e pezzetti di salciccia fresca; scacce con prezzemolo tritato grosso e pezzetti di alici salate; scacce con pomodoro e cipolla soffritta; ed ancora 'mpanate con cavolfiori ed olive nere; "'mpanate" di agnello e patate; "'mpanate" di palombo e pomodoro. Sono tutte preparazioni cotte entro una "crosta" di pasta di pane il cui ripieno può essere crudo o parzialmente precotto. 

Sfinciuni. E' un piatto di antica tradizione siciliana e con alcune variazioni assume nomi diversi, come "sciavazza" o "sciaguazza". Uno "Sfinciuni" famoso veniva preparato dalle suore del Monastero di San Vito a Palermo e viene tuttora chiamato "sfinciuni di Santu Vitu". In molte famiglie legate alla tradizione culinaria viene preparato lo "sfinciuni" che si differenzia per la giunta abbondante di salciccia fresca e più formaggio; si ricopre con un'altra sfoglia prima di passarlo in forno. E' una portata assai nota anche nel napoletano tant'è che molti ritengono che sia una specialità campana. 

Gnocchi. Nel ragusano li chiamano "gnucchitti" e vengono conditi con sugo di pomodoro o di carne, e pecorino, costituendo una specialità locale, nel trapanese "gnucchitieddi"; in altre zone li chiamano anche "cavati", "cavatieddi", "cavatuna" ("cavato" da "incavato" per la forma schiacciata): Spesso vengono confezionati non solo a forma di conghigliette, ma schiacciati col pollice su una grattugia, o su un "pettine", in modo che all'esterno rimanga impressa in superfice l'impronta con la relativa rigatura. Gli "gnocculi busiati" del marsalese e di Erice non sono che i "maccaruna di casa". 

Cincina (pesce) Questi piccolissimi pesciolini, molto graditi ai Siciliani, assumono in Sicilia diversi nomi a seconda del luogo in cui vengono pescati. A Catania, vengono chiamati "nunnata" o "muccu"; a Messina, "mazzulara" oppure "maiaticu"; a Trapani "sparacataci"; in altre località "russuliddu". 

Pasta "Incasciata" Nel Dialetto "Incasciata" significa incassata, cioè sistemata nella cassa, dello stampo; alcuni, confondendola con altre specialità dell'agrigentino, la chiamano "incaciata" per la funzione legante dell'abbondante formaggio impiegato. 

Giuggiulèna (Torrone di Sesamo) Torrone del periodo natalizio, fatto con l'aggiunta di semi di Sesamo. In alcune zone viene chiamato con il nome "Giuggiulèna", o "Giurgiulena", dall'arabo "Giulgiulàn", in altre zone viene chiamato "Cubbaita", dall'arabo "Qubbiat" Giuggiulèna (Nougat of Sesamo)

Mustazzola.Il nome "Mustazzola", era già noto nel XV secolo, ed è oggi registrato come uno dei vocaboli più antichi siciliani. 

Cùscusu

Il "Cùscusu" è un piatto di provenienza araba, assai popolare nella Sicilia occidentale e nelle isole vicine. Cùscusu

Sarde a "beccaficu". Il Beccafico è un uccello che si nutre di fichi; molto grasso e gustosissimo, si cattura preferibilmente tra luglio e settembre, e si prepara ben farcito e guarnito. Le sarde prendono il nome "a beccaficu", perchè sono molto appetitose e grasse come l'omonimo uccello. "

Le Melanzane, che sono originarie dell'India, sono molto usate nella gastronomia siciliana, - fino al 1400 furono considerate velenose. Sembra che la loro commestibilità.

sia stata decretata dai frati Carmelitani Siciliani, che dopo averle cucinate, le fecero conoscere fuori dai loro Conventi. Oggi vengono preparate e cucinate in svariati modi; dalle Melanzane alla Parmigiana, (il termine deriva dal tipo di Melanzana coltivata in Sicilia; ( la Petronciana ). Alla "Caponata", imbottite, ripiene di formaggio, acciughe e capperi e cotte al forno. "A quaglie", specialità palermitana, e altre ancora. Melanzana (Eggplant)

Cannoli. Secondo la tradizione Siciliana, i Cannoli vengono regalati alle famiglie amiche, e il loro numero non deve essere meno di dodici.

Cuddura. La caratteristica di questo dolce siciliano, e quella di preparare della pasta di pane più o meno dolce, al cui interno vanno sistemate delle uova sode col guscio. Altri nomi che viene chiamato: "panarieddi ccu l'ova" "cudduredda", "campanaru", "aceddu ccù l'ova", "ciciliu", "palummeddi". Cuddura

Da Le ricette di casa Grifasi - I dolci Siciliani - Ricette di Natale

http://www.grifasi-sicilia.com/curiositacucinasiciliana.htm

 

 

Come riconoscere il pesce fresco? 

Intervista al dott. Omiccioli

Le numerose ricette che riceviamo dai lettori e le centinaia che vengono stampate dal nostro portale sono l’ulteriore conferma dell’aumentato interesse per la gastronomia. Sempre più spesso la redazione riceve mail dai lettori che cimentandosi in cucina con il pesce ci scrivono per sapere come fare a riconoscere il pesce fresco. Del resto per la buona riuscita di qualsiasi ricetta dalla più semplice alla più elaborata la freschezza del pesce è fondamentale.
A questo proposito abbiamo intervistato uno dei nostri collaboratori, il dott. Omiccioli al quale abbiamo chiesto di svelarci i segreti per riconoscere il pesce fresco.

Dott. Omiccioli, che indicazioni può dare ai nostri lettori per riconoscere il pesce fresco?
Non è così difficile come sembra riconoscere il pesce fresco…. direi che è molto più difficile pulirlo e cucinarlo!
Mi capita spesso di dover spiegare come scegliere il pesce e non manco mai di dire che il pesce va scelto con 3 sensi. Partiamo innanzitutto con l’odorato.
Il pesce fresco deve avere un odore tenue e salmastro deve insomma ricordare la salsedine. Ricordate che il pesce quando è fresco non ‘puzza’ ma, diciamo così, profuma di mare.
Veniamo alla vista. Prima di comprare osservate bene gli occhi che devono essere vivi e in fuori con la cornea trasparente e lucida. E quindi mi raccomando…. non comprate mai pesci privi degli occhi o della testa! Sempre parlando di occhi volevo sottolineare che a questa regola fanno eccezione i bivalvi che se freschi hanno gli occhi chiusi.
Il pesce fresco deve, inoltre, avere un colore iridescente, quasi metallico. Le branchie devono avere un colore rosso o rosaceo e devono essere umide. Le scaglie, tranne che per alcuni pesci come ad esempio i cefali le cui scaglie si staccano facilmente anche quando è fresco, devono essere brillanti e aderire al corpo che deve essere rigido o arcuato. Le costole e colonna, poi, devono essere aderenti alla parete addominale e ai muscoli dorsali.
Ma veniamo al tatto. Innanzitutto il pesce, se fresco, ha una carne soda ed elastica. Per verificarlo provate a premere sul pesce con un dito, se levandolo rimane l’impronta significa che non è fresco. Il corpo, inoltre, deve essere rigido e mettendolo in verticale non deve afflosciarsi. Se messo in acqua, poi, deve affondare.

Le stesse regole valgono anche per i molluschi?
No, ci sono delle differenze. Per esempio, i molluschi cefalopodi come le seppie, a differenza degli altri pesci, devono avere gli occhi brillanti e neri e il corpo umido. L’odore non deve essere acidulo. Parlando invece dei molluschi con la conchiglia, che devono essere assolutamente comprati vivi, bisogna prestare attenzione che il corpo aderisca bene alla conchiglia (o al guscio). Aggiungo infine che la conchiglia deve essere lucida,chiusa e pesante.

E i crostacei?
I crostacei, che sono anche questi assolutamente da comprare vivi, devono avere la corazza di colore rosso intenso e la polpa soda.

Queste indicazioni valgono per chi decide di cucinare il pesce a casa e per chi invece va al ristorante? Come fa distinguere il pesce fresco?
L’unica cosa che posso dire è che è fondamentale scegliere ristoranti che si conoscono bene. Anche per il pesce che si consuma al ristorante la prima cosa a cui prestare attenzione è l’odore. Mai mangiare pesce il cui odore ricorda l’ammoniaca, che è spesso usata per conservarlo, e mai mangiare pesce crudo come sushi o carpaccio in locali non conosciuti.
Il pesce fresco, come tutti sanno bene, è un alimento estremamente deperibile e va consumato nel giro di 12-24 ore così da evitare di innescare il processo di deperimento causato dagli enzimi proteolitici, dai batteri e dal calore che lo alterano creando tossine nocive al nostro organismo.
Per stare dalla parte del sicuro, inoltre, sarebbe buona regola scegliere pesci di stagione e pesci nostrani. Di stagione perché se da una parte è più facile che siano freschi è anche vero che ogni specie di pesce ha un suo periodo durante il quale le sue qualità nutrizionali ed organolettiche sono nel momento migliore. Nostrano perché il nostro è un pesce sottoposto a molti controlli ed è quindi preferibile al pesce d’importazione.

E quindi, meglio consumare pesce italiano?
Direi proprio di si. Il nostro pesce, mi riferisco in particolare al pesce azzurro del Mediterraneo, contiene un considerevole apporto di principi nutritivi rispetto ai pesci che vivono in altri mari oltre. Come ormai mi auguro tutti sapranno, il pesce contiene un’alta percentuale di acidi grassi essenziali omega 3 e un’alta percentuale di proteine che varia dal 6% al 20%. Inoltre è ricco di diversi minerali come iodio, calcio, fosforo, potassio e rame oltre a vitamine del gruppo A e D e B.

A cura di Chiara Angeloni

http://www.mareinitaly.it

 

 

 

 

U PUTIARU  di Angela Marino

 

Per cominciare, cerchiamo di capire cos’era la “putia”(la bottega).

C’erano vari tipi di botteghe: “la putia di lu mastru d’ascia , di lu firraru, di lu custureri, di lu varberi”(la bottega del falegname, del fabbro, del sarto, del barbiere)… e così via per tutti gli artigiani che un centinaio di anni fa rendevano la vita possibile nei paesi e nelle città siciliane.

Nelle “putie” artigianali si lavorava, si ricevevano i clienti, ma anche gli amici, si parlava del più e del meno…

Un proverbio siciliano dice:” Fari casa e putia” riferendosi alla fortunata ma non rara situazione di chi era riuscito a crearsi un luogo di lavoro adiacente alla propria abitazione.

“LA PUTIA” tout court, invece,era un’altra cosa.

Era il negozio degli alimentari: un grande pianterreno  con le pareti piene di scaffali stracolmi; con parte del pavimento occupato da “carteddri”(ceste), sacchi, “curriotta e burnii”(contenitori  in legno per le acciughe salate  e in ceramica per le olive)  e con in fondo un grande banco su cui era poggiata la “valanza” (bilancia) e alcune invitanti  bocce di vetro che contenevano caramelle, cioccolatini, confettini colorati ed altre leccornie.

 Niente calcolatrice o registratore di cassa: i conti venivano fatti “a menti” o su un pezzo di carta, le merci “date a credenza” (a credito) venivano segnate su un quaderno, e gli incassi conservati nel “casciuni”(cassetto) del banco.

La putia era quasi un supermercato per la varietà e la quantità delle merci che vi si potevano acquistare: dalla pasta alla frutta, alla farina, ai formaggi, ai salumi…e poi ancora biscotti, cioccolatini, caramelle acciughe salate, olive, olio, detersivi, carbone, etc etc etc… ma niente acqua o latte…in quei tempi la prima si riempiva al “cannolu”( fontanella) e il secondo lo portava fino a casa “lu picuraru”(il pastore) con le sue capre.

“Lu putiaru” o, più spesso. “la putiara” presiedevano tutto questo ben di Dio, coadiuvati talvolta dai familiari o da aiutanti- ragazzini che pagavano con quattro soldi.

Una brava “putiara”  cortese, pulita, precisa,  ben fornita …poteva fare la fortuna del suo esercizio , in quanto la concorrenza era spietata.

Quando io ero molto piccola, la spesa, non andavano a farla le signore come avviene adesso, ma i ragazzini e le ragazzine che spesso arrivavano alla “putia” con una lista scritta dalla mamma, dalla nonna o da qualche vicina di casa.

 La “putiara” leggeva la lista, vi scriveva i prezzi, si pagava e consegnava l’eventuale resto ai ragazzini con mille raccomandazioni tipo: ”mettitilli ‘nsacchetta… accura a unni li perdiri..ca po’ a to ma’ cu la senti!…” ( mettili in tasca, attento a non perderli…che poi tua madre chi la sente) e poi li aiutava a mettere gli acquisti dentro una “coffa”(borsa dalla tipica forma, fatta con paglia o “giummarra” intrecciata) o in una “beca” (classica borsa della spesa ) , infatti i sacchetti di plastica non esistevano ancora… anzi, non esisteva neanche la plastica…

 Ogni tanto, la “putiara” regalava ai suoi giovani clienti “ un carameli" o “un ciccolatu" o, dopo lo sbarco degli americani, “na ciunka”( un cheving gum) e così se li teneva cari…

Vicino a casa mia c’erano 3 “putii”  e noi eravamo clienti di tutte e tre: la più vicina a casa nostra era quella di Assuntina, poi c’era quella celeberrima della ”Zza Ciccineddra e, un po’ più lontana quella della “Zza Cicia”. Ma nel resto del paese ce n’erano tante altre.

“Li putii” perdettero la loro centralità con la nascita dei supermercati,  ma non scomparvero del tutto, ancora adesso ne sopravvivono , anche in città; ma ,soprattutto nei piccoli centri, è possibile trovarne di molto convenienti e ben fornite.

http://www.siciliafan.it/lu-putiaru-la-putiara-il-bottegaio-la-bottegaia-angela-marino/

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Agnolotti siciliani - Si tratta di una pasta farcita di forma quadrata o rettangolare, il cui ripieno è normalmente costituito da ricotta, salsiccia, salvia e cannella.

 

Anelli - Piccoli anelli di pasta di semola di grano duro, utilizzati soprattutto nella preparazione di timballi e pasticci da forno. I condimenti maggiormente utilizzati per questo tipo di pasta sono i ragù di carne arricchiti di formaggio, in particolare di caciocavallo e i sughi di melanzana, sempre con l’aggiunta di dadini di formaggio locale. Sono preparati con semola di grano duro e acqua e normalmente trafilati al bronzo. Una vera specialità siciliana, ottimi per le paste al forno, come vuole la tradizione isolana.

 

Cannaruzzini - I comuni rigatoni, in Sicilia prendono il nome di cannaruzzuni. Questo tipo di pasta era tradizionalmente utilizzata nei matrimoni che si festeggiavano in casa, anche in questo caso sotto forma di timballo di carne macinata, uova sode, sugo, pepe nero, peperoncino piccante.

 

Catanesella - E’ un maccherone grosso e corto, tipico di Catania, anche questo impiegato soprattutto nella preparazione dei timballi.

 

Capiddu d’ancilu - Il nome significa “capello d’angelo” o capelvenere. Si tratta quindi di spaghettini finissimi spezzettati, da servire in brodo o con un sugo molto leggero e possibilmente semplice. Con questo tipo di pasta viene preparata la scuma cc’u meli, la spuma con il miele, dolce dal gusto particolarmente delicato.

 

Cuscusu - Come è facile intuire si tratta del classico cous cous arabo. Viene realizzato facendo piccole palline di farina di semola ed acqua, che vengono preparate in un apposito contenitore detto mafaradda, dove la semola viene lavorata con le mani in senso rotatorio, bagnandola con acqua salata fino a quando non prendere la forma di piccolissimi grani. In un secondo momento viene condita con un filo d’olio d’oliva e quindi messa ad essiccare su un canovaccio.

Il Cuscusu viene cucinato a vapore, con un recipiente particolare, la cuscusera, e subisce diverse cotture, prima di essere condito. Normalmente si condisce con verdure e aromi, ma nelle zone in cui è particolarmente diffuso, come il Trapanese, costituisce la base per la zuppa di pesce o viene portato in tavola con carne di agnello, di maiale, fave e finocchietto selvatico, di cui in Sicilia si fa ampio utilizzo.


Ditalini - E’ un tipo di pasta corta, cilindrica, rigata o liscia, tipica della tradizione popolare siciliana. Viene normalmente condita con preparazioni semplici. In certi casi  solo con ricotta fresca stemperata in qualche cucchiaio dell’acqua di cottura o con i broccoli, a cui vengono aggiunti uva sultanina, pinoli, caciocavallo o pecorino.

 

Filatu - E’ una sorta di vermicello tirato a mano. Il nome infatti deriva dall’atto di filare l’impasto di semola o di farina di grano duro, uova e zafferano.

 

Lasagne cacate -  Piatto tipico del periodo natalizio, diffuso principalmente nell'area di Modica in provincia di Ragusa, ma molto noto anche nella Sicilia occidentale. La tradizione vuole che la ricetta di queste lasagne sia stata elaborata durante il dominio aragonese. Il nome si riferisce ironicamente al fatto che un tempo il loro consumo era riservato esclusivamente alla nobiltà. “Cacato” sta infatti ancora oggi per persona un po’ snob. Si tratta di lasagne all’uovo, larghe, con il bordo arricciato, condite con ragù ricchi e corposi, a base di carne, ricotta e altri formaggi. Gli ingredienti della ricetta classica prevedono uova intere, di ragù di salsiccia e cotenna di maiale, pomodoro, ricotta fresca, pecorino grattugiato, sale e pepe.

 

Maccaruna - I Maccaruna, o Maccarruna, fatti in casa, sono una tipica pasta siciliana. Il termine indica diversi tipi di pasta, tutti preparati secondo l’uso tradizionale del ferretto. La tradizione vuole che la pasta non manchi per Carnevale, sulle tavole dei siciliani. E la pasta favorita sono proprio li maccaruna dí zitu a stufato o cu lu sucu di carne di maiale, immancabile per li sdírri, come per Sammartino- per cui si dice ad ogní porcu veni lu sò Carnílivari. Nel trapanese i maccheroni si chiamano Busiati. In questo caso l’impasto è reso senza uova e il condimento tradizionale è costituito dal noto pesto alla trapanese, a base di pomodori, mandorle, aglio, basilico e pangrattato. Le origini di questa pasta si perdono nel tempo. Se ne trova una ricetta nel Liber de arte coquinaria, scritto dal cuoco Maestro Martino vissuto attorno alla metà del XV secolo. L’impasto è preparato con farina di grano duro, sale, uova (sebbene alcune ricette non ne prevedano l’uso) e acqua tiepida. Da questa si ricavano bastoncini dello spessore di un grissino e della lunghezza di 20 cm circa. I bastoncini vengono poi lavorati per l’ottenimento dei maccheroni, premendo gli spiedi sulla pasta. A questo punto vengono sfilati e lasciati essiccare all’aria aperta. In questo caso l’abilità della massaia, soprattutto in tempi andati, si misurava sul numero di maccheroni che era capace di preparare per volta.

Maccu di granu - Si tratta di una particolare tipologia di pasta che ricorda il Cuscusu. Viene infatti reso da frumento macinato, dapprima grossolanamente tra due sassi e in un secondo momento lessato in acqua salata e condito con olio, sale, pepe e finocchietto selvatico, particolarmente utilizzato nella cucina isolana. In tempo di guerra, questo piatto rappresentava una pietanza comune e diffusa, in molti casi consumata anche in sostituzione di pane e pasta.

 

Scialbò - Altra tipologia di lasagne con i bordi arricciati, nota anche come Reginella. Tipica della zona centrale della Sicilia, ed in particolare di Enna, prende il nome dal francesismo con cui si indicava la ruche di ornamento delle vesti femminili. La ricetta del condimento di queste lasagne è caratterizzata da una miscela di sapori che rimanda alle tradizioni della grande cucina nobiliare siciliana: ragù di carne tritata, cipolla, pomodoro, insieme a zucchero, cannella e cioccolato.

 

Taccuna di mulinu - E’ il nome che prendono le lasagne fatte in casa nel siracusano, in particolare a Noto. La loro particolarità è nell'impasto, che deve 'ncutugnári, cioè essere lavorato sino ad assumere la forma e la consistenza voluta. Dalle sfoglie che se ne ricavano si fanno dei rotoli che vengono tagliati con un coltello e poi distesi ad asciugare all'ombra e al fresco, per almeno 2 ore. Taccúna deriva con tutta probabilità da táccu, la stecca del biliardo così chiamata dagli spagnoli e quindi, per somiglianza alle lunghe strisce di pasta, sottili ed eleganti. Queste grossolane tagliatelle sono condite solitamente con un sugo di pomodoro al quale vengono aggiunte melanzane fritte e un’abbondante spolverata di ricotta salata.

 

Tagghiarina - Anche in questo caso si tratta di tagliatelle dalla sfoglia piuttosto spessa, ma non tipicamente isolane. Si servono condite con sughi vari, sebbene il più utilizzato in Sicilia sia quello con le fave.

 

 

 

 

 

 

Al ritorno dal loro viaggio sulla Luna, gli astronauti americani dissero di aver visto da lassù il pennacchio di fumo emesso dai quattro crateri dell'Etna e come questo, valicando il Mediterraneo, giungesse visibile fino alle foci del Nilo. Per questo fenomeno, che si ripete sin dall'epoca greco-romana, gli Egiziani di Alessandria e del Cairo chiamano catanese il vento che spira dall'Etna verso ii delta del Nilo. Apollodoro era il cuoco catanese di Cleopatra, che seppe srotolarla giovinetta dal tappeto dove l'aveva avvolta, innanzi agli occhi artoniti di Cesarione (il rampollo che la regina d'Egitto scodellò a Cesare cinquantenne). La storia concesse un inatteso bis a Cleopatra quando, dopo qualche giorno dalle funeste idi di marzo, risalendo il Nilo sulla barca d'oro e con le seriche vele porporine gonfiate dal catanese verso Luxor, proprio Apollodoro seppe tranquillizzare la sua regina e l'amante romano - il potente Marc'Antonio, onorato da Cleopatra come Dionisio vivente - allorchè, portate dal vento, piovvero dal cielo minuscole palline nere sulle sue afrodisiache vivande che stava cucinando sul cassero. Disse che si trattava del ripuddu, scorie eruttate dall'Etna e che tanto bene facevano agli ortaggi e alla frutta del litorale del suo Paese, sull'altra sponda.

Dopo che gli Arabi si stabilirono in Sicilia, impiantando agrumi e gelsomino alle falde del vulcano più grande d'Europa, allo spirare del catanese sul delta del Nilo, in quel vento profumato si avvertirono nitidi effluvi di zagara e gelsomino d'Arabia, come pare accada ancora oggi.

Questi aneddoti per introdurre un argomento, gli ingredientii culinari afrodisiaci catanesi - e come procurarseli - che mi sta particolarmente a cuore.

 

Catania ha quattro mercati. I due maggiori sono il grandioso Ortofrutticolo di via Amerigo Vespucci, che si estende per una superfice di 70.000 mq, e il mercato Ittico di via Cristoforo Colombo, dove le contrattazioni cominciano alle 3 e si concludono alle 10, con un movimenro di pesce locale fresco e congelato di circa 7.000 tonnellate annue. Ma noi qui non ci occuperemo di questi, del resto simili a quelli di altre grandi città. Piuttosto, in forza del famoso adagio "dimmi come mangi e ti dirò chi sei", ci occuperemo dei due mercati popolari minori, al minuto: "a Fiera o luni" (la fiera del lunedì, ma oggi aperto tutti i giorni esclusa la domenica) e la millenaria Pescheria. Cominceremo verso le 8.30 dalla Fiera nella centralissima piazza Carlo Alberto, a due passi da via Etnea e da via Umberto. Si apre con la sua ridda di ombrelloni policromi innanzi al santuario di Maria SS. del Carmine dove, non molto dissimile dai souk nordafricani, si incrociano e si affastellano in esaltante confusione, frammiste alle tante offerte non commestibili, le bancarelle di ortaggi e verdure, pesci, carni, formaggi, legumi, frutta fresca e secca, olive salate e cunzate, nell'allettante maniera catanese (che le vuole condite con giardiniera all'aceto, funghi all'olio, origano, prezzemolo, aglio e rosso peperoncino). Le olive nere, grosse e brillanti, sono presenti in vane prezzature, anche infornate e sempre condite con olio locale e sedano.

Sono pronte per entrare nella pietanza afrodisiaca per eccelleuza dei meno abbienti (che non possono permettersi per il loro costo aragoste, astici, gamberoni imperiali e "occhi di bue", su cui torneremo): il pescestocco con le verdure amarognole. Qui lo stocco viene lessato a trance con i caliceddi, verdura spontanea delle vigne, condita da olio d'oliva, aglio e peperoncino, ed è la risposta catanese al celeberrimo pescestocco alla messinese. A chi mi dovesse chiedere in che cosa consiste il potere afrodisiaco che attribuisco alla ricetta del pescestocco verde con olive nere e i caliceddi, non ho difficolta a rispondere che la valenza gastronomica erotica è insita nel mirabile connubio fra le scaglie del pescestocco "ragno" e il brodo verde nel quale viene lessato, prodotto dalla verdura gradevolmente amarognola, perchè cresciuta nell'orto e nella vigna dell'Etna, cioè in quell'humus del ripuddu "radioattivo", ricco di azoto e potassio. Questi due elementi sono anche quelli che consentono al pistacchio di Bronte di presentare in dosi massicce la miracolosa vitamina E, detta della fertilità. Infine il caviale di olive nere (snocciolate) ed il peperoncino conferiscono alla pietanza altri input atti a stimolare un reale erotismo in individni non troppo vecchi o malandati.

Sempre a base di fresche derrate presenti in questo mercato, sono qui lieto di indicare altre corroboranti minestre a basso costo e di sperimentato valore nel suscitare un sano sentimento erotico. Se accanto ai ricci, i cui coralli condiscono spaghetti afrodisiaci, ci sono anche superbe vongole vive che spruzzano ancora schizzi d'acqua, dopo averle acquistate (Un chilogrammo è bastevole per un'energetica zuppa per due persone), torniamo in cucina, dove la sera prima abbiamo ammollato mezzo chilogrammo di ceci giganti. Lessiamo i ceci in acqua salata con una cipolla, rosmarino e qualche pomodorino di Pachino. Quando diventano teneri, facciamo aprire le vongole vive - dopo averle ben lavate in acqua e sale marino - in una padella di ferro con olio extra vergine d'oliva profumato da due spicchi d'aglio di Randazzo e due rotelline di peperoncino fresco. Spruzziamo un generoso sorso di vino secco dell'Etna e, una volta che si sono aperte tutte le vongole, uniamole col loro sughetto profumato alla zuppa di ceci scolati avendovi trattenuto un po' del brodo di cottura dei legumi. Perchè mai, da tempo immemorabile si direbbe in Sicilia amuri a brodu di ciciri? E questo detto è più antico del Vespro, allorquando i francesi venivano riconosciuti imponendo loro di dire Ia parola ciciri, che non sapevano pronunciare esattamente c pertanto finivano irrimediabilmente passati a fil di spada. Da quegli avvenimenti storici nacque anche il truculento canto di sapore gastronomico:

Ntà n'ura fa distrutta dda simenza: fu ppì tunnina salata la Franza!

 

 

L'energetico impiego di zuppe di verdure, con crostacei, pesci o carni, è cosa antichissima dalle parti della nostra Magna Grecia, a cominciare dalla famosa vellutina di fave secche, con profumo di finocchietto selvatico. Si tratta della stessa che, a sentire Aristofane nella sua commedia Le rane, consentì ad Ercole in una delle sue fatiche, di spulzellare, dopo aver appunto ingoiato una enorme zuppa di fave, ben diecimila vergini in una sola notte! Nessuna meraviglia, quindi, se il catanese amoroso si nutre ancor oggi con maccu di favi, in cui si possono sminuzzare spaghetti e, freddo e rappreso nella sua gelatina, può essere gustato anche a trance fritte, assieme alle polpettine di neonata, pesciolini minuti detti maccu. Già, macco e maccu per l'imminente battaglia amorosa! Chi scrive queste note crede di aver tutte le carte in regola per sentirsi abilitato, come addetto ai lavori, nel dare consigli sull'argomento, per aver pubblicato nel 1992 a Parigi presso l'editore Robert Laffont, in francese, ii libro, poi tradotto in vari lingue (meno che in italiano), Cinq mille ans de cuisine aphrodisiaque, con le ricette galanti di ieri e di oggi dei cinque continenti. Non ho voluto l'edizione italiana per mettere in difficolta le mie tante fans che mi copiano, cosi come è accaduto per il mio Il libro d'oro della cucina e dei vini di Sicilia (Mursia, Milano, 5 ed.), trovando tutto facilmente a portata di mano, visto che dal plagio non ci si salva. Comunque ringrazio la Vita, che mi ha fatto nascere tra l'antica gente dell'Etna, cosa che mi consente - a 75 anni passati - di essere ancora attivo, soprattutto per merito delle potenti derrate catanesi che, oltre all'additivo erotico, hanno più gusto e più profumo degli stessi prodotti agricoli che nascono in Australia o nelle due Americhe. Ecco perchè, giornalmente, resto estasiato davanti alle bancarelle dei mercati popolari di Catania. 0 chi belli pipi ajiu! canta il venditore di peperoni rossi, gialli e verdi che scintillano al sole. Non dice "quanto sono buoni", ma mette in risalto la loro bellezza, cosi come il vicino venditore di broccoli, nella sua vivace abbanniata, loda sempre la bellezza, anzichè la bontà dei suoi broccoli neri che possono finire lessati con la pasta o, meglio, affucati: cioè affogati, facendo stufare nel vino rosso le cime, assieme a pezzetti di caciocavallo ragusano piccante e acciughe salate e spinate. Ma i broccoli dell'eros popolare catanese finiscono anche in una ricetta che Catania condivide con Roma, dopo averne coniato l'elogio poetico senza pan che vi trascrivo:

 Senta 'n ciàuru di brocculi fritti: Lu mè cori 'nzalata si fa!

 

 

che si può tradurre: "Mi stuzzica talmente il profumo dei broccoli fritti, che il mio cuore per il desiderio di mangiarli si assottiglia a fettine come per Insalata!". Scusate se è poco. Friggere le cime dei broccoli in olio d'oliva assieme a pezzetti d'aglio e d'acciuga salata e peperoncino. Poi immetterli in una zuppetta di ali e filetti di razza, pesce di poco costo chiamato in Sicilia picara e nel Lazio, dove la fecero conoscere i pescatori siciliani immigrati, arzilla.

Stiamo per concludere il nostro iter nel primo mercato di piazza Carlo Alberto, ma non possiamo non accennare alla profusione d'offerta di basilico majore dalle grandi foglie verdi che finiscono sulla pasta alla Norma, con le melenzane fritte e la ricotta salata grattugiata per imbianchire come una nevicata i sottostanti spaghetti o maccheroni rossi di salsa.

Questa offerta di basilico, prezzemolo, cipolle ed altro viene fatta al centro della strada di scorrimento, fra i barili marinari di acciughe, sarde salate e aringhe affumicate, davanti alle affollate bancarelle di olive condite, formaggi e ricotta fresca (con quella speciale in cavagna di giunco: ideale per cassate e tipiche crispelle fritte rotonde, scacciate come le fanno a Catania con la tuma filante, dette sfince, dall'etimo arabo sfang, frittella, assieme a quelle oblunghe con l'acciuga salata). Date un'occhiatina, verso i margini della piazza, anche alle bancarelle di vestiti usati: per sole mille lire potrete trovare capi nuovi griffati, come ben sanno le signore bene di Catania, ma anche i turisti stranieri che giolosamente affollano questo mercato che chiamano, stando ben attenti alle borse, "mercato dei ladri", per l'indottrinamento ricevuto dagli autisti dei loro pullman. La domenica mattina la piazza si trasforma in "Mercato delle Pulci", con le buone occasioni. Percorrendo via San Gaetano alle Grotte, in ambo i lati affollata dalle più disparate offerte di casalinghi scarpe, borse, vestiti, musicassette, telefilm, ecc., eccoci in piazza Stesicoro dove vediamo di spalle la statua del genio catanese Vincenzo Bellini.

Dall'altra parte di via Etnea sono visibili i resti dell'anfiteatro romano che fu secondo solo al Colosseo. Poichè sono già le 10,30, affretteremo il nostro passo, percorrendo via Etnea, salotto di Catania, verso ii mare, alla volta della spagnolesca piazza Duomo, con la chiesa di Sant'Agata. Ma prima avremo modo di ammirare la facciata della Collegiata, l'Universitià e Palazzo degli Elefanti, sede del Comune, davanti alla statua simbolo della città: l'elefante in pietra lavica sulla fontana del Vaccarini, lì posto dopo il terribile terremoto del 1693. Di fronte a Palazzo dei Chierici accanto al quale s'erge la Fontana dell'Amenano, il flume sotterraneo di Catania, che dà il nome alla fontana, sbocca nella famosa "acqua a lenzuolo", sede del più antico mercato della città e che molto si avvale della scenografla barocca prestata dai palazzi che la racchiudono. Qui, in pieno giorno, brillano le grandi lampade sotto le volte del massiccio arco detto di Carlo V e la porta che immetteva al Porto Vecchio, l'unica rimasta delle otto che si aprivano nell'antica cinta muraria. Le lampade servono a far

 

 

 brillare con impensabili riflessi i grandi pesci: tonni, pescespada, cernie, continuamente annacquati e che vengono allegramente affettati dalle sapienti mannaie dei più capaci marinai catanesi. Un vero spettacolo di pesci grandi e pesci piccoli, con i masculini, le acciughine fresche del golfo di Catania, poi spinate e cotte con aglio, prezzemolo e peperoncino, cotte solamente in virtù dell'agro di limone che le sbianchisce. Hanno potere afrodisiaco? Mah! Gli anziani catanesi amanti del pesce azzurro del golfo sostengono di si: questa pietanza, ormai divenuta un antipasto, una volta veniva offerta al pasto della sera alle giovani coppie, assieme alla lattuga bollita e condita con pepe, aglio e olio e a un uovo à la coque, cotto nel brodo della lattuga. Il trittico di questa parca cena ha, in effetti, tutti gli elementi atti a favorire una rapida digestione, foriera di ottima predisposizione all'amore. Ma, su questo argomento, le massime preferenze vanno a Catania alle grandi patelle reali madreperlacee, dette "occhi di bue" alle quali, anche dai sub, viene data un'implacabile caccia, tant'è che il prezzo al chilogrammo ormai supera le 40.000 lire. Il mollusco dalle virtù afrodisiache viene consumato crudo, ma più spesso arrostito sui carboni e condito col salmoriglio, oppure fritto e fatto a pezzetti da servire assieme agli spaghettini aglio, olio e peperoncino. Molti scrittori catanesi, oltre al sottoscritto, si sono occupati di erotismo gastronomico, a partire dal poeta vernacolare Domenico Tempio, alla fine del '700. Sintomatico è che il primo libro moderno di gastronomia afrodisiaca sia stato pubblicato nel 1962 proprio a Catania da Olimpio Rompini: peccato che nel suo La cucina dell'amore, che occhieggia quella francese, non si sia soffermato su quella locale. Forse più utile risulta la lettura di Antonio Aniante, Vitaliano Brancati ed Ercole Patti, che qua e là nelle loro opere fanno affiorare i piatti del gallismo locale a tavola. Anche certi film hanno contribuito all'indicazione di Catania come la "culla della cucina afrodisiaca".

Peccato che non se ne sia mai accorto il turismo, quello ufficiale, che avrebbe tutto l'interesse a promuovere questa istanza, mentre non muove un dito per fare scomparire lo sconcio del quartiere "a luci rosse" in San Berillo, nel cuore della città, con tante irriducibili vestali di colore. Ma torniamo ai nostri meravigliosi pesci: chi può, si procura alla Pescheria le bellissime aragoste, gli astici, le triglie di scoglio, i luvari imperiali, gamberoni e gamberi rosati di nassa e quant'altro qui scarica giornalmente la ricca e varia cornucopia del dio Nettuno, che a Catania rivolge un occhio particolare a Venere Anadiomene, ritrovata senza testa a Siracusa. I veri "devoti" della dea dell'amore nata dalle spume del mare, sono qui a Catania, anche se talvolta non sanno di professare un culto antecedente a quello di Sant'Agata, la Santuzza cittadina. Attorno alla Pescheria, dalla pittoresca piazza Pardo, dove si trova una simpatica trattoria nella quale torneremo, c'è tutto un dedalo di vie che s'intersecano con l'andamento della casbah del vicino Maghreb. Ogni porta è una bottega che espone la sua varia mercanzia: carni fresche, appena macellate, polli, tacchini, agnelli, capretti, maiali, vitelli, carne di struzzo e poi ghirlande di salsicce variamente disposte, involtini di vitello, falsomagri da cuocere. Poi ortaggi e verdure, le buonissime melanzane "seta", fichidindia. E poi ancora, senza soluzione di continuità, interiora di vitello a fortissima evocazione erotica: il "caldume" detto in dialetto quadumi; la popolare trippa, cantata dal maggior poeta erotico catanese Miciu Tempio, che fa augurare al suo emblematico personaggio Mmetta, omu mangiuni:

... tutta La sciara 'ntrà 'na botta canciarisi si vulissi in trippa cotta!

 

In questo quartiere pieno di colore e di vita (in mattinata, poi nel pomeriggio la ressa si rarefà) c'è grande profusione di legumi secchi, di farine (compresa quella di ceci per far paneLLe alla palermitana), semola per incocciare cuscus e poi tutta la frutta candita che serve per decorare cassate e cannoli, le ciliegine rosse che vanno poste sulle cassatine glassate a forma di seni con crema e che, ancor oggi, si ritengono votive per il seno reciso a Sant'Agata. Qui si vende tutta la frutta secca che serve per la composita pasticceria siciliana: mandorle, nocciole, noci, pistacchi verdi di Bronte. E poi ancora uva passa, pinoli, cedri canditi, accanto a cataste di meloni d'inverno o angurie estive e tanti pomodori costolati. San Marzano e pomodori di Pachino. Ma si è fatto mezzogiorno e la visione di tante godurie crude, risvegliando l'appetito, induce subito a cercare cibi cotti. Nell'ambito di questo colorato mercato ci sono almeno due simpatiche trattorie esclusivamente votate alla cucina popolare locale. La mia personale preferenza va alla trattoria La Paglia, per avere conosciuto il fondatore Turi, ora scomparso. Ci troviamo in via Pardo 23, nel cuore della Pescheria, con vetrine che si aprono anche sull'omonima piazza Pardo, fra le bancarelle dei grandi pesci: qui sono stati girati alcuni film di successo. Ora la cuoca-patronne è la focosa Maria La Paglia, figlia del fondatore, che gestisce assieme ai figli il vivace esercizio, dove il menù comincia con il rituale bicchiere di "zibibbo" secco offerto come aperitivo. Lo accompagneremo alla fatidica "sarda a beccafico" appena fritta e che consiste in due sarde spianate, aperte a libro, che racchiudono una stuzzicante farcia di mollica di pan carrè torrefatta con olio in padella, assieme a pezzetti d'aglio e acciuga salata spianata, poco uovo e formaggio, prezzemolo, peperoncino e scagliette di olive bianche in salamoia. Una volta che le due sarde rinserrano la farcia, vengono passate nell'uovo battuto, infarinate e subito fritte d'ambo le parti nell'olio. La farcia non viene irrorata da succo di limone e arancia, come avviene a Palermo dove, per l'omonima preparazione, una sola sarda viene arrotolata sulla farcia e poi messa a cuocere in una teglia per 10 minuti in forno. I catanesi ripudiano il succo d'agrumi perchè ritengono la beccafico palermitana un po' sdolcinata: ma hanno sicuramente torto essendo ben valide le due varianti. Poi si procede con l'antipasto che può essere composto da insalatina tiepida di polpo condito a strica sale, oppure da gelatina di maiale e vitello con alloro, spezie e succo di limone detta zuzo. Quindi spaghetti al nero di seppie in un sapido intingolo che più nero non si può. Come secondo, fatevi consigliare. Ma non chiedete mai espressamente piatti della "cucina afrodisiaca", non vi capirebbero nemmeno. La praticano, e basta.

Naturalmente fin qui abbiamo parlato di espressioni della cucina popolare ritenuta tradizionalmente erotica, essenzialmente povera. Ma Catania dispone di ben altri "santuari" di voluttuosa ed elevata gastronomia.

Aperitivo "Angelica Bionda", con fumante "scacciatina dell'Arcunè", tuma e frutti di mare, antipasto nella scultura di pesce-limone con spuma di baccalà rosato ai gamberi di nassa e medaglioni di aragosta o astice o tartufi di mare. Poi il primo piatto che mi ha dato tante soddisfazioni: "alghe sultana nel pomo d'amore" alla bottarga. Sfogliatina di petali di roda al grill, con cuore di filetto di spigola maneggiato in salsa di coralli di ricci di mare.

 

 

 

COME RICONOSCERE UNA BUONA PIZZA AL RISTORANTE: LE DRITTE DEL CAMPIONE MONDIALE

Adriana Angelieri 08/06/17 Interviste

 

Un giorno un anonimo disse: “Per i puristi esistono solo due vere pizze: la Marinara e la Margherita”. Siete d’accordo?

Io non mi sento una purista della pizza, ma devo dire che ho sempre pensato che se in un ristorante la margherita è buona, il resto del menù non può esser da meno. Per togliere ogni dubbio, qualche giorno fa, mentre conducevo l’intervista (che vi consiglio di leggere) a Giorgio Sabbatini, campione mondiale di pizza di quest’anno, dopo millemila domande sulla pizza che lo ha portato sul trono (la 10 pomodori interpretati in una margherita), ho sparato il domandone: come si fa a riconoscere una buona pizza al ristorante?

 Con la disponibilità che solo chi ama il cibo ed ama condividere può avere, il campione mi ha dato le sue dritte e poi mi ha anche detto cosa ne pensa della nuova tendenza a definire la pizza un piatto “gourmet”. Curiosi?

 “La pizza si valuta attraverso il gusto e la cottura” – così comincia Sabbatini. “È fondamentale che sia cotta bene. Ai ragazzi che seguono i miei corsi dico sempre: quando per voi è cotta, datele ancora un minuto perché secondo me è cruda.”

Ed io sorrido, memorizzo e prendo appunti. Ed ecco cosa bisogna guardare per riconoscere una buona pizza al ristorante.

La forma del cornicione

Avete presente i bordi della pizza? Alcuni li adorano, altri li lasciano sempre sul piatto perché non amano mangiarli. Io li mi mando giù molto volentieri. Sarà per la consistenza croccante o perché a volte sono intrisi di sugo. Ad ogni modo, secondo i consigli di Sabbatini la prima cosa da guardare, e toccare, è proprio questa parte: il cornicione. “Deve essere colorato, ma non bruciato” – dice il campione. Quindi, controllate che le croste non siano color nero carbone.

Restando in tema bordi della pizza, segnatevi quest’altra dritta: se vi trovate davanti ad un cornicione dalla forma regolare, con un diametro piuttosto lineare, allora, state per addentare una pizza fatta come Sabbatini comanda. Al contrario, un perimetro irregolare, non che sia immangiabile, ma non rientra tra i criteri dettati dal campione. 

La bolla nera

Se dovesse capitarvi di trovare delle bolle nere lungo il perimetro del cornicione sappiate che non sono indice di una scarsa qualità del piatto, anzi. Stando alle parole di Sabbatini vanno bene e sembrano essere caratteristiche della tradizionale pizza napoletana. “È una questione di procedimento di lavorazione e di maturazione del prodotto” – spiega.

Il sotto della pizza

Ultima dritta: “Guardare sempre il sotto della pizza”. L’ultima cosa a cui badare, e poi giuro che vi lascio addentare il bottino, è il colore della parte inferiore della pasta. Sollevate la pizza con un coltello e date un’occhiata al colore: “se è giallo paglierino vuol dire che durante il processo di lavorazione il cereale ha lavorato bene, non ha subito shock termici e stress”.

Pizza Gourmet: cosa ne pensa il campione del mondo?

In questo campo sono cambiate alcune cose rispetto a qualche anno fa, precisa Sabbatini. Un tempo i pizzaioli prestavano molta attenzione alla base della pizza, tralasciando la parte superiore, quindi i condimenti spesso adagiati, senza criterio sulla pizza. Oggi, gli accostamenti e gli ingredienti vengono scelti con particolare cura. “I pizzaioli seguono gli insegnamenti degli chef e prestano maggiore attenzione anche alla stessa qualità dei prodotti. Stanno attenti alle varie cotture, lasciando il più possibile inalterati i profumi e rispettando i prodotti.”

A questo punto, mentre lo stomaco borbotta (per forza: a furia di parlare di pizza!), mi viene naturale fare una riflessione: in un mondo in cui anche la sosta in autostrada è diventata gourmet, possiamo parlare anche di pizza gourmet o è una contraddizione?

“Assolutamente sì. È molto ricercata, ma non è gourmet.” – risponde il maestro – “La pizza vince perché è un piatto semplice, legato alla convivialità. Un pasto che unisce, come il sabato e la domenica in famiglia.”

pizza margherita

Ci penso un attimo ed effettivamente la pizza mi ricorda situazioni piuttosto familiari: i nonni in campagna con il forno a legna, le serate con gli amici. Voi cosa pensate a riguardo?

 Come avrete capito: la pizza è una cosa seria! Ed anche la curiosità, per quanto mi riguarda lo è. Per questo non posso lasciare andare il campione mondiale di pizza senza chiedergli quale sia la sua preferita. “Una margherita con due fette di prosciutto crudo di Norcia possibilmente.” – risponde.

 

http://www.ilgiornaledelcibo.it/pizza-buona-ristorante-consigli-sabbatini/

 

 

Tutte le proprietà dell’acqua “vugghiuta”. Il digestivo siciliano dal potere afrodisiaco

Chi di noi non è mai ricorso a una bevanda calda che faciliti la digestione? Ce ne sono tante in commercio di tisane, molte a base di finocchio, considerato digestivo per eccellenza, altre più di moda negli ultimi tempi! Ci è capitato spesso di fare un’abbuffata in compagnia, per le feste o per qualche speciale occasione con amici e parenti. Spesso ci lasciamo andare ma poi son dolori e arriva quel gonfiore caratteristico e quel tanto conosciuto mal di “panza”.

E se in casa non abbiamo preparati, camomille, tisane o altro, un buon canarino è “l’acqua supra u focu” per alleggerire lo stomaco e agevolare la digestione.

Lo si prepara mettendo a bollire l’acqua con 3 pezzetti di scorza di limone. Tre è il numero giusto. Mentre bolle, l’acqua assume quel colore giallo intenso che dà il nome alla bevanda. Se poi vogliamo aumentarne l’effetto aggiungiamo 3 pezzettini di foglia d’alloro e un cucchiaino di zucchero e il risultato è garantito, così la nostra pancia poco alla volta si rasserena e si placa la turbolenza. Se poi si esorcizza ripetendo “vivi ca ti passa tuttu” l’effetto calmante è immediato e sicuro.

Non ci sono basi scientifiche né studi di medicina applicata, ma sono noti e sanno di miracoloso gli effetti delle proprietà del limone e dell’alloro per la presenza dei loro olii essenziali, magari combinati con una punta di bicarbonato.

Una leggenda può servire ad incentivare l’uso del canarino cui vanno attribuiti poteri afrodisiaci. Si racconta infatti che il “canarino”, con l’aggiunta di un po’ di vino, sia stato offerto dalla regina Climene a Dafni. Questi era nato in un bosco di alloro, vicino alla vallata del fiume Irminio nel ragusano, era sposo della ninfa Achenais, che gli fece giurare di non esserle mai infedele, ed era genero della temibile Era.

Pare infatti che la semplice “‘acqua vugghiuta” mescolata al vino siciliano sia un afrodisiaco incredibile. Infatti Dafni, dopo aver bevuto l’intruglio si scordò di moglie e suocera e si scatenò in una appassionata notte d’amore con la regina, mettendo in atto tutte le più efficaci strategie dell’arte amatoria.

Fulmini e saette da parte della suocera Era che, per punizione, lo accecò. La leggenda narra che il povero Dafni trascorse tanti anni tra le campagne siciliane a comporre e declamare pastorali e a urlare il proprio dolore senza trovare mai pace. Disperato alla fine  cercò di uccidersi buttandosi da una rupe, la Rocca di Cefalù, ma il dio Dionisio lo trasformò in uno scoglio.

Secondo la tradizione quella rupe sorge ancora oggi sul mare di Cefalù, e in quel luogo sembra si respiri un’aria di tristezza. La rupe è oggi inserita nel registro dei luoghi e dell’identità della memoria della Regione Siciliana.

FONTE

 

 

 

 

 

 

manzo

 

Carne di manzo - E' la carne dei bovino di 3-4 anni di età (manzo è chiamato anche il bovino femmina che non abbia mai partorito), che è stato castrato per favorirne l'ingrasso precoce, ottenendo così una carne qualitativamente migliore. Il suo contenuto in acqua è basso, mentre piuttosto elevata (10-15%) è la percentuale di grasso. Questo tipo di carne tende a scomparire, date le attuali tendenze dietetiche.

Carne di vitellone - E' derivata dall'animale abbattuto nel pieno della maturità, fra i 12 e i 18 mesi. Contiene meno acqua rispetto alla carne di vitello, mentre un po' più elevato è, generalmente, il contenuto in proteine. Per la conformazione dei tagli, il colore, la consistenza e il sapore, è fra le carni più pregiate. I vitelloni più rinomati sono quelli delle razze Marchigiana, Chianina e Romagnola.

Carne di bue - E' la carne dei bovino castrato che ha superato i quattro anni e mezzo di età. Pur essendo di elevato valore alimentare e di qualità eccellente, questo tipo di carne tende a scomparire dal mercato in quanto, non essendo più necessario per i lavori nei campi, il bue viene macellato prima.

Carne di vacca - E' ottenuta dal bovino femmina, generalmente macellato alla fine della cosiddetta carriera economica (produzione di vitelli e latte). Mentre una volta tale periodo corrispondeva all'età di 12-14 anni, quindi le carni ottenute erano di una qualità piuttosto scadente, oggi si tende ad accorciare questo periodo (6-8 anni), ottenendo così carni dei tutto simili, dal punto di vista organolettico, a quelle che nel passato si ottenevano dai manzi (circa 20% di proteine, e 4-8% di grassi), ma a un prezzo generalmente più basso.

 

 

1 -  SCAMONE – Ideale per fettine all’inglese alla griglia, Divide il roast-beef dall'anca ed è formato da grosse masse muscolari. Ottimo per bistecche ed arrosti. A CATANIA: Osso piatto

Codone E' un taglio di prima categoria che comprende le ultime vertebre della schiena. Fornisce gustose bistecche, ottimi brasati e arrosti

Fetta di mezzo E' la parte esterna della coscia, posta sopra la rosa. Si usa per arrosti, brasati e involtini A CATANIA: Dietrocoscia

2 - MAGATELLO – Ideale per tonnato, cotolette, arrosti, Detto anche girello, si trova proprio a contatto della coda. Di forma stretta e allungata, serve per fare scaloppine ed è ottimo lessato e servito con salse A CATANIA: Lacerto

3 - ROSA o SOTTOFESA – Ideale per cotolette, brasato, bollito. E' situata nella parte superiore della coscia ed è particolarmente adatta per fare ottime bistecche A CATANIA: Sfasciatura

4 - FESA – Ideale per scaloppine, fettine, arrosti. A CATANIA: Fesa

5 - PESCE – Ideale per goulash, bollito, brasato, stufato, Sta tra il magatello e il geretto e serve per bolliti e stracotti A CATANIA: Judiscu

6 - GERETTO  (ossobuco) E' carnoso, ricco di tendini e contiene un osso con midollo. serve per ossobuchi, lo stinco arrosto e per il brodo A CATANIA: Ossobuco o Appennituri 

7 - NOCE – Ideale per scaloppine, fettine, arrosto. Noce E' un taglio pregiato a forma quasi di "palla" adatto per fettine, arrosti e scaloppine A CATANIA: Vausa

Spinacino E' uno dei tagli di seconda categoria del quarto posteriore. E' piccolo, situato sotto la noce ed è particolarmente adatto per fare polpettoni ripieni e rotoli farciti. Lo si può anche tagliare a tasca.

8 - FILETTO – Ideale ai ferri, crudo, burghignonne. E' il taglio più pregiato (e anche più costoso): è formato da un fascio di muscoli che passano sotto le vertebre dorsali e che restano generalmente inattivi. Per tale motivo la loro carne è tenerissima. Si può mangiare crudo, arrostito, in tournedos. A CATANIA: Filetto

9  - LOMBATA – Ideale per bistecche, costate, carpaccio

10 - ROAST BEEF  –  ovvero Controfiletto.  E' situato nella parte centrale della schiena. Intera e completa di osso serve per preparare ottimi arrosti. Tagliata fornisce le cosidette entrecotes da cuocere in padella o alla griglia e, quando comprende filetto e controfiletto, diventa la famosa "fiorentina". A CATANIA: Trinca 

11 - COSTATE  – Ideale per bistecche, costate, carpaccio. Le coste della croce Comprendono 5-6 costole con una discreta quantità di carne. E' un taglio ricavato dai muscoli che coprono le prime vertebre dorsali, abbastanza pregiato, ma non eccessivamente costoso. E' adatto per bolliti e per brasati; tuttavia, disossato e arrotolato, può dare anche un buon arrosto. A CATANIA: Costate della lunga

12 - BIANCOSTATO – Ideale per bollito, macinato per ragù. Detto anche "spuntatura di lombo", è la "pecora nera" del quarto posteriore perchè appartiene alla terza categoria. Può fornire ottimi bolliti e, disossato, si usa per lo spezzatino. Ha carne saporita e morbida per la presenza del grasso. In cottura aumenta di volume. A CATANIA: Puntine della costa 

13 - PANCIA - Ideale per spezzatino, stufato, bollito. E' un taglio piatto e lungo usato per arrosti arrotolati. Gli strati di muscolo si alternano con strati di grasso che danno alla carne sapore e morbidezza.A CATANIA Buttunera:

Scalfo E' un taglio situato nella parte anteriore della coscia. E' molto ricco di grasso e di membrene che vanno in gran parte eliminate, prima di utilizzarlo per spezzatini, oppure per farne carne tritata. A CATANIA: Mastrocosta

14 - REALE – Ideale per arrosti, spezzatino, goulash, bollito, stufato.  E' composto da una grossa massa di muscoli DEL COLLO, nella quale si distinguono due parti: quella superiore a venatura più magra e quella inferiore più grassa. Adatto per spezzatini e carne tritata.

Il bianco costato di reale Di forma piatta è composto in parti uguali da osso e carne venata di grasso. Va bene per fare bolliti. A CATANIA: Gabbia pescatta

Il fusello Lungo e stretto è collocato tra il cappello del prete e il collo. Ha carne piuttosto magra ed è un taglio indicato per brasati, bolliti e spezzatini A CATANIA: Osso di spalla

15 - SPALLA – Ideale per cotolette, brasato, scaloppine,, stufato. Il fesone di spalla o Cappello del Prete è un buon taglio di seconda categoria, contiguo al cappello del prete. Dalla parte centrale, che ha una forma regolare, si ottengono scaloppine, bistecche e fettine per involtini. Intero è adatto per brasati e stracotti.A CATANIA: Policiata

Il brione Denominato anche polpa di spalla è, in pratica, la continuazione del fesone di spalla. Ha una forma piuttosto irregolare, è ricoperto da una pellicina che va asportata o incisa prima della cottura. E' adatto per fare brasati, bolliti e ragù.A CATANIA: Ovo di spalla

16 - PUNTA – Ideale per bollito, arrosti -  E' un taglio di terza categoria posto vicino al geretto anteriore. E' un pezzo che viene abbastanza sottovalutato, invece è piuttosto gustoso e in genere si usa per fare tasche farcite. E' tuttavia ottimo come arrosto.

 Il fiocco Si trova accanto alla punta di petto e ne ha le stesse caratteristiche e i medesimi impieghi.

 

 

Costate in vendita alla Pescheria di Catania

 

https://www.mimmorapisarda.it/2024/068.jpg

 

 

Nomi dei tagli di carne in alcune città italiane

 

BARI

BOLOGNA

CATANIA

MESSINA

MILANO

NAPOLI

PALERMO

REGGIO CALABRIA

ROMA

TORINO

Gamboncello

Lanterna

Piscione

Pisciuni

Geretto posteriore

Gamboncello

Piscione

Pisciuni

Musc.post

Musc.post.

Sfasciatura

Scannello

Sfasciatura

Sfasciatura

Rosa

Natica

Natica, Sfasciatura

Entrocoscia

Scannello

Fesa

Pezza a cannello

Gommosa

Vausa

Tanno

Noce

Bavosa

Bausa

Bausa

Rosa

Boccia grande

Lacerto

Girello

Lacerto

Lacerto

Magatello

Lacerto

Lacerto

Lacerto

Girello

Coscia rotonda

Coscio di lombo

Piccione

Judisco

Judisco

Pesce

Colarda

Tedesco

Tudisco

Piccione

Pesce

Dietrocoscia

Culatta

Dietrocoscia

Controlacerto

Fetta di mezzo

Dietrocoscia

Dietrocoscia

Dietro codata

Controgirello

Infuori

Colarda

Fetta

Osso piatto

Codata

Scamone

Colarda

Sottocoda

A codata

Pezza

Sottofiletto spesso

Filetto

Filetto

Filetto

Filetto

Filetto

Filetto

Filetto

Filetto

Filetto

Filetto

Scorzette, Costate rigate

Roastbeef. Lombo,

Trinca

Trinca Costata

Roastbeef

Scorza filetto, Costa

Trinca, Costata

Trinca

Lombo, Costa

Sottofiletto, Costata

Pancettone

Finta cartella

Mastrocosta

Pancetta

Scalfo

Pancettone

Pancia

Mastrocosta

Spuntatura di lombo

Spezzato

Pancettone, Pancetta

Bigolo, Pancia

Bottoniera, Pancetta

Pancetta

Bamborino

Pancia

Pancia, Bruschetto

Mastrocosta, Bollito

Pancetta, Petto sottile

Pancia, Punta di petto

Appiccatura

Costa

Pancetta

Piatto di costa

Costato di reale, della croce

Costata

Gabbia

Gabbia

Spuntature

Spezzato

Rosciale

Costa di sottospalla

Costata della lunga

Sfilatura di costa

Costa della croce o reale

Sottospalla

Spinello

Lattughello

Fracosta

Sottospalla

Spalla

Polpa di spalla

Policiata

Spallone

Fesone di spalla, cappello da prete

Spalla

Piano di spalla

Scorza di spalla

Polpa di spalla

Spalla

Lacertino di spalla

Polpa di spalla

Osso di spalla

Vrazzulieddu

Fusello

Lacertiello

Sfasciatura

Osso di lingua

Sbordone

Rollino

Gamboncello

Polpa di spalla

Ovo di spalla

Ovo di spalla

brione

Spalla

Ovo di spalla

Ovo di spalla

Pulcio

Nocetta di spalla

Gamboncello

Gamba anteriore

Manuzza

Manuzza

Geretto anteriore

Gamboncello

Manuzza

Manuzza

Muscolo anteriore

Muscolo anteriore

Punta di petto

Punta di petto

Punta

Tronco di petto

Punta di petto

Punta di petto

Bruschetto

Fetta con osso bianco

Petto grosso

Punta di petto

Rosciale

Guido

Collo

Sapura

Collo

Locena

Spinello

Spezzato

Collo, Gioara

Collo

Piscione

Mozzicone

Muscolo appendituri

Appendituri

Nervetto

Piscione

Imperatore

Pisciuni

Campanello

Boccia piccola

 

 

 

 

i tagli di vitello

 

Carne di vitello - E' ottenuta dal bovino macellato immaturamente, a circa 120 giorni di età, quando ha raggiunto il peso di 230-250 kg, dopo essere stato alimentato fin dalla nascita esclusivamente con latte. Le carni di vitello sono molto tenere per il superiore contenuto in acqua e il minore contenuto in grasso. Per tale motivo è preferibile cuocere queste carni lentamente. Il contenuto in ferro, nonostante il colore più pallido rispetto alle altre carni bovine, come pure il contenuto in proteine, sono gli stessi delle altre carni bovine.

1 -Il filetto E' assai più piccolo di quello del manzo, è un taglio pregiato, tenero e anche abbastanza costoso. Intero dà il meglio di sè cucinato arrosto, a fette o medaglioni, va cotto in padella con erbe e aromi.

2 - La fesa francese E' un taglio di prima scelta che corrisponde alla "rosa" del bovino adulto ed è composto dalle stesse fascie muscolari. Questa parte è quella preposta per le paillardes, ma di qui si ricavano anche le scaloppine e le fettine per preparare gli involtini.

3 - La noce Si trova sotto la fesa francese e, come quest'ultima, può essere usata per vari tipi di scaloppine, oltre che per ottimi arrosti.

4 - La sottofesa E' un taglio situato sempre nella coscia. Ottimo per arrosti, fettine, involtini e anche brasati

5 - Lo scamone Precede la coscia vera e propria. La parte inferiore prende il nome di arrosto di codino. E' ottimo arrosto e a fette.

6 - I nodini Hanno per base le vertebre lombari e sono composti dal filetto e dal controfiletto divisi da un sottilissimo osso piatto centrale collegato con l'osso superiore, tozzo e massiccio, con il quale forma una specie di "T".

7 - Il carrè Comprende la parte dorsale del bovino. Dalle prime 7 vertebre anteriori si ricavano le costolette, riconoscibili per l'osso che assomiglia all'asticella di una bandiera e la rosetta di carne compatta. La loro "collocazione" ottimale è quella delle famose costolette alla milanese (impanate e fritte), ma si possono anche preparare alla griglia, in padella e persino con intingoli.

8 - Il magatello E' un taglio situato proprio sotto la coda. Ha la forma di "siluro" e pesa al massimo un chilo e mezzo. Se lo si affetta diventa la classica scaloppina, se acquistato intero è insuperabile per la preparazione del famoso vitello tonnato.

9 - Il codone (o codoncino) Confina con lo scamone ed è un taglio indicato soprattutto da tagliare a fettine. Davvero speciale se lo si usa per preparare le scaloppine alla pizzaiola.

10 - Il pesce o piccione E' un piccolo taglio di seconda categoria, arriva al massimo ad un chilo di peso. Intero va bene per i bolliti, macinato per la preparazione di polpette, polpettoni e ripieni.

11 - Lo spinacino E' uno dei pochi tagli di terza categoria del quarto posteriore (insieme al geretto) e si usa per far tasche farcite.

12 - Il geretto posteriore E' la parte alta della gamba e viene sezionato per preparare gli ossobuchi. Intero si chiama stinco.

13 - Il collo Costituito da una grossa massa muscolare, richiede una lunga cottura perchè è ricco di tessuto connettivo. Si adatta bene a stracotti, bolliti, spezzatino e, tritato, è gustoso per polpette e polpettoni. Se lo si cuoce intero bisogna avere cura di tagliarlo in senso perpendicolare alla fibra perchè resti tenero e non filaccioso.

14 - Il reale Si trova vicino al collo e viene ricavato dai muscoli che coprono le prime vertebre dorsali. Si tratta di un taglio piuttosto tenero. Intero va bene per umidi, bolliti e per la carne tritata. A fette fornisce ottime bistecche e involtini. Ma è indicato anche per i classici spezzatini.

15 - Il cappello del prete Proviene dai muscoli della spalla. Infatti è una delle parti in cui viene divisa quest'ultima. Ha forma allungata e si adatta alle lunghe cotture. Infatti va bene per bolliti, umidi e spezzatini.

16 - Il fusello Taglio di seconda categoria; anche lui proviene dai muscoli della spalla. Si utilizza soprattutto per gli spezzatini. Se lo volete cuocere intero, preferite un umido o un bollito.

17 - Il brione E' un taglio molto irregolare, di seconda categoria. Data la sua struttura, se si cuoce intero in umido o brasato va preferibilmente legato. Si adatta anche alla preparazione di ottimi bolliti, ma soprattutto è il pezzo ideale per straccetti e spezzatini.

18 - La punta di petto Forma un taglio unico con la pancia e viene suddiviso nei seguenti sottotagli: fiocco di punte (costituita dai muscoli addominali). La punta di petto è ottima arrostita, ma viene utilizzata prevalentemente per fare rotoli farciti. La parte della pancia, o pancetta, è piatta, piuttosto grassa e ricca di cartilagini, si utilizza per preparare i teneroni. Si divide il pezzo di carne in strisce larghe 2-3 cm. e si arrotola ciascuna su se stessa, si lega e si rosola con olio, salvia, aglio e rosmarino. Si sfuma con vino bianco e si continua la cottura per circa 2 ore a recipiente aperto.

19 - La fesa di spalla Completa di osso, prende anche il nome di aletta o copertina di spalla. E' adatta per i bolliti. Se disossata, si chiama fesa di spalla e si può utilizzare per spezzatini, arrosti farciti e arrotolati, umidi e scaloppine

20 - Il fiocco E' un taglio di terza categoria. Si usa soprattutto lessato ed è un pezzo indispensabile per la preparazione dei tradizionali bolliti di carne misti.

 

 

 

 

 

 

 

 

i tagli di suino

1 - Il collo E' un taglio (corrispondente al reale della carne bovina) ricco di carne alternata con strati di grasso. Usato quasi esclusivamente in salumeria per la preparazione della coppa. Se si trova fresco, va cotto arrosto o brasato. La parte più vicina alla testa fornisce il guanciale.

2 - La spalla Viene usata generalmente per la preparazione del prosciutto cotto di spalla. Fresca, può essere cucinata arrosto oppure stufata.

3 - Il carré Si estende dalla settima costola fino quasi alla coda. E' uno dei tagli più pregiati e costosi. Intero è ottimo arrostito.

3A - Lonza Si tratta del carré disossato che praticamente corrisponde al roast beef del manzo. La lonza è posizionata sopra il filetto e ha una forma allungata, quasi rettangolare. Intera è ottima arrosto, tagliata a fettine va cotta in padella come una scaloppa.

3B - Lombata Si ricava sempre dal carré disossato che comprende lonza, filetto e muscolo centrale. Ottima arrosto e saltata in padella.

3C - Braciola Si tratta del carré intero tagliato a fette tra una costola e l'altra. Le braciole si possono cucinare in padella con aromi e spezie ma sono superlative anche alla griglia e impanata

4 - Il filetto E' una fascia di muscoli (tenerissimi) che si trovano sotto la lonza. Ha forma sottile e allungata (35 cm per 7-8), carne molto magra, un po' più scura delle altre. Può essere cucinato arrosto (intero) oppure tagliato in scaloppine e a medaglioni.

5 - Le puntine Sono il prolungamento in basso delle costole del carré. Si tratta di un taglio piatto e molto economico, usatissimo per la preparazione di ricette regionali. Ottime cotte in forno, in padella e grigliate

6 - Il cosciotto E' uno dei tagli più pregiati e normalmente viene utilizzato per preparare il prosciutto crudo. Fresco può essere cucinato arrosto: all'inglese, con la cotenna, o alla francese, senza. A proposito di cotenna: appena sotto c'è la fascia grassa, ovvero il lardo.

7 - La pancetta Si trova sotto le puntine e si può usare fresca per fare ottimi arrosti. Ma viene spesso stagionata o affumicata.

 

 

Quali sono i tempi di cottura della carne di maiale?

La carne di maiale non è tutta uguale. Scopri tagli e cottura per piatti di successo!

Del maiale, si sa, non si butta via niente. Eppure proprio questo motivo è alla base di un nostro atteggiamento quasi schizofrenico nei suoi confronti: adoriamo gli insaccati, ma tremiamo per i grassi saturi, vogliamo carni sempre più magre e impazziamo per il lardo. Ma insomma, dove sta la verità?

Un pregiudizio da sfatare sul maiale

Il maiale viene comunemente guardato con sospetto, perché la sua carne è ritenuta grassa dai più. In realtà non è del tutto vero visto che si tratta di una carne bianca, la cui la digeribilità non è poi così diversa dalle altre carni in uso. Inoltre oggigiorno si allevano maiali magri di peso non superiore ai 150 kg e con contenuti di grasso molto vicini a quelli dei bovini adulti.

Cottura bovina e cottura suina

La carne bianca del maiale ci può trarre in inganno perché in cottura sembra comportarsi come quella rossa. In verità si tratta di un nostro errore, ovvero quello di cuocere il suino con gli stessi identici tempi della carne di vitello. Solo che in questo modo la carne risulterà stopposa, gommosa e difficile da mandar giù.

Tagli magri e tagli grassi del maiale

Per cuocere al meglio il nostro maiale, bisogna fare attenzione alla distinzione tra parti magre e parti grasse, poiché a seconda del taglio varia anche il tipo di cottura. I tempi giusti per cuocere i tagli magri del maiale, come ad esempio le braciole, le costolette o i carré, sono appena superiori alla carne di bovino. In questo modo la nostra carne risulterà più digeribile, oltre che più morbida e più gradevole al palato. Per i tagli grassi, invece, come i tagli della coscia, del fianco o della spalla, sono adatte cotture in umido e in stufato: basti pensare alla tradizionale preparazione del classico ragù napoletano, dove la carne usata è polpa di maiale, coscia o spalla, lardellata con lardo o pancetta, dai tempi estremamente lunghi, ma dalle grandi soddisfazioni assicurate. L’importante comunque quando cuoci la carne di maiale è che deve essere cotto a una temperatura minima di 60°C in modo da eliminare  la Trichina, un parassita che si può trovare nei muscoli del suino e che è molto dannoso per la salute umana.

Filetto di maiale

In Italia Settentrionale e centrale questo taglio è abbastanza utilizzato e si cucina di solito arrostito intero, in forno come quello bovino, o a fette; molte ricette del filetto di vitello e di manzo si adattano anche a quello di maiale.  Per il classico filetto, quindi è bene rosolare la carne in burro chiarificato che regge bene l’alta temperatura almeno 3, 4 minuti per lato, poi si può procedere sfumando con, vino rosso, oppure un bicchierino di Cognac, panna fresca,  aggiustare di sale e pepe e lasciar cuocere per almeno altri due minuti. Invece, costolette e arrosti,  che derivano anch’essi dal taglio del lombo,  sono  anche adatti per una cottura senza aggiunta di liquido.

Arrosto di Maiale

Per un buon arrosto di maiale, il taglio più indicato sarebbe la spalla, ma a meno di disporre di un forno molto grande e di tanta pazienza essendo molto grosso e difficile da trattare e pulire meglio dedicarsi alla coppa, detto anche capocollo. Questo taglio è la parte dei muscoli del collo e del dorso. Ottima accompagnata da aromi, trito di verdure, ma anche con castagne e cipolle, è ideale anche tagliata aperta e farcita con altri ingredienti, come polpa di vitello, pancetta o prosciutto crudo. La cottura è ovviamente molto lunga, si parte in forno da una rosolatura iniziale di 30 minuti e poi una cottura vera e propria con l’aggiunta di liquido (come brodo, vino  o liquore) verdure e aromi, per almeno un’altra ora. Verifica inserendo la sonda del termometro da cucina che la temperatura al cuore oscilli tra i 63 e i 65°C se il peso della carne a crudo è compreso tra i 3-4 kg, altrimenti  . Solo allora si potrà ritenere cotto a puntino.

 Giulia Ubaldi

http://www.lacucinaitaliana.it/tutorial/le-tecniche/scuola-di-cucina-la-carne-di-maiale-quali-sono-i-tempi-di-cottura/?utm_source=facebook&utm_medium=cpc&utm_campaign=PPA_tempi_di_cottura_carne

 

i tagli di agnello

1 - Il collo E' un taglio molto saporito ed economico. ha carne piuttosto consistente che, per diventare tenera e succosa, richiede una lunga e lenta cottura. E' un pezzo adatto soprattutto per preparare spezzatini, oppure per brasati e se tagliato a fette molto sottili é ottimo per fare rotoli farciti.
2 - La spalla Ha una forma rettangolare, con carne soda e abbastanza gelatinosa, ma comunque piuttosto tenera. Viene venduta quasi sempre già disossata, per questo è speciale per essere farcita, arrotolata e arrostita in forno a sul fornello.

3 - Il carrè E' uno dei 2 tagli pregiati dell'agnello, ottimo arrostito. Se lo si taglia a fette tra un osso e l'altro, fornisce le costolette che devono essere sempre un po' spesse affinchè non induriscano in cottura. Si cuociono in padella, sulla griglia (diventano così le famose scottadito) oppure in forno con le patate.

4 - La sella E' un taglio che si trova fra le ultime costolette del carrè e l'attaccatura del cosciotto. E' una parte molto carnosa e si presta particolarmente a essere arrostita o brasata. La sella comprende anche i due filetti dalla carne tenerissima. Questi ultimi, tagliati a fette piuttosto spesse, forniscono dei medaglioni che sono ottimi da cuocere alla griglia oppure in padella con salsine delicate.

5 - Il petto E' un taglio che si trova nella parte inferiore dell'animale. Molto ricco di grasso e larghi ossi che vanno in genere eliminati prima di arrotolarlo e cuocerlo arrosto. Può venire anche farcito. Data la struttura dura e gelatinosa della sua carne, richiede una lunga e lenta cottura sia in casseruola sia in forno.

6 - Il cosciotto E' l'altro taglio pregiato dell'agnello da cui, intero o disossato, si ottiene un eccellente arrosto. Generalmente il cosciotto viene prima fatto marinare per qualche ora con olio e erbe aromatiche oppure con vino bianco e verdure fresche (sedano, carota, cipolla) in modo che acquisti ancora più sapore. Poi va cotto in forno. I tempi di cottura prevedono, per un cosciotto ben cotto, almeno 20 minuti per ogni 500 g di peso a crudo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il ragù di carne

è una delle preparazioni culinarie più popolari del nostro paese, eppure l’origine del suo nome non è italiana. La parola “ragù”, infatti, è un adattamento del francese “ragoût”, derivato dal verbo “ragoûter”, che significa "risvegliare l'appetito" (non si poteva effettivamente utilizzare un termine più azzeccato per definire un cibo così ghiotto). Anticamente si riferiva a dei piatti di carne stufata immersa in un ricco sugo che divenne in seguito il condimento di altre pietanze.

 Attualmente la parola “ragù” identifica genericamente un sugo a base di carne che viene cotta a lungo e a fuoco lento assieme ad altri ingredienti, diversi a seconda della tradizione di ogni regione. Le varianti di ragù italiano sono infatti moltissime. Si va dalle ricette più classiche, a base di carne di manzo macinata grossa, cucinata con grassi, odori e salsa di pomodoro; a quelle più saporite, che utilizzano pancetta o salsiccia; ci sono poi i ragù di cacciagione, dal gusto molto deciso, fatti con carne marinata e profumata da abbondanti spezie ed erbe aromatiche; oppure i ragù più raffinati, in bianco, in cui il gusto della carne predomina su quello di tutti gli altri ingredienti.

 I ragù che gareggiano per notorietà, sia in Italia che all’estero, sono sicuramente quello “alla bolognese” e quello “alla napoletana”. La ricetta del primo, vanto della cucina emiliana, nel 1982 è stata addirittura depositata dalla delegazione bolognese dell'Accademia Italiana della Cucina presso la Camera di Commercio di Bologna. Gli ingredienti ufficiali sono: manzo macinato grosso, pancetta di maiale, passata di pomodoro, carote, sedano, cipolla, vino bianco secco, latte intero, brodo, olio d’oliva o burro, sale, pepe e panna liquida (quest’ultima facoltativa). Ovviamente non si può parlare di ragù alla bolognese se non accompagnandolo alle tagliatelle all’uovo, pasta immancabile nella cucina emiliana.

 A Napoli il ragù ha origini “leggendarie”. Si narra che intorno al 1300 questo irresistibile sugo fu in grado di rabbonire un nobile crudele che abitava in un noto palazzo della città partenopea. La moglie, riconoscente, decise di chiamare suo figlio “raù”. E a rendere omaggio al ragù napoletano ci ha pensato anche Eduardo De Filippo in tempi più recenti con la sua poesia recitata nella commedia “Sabato domenica e lunedì”: 'O rraù ca me piace a me m' 'o ffaceva sulo mammà... (Il ragù che piace a me, me lo faceva solo mia madre). D’altronde la preparazione del ragù, a Napoli, è un vero rituale di famiglia, lungo e paziente. Il sugo viene fatto cuocere per circa cinque ore, poi lasciato riposare per altre 24, trionfando infine nel tradizionale, succulento pranzo della domenica: gli ziti col ragù.

 Anche in Piemonte troviamo una “curiosità” sul ragù, legata alla storia della regione. Stiamo parlando del “ragù alla Cavour”, il sugo dedicato al noto statista torinese. Camillo Benso era un amante della buona cucina e si racconta che la utilizzasse volentieri come “strumento diplomatico” per portare dalla sua parte gli antagonisti politici, seducendoli con banchetti di Palazzo pantagruelici. Diverse pietanze tipiche piemontesi, molto gradite al Conte, portano il suo nome (oltre al ragù troviamo gli Agnolotti e la Finanziera alla Cavour). Il ragù alla Cavour è fatto con fegatini di pollo e rigaglie, conditi con abbondante burro e aromatizzati con Brandy o Marsala. Una vera ghiottoneria, in grado di far arrendere qualsiasi nemico.

 Un altro ragù tipico del Piemonte, più conosciuto di quello “alla Cavour”, è il sugo preparato con la pregiata carne di razza piemontese fatta cuocere a lungo, a fiamma bassa, insieme ad ortaggi ed erbe aromatiche. Lo si cucina in due modi: in bianco, profumato con vino bianco o marsala; oppure con polpa o concentrato di pomodoro, solitamente insaporito da un corposo vino rosso regionale. Entrambi i ragù sono perfetti per condire le paste locali, come gli agnolotti o i tajarin, ma rendono golosa qualsiasi pastasciutta.

 ...Se vi è venuta voglia di ragù, vi suggeriamo di assaggiare quelli proposti nel nostro shop, dei comodi e gustosi sughi pronti, preparati con soli ingredienti naturali e di prima qualità, secondo le migliori ricette della tradizione piemontese.

http://landsofgoodness.com/it/blog/il-ragu-di-carne-b181.html

 

 

 

 

 

 

La tannura è un fornello a carbone portatile, (simile ad un piccolo barbecue), generalmente realizzato in ferro, tipicamente usato in Sicilia. Il nome deriva probabilmente dall'atanor, la fornace degli alchimisti. Di forma cubica e sorretto su quattro piedi, è costituito da una camera con sportellino frontale di accesso, sovrastata da una griglia asportabile munita di sponde per il contenimento della brace.

Nella camera inferiore si immettono frammenti di legno o paglia di facile accensione per attizzare il carbone (carbonella) posto sulla griglia sovrastante; la ventilazione, che può anche essere forzata con un mantice od un ventaglio, favorisce la più rapida e più intensa combustione della carbonella quando lo sportellino è aperto; nella stessa camera si raccolgono per caduta le ceneri di combustione. Nella parte superiore, sulle sponde, si pone il contenitore per la cottura dei cibi, che può essere una pentola (in siciliano pignata), una padella (in siciliano paredda o padedda), una griglia o una graticola (in siciliano rarigghia, radigghia). La tannura viene chiamata anche cufuni, fornellu o fucuni.

 

la versione moderna, ricavata da vecchie bombole

 di gas metano, del fucuni (o cufularu) catanese.

 

 

FUOCONE - LA SPINA in L'amante del paradiso 1997: "...vede tutto scuro scuro, lo stabbio..., il mestolo, il fuocone..." (p. 280).

Italianisation de sic. fucuni, enregistré par Piccitto II 140 "fornello portatile di terracotta o di ferro .2. rudimentale fornello approntato con pietre per cucinare all'aperto...", cf. Rohlfs 282 fucune "focolare". Sic. fucuni, calabr. fucune < calabro-sic. focu 'feu' < lat. FOCU(M) 'id.'.

Arrostire la carne sul fuoco è un compito alla portata di chiunque. Per preparare un’ottima brace, invece, bisogna seguire qualche accorgimento.

Innanzitutto ogni amante del barbecue deve prepararsi con largo anticipo, accendendo il fuoco molto prima della cottura dei cibi: in questo modo avrà disposizione una scorta di brace sufficiente e, soprattutto, senza fiammate improvvise.

 

 

Preparazione

Per una grigliata che si rispetti, poi, occorre scegliere un tipo di carne con piccole venature di grasso (braciole di maiale, costine di agnello e filetti di manzo) e accompagnarla con una buona marinatura.

Prima della cottura, i cibi vanno immersi in una miscela composta da tre ingredienti base: olio, acidi (aceto, limone o vino bianco) e aromi. Le bistecche, ben irrorate, saranno così più morbide e saporite e, durante la cottura, non si seccheranno.

La marinatura, fondamentale per dare un qualcosa in più alla nostra brace, permette agli amanti del barbecue di sprigionare la propria fantasia e di sperimentare diversi sapori. A nostra disposizione, infatti, ci sono diversi tipi di olio (extravergine di oliva, di semi, di noce), di aceto (di vino rosso, di vino bianco, balsamico e di mele), di erbe aromatiche (rosmarino, timo, dragoncello, basilico, alloro) e di spezie (chiodi di garofano, semi di finocchio). Senza dimenticare sale, pepe e aglio.

Per rendere più saporita le nostre portate basta scegliere una composizione di nostro gradimento, facendo attenzione ad utilizzare una stessa quantità di olio e aceto (o limone). Una volta preparato l’intingolo, la carne può essere immersa per un periodo medio di due ore. Per quest’ultima operazione vanno usati solo contenitori di plastica, ceramica, acciaio inox e vetro e mai quelli in rame o alluminio.

E se vogliamo marinare anche altri cibi, dobbiamo preparare di nuovo il tutto: nella carne, infatti, ci sono dei batteri che muoiono anche a basse temperature, ma non nella nostra marinata.

 

Combustibile

Prima ancora di iniziare a cuocere gli alimenti, occorre scegliere un tipo di combustibile adatto al cibo che stiamo per mettere sulla griglia: il legno di ulivo è indicato per cuocere il pesce e la carne d’agnello, quello di ciliegio va bene con le carni rosse, mentre la quercia s’abbina con tutto. Da evitare, se possibile, le cassette della frutta e il legname resinoso (pino e abete).

Il tipo di combustibile usato per la brace incide fortemente sul sapore dei cibi cotti sulla griglia: si può scegliere tra la legna comune e la carbonella, e va evitato l’uso di materiale di cui non conosciamo la provenienza, come i residui di cantiere e i legni verniciati.
Chi preferisce la legna, invece, può scegliere tra le tipologie “dure” (faggio, quercia, ulivo, faggio e alberi da frutto in generale), ricordando che il pino e l’abete, molto resinosi, possono andare bene per avviare il fuoco perché altamente infiammabili, ma non per la cottura degli alimenti: il loro sapore, infatti, sarebbe compromesso dalla resina.
Per accendere la carbonella ci sono le diavoline o altri prodotti reperibili sul mercato, come stecche, bustine, zollette e liquidi infiammabili, ma non bisogna mai usare l’alcool o altri prodotti simili, soprattutto per ravvivare il fuoco: si corre il rischio di gravi ustioni.
Con ogni tipo di combustibile, comunque, bisogna aspettare che la fiamma viva lasci il passo alla brace ardente: una quarantina di minuti e la carne può essere messa a cuocere, cercando di mantenere la griglia a una distanza corretta. I cibi non vanno mai cotti sulla fiamma perché si carbonizzano e possono produrre sostanze pericolose per l’organismo.
Il bello di un barbecue a carbone sta nella sua semplicità. Alla base di un buon barbecue a carbone c'è una griglia per il carbone su cui mettere il combustibile. Sopra a questa c'è una griglia di cottura. Un coperchio con prese d'aria completa il tutto. Semplicissimo.
Le griglie di cottura sono generalmente costruite in alluminio nichelato o cromato. Una griglia di cottura più spessa, e di materiale più pesante, durerà più a lungo e distribuirà e tratterrà meglio il calore. Le griglie trattate con smalto porcellanato sono normalmente una caratteristica positiva. Le migliori griglie vengono prodotte in ghisa , acciaio inossidabile, o alluminio o ghisa smaltata.

Cottura

Il risultato della brace dipende dalla sua temperatura: se questa è troppo alta, infatti, gli alimenti si arrostiscono, perdono il loro sapore e si fanno eccessivamente duri. 

E’ meglio prepararsi prima, avendo cura di iniziare a cuocere quando non ci sono più le fiamme e quando si è formato un leggero strato di cenere bianca sulla carbonella o sulla legna.

Per capire quando è giunto il momento di adagiare la carne sulla griglia, si può usare il palmo della mano: se riusciamo a tenerlo ad una decina di centimetri dalla carbonella sopportando il calore per tre secondi, allora possiamo procedere con la cottura (5 secondi è il tempo indicato per il pesce, la verdura e le carni bianche, che richiedono una temperatura leggermente più bassa). Per non alterare la temperatura, inoltre, dobbiamo evitare di aggiungere legna durante la cottura.

L’ottima riuscita del barbecue dipende anche dall’ottima cottura degli alimenti: ma quando bisogna toglierli dalla griglia? Per capirlo, si possono usare i termometri per alimenti che ci sono in commercio oppure si può semplicemente levare la bistecca dalla brace e tagliarne un pezzetto. Diverso il discorso per il pesce: basta aprirlo un po’ con una forchetta e verificare se si sfalda facilmente. In ogni caso, i due alimenti non vanno cotti insieme: il loro grasso, infatti, libera gli odori, alterando il sapore dell’uno e dell’altro.

 

Qualche trucco

 

La prima regola è quella di non avere fretta: si inizia a cuocere solo quando la fiamma è spenta del tutto e resta solo la brace (ben rossa per la carne, velata da uno strato di cenere per i pesci piccoli o le carni delicate).
La brace deve essere disposta in modo differente a seconda della quantità e della qualità dei cibi da cuocere e, soprattutto, deve essere disposta in modo tale che si possa aumentare o diminuire l'intensità calorica secondo necessità: è meglio ammucchiare più brace sull'esterno, in modo da aumentare l'uniformità del calore.

La griglia deve essere sempre posta in anticipo sulla brace e deve essere ben calda quando vi si poggiano gli alimenti, per evitare che i cibi si attacchino e che si rovinino nel momento in cui devono essere girati.

 

 

 

FUOCONE - LA SPINA in L'amante del paradiso 1997: "...vede tutto scuro scuro, lo stabbio..., il mestolo, il fuocone..." (p. 280).

Italianisation de sic. fucuni, enregistré par Piccitto II 140 "fornello portatile di terracotta o di ferro .2. rudimentale fornello approntato con pietre per cucinare all'aperto...", cf. Rohlfs 282 fucune "focolare". Sic. fucuni, calabr. fucune < calabro-sic. focu 'feu' < lat. FOCU(M) 'id.'.

 

 

Arrostire la carne sul fuoco è un compito alla portata di chiunque. Per preparare un’ottima brace, invece, bisogna seguire qualche accorgimento.

Innanzitutto ogni amante del barbecue deve prepararsi con largo anticipo, accendendo il fuoco molto prima della cottura dei cibi: in questo modo avrà disposizione una scorta di brace sufficiente e, soprattutto, senza fiammate improvvise.

 

Preparazione

Per una grigliata che si rispetti, poi, occorre scegliere un tipo di carne con piccole venature di grasso (braciole di maiale, costine di agnello e filetti di manzo) e accompagnarla con una buona marinatura.

Prima della cottura, i cibi vanno immersi in una miscela composta da tre ingredienti base: olio, acidi (aceto, limone o vino bianco) e aromi. Le bistecche, ben irrorate, saranno così più morbide e saporite e, durante la cottura, non si seccheranno.

La marinatura, fondamentale per dare un qualcosa in più alla nostra brace, permette agli amanti del barbecue di sprigionare la propria fantasia e di sperimentare diversi sapori. A nostra disposizione, infatti, ci sono diversi tipi di olio (extravergine di oliva, di semi, di noce), di aceto (di vino rosso, di vino bianco, balsamico e di mele), di erbe aromatiche (rosmarino, timo, dragoncello, basilico, alloro) e di spezie (chiodi di garofano, semi di finocchio). Senza dimenticare sale, pepe e aglio.

Per rendere più saporita le nostre portate basta scegliere una composizione di nostro gradimento, facendo attenzione ad utilizzare una stessa quantità di olio e aceto (o limone). Una volta preparato l’intingolo, la carne può essere immersa per un periodo medio di due ore. Per quest’ultima operazione vanno usati solo contenitori di plastica, ceramica, acciaio inox e vetro e mai quelli in rame o alluminio.

E se vogliamo marinare anche altri cibi, dobbiamo preparare di nuovo il tutto: nella carne, infatti, ci sono dei batteri che muoiono anche a basse temperature, ma non nella nostra marinata.

 

Combustibile

Prima ancora di iniziare a cuocere gli alimenti, occorre scegliere un tipo di combustibile adatto al cibo che stiamo per mettere sulla griglia: il legno di ulivo è indicato per cuocere il pesce e la carne d’agnello, quello di ciliegio va bene con le carni rosse, mentre la quercia s’abbina con tutto. Da evitare, se possibile, le cassette della frutta e il legname resinoso (pino e abete).

Il tipo di combustibile usato per la brace incide fortemente sul sapore dei cibi cotti sulla griglia: si può scegliere tra la legna comune e la carbonella, e va evitato l’uso di materiale di cui non conosciamo la provenienza, come i residui di cantiere e i legni verniciati.
Chi preferisce la legna, invece, può scegliere tra le tipologie “dure” (faggio, quercia, ulivo, faggio e alberi da frutto in generale), ricordando che il pino e l’abete, molto resinosi, possono andare bene per avviare il fuoco perché altamente infiammabili, ma non per la cottura degli alimenti: il loro sapore, infatti, sarebbe compromesso dalla resina.
Per accendere la carbonella ci sono le diavoline o altri prodotti reperibili sul mercato, come stecche, bustine, zollette e liquidi infiammabili, ma non bisogna mai usare l’alcool o altri prodotti simili, soprattutto per ravvivare il fuoco: si corre il rischio di gravi ustioni.
Con ogni tipo di combustibile, comunque, bisogna aspettare che la fiamma viva lasci il passo alla brace ardente: una quarantina di minuti e la carne può essere messa a cuocere, cercando di mantenere la griglia a una distanza corretta. I cibi non vanno mai cotti sulla fiamma perché si carbonizzano e possono produrre sostanze pericolose per l’organismo.
Il bello di un barbecue a carbone sta nella sua semplicità. Alla base di un buon barbecue a carbone c'è una griglia per il carbone su cui mettere il combustibile. Sopra a questa c'è una griglia di cottura. Un coperchio con prese d'aria completa il tutto. Semplicissimo.
Le griglie di cottura sono generalmente costruite in alluminio nichelato o cromato. Una griglia di cottura più spessa, e di materiale più pesante, durerà più a lungo e distribuirà e tratterrà meglio il calore. Le griglie trattate con smalto porcellanato sono normalmente una caratteristica positiva. Le migliori griglie vengono prodotte in ghisa , acciaio inossidabile, o alluminio o ghisa smaltata.

 

Cottura

Il risultato della brace dipende dalla sua temperatura: se questa è troppo alta, infatti, gli alimenti si arrostiscono, perdono il loro sapore e si fanno eccessivamente duri. 

E’ meglio prepararsi prima, avendo cura di iniziare a cuocere quando non ci sono più le fiamme e quando si è formato un leggero strato di cenere bianca sulla carbonella o sulla legna.

Per capire quando è giunto il momento di adagiare la carne sulla griglia, si può usare il palmo della mano: se riusciamo a tenerlo ad una decina di centimetri dalla carbonella sopportando il calore per tre secondi, allora possiamo procedere con la cottura (5 secondi è il tempo indicato per il pesce, la verdura e le carni bianche, che richiedono una temperatura leggermente più bassa). Per non alterare la temperatura, inoltre, dobbiamo evitare di aggiungere legna durante la cottura.

L’ottima riuscita del barbecue dipende anche dall’ottima cottura degli alimenti: ma quando bisogna toglierli dalla griglia? Per capirlo, si possono usare i termometri per alimenti che ci sono in commercio oppure si può semplicemente levare la bistecca dalla brace e tagliarne un pezzetto. Diverso il discorso per il pesce: basta aprirlo un po’ con una forchetta e verificare se si sfalda facilmente. In ogni caso, i due alimenti non vanno cotti insieme: il loro grasso, infatti, libera gli odori, alterando il sapore dell’uno e dell’altro.

 

Qualche trucco

La prima regola è quella di non avere fretta: si inizia a cuocere solo quando la fiamma è spenta del tutto e resta solo la brace (ben rossa per la carne, velata da uno strato di cenere per i pesci piccoli o le carni delicate).
La brace deve essere disposta in modo differente a seconda della quantità e della qualità dei cibi da cuocere e, soprattutto, deve essere disposta in modo tale che si possa aumentare o diminuire l'intensità calorica secondo necessità: è meglio ammucchiare più brace sull'esterno, in modo da aumentare l'uniformità del calore.

La griglia deve essere sempre posta in anticipo sulla brace e deve essere ben calda quando vi si poggiano gli alimenti, per evitare che i cibi si attacchino e che si rovinino nel momento in cui devono essere girati.

Evitare di cuocere i cibi sulla fiamma, ma accertarsi che questa sia completamente spenta prima della cottura. Nel primo caso, gli alimenti si bruciano esternamente; nel secondo, invece, si cuociono in maniera uniforme.
Aggiungere il sale sulla carne solo al termine della cottura. Il sale estrae l’acqua e le sostanze nutritive dagli alimenti, rendendoli meno saporiti e più stopposi.
Come combustibile preferire una carbonella di qualità: non usare mai il legno che, ricco di resina, rischia di rovinare il sapore dei cibi.
Per una buona cottura la carbonella deve essere ardente e coperta dalla cenerespenta. Basteranno all'incirca 10/15 minuti per una grigliata perfetta.

Una volta adagiata la carne sulla griglia, bisogna evitare di girarla di continuo per permettere una cottura uniforme.

Evitare di rigirare continuamente la carne sulla griglia: salsicce, spiedini e bistecche vanno cotti bene prima da un lato e poi dall'altro.

Mai condire la carne prima della cottura: eviterete così di indurirla o bruciarla sul barbecue.

Dopo la cottura sistemare i cibi su un tagliere con bordi scanalati e farli riposare un po' prima del taglio.
Le verdure alla brace sono più saporite se cotte a temperature basse. Prima di cuocere la carne è meglio non togliere il grasso: la mantiene più tenera (e comunque si scioglie durante la cottura).
Una volta spenta, la brace va tolta dal barbecue, che altrimenti rischia di rovinarsi. Infine, bisogna ricordarsi di coprirlo, per proteggerlo dall’umidità e dalla pioggia.

Non lasciare mai incustodito il barbecue, fino al completo spegnimento delle braci, soprattutto se vi trovate all’aperto può essere pericoloso. Dopo ogni cottura, il barbecue va pulito a fondo. Per eliminare il grasso residuo, la griglia può essere scaldata oppure strofinata con cuscinetti abrasivi o spazzole con setole metalliche. Per i più precisi, in commercio ci sono sgrassatori specifici.

 

www.carnealfuoco.it

 

BBQ

 

LEGGENDE E FALSI MITI

 

 

 

 

 

LA NOTTE DOPO LA PIZZA GONFIORI ADDOMINALI E TANTA SETE? ECCO PERCHÉ

 

Passare una notte con disturbi intestinali, sete, insonni, dopo una piacevole serata in pizzeria, è cronaca di un numero sempre più crescente di persone di ogni età!

La pizza e’ un piatto regionale ed nazionale, da valorizzare con ingredienti di valore nutrizionale e gastronomico.

Una buona pizza per essere tale non deve procurare sete e non deve essere indigesta. Purtroppo sempre più spesso mangiamo pizze preparate con farine troppo ricche di proteine, glutine, amido resistente, con additivi e stabilizzanti. Farine per pizze con il 20-30% di farina Manitoba, con elevato contenuto di proteine e di glutine.

Vengono utilizzate farine molto forti (w da 280 a 420). Con queste farine la pizza è un concentrato di glutine, che forma un impasto robusto in grado di “reggere” pomodoro e mozzarella oppure altri ingredienti.

Se il tempo della lievitazione non è adeguato durante la cottura ad alte temperature si ha la reazione di Maillard con formazione di proteine glicate: unione di glucosio con un aminoacido delle proteine delle farine. Le proteine glicate sono molecole aggressive contro le pareti intestinali e se assorbite nel sangue, possono danneggiare il sistema vascolare e la matrice extra cellulare. Inoltre nella pizza è presente l’amido resistente, “resistente” perché non digerito dagli enzimi digestivi dell’intestino tenue. Le farine per lo più usate dai pizzaioli (non tutti però, onore e merito ai veri pizzaioli) possono risultare non compatibili con il nostro intestino. Le parti della pizza che non vengono digerite nel tenue transitano nel colon, dove vengono “mangiate” da miliardi di batteri con produzione di gas (meteorismo), con comparsa di disturbi intestinali: diarrea, sindrome colon irritabile! Inoltre si ha un richiamo di acqua dal sangue all’interno dell’intestino con comparsa di sete prolungata nella notte! Una pizza pesa 150 g (base) con una dose di carboidrati attorno a 90 g circa, in grado di far salire la glicemia dopo averla mangiata, con secrezione di insulina! Contiene circa 20 grammi di proteine!

La qualità e la salubrità della pizza dipendono dalle farine usate, dal tempo di lievitazione e dalle temperature di cottura, oltre dagli ingredienti utilizzati per infarcire la pizza! La pizza realizzata in casa, con farine meno ricche di proteine e senza farina Manitoba, con giusti, lunghi tempi di lievitazione e temperature di cottura non troppo elevate, non procura la stessa sintomatologia della pizza mangiata in pizzeria. La pizza può essere realizzata anche con farine ottenute da grani di varietà antica, assai più sani e più nutritivi dei grani varietà moderne.

 

Fonte: Prof PierLuigi Rossi

http://www.direttanews24.com/la-notte-dopo-la-pizza-gonfiori-addominali-e-tanta-sete-ecco-perche/

 

 



 

 

 

 

 

 

 

 

 

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