da "Cavalleria rusticana", di Giovanni Verga Turiddu Macca, il figlio della gnà Nunzia, come tornò da fare il soldato, ogni domenica si pavoneggiava in piazza coll'uniforme da bersagliere e il berretto rosso, che sembrava quella della buona ventura, quando mette su banco colla gabbia dei canarini. Le ragazze se lo rubavano cogli occhi, mentre andavano a messa col naso dentro la mantellina, e i monelli gli ronzavano attorno come le mosche. Egli aveva portato anche una pipa col re a cavallo che pareva vivo, e accendeva gli zolfanelli sul dietro dei calzoni, levando la gamba, come se desse una pedata. Ma con tutto ciò Lola di massaro Angelo non si era fatta vedere né alla messa, né sul ballatoio, ché si era fatta sposa con uno di Licodia, il quale faceva il carrettiere e aveva quattro muli di Sortino in stalla. Dapprima Turiddu come lo seppe, santo diavolone! voleva trargli fuori le budella della pancia, voleva trargli, a quel di Licodia! Però non ne fece nulla, e si sfogò coll'andare a cantare tutte le canzoni di sdegno che sapeva sotto la finestra della bella. - Che non ha nulla da fare Turiddu della gnà Nunzia, - dicevano i vicini, - che passa la notte a cantare come una passera solitaria? Finalmente s'imbattè in Lola che tornava dal viaggio alla Madonna del Pericolo, e al vederlo, non si fece né bianca né rossa quasi non fosse stato fatto suo. - Beato chi vi vede! - le disse. - Oh, compare Turiddu, me l'avevano detto che siete tornato al primo del mese. - A me mi hanno detto delle altre cose ancora! - rispose lui. - Che è vero che vi maritate con compare Alfio, il carrettiere? - Se c'è la volontà di Dio! - rispose Lola tirandosi sul mento le due cocche del fazzoletto. - La volontà di Dio la fate col tira e molla come vi torna conto! E la volontà di Dio fu che dovevo tornare da tanto lontano per trovare ste belle notizie, gnà Lola! - Il poveraccio tentava di fare ancora il bravo, ma la voce gli si era fatta roca; ed egli andava dietro alla ragazza dondolandosi colla nappa del berretto che gli ballava di qua e di là sulle spalle. A lei, in coscienza, rincresceva di vederlo così col viso lungo, però non aveva cuore di lusingarlo con belle parole. - Sentite, compare Turiddu, - gli disse alfine, - lasciatemi raggiungere le mie compagne. Che direbbero in paese se mi vedessero con voi?... - È giusto, - rispose Turiddu; - ora che sposate compare Alfio, che ci ha quattro muli in stalla, non bisogna farla chiacchierare la gente. Mia madre invece, poveretta, la dovette vendere la nostra mula baia, e quel pezzetto di vigna sullo stradone, nel tempo ch'ero soldato. Passò quel tempo che Berta filava, e voi non ci pensate più al tempo in cui ci parlavamo dalla finestra sul cortile, e mi regalaste quel fazzoletto, prima d'andarmene, che Dio sa quante lacrime ci ho pianto dentro nell'andar via lontano tanto che si perdeva persino il nome del nostro paese. Ora addio, gnà Lola, facemu cuntu ca chioppi e scampau, e la nostra amicizia finiu -. La gnà Lola si maritò col carrettiere; e la domenica si metteva sul ballatoio, colle mani sul ventre per far vedere tutti i grossi anelli d'oro che le aveva regalati suo marito. Turiddu seguitava a passare e ripassare per la stradicciuola, colla pipa in bocca e le mani in tasca, in aria d'indifferenza, e occhieggiando le ragazze; ma dentro ci si rodeva che il marito di Lola avesse tutto quell'oro, e che ella fingesse di non accorgersi di lui quando passava. - Voglio fargliela proprio sotto gli occhi a quella cagnaccia! - borbottava. Di faccia a compare Alfio ci stava massaro Cola, il vignaiuolo, il quale era ricco come un maiale, dicevano, e aveva una figliuola in casa. Turiddu tanto disse e tanto fece che entrò camparo da massaro Cola, e cominciò a bazzicare per la casa e a dire le paroline dolci alla ragazza. - Perché non andate a dirle alla gnà Lola ste belle cose? - rispondeva Santa. - La gnà Lola è una signorona! La gnà Lola ha sposato un re di corona, ora! - Io non me li merito i re di corona. - Voi ne valete cento delle Lole, e conosco uno che non guarderebbe la gnà Lola, né il suo santo, quando ci siete voi, ché la gnà Lola, non è degna di portarvi le scarpe, non è degna. - La volpe quando all'uva non potè arrivare... - Disse: come sei bella, racinedda mia! - Ohè! quelle mani, compare Turiddu. - Avete paura che vi mangi? - Paura non ho né di voi, né del vostro Dio. - Eh! vostra madre era di Licodia, lo sappiamo! Avete il sangue rissoso! Uh! che vi mangerei cogli occhi. - Mangiatemi pure cogli occhi, che briciole non ne faremo; ma intanto tiratemi su quel fascio. - Per voi tirerei su tutta la casa, tirerei! Ella, per non farsi rossa, gli tirò un ceppo che aveva sottomano, e non lo colse per miracolo. - Spicciamoci, che le chiacchiere non ne affastellano sarmenti. - Se fossi ricco, vorrei cercarmi una moglie come voi, gnà Santa. - Io non sposerò un re di corona come la gnà Lola, ma la mia dote ce l'ho anch'io, quando il Signore mi manderà qualcheduno. - Lo sappiamo che siete ricca, lo sappiamo! - Se lo sapete allora spicciatevi, ché il babbo sta per venire, e non vorrei farmi trovare nel cortile -. Il babbo cominciava a torcere il muso, ma la ragazza fingeva di non accorgersi, poiché la nappa del berretto del bersagliere gli aveva fatto il solletico dentro il cuore, e le ballava sempre dinanzi gli occhi. Come il babbo mise Turiddu fuori dell'uscio, la figliuola gli aprì la finestra, e stava a chiacchierare con lui ogni sera, che tutto il vicinato non parlava d'altro. - Per te impazzisco, - diceva Turiddu, - e perdo il sonno e l'appetito. - Chiacchiere. - Vorrei essere il figlio di Vittorio Emanuele per sposarti! - Chiacchiere. - Per la Madonna che ti mangerei come il pane! - Chiacchiere! - Ah! sull'onor mio! - Ah! mamma mia! - Lola che ascoltava ogni sera, nascosta dietro il vaso di basilisco, e si faceva pallida e rossa, un giorno chiamò Turiddu. - E così, compare Turiddu, gli amici vecchi non si salutano più? - Ma! - sospirò il giovinotto, - beato chi può salutarvi! - Se avete intenzione di salutarmi, lo sapete dove sto di casa! - rispose Lola. Turiddu tornò a salutarla così spesso che Santa se ne avvide, e gli battè la finestra sul muso. I vicini se lo mostravano con un sorriso, o con un moto del capo, quando passava il bersagliere. Il marito di Lola era in giro per le fiere con le sue mule. - Domenica voglio andare a confessarmi, ché stanotte ho sognato dell'uva nera! - disse Lola. - Lascia stare! lascia stare! - supplicava Turiddu. - No, ora che s'avvicina la Pasqua, mio marito lo vorrebbe sapere il perché non sono andata a confessarmi. - Ah! - mormorava Santa di massaro Cola, aspettando ginocchioni il suo turno dinanzi al confessionario dove Lola stava facendo il bucato dei suoi peccati. - Sull'anima mia non voglio mandarti a Roma per la penitenza! - Compare Alfio tornò colle sue mule, carico di soldoni, e portò in regalo alla moglie una bella veste nuova per le feste. - Avete ragione di portarle dei regali, - gli disse la vicina Santa, - perché mentre voi siete via vostra moglie vi adorna la casa! - Compare Alfio era di quei carrettieri che portano il berretto sull'orecchio, e a sentir parlare in tal modo di sua moglie cambiò di colore come se l'avessero accoltellato. - Santo diavolone! - esclamò, - se non avete visto bene, non vi lascierò gli occhi per piangere! a voi e a tutto il vostro parentado! - Non son usa a piangere! - rispose Santa, - non ho pianto nemmeno quando ho visto con questi occhi Turiddu della gnà Nunzia entrare di notte in casa di vostra moglie. - Va bene, - rispose compare Alfio, - grazie tante -. Turiddu, adesso che era tornato il gatto, non bazzicava più di giorno per la stradicciuola, e smaltiva l'uggia all'osteria, cogli amici. La vigilia di Pasqua avevano sul desco un piatto di salsiccia. Come entrò compare Alfio, soltanto dal modo in cui gli piantò gli occhi addosso, Turiddu comprese che era venuto per quell'affare e posò la forchetta sul piatto. - Avete comandi da darmi, compare Alfio? - gli disse. - Nessuna preghiera, compare Turiddu, era un pezzo che non vi vedevo, e voleva parlarvi di quella cosa che sapete voi -. Turiddu da prima gli aveva presentato un bicchiere, ma compare Alfio lo scansò colla mano. Allora Turiddu si alzò e gli disse: - Son qui, compar Alfio -. Il carrettiere gli buttò le braccia al collo. - Se domattina volete venire nei fichidindia della Canziria potremo parlare di quell'affare, compare. - Aspettatemi sullo stradone allo spuntar del sole, e ci andremo insieme -. Con queste parole si scambiarono il bacio della sfida. Turiddu strinse fra i denti l'orecchio del carrettiere, e così gli fece promessa solenne di non mancare. Gli amici avevano lasciato la salsiccia zitti zitti, e accompagnarono Turiddu sino a casa. La gnà Nunzia, poveretta, l'aspettava sin tardi ogni sera. - Mamma, - le disse Turiddu, - vi rammentate quando sono andato soldato, che credevate non avessi a tornar più? Datemi un bel bacio come allora, perché domattina andrò lontano -. Prima di giorno si prese il suo coltello a molla, che aveva nascosto sotto il fieno, quando era andato coscritto, e si mise in cammino pei fichidindia della Canziria. - Oh! Gesummaria! dove andate con quella furia? - piagnucolava Lola sgomenta, mentre suo marito stava per uscire. - Vado qui vicino, - rispose compar Alfio, - ma per te sarebbe meglio che io non tornassi più -. Lola, in camicia, pregava ai piedi del letto, premendosi sulle labbra il rosario che le aveva portato fra Bernardino dai Luoghi Santi, e recitava tutte le avemarie che potevano capirvi. - Compare Alfio, - cominciò Turiddu dopo che ebbe fatto un pezzo di strada accanto al suo compagno, il quale stava zitto, e col berretto sugli occhi, - come è vero Iddio so che ho torto e mi lascierei ammazzare. Ma prima di venir qui ho visto la mia vecchia che si era alzata per vedermi partire, col pretesto di governare il pollaio, quasi il cuore le parlasse, e quant'è vero Iddio vi ammazzerò come un cane per non far piangere la mia vecchierella. - Così va bene, - rispose compare Alfio, spogliandosi del farsetto, - e picchieremo sodo tutt'e due -. Entrambi erano bravi tiratori; Turiddu toccò la prima botta, e fu a tempo a prenderla nel braccio; come la rese, la rese buona, e tirò all'anguinaia. - Ah! compare Turiddu! avete proprio intenzione di ammazzarmi! - Sì, ve l'ho detto; ora che ho visto la mia vecchia nel pollaio, mi pare di averla sempre dinanzi agli occhi. - Apriteli bene, gli occhi! - gli gridò compar Alfio, - che sto per rendervi la buona misura -. Come egli stava in guardia tutto raccolto per tenersi la sinistra sulla ferita, che gli doleva, e quasi strisciava per terra col gomito, acchiappò rapidamente una manata di polvere e la gettò negli occhi all'avversario. - Ah! - urlò Turiddu accecato, - son morto -. Ei cercava di salvarsi, facendo salti disperati all'indietro; ma compar Alfio lo raggiunse con un'altra botta nello stomaco e una terza alla gola. - E tre! questa è per la casa che tu m'hai adornato. Ora tua madre lascerà stare le galline -. Turiddu annaspò un pezzo di qua e di là tra i fichidindia e poi cadde come un masso. Il sangue gli gorgogliava spumeggiando nella gola e non potè profferire nemmeno: - Ah, mamma mia! -
Dramma amoroso e struggente, la Cavalleria Rusticana racconta in musica una storia siciliana che, come in un quadro, rappresenta la vita di alcuni decenni addietro, tra scialli neri, coppole e coltelli. Il genio lirico e teatrale di Pietro Mascagni si manifesta in questa mirabile opera che nella sua brevità assurge a capolavoro del melodramma italiano. La Cavalleria Rusticana fu il successo iniziale del grande compositore che nel 1889 riuscì a imporsi, tra 73 partecipanti, nel concorso indetto dall’editore Sonzogno. La Cavalleria Rusticana è composta da due parti di lunghezza disuguale, divise dal celebre Intermezzo eseguito dalla sola orchestra. Il preludio dà inizio al dramma teatrale, seguito immediatamente dopo dalla "Siciliana", una serenata che il protagonista rivolge alla sua amata, la quale introduce l’ascoltatore nell’ambiente dell’opera. La storia della Cavalleria Rusticana è la memoria nostalgica della passione siciliana, espressione naturale dei caratteri forti della nostra terra: l’amore, la gelosia, il potere, la violenza, che si intrecciano sullo sfondo delle celebrazioni pasquali. Turiddu, di ritorno dal servizio militare, scopre che la sua amata Lola, in sua assenza, era andata in sposa a compare Alfio. Per disperazione cerca di ritrovare conforto tra le braccia di Santuzza che promette di sposare. Ma la sua ardente passione, sospinta dai desideri di Lola che non riesce ad allontanare e dimenticare il suo antico amore, sconfina in una relazione infedele che è all’origine della tragedia. Santuzza, perduta nella gelosia, svela a compare Alfio l’infedeltà della moglie, che, accecato dall’ira, sfida Turiddu a duello. Turiddu, prima di recarsi all’appuntamento, forse prevedendo la sua fine, chiede alla madre la sua benedizione e le fa promettere di aver cura di Santuzza, quale pegno della sua promessa di matrimonio. I coltelli sfilano veloci cercando di infliggere una ferita mortale. Gli occhi di Alfio, rossi di rabbia, incrociano quelli dello sfidante, mentre il suo braccio preme con violenza il coltello nel ventre di Turiddu. Le grida di morte si sentono tra la folla, la disperazione sconvolge gli abitanti del piccolo paese che hanno assistito impotenti al dramma passionale: "Hanno ammazzato compare Turiddu!". Una grande opera lirica in cui il Mascagni è riuscito, nei limiti della durata imposta dal concorso, ad eliminare le parti ridondanti e esplicative (non essenziali alla struttura del melodramma) esaltando l’armonia e la sovrapposizione dei piani sonori, rispecchiando il carattere ardente e passionale dei Siciliani. (Maurizio Sapienza) Per saperne di più: Il libretto dell'opera
Gli Attori Siciliani
La rappresentazione ha ragione d'esistere solo grazie ad un trittico inscindibile, il teatro, il genio creativo degli scrittori e la bravura degli attori, elementi fortunatamente presenti in Sicilia. Il teatro siciliano vanta di scrittori ed attori illustri che hanno contribuito a dare alla Sicilia una connotazione culturalmente valida. Tra le prime compagnie stabili del teatro si ricorda la "Compagnia Drammatica Dialettale Siciliana" fondata nel 1903 e che ebbe due riformulazioni, nel 1904 e nel 1907. Tra gli artisti teatrali e cinematografici siciliani si ricordano, tra gli altri, Saro Urzì, Turi Pandolfini, Nino Zuccarello, Tommaso Marcellini, Oreste Bilancia, Totò Majorana, Franco Corsaro, Marinella Ragaglia, Mimì Aguglia. Michele Abruzzo, originario di Sciacca (Ag), inizia la sua carriera alla Guitteria e poi con Giovanni Grasso che lo scrittura come primo attore a soli 18 anni. Anche se inizia la sua carriera interpretando ruoli tragici, si rende presto conto della sua predisposizione ad esser capocomico. Va ricordato come un amante della commedia brillante e sentimentale, abile rappresentante dei personaggi di Pirandello, attore misurato ed abile ed uno dei fondatori dell'Ente Teatro Sicilia, le fondamenta del Teatro Stabile di Catania.
Rosina Anselmi, (1880-1965), catanese e membro di una famiglia d'arte, inizia la sua carriera presso il Teatro Sancarlino e fa parte del Teatro Machiavelli. Fa parte anche delle compagnie teatrali di Nino Martoglio, Giovanni ed Angelo Grasso. Attrice dallo sguardo della "popolana" pettegola, trova la sua collocazione teatrale ideale a fianco di Angelo Musco del quale diventa la perfetta antagonista. Alla morte del celebre attore, Rosina riunisce i membri della antica Compagnia ed insieme a Giovanni Grasso junior e Turi Pandolfini crea una nuova formazione teatrale. Anche se sofferente per problemi circolatori, dopo qualche anno di assenza e grazie all'intervento di Turi Ferro riappare al teatro e fa parte per tre stagioni dell'Ente Teatro di Sicilia.
Virginia Balestrieri, trapanese e figlia d'arte, entra nella Compagnia di Giovanni Grasso e Mimì Aguglia a soli 17 anni. Si ricordano soprattutto le sue rappresentazioni di Elsa Moro (in "Lu cavaleri Pedagna" di Capuana), di Santuzza (in "La cavalleria Rusticana) e della Gnà Pina de "La Lupa" di Verga. Nel 1914 ha un contratto per la Compagnia di Giovanni Grasso junior che diventerà suo marito l'anno dopo. Recita anche in film muti. L'attrice siciliana va ricordata per la sua abilità, per la sua forza interpretativa e per i suoi ruoli presso la Compagnia "Teatro Stabile" di Catania.
La famiglia Carrara è una nota famiglia siciliana di attori. Le prime notizie documentate su di essa risalgono al 1866, anno in cui nasce Giuseppe, padre di Salvatore e nonno di Tommaso detto Masi. Salvatore rappresenta l'ottava generazione di tale famiglia. La nona generazione è quella di Masi. Il nuovo ramo si distacca da quello paterno e si fonde con i Laurini, facendo nascere la decima generazione, quella di Armando (1949), Tino (1951) e Annalisa (1955). Questi ultimi, nel 1975, fondano il Teatro La Piccionaia, portando le tradizioni della commedia dell'arte siciliana nel ramo veneto. Tra le varie attività si ricordano la fondazione del Centro di formazione teatrale nel 1984, la rappresentazione di "La buffa beffa del beffardo beffato" del 1989 e per la regia di Armando C.
L'attore Leo Gullotta (Catania, 1946) inizia la sua carriera presso "Il teatro stabile" seguendo gli insegnamenti di Turi Ferro e Salvo Randone e prendendo parte a numerose interpretazioni come "L'isola dei pupi" del 1965, "Zio Vanja" del 1965 e "Sei personaggi in cerca d'autore" del 1966. Amato per il suo carattere comico e poliedrico, ottiene la fama grazie alle sue caricature e travestimenti per alcuni programmi televisivi. È anche grazie a grandi registi come Nanni Loy, che lo vuole per il suo film "Il camorrista" del 1986, e Giuseppe Tornatore, che lo ingaggia per "Nuovo cinema paradiso" nel 1988, che l'attore dimostra pienamente le sue capacità artistiche.
Angelo
Musco. (Catania
1872 - Milano 1937). Geniale attore comico siciliano. Da ragazzo
macchiettista e burattinaio; quindi, per i suoi successi nei teatri di
varietà, con parti comiche, entrò a collaborare con Giovanni Grasso
(altro celebre attore). Nino Martoglie scrisse per lui "San
Giovanni decollato", che mise in evidenza le grandi qualità
comiche del Musco. Poi "L’aria del continente" consolidò la
sua fama e si rese popolare in Italia e nell’America meridionale.
Interpretò altri drammi dello stesso autore. Scrissero per lui
interessanti lavori Pirandello Capuana, Francesco Paolo Mulè.
Interpretò lavori di Giacinto Gallina, Roberto Bracco, F.M. Martini.
Raggiunse accenti di alta Umanità anche nel repertorio drammatico La
magnifica stagione milanese culmina nei successi, non meno trionfali, di
Roma. Accadde un fatto assolutamente inaspettato: i Sovrani d'Italia
chiamano Angelo Musco al Quirinale. E come ci dobbiamo vestire? si
chiedono, sbalorditi, i comici della Compagnia. Musco con sano senso
professionale, spiega ai suoi collaboratori che non si tratta di fare
sfoggio di bel vestire, bensì di offrire un saggio della propria arte
di attori. Viene scelta la commedia Rondinella di Francesca Agnetta. La
compagnia si inchina ai Sovrani, poi inizia a recitare come in un
normale teatro. Dei miei comici ero sicuro - annota Musco - una volta
presi dall'azione scenica e investiti delle loro parti, non ebbero
nemmeno un momento di distrazione e spiegarono il massimo impegno. Ma di
me stesso, in verità, io non mi sentivo sicuro. L'episodio merita di
essere raccolto, a distanza di tanti anni, perché testimonia la
spiccata professionalità di Musco. "Abituato a recitare nei teatri
pieni di pubblico ed a sentire le continue risate o i mormorii di
approvazione e gli applausi, quell'ambiente regale e quel solenne
silenzio mi mettevano attorno un senso di freddo che mi avviliva e mi
sgomentava. I miei occhi si posavano spesso sul volto di S. M. il Re,
impenetrabile. E mi chiedevo: Si diverte, o si annoia? E' soddisfatto
dello spettacolo, o s'è pentito di avermi fatto venire?... A un tratto
mi colpì qualche risata sommessa che proveniva da un gruppo di dame
sedute più indietro: stavo per consolarmi un poco, ma ecco che Sua
Maestà si volta a guardare le dame che ridono. Allora mi scoraggiai del
tutto. Càspita, pensai, non ride e non vuole nemmeno che ridano gli
altri... Ma è Re e si capisce che comanda lui..." Il dubbioso
stato d'animo non dirada, sino alla fine della rappresentazione, quando
il cerimoniere viene a chiamare l'attore per condurlo al cospetto di
Vittorio Emanuele III. Angelo
Musco nacque a Catania nel 1871. Quattordicesimo figlio di un bottegaio,
fu costretto a lavorare in giovanissima età. Fece, male ed
insofferente, il barbiere, il calzolaio e il muratore. Manifestava già
le attitudini istrioniche cantando canzonette per le strade della
città. A 12 anni compì la sua prima esperienza di attore in una
compagnia napoletana, tutta di siciliani, che fallì poco dopo. Nel
1899 entrò nella compagnia di Giovanni Grasso senior, attore tragico di
straordinaria efficacia. Alla fine dello spettacolo egli parodiava la
tragedia interpretata da Grasso e con due piroette e pochi lazzi
asciugava le lacrime, secondo le antiche tradizioni delle Atellane e dei
Mimi. Riuscì a conquistare il pubblico, che immancabilmente gli gridava
dal loggione: Angilu! 'A musca. Era una canzoncina che eseguiva più che
con la voce, con smorfie e gioco di gambe, sfruttando l'assonanza del
titolo e del contenuto della stessa con il suo cognome. Nacque
progressivamente, però, una rivalità professionale tra i due attori,
anche se non intaccò i rapporti personali. Musco si staccò da Grasso e
passò alla compagnia di Marinella Bragaglia. Nel 1914, finalmente
capocomico, presentò a Napoli la Comica compagnia siciliana del Cav.
Angelo Musco. Facevano
parte della compagnia le due sorelle Anselmi, una delle quali, Rosina,
divenne la sua fedelissima compagna d'arte. Per circa un anno furono
tempi bui e Musco ed i suoi attori dovettero arrangiarsi per
sopravvivere. Nell'aprile del 1915 decisero di giocare l'ultima carta ai
Filodrammatici di Milano, dando Paraninfu di Capuana. L'indomani, il
noto critico Simoni, fornendo forse la più efficace descrizione di
Musco, scriveva sul Corriere della Sera: Egli è un comico
irresistibile... E'
un comico tutto istinto, dagli occhi accesi, dalla faccia bruciata,
bizzarro, indiavolato, colorito come una maschera del tempo fecondo. Due
anni dopo, sull'Illustrazione italiana, ancora un lusinghiero ritratto
dello stesso Simoni, che rileva la raggiunta notorietà dell'attore
nella città di Milano. Fra il 1915 e il 1917 cominciò, infatti, la sua
fortuna e divenne un attore popolarissimo, molto apprezzato dalla
critica al punto che i maggiori scrittori siciliani, come Pirandello,
Capuana e Martoglio, scrissero per lui. La commedia è la stoffa e
l'attore è il sarto, che la taglia, la trasforma, la ricompone: questa
era la teoria dell'intrepretazione teatrale di Musco. Egli aveva un
grande talento di osservatore dell'umanità, spontaneità e gioia di
vivere, che riversava sul suo lavoro di attore, spingendosi a
trasformare il testo dell'autore, intrecciando ad esso battute originali
ed estemporanee. Narrano
gli annali che il primo film di Musco è la registrazione di San
Giovanni decollato (1917-18). Seguono, dopo quattordici anni di pausa,
dieci titoli, molti dei quali campioni d'incasso nei quattro anni che
precedono la morte: Cinque a zero di Mario Bonnard; Paraninfo (1934), di
Amleto Palermi, con Rosina Anselmi ed Enrica Fantis; L'eredità dello
zio buon'anima (1934), di Palermi, con la Anselmi ed EWlsa De Giorgi;
Fiat voluntas dei (1935), pure di Palermi, con Nerio Bernardi e Maria
Denis; L'aria del continente (1935), di Gennaro Righelli, con Leda
Gloria; Re di denari (1936), di Enrico Guazzoni, con Leda Gloria, Mario
Ferrari e Nerio Bernardi; Lo smemorato (1936), di Righelli, con Paola
Borboni e Franco Coop; Pensaci, Giacomino! (1936), ancora di Righelli,
con Dria Pola ed Elio Steiner; Il feroce Saladino (di Mario Bonnard, con
Rosina Anselmi ed Alida Valli; Gatta ci cova (1937), di Righelli, con
Rosina Anselmi, Elli Parvo e Silvana Jachino. Sono film che non
spiccano, nel panorama certamente minore di un cinema dominato dai
telefoni bianchi ed imbrigliato dalla censura di Luigi Freddi. Eppure,
hanno contribuito a fissare, nella memoria di tutti noi, l'immagine
vivissima del grande attore, dell'umorista colorito, del conoscitore
profondo della Sicilia e della sua complessa spiritualità. Sono la
testimonianza di un fenomeno che ha pochi riscontri nella storia del
nostro teatro popolare: una vita d'attore che resta incisa a bulino nel
ricordo e financo nella gestualità, nei tic verbali e gergali di intere
generazioni. Per trovare un confronto al mito di Angelo Musco bisogna
scomodare un'altra memorabile leggenda del nostro teatro fra le due
guerre, quella di Ettore Petrolini. Ancora oggi, infatti, sussurriamo
Gastone... con lo stesso allusivo e birichino con cui, davanti ad un
burocrate impettito e spocchioso, facciamo il gesto di intingere la
penna ripetendo l'irriverente "Cavaliere, abbagno?". Tra i
suoi grandi successi teatrali, San Giovanni decollato e l'Aria del
continente di Martoglio, La Patente, Pensaci Giacomino, Il berretto a
sonagli, Liolà di Pirandello, Cavaliere Pedagna di Capuana. Musco
morì improvvisamente a Milano il 6 ottobre 1937. Quando la sua salma
venne restituita a Catania, il 14 ottobre, ad attenderla alla stazione
vi era una sterminata folla, presenti tutte le autorità. Tuccio Musumeci nasce a Catania nel 1935. Inizia la sua carriera teatrale lavorando nel varietà e nell'avanspettacolo ed ha come compagno di lavoro Pippo Baudo. Gli anni difficili della gavetta terminano quando Mario Giusti lo recluta per l'Ente Teatro di Sicilia e con la partecipazione al Teatro Stabile di Catania. Tra i suoi primi successi si ricordano le sue partecipazioni a "Il berretto a sonagli" di Pirandello e "Il controveleno" di Martoglio. Tra i suoi maggiori successi si ricorda la rappresentazione di "Cronaca di un uomo" di Pippo Fava e "Il Consiglio d'Egitto" di Sciascia. La sua teatralità si ricorda soprattutto per la gestualità tipica di una marionetta e per la sua comicità.
Turi Ferro, (Catania, 1920-2001), acquisisce la sua formazione teatrale dai classici e studiando la realtà che lo circonda. Inizia giovanissimo a calcare i teatrini salesiani ed entra a far parte della Compagnia teatrale "Brigata D' Arte Di Catania". Successivamente è reclutato nella Compagnia Anselmi-Abruzzo. Recita a livello professionistico alla fine degli anni 40 insieme alla moglie Ida Carrara e alla "Compagnia Rosso Di San Secondo Roma". Il suo primo grande successo fu il "Liolà" di Pirandello interpretato nel 1957, spettacolo che portò alla nascita dell'Ente Teatro di Sicilia. Egli creò tale Ente insieme alla moglie ed unendo i migliori attori teatrali siciliani del momento come Michele Abruzzo, Rosina Anselmi e Umberto Spadaro. E' tra i fondatori del Teatro Stabile di Catania insieme a Michele Abruzzo, Mario Giusti e Umberto Spadaio. Magistrale interprete delle opere di Pirandello, Sciascia, Fava, Verga, Martoglio, Brancati, Camilleri e Rosso di San Secondo, dimostra sempre le sue capacità di attore camaleontico. Fu uno dei pochissimi attori teatrali ad essere diretto in palcoscenico per la rappresentazione di "Carabinieri" da Roberto Rossellini al Festival di Spoleto. Ha recitato anche in alcuni film come "Io la conoscevo bene" del 1965 insieme a Ugo Tognazzi, Stefania Sandrelli e Nino Manfredi, film diretto da Antonio Pietrangeli. Nel 1961 è a fianco di Gian Maria Volonté nel film "Un Uomo da Bruciare" diretto da Paolo e Vittorio Taviani. I suoi colleghi, i suoi amici più cari ed i familiari lo ricordano come un attore abilissimo che riusciva a catturare l'attenzione del pubblico anche con piccoli gesti, come un professionista esigente e competente e dal forte senso del teatro, qualità innate che si sono raffinate durante la sua lunga carriera.
Guia Jelo si ricorda come attrice versatile ed emozionante e come interprete di film di impegno civile come "Ragazzi fuori" di Marco Risi e "La scorta" di Ricky Tognazzi e di fiction come "La Piovra 9" e "Il Commissario Montalbano". Da artista completa che è, la si ricorda come splendida interprete teatrale dei testi di Pirandello, Verga, Martoglio, Rosso di San Secondo ed altri ed anche come un'interprete apprezzata da registi del calibro di Strehler, Suggelli e Manfrè.
Pippo Pattavina (Siracusa, 1938), attore poliedrico ed espressivo, inizia la sua carriera a soli 15 anni insieme a Tuccio Musumeci e Pippo Baudo e come cantante ed imitatore dei personaggi famosi. Il suo primo lavoro con la compagnia catanese "Teatro Stabile" è lo spettacolo "L'isola dei pupi", un testo scritto da Turi Ferro, Gerardo Farkas e R. Barbera. Tra i suoi maggiori successi teatrali si ricordano "La violenza", "Dal tuo al mio" e "I carabinieri".
Salvo Randone inizia la sua carriera presso il Circolo Artistico di Catania. Si afferma come attore con la Compagnia della Commedia diretta da Cominetti. Fedele agli autori teatrali classici del calibro di Shakespeare e Pirandello, incanta le platee grazie alla sua capacità d'esaltare il mondo culturale siciliano, per la sua fedele ricostruzione psicologica e l'ambiguità che gli permette di rappresentare al meglio gli eroi pirandelliani. Tra questi ultimi si ricorda soprattutto la sua rappresentazione de "Il berretto a sonagli". Tra le sue rappresentazioni teatrali più celebri si ricorda soprattutto quella dell'Otello di Shakespeare insieme a Vittorio Gasmann. Egli fu un attore che riusciva a vivere i suoi protagonisti, come un artista dal repertorio vastissimo che spazia dai classici greci alla drammaturgia contemporanea. Ciccino Sineri, discendente da una dinastia di pupari e reale conservatore del teatro dialettale, è uno degli attori storici catanesi. Conosciuto come "zio Ciccino", interprete dell'episodio "La gita a Tindari" della serie televisiva "Il commissario Montalbano" e del film di Paolo Virzì girato a Toronto "Il mio nome è Tanino", ha rappresentato quasi tutti i lavori teatrali degli autori siciliani. E' anche un attore di sceneggiate napoletane come "Signora perdonatemi". Da giovane ha recitato accanto a Giovanni Grasso Senior ed è stato membro della compagnia di Giovanni Grasso Junior e Virginia Balestrieri e di Michele lnsanguine. Sua compagna di vita e sul palcoscenico è stata la compianta Sara Micalizzi.
Umberto Spadaro, anche se nacque ad Ancona, è da considerarsi siciliano perché proviene da una famiglia catanese. E' figlio d'arte visto che i genitori recitavano con Giovanni Grasso senior. Cresciuto con Turi Ferro, ha realizzato anche numerosi film, anche se il teatro restò sempre la sua vera passione. Risiedette parecchio tempo a Roma, ma rimase - egli stesso lo ripeteva - catanese nel sangue. Alla sua morte, il Teatro Stabile di Catania gli ha intitolato una scuola di recitazione.
Saro
Urzì, nome d'arte di Rosario Urzì (Catania, 24 febbraio
1913 - San Giuseppe Vesuviano (NA), 1 novembre 1979) è stato un attore
italiano del cinema e della televisione. Lasciata
la nativa Sicilia in cerca di fortuna, dopo aver svolto in gioventù
varie attività, approda a Roma, dove comincia a lavorare nel cinema,
dapprima come comparsa e poi come attore in particine marginali in
diversi film degli anni trenta e quaranta, affinando il suo personaggio
di caratterista siciliano, talvolta sanguigno e collerico, ma dotato di
una grande carica umana. L'incontro
con Pietro Germi. Nel 1949 Saro Urzì viene scelto per interpretare il
personaggio del brigadiere nel suo film In nome della legge, e sul set
si crea tra il regista e l'attore un'intesa che porterà Urzì ad essere
presente in molte delle pellicole girate da Pietro Germi, in cui sosterrà
ruoli sempre più importanti, fino ad interpretare in Sedotta e
abbandonata il personaggio del collerico e autoritario patriarca don
Ascalone. La
sua interpretazione nel film In nome della legge gli consentirà di
vincere il Nastro d'Argento nel 1948 quale miglior attore non
protagonista. Successivamente il suo ruolo nel film Sedotta e
abbandonata gli frutterà il premio come migliore attore al Festival del
Cinema di Cannes del 1964, nonché un secondo Nastro d'Argento nel 1965. Negli
anni sessanta e settanta presterà il suo volto e le sue inconfondibili
caratterizzazioni in numerosi film, di cui però ben pochi sono degni di
nota. E' stato tra l'altro l'unico attore ad apparire nel film Il
Padrino del 1972, diretto da Francis Ford Coppola e tratto dall'omonimo
romanzo di Mario Puzo, e nella parodia dello stesso film Il figlioccio
del Padrino, girato nel 1973 da Mariano Laurenti, al fianco di Franco
Franchi. Oltre
alle sue numerose apparizioni nel cinema, Saro Urzì ha anche preso
parte a programmi televisivi. Nel 1968 apparì nella commedia Johnny
Belinda diretta da Piero Schivazappa, e nell'episodio L'altra faccia
della giustizia, tratto da una serie ispirata ai racconti di Luigi
Pirandello, per la regia di Luigi Filippo d'Amico .
Turi Scallia Un avvocato col teatro nel sangue (www.cataniaperte.com) Dopo Turi Ferro, un altro pilastro del Teatro Stabile di Catania, del teatro popolare, ci ha lasciati. Si è spento, infatti, all’età di 80 anni l’attore catanese, l’avvocato Turi Scalia, protagonista da oltre cinquant’anni della scena catanese e non solo. Compagno allegro, che si distingueva sempre e dovunque per il suo stile, per la sua signorilità, Scalia era uno di quegli attori che aveva il teatro nel sangue, che non poteva stare lontano dalle tavole del palcoscenico, tanto che attualmente, pur minato dagli acciacchi dei suoi 80 anni, era da due anni a questa parte direttore artistico del rinnovato Teatro Comunale di Trecastagni dove era riuscito a portare fior di attori (Paola Gassman, Ugo Pagliai, Johnny Dorelli, Pippo Franco ed altri), grazie alla sua lunga esperienza nel settore. Ricordiamo la sua partecipazione allo "Stabile" di Catania, alle due edizioni de "I Malavoglia", dell’82 - ’83 e del ’98 dove interpretò il ruolo di zio Crocifisso e ad altri successi quali "L’aria del continente", "San Giovanni decollato", "Il giorno della civetta", "L’avaro", "Annata ricca massaru cuntentu", "A ciascuno il suo", "La governante". Si era fatto apprezzare anche in tv, nello sceneggiato "Mastro don Gesualdo", nella fiction "La Piovra", mentre nel grande schermo aveva recitato nei film "Il giudice ragazzino" ed in "Johnny Stecchino" con Roberto Benigni. E’ stato il primo ad importare da Torino l’idea del Centro universitario teatrale, fondandone uno a Catania e riuscendo nel ’48 a portare il centro etneo a Torino con due commedie in dialetto siciliano. Ha ideato la rassegna del teatro dialettale siciliano a Zafferana Etnea, con l’assegnazione del Premio Angelo Musco. Sicuramente, come hanno sottolineato molti suoi colleghi attori come Mimmo Mignemi, Tuccio Musumeci o i registi che hanno lavorato con lui, di Turi Scalia resterà sempre il ricordo di un uomo di grande temperamento e signorilità e verrà ricordato soprattutto come maestro di vita che ha dispensato sempre ai più giovani saggi consigli per ben proseguire in una professione tutt’altro che facile. Maurizio Giordano
Jano Jacobello è nato a Catania nel 1921. Impiegato del Comune di Catania dal 1945 al 1952 e successivamente delle imposte di consumo, dal 1956 al 1975 ha lavorato al Rosina Anselmi (ex CRAL comunale, intitolato poi alla grande “spalla” di Angelo Musco) dove esordì come filodrammatico con “Fiat voluntas Dei”, nel ruolo di don Vincenzino (il sindaco). Dotato d’una buona mimica, d’una comicità istintiva e plateale, resa più incisiva dal contrasto con l’atteggiamento serioso della persona, fondò nel 1976 (dopo essere stato collocato in pensione) il teatro Piccadilly (distrutto da un incendio nel gennaio del 1981), ottenendo per qualche tempo un notevole successo di pubblico, rafforzato dalla gustosa e incisiva caratterizzazione di Frate Bastiano (fustigatore popolare dei mali di Catania) più volte mandata in onda da una emittente locale. Dopo essersi temporaneamente ritirato dalle scene ha ripreso nella stagione 1985-’86 l’attività teatrale con la Compagnia Stabile siciliana, della quale è sempre stato il direttore artistico. Ha preso parte allo sceneggiato televisivo “Il delitto Notarbartolo” (1979) regia di Alberto Negrin e al film “Lo voglio maschio” (1970) di Ugo Saitta. Del figlio Fabio più volte ha portato in teatro la commedia “Casa Campagna”. Un altro figlio, Claudio, da anni lo segue sulle scene. Jano Jacobello costituisce un esemplare riferimento per tanti attori. Nella tipologia attorile fa prevalere una incisiva presenza secondo le tradizioni del teatro “all’antica siciliana” e non rifugge dall’ammicco e dalla sottolineatura fuori testo pur senza arrivare all’arbitrarietà ed al farsesco. (www.cataniaperte.com)
Ciccino
Sineri E’
uno degli attori storici catanesi che, in 90 anni di vita, quasi tutta
spesa per il teatro, si è destreggiato in mille campi, sempre con
lusinghieri e grandi risultati, dalla prosa al cinema, dalla sceneggiata
napoletana alla commedia brillante. Di
adozione catanese, benché il destino lo ha fatto nascere, il 24 giugno
del 1912, a Biancavilla, in quanto la sua famiglia, compresi i suoi
nonni, si portavano di paese in paese a proporre spettacoli teatrali che
il pubblico accettava volentieri e che applaudiva calorosamente. Sineri,
che proviene da una dinastia di pupari, è un personaggio notissimo per
essere il più autentico conservatore del teatro dialettale; ha vissuto
tutta la sua vita sul palcoscenico proponendo, sera per sera, al suo
pubblico, il repertorio del teatro siciliano, toccando quasi tutti i
lavori teatrali degli autori siciliani, Verga, Capuana, Pirandello. Sarto
di professione, ma per poco tempo, figlio d’arte, diede anima e core
al teatro, la sua passione. Spirito indipendente, ancor giovane formò
una compagnia diventandone il capo comico. Giovanissimo ha recitato
accanto a Giovanni Grasso Senior ed ha fatto parte della compagnia di
Giovanni Grasso Junior e Virginia Balestrieri e di Michele lnsanguine
che lui ritiene il suo primo grande maestro. Ha dato l’addio al palcoscenico da quasi quattro anni, al Metropolitan di Catania. "L’ho fatto a malincuore, perché il teatro è sempre dentro di me - commenta Ciccino Sineri - con il dramma passionale e mio cavallo di battaglia I Navarra di Vanni Pucci. Come lavori sento molto anche Amuri Rusticanu di Achille Serra, dove do una interpretazione sanguigna, la sceneggiata Signora perdonatemi e gli spettacoli che spesso nascevano a soggetto". Cosa ricorda della Catania teatrale d’allora? "Ricordo le feste di paese, le sceneggiate e i grandi palcoscenici. La Catania di quel tempo pullulava di teatri rionali, c’erano 42 arene: l’arena Borgo, il bellissimo anfiteatro Gangi, dietro via Etnea. Recitavo in un teatro vicino via Archimede, attaccavo a ottobre e finivo a maggio. E poi c’era il Sangiorgi, un teatro bellissimo, guidato da un vero signore". Il teatro, gli attori di ieri e la realtà di oggi… "Tutta un’altra cosa. Allora con gli attori ci vedevamo nel pomeriggio, ci mettevamo "a conca" e concertavo cosa dire. Erano attori veri, come le mie cognate, Nina e Iole. Attrici che hanno sempre recitato con naturalezza. Allora si lavorava e si sudava tanto e poi il pubblico pretendeva. Adesso basta che appari in tv un quarto d’ora e diventi famoso. Tutto ciò non è bello per chi lavora e suda a teatro". Nelle parole di Ciccino Sineri, storico attore del teatro popolare catanese, si intravede un pezzo di storia della Catania di una volta in cui si contavano le arene ed i teatri, si assapora una atmosfera genuina, autentica che, purtroppo, oggi troviamo con più difficoltà nella nostra vacua società dell’immagine e dell’apparire. Maurizio Giordano (www.cataniaperte.com)
Giovanni
Grasso senior nacque a Catania nel 1873 e ivi mori nel 1930.
E’ considerato il più grande attore tragico del Teatro Siciliano e il
suo creatore. Cominciò
a lavorare con il padre, un puparo molto famoso per quei tempi, dando la
voce ai paladini sulla scena: egli seguiva il movimento di Orlando,
Rinaldo, Gano, Carlo Magno, con una intensità tale che il pubblico
presente ne era ammaliato. Si cimentò sotto la scuola del padre ad
apprendere l’arte del puparo, che fece sua abbastanza bene, ma la sua
vera inclinazione fu quella dell’attore tragico . Toccò
vette di grande lirismo con la "Cavalleria Rusticana" dove
impersonava compare Alfio, uomo violento, ribollente d’ira,
drammatico: proprio il personaggio che gli era più congeniale. Tentò senza molto successo alcune esperienze cinematografiche,a quei tempi era in voga il cinema muto e siccome durante le riprese del film il regista soleva spezzettare le riprese, l’ardore che Grasso metteva sulla scena gli si smorzava,a scapito della qualità del film. Per questo motivo non continuò quest’esperienza. Si
cimentò, invece, in tutto il repertorio repertorio tragico del teatro
Siciliano. Ebbe vibranti acclamazioni in "Pietra fra pietre"
di Suderman e nel "Cavaliere Pedagna" di Capuana, nonché nel
lavoro teatrale "In nome della Legge" di Leoni. In
America, i nostri emigranti lo accolsero trionfalmente: attraverso lui
ascoltarono il cuore pulsante della Sicilia e di Catania. A
Buenos Aires, dove rappresentò la commedia "Il Feudalesimo",
suscitò nel pubblico Italo-Argentino grande calore e voglia della terra
natia. Gugliemo Marconi, che assisteva allo spettacolo,gli fece dono di
una di una spilla con un brillante che Grasso non tolse mai dal petto. Nessun attore ebbe onori come quelli tributatigli. La sua arte suscitava una emozione immensa dovunque andasse. Il grande Giornalista del Corriere della Sera, Luigi Barzini , lo esaltò in suo fondo, dopo la recita di "Malia". Va riconosciuto a Giovanni Grasso Senior la peculiarità del suo stile con cui ha saputo dare un'impronta di tragicità e di passionalità al teatro catanese. Raffaello Brullo (www.cataniaperte.com)
Il Teatro stabile di Catania nasce alla scomparsa di Angelo Musco, Nino Martoglio e Giovanni Grasso. La sua costituzione ha alle spalle il famoso "Circolo d'Arte" costituito da uomini illustri del calibro di Mario Giusti, Turi Ferro, Ida Carrara e Umberto Spadaro. Fu istituito da uomini illustri del calibro di Tanino Musumeci, Pietro Platania, Piero Corigliano, Umberto Spadaro, Michele Abbruzzo. Col passare degli anni si aggiunsero attori come Rosina Anselmi, Lindoro Colombo e la famiglia Carrara. Tale circolo fu aiutato dal patrocinio dell'Ente provinciale per il Turismo di Catania e dal sostegno economico di alcuni enti pubblici come l'Assessorato Regionale per il Turismo e l'Ente Teatro di Sicilia. Un felice connubio è determinato dall'unione tra tale Compagnia e le opere di Leonardo Sciascia. Si ricordano a tal proposito gli adattamenti teatrali dell'opera "Il giorno della civetta" e "A ciascuno il suo" e la rappresentazione della "Recitazione della controversia lipariana dedicata ad A. D." La compagnia ha anche rappresentato le opere di Pippo Fava. Due periodi di crisi per tale Teatro furono l'incendio che distrusse il Teatro Musco nel dicembre 1972 e l'incendio che distrusse il Teatro delle Muse nel 1981. La ripresa si ebbe con l'inaugurazione del Teatro Verga il 3 dicembre 1981 e soprattutto grazie alla forte volontà dei componenti della compagnia. I vari periodi di crisi del Teatro Stabile sono ricompensati notevolmente dai numerosi riconoscimenti e premi ricevuti in Italia e all'estero come il Premio Observer ricevuto nel 1970 a Londra. Lo Stabile è un teatro impegnato e allo stesso tempo popolare che non tralascia neanche i nuovi artisti e le attività di ricerca e formazione garantita dalla Scuola d'Arte drammatica Umberto Spadaio che si occupa di corsi triennali gratuiti per i giovani fra i 18 e i 25 anni. La Compagnia "Teatrino Ditirammu" del canto e tradizione popolare di Palermo ha il sostegno della Comunità Europea. E' stata inaugurata nello storico quartiere della Kalsa nel 1998. Tra i suoi fondatori e direttori ci sono Vito Parrinello e Rosa Ristretta. Tra le maggiori rappresentazioni attuate si ricordano "Nimmarò, il presepe raccontat", "Martorio, la passione di Cristo" e "Smoking, fantasie di Viviani". I suoi componenti hanno anche attuato dei laboratori per le scuole riguardanti, ad esempio, il teatro d'improvvisazione. La Cooperativa Teatro Nuovo nasce nel 1980 come tentativo di recuperare delle tradizioni culturali siciliane. Inizia con rappresentazioni teatrali di opere come "L'aria del continente" di Martoglio, "Fiat Voluntas Dei" Di Macrì, "L'eredità dello zio buonanima" di R. Giusti, "L'avvocato difensore" di A. Morais. Rappresenta anche "Pensaci Giacomino" di Pirandello e il dramma "La nemica" di D. Niccodemi. Dal 1985 organizza la Rassegna Nazionale "Giovanetto di Mothia". Compagnia dalla lunga produzione teatrale, partecipa a vari concorsi e rappresenta numerosi spettacoli come "Il tacchino" di G. Feydeau, "La Fortuna con la F maiuscola" di A. Curcio e E. De Filippo, "Così è, se vi pare..." di L. Pirandello rappresentato nel 1992, "Chi è più felice de me?" di E. De Filippo nel 1993, il lavoro di P. Riccora "Angelina mia" nel 1997, "La corda pazza e la chiave civile, "Questo matrimonio non s'ha da fare" di T. Spadaro
Enrico
Guarneri in arte Litterio Servizio
e foto: Angela Platania Uno
degli artisti di maggior richiamo, spesso ospite della trasmissione
televisiva Insieme, è senza dubbio Litterio Scalisi in arte Enrico
Guarneri; scusate ci siamo confusi, in effetti è il contrario ma, mai
come in questo caso, il personaggio si fonde con l’autore e quasi si
appropria, del tutto, del suo spessore artistico, umano e carismatico.
Enrico è consapevole del fascino di “Litterio” ma, in fin dei
conti, è proprio quel protagonista coadiuvato dall’ottima spalla di
Salvo La Rosa ad essere un richiamo irresistibile per il salotto di
“Insieme”. Quest’anno, infatti, una delle innovazioni di Insieme
è proprio l’appuntamento quindicinale, nel quale si svolge
la fiction “Casa Litterio”, dove l’esilarante attore ci
racconta le vicende della sua “particolarissima” famiglia. Ma questa
è poca cosa rispetto l’enorme carriera artistica di questo grande
attore, tanta televisione,
ma anche tanto teatro con il quale ha girato gran parte della Sicilia,
toccando palcoscenici prestigiosi come il teatro “Al massimo” di
Palermo, nel quale, fino a qualche giorno fa, ha replicato per ben dieci
giorni la commedia del “Paraninfo”, inoltre
il suo curriculum annovera anche la divertente pubblicità di un
noto caffè e la partecipazione ad un film, ma cediamo ad Enrico la
parola. “Ho
iniziato a fare teatro nel 1976 a livello amatoriale –si racconta
Enrico, con tono confidenziale- e l’ho fatto fino ai giorni nostri in
modo molto intenso. Ho avuto l’onore e il piacere di calcare alcuni
tra i palcoscenici più famosi ed importanti, come il Teatro Stabile e
il Metropolitan di Catania, il teatro Al Massimo di Palermo e tanti
altri teatri. Il mio repertorio è sicuramente comico e brillante. Ho
fatto anche un ruolo, in parte, drammatico in “Cronaca di un uomo”
ed ho partecipato anche ad un film dal titolo “T’amo e t’amerò”.
Nel 1996 avevo costruito uno spettacolo dove per la prima volta ero solo
in scena e durava circa un’ora e venti, con Gianfranco Jannuzzo lo
“turnammo” per due estati consecutive: io aprivo con il mio
spettacolo e Gianfranco chiudeva con il suo. All’interno di questo
spettacolo c’era il personaggio di Litterio, grazie a questo
spettacolo vinsi il premio “Il Polifemo d’argento”, il conduttore
era Salvo La Rosa che mi chiese di intrattenere il pubblico con questo
personaggio, in seguito mi fu chiesto di tentare di portarlo in
televisione ed il resto è storia”. “Insieme”
non ti ha dato il successo ma senza dubbio la notorietà…possiamo
asserire questo? “Io
direi entrambe le cose. Indubbiamente la notorietà. Qualunque attore
teatrale d’Italia o del mondo non ha, assolutamente, neanche il venti
per cento di notorietà che ha un personaggio altrettanto affermato, però
televisivo. Oggi la televisione è, senza dubbio, l’asso
pigliatutto”. C’è
un attore che t’ispira maggiormente? “Ritengo
uno dei più grandi attori in generale, secondo il mio parere, Peppino
De Filippo; del nostro teatro siciliano, invece, Salvo Randone e Turi
Ferro che hanno rappresentato cose irraggiungibili”. Fra
le tante cose che hai fatto, cosa ti ha dato più soddisfazione? “innegabilmente
Insieme. Sotto l’aspetto teatrale credo, invece, di fare un grande
“Paraninfo” e un grande “Avaro”. Mi cimento sia nella commedia
brillante in lingua e commedia comica grottesca in siciliano”.
Via Rocca Del Vento (1950) Vecchio quartiere San Berillo, sparito negli anni '50
In questa strada nel 1888 il signor D'Urso Domenico aprì un teatrino di "giovani dilettanti" denominato UMBERTO PRIMO, il teatrino poi nel 1889 venne trasferito in Via Stesicorea- Etnea n. 484 dal nuovo proprietario che si chiamava Francesco Caracciolo. Nei commenti pubblico la pianta del teatrino. (testi e foto di Turi Giordano)
Tuccio e Pippo, artisti diversi e amici Doppia intervista a una coppia di successo in numerosi spettacoli, da alcuni anni "separati" in scena La Sicilia, 30 Settembre 2014 Sergio Sciacca
Tuccio Musumeci e Pippo Pattavina: due tipi artistici assai diversi: Pippo, dalla figura nobilmente elegante e dalla voce caldamente tenorile anche quando non canta, impersona con signorilità le figure fascinose del teatro, ma con interiori notazioni rivelatrici delle debolezze nascoste; Tuccio riesce perfettamente a impersonare il popolano arguto e scaltro. Sa riportare a questa umanità essenziale anche le figure regali di cui ha reso indimenticabili interpretazioni sulle scene. Sono artisti che dipingono così attentamente gli elementi essenziali della tipologia umana che, quando agiscono assieme in teatro, l'attenzione del pubblico viene calamitata dai loro dialoghi, dalle battute, dalle gag che per forza naturale si sviluppano anche oltre il copione. Perché vivono il teatro umano, sanno portarlo con stile alla risata irresistibile e per questo hanno portato al successo testi che senza di loro sarebbero rimasti nell'ordinaria amministrazione scenica e che nella loro caratterizzazione sono diventati capolavori. Diciamolo pure, sono talora più autori dei drammaturghi. Dunque è stata assolutamente indovinata l'idea di proporli - domenica scorsa al cortile Platamone - come esempio iniziale di quell'alfabeto della memoria che parte dalla "A" di Amicizia e nelle intenzioni degli organizzatori (il Teatro Stabile di Catania in collaborazione con l'Università di Catania e l'assessorato ai Saperi e alla Bellezza condivisa del Comune di Catania) dovrà sintetizzare, in 21 puntate, il vademecum per il futuro riconoscendo il passato e valorizzandolo nel presente. Questi concetti sono stati sottolineati da Nino Milazzo, presidente dello Stabile, dal suo direttore Giuseppe Dipasquale, dall'assessore ai Saperi e alla Bellezza condivisa Orazio Licandro, davanti a un pubblico numerosissimo che ha affollato gli stand dell'editoria locale, notoriamente ricca di pubblicazioni miranti a diffondere una cultura meditata e non solo a far girare le rotative.
E su questi temi si è annodata la discussione condotta con incisive notazioni dal giornalista Nicola Savoca: Quale sarà il futuro dei teatri "nazionali" che dovrebbero sostituire gli attuali "stabili"? Con quale criterio le compagnie saranno ammesse nella serie A che sembra sarà limitata a sette compagini? Risposta: «Si affermeranno i teatri che hanno dietro di sé una città, non nel senso elettorale, ma in quello di partecipazione attiva alla vita civile che da Eschilo a Eduardo, da Aristofane a Ionesco, nasce sulle scene e poi si sviluppa nella vita civile». E siccome teorizzare è facile ma mettere in pratica è difficile gli artisti, tra le monumentali scartoffie della Concessione del telefono di Camilleri, hanno dato saggio di questa funzione schiettamente democratica della teatralità. Senza recitare alcun copione, discutendo di temi veri, ma con l'acume dello spirito. Viene chiesto a Tuccio Musumeci che, assieme a Pippo Pattavina poco prima ha riportato una scena irresistibile del loro repertorio, se si può sperare un suo ritorno sotto l'egida dello Stabile. (Come è noto ha creato un proprio teatro le cui locandine sono stato accolte da caloroso successo di pubblico e abbonamenti). La risposta consueta a questo tipo di domande è una frase convenzionale piena di aggettivi e avverbi e vuotissima di sostanza. Tuccio non ne ha usato. Stropicciando ripetutamente indice e pollice ha solo detto: «E i soldi? ». Cioè senza impegno finanziario vero la cultura degli avverbi e degli aggettivi va alla malora. Come ai tempi di Goldoni e Bellini il teatro si regge sul pubblico che mette mano al portafogli. Il resto è retorica, come si vede dall'esito attuale di disquisizioni di politica finanziaria che non ha sanato nessuno dei disastri che oggi imperversano sull'economia nazionale. E anche le battute tra Pippo e Tuccio (a proposito di cinema) non sono state prive di contrasti e contrapposizioni: esposte lì in pubblico, mentre si celebrava la A di Amicizia. E hanno proprio ragione. Il consenso melenso, l'unanimismo di facciata, non serve a niente. Gli amici veri possono essere diversi, possono avere punti di vista contrapposti. Ma devono essere sinceri e mirare allo stesso scopo. Che è quello che l'ultimo ventennio ci dovrebbe avere insegnato e la cui mancanza portò alla catastrofe regimi apparentemente monolitici. Dal teatro di intrattenimento si è passati all'impegno ampiamente politico. Non di indottrinamento perché ognuno può giudicare come vuole. Il problema di fondo però è reale. Ecco una battura di calma ferocia che offre di che meditare (l'ha pronunciata Tuccio e potrebbe degnamente sostituire parecchi epifonemi enunciati da sapientoni e sapientini assisi sui Sette Colli): «Una volta i politici mangiavano a spese del pubblico. Ma sapevano mangiare con stile. Ora sbafano peggio dei politicanti antichi e per giunta sono ignoranti». Sa di Aristofane miscelato con Trilussa. E' l'osservazione in diretta della vita. Senza sofismi.
In ricordo di Roberto Laganà Più d'una volta ho avuto il privilegio di vedere Roberto Laganà Manoli tracciare degli schizzi: per una scenografia, un disegno, un manifesto. Restavo sempre a bocca aperta per quel movimento ampio, per la semplicità, la naturalezza del gesto che determinava la forza del tratto. Era come trovarsi d'improvviso proiettato dentro a una favola disegnata. Un geniale affabulatore era, Roberto: raffinatissimo e popolare insieme. E soprattutto amava stupire. Per questo era teatrale in tutto, a cominciare dall'abbigliamento. Lo ricordo da sempre con, sul naso, occhiali stravaganti, al collo raffinatissimi foulard, in testa sempre eleganti cappelli a larghe falde. Ma a caratterizzarlo erano soprattutto le sciarpe di seta nella bella stagione e, nell'inverno, i suoi incredibili scialli, esageratamente ampi e pieni di fantasia. Se ne avvolgeva come un pipistrello nelle sue ali, e svolazzava per le strade delle capitali del mondo, per teatri di lirica e di prosa, per ristoranti e salotti spandendo buonumore e allegria grazie alla sua ironia placida, mai cattiva. “Amava il teatro più di sé stesso”, mi ha detto ieri sua moglie. Ne sono convinto. Ma credo che amasse anche chiunque facesse parte dell'ambiente del teatro: conosceva le storie personali di attrezzisti, scenotecnici, sarte, diventati la sua famiglia. Persino gli attori riusciva ad amare, quell'ambiente di perfidi bambini d'ogni età in cerca soltanto dell'applauso: grandi cuori avvelenati dall'ansia di primeggiare. Lui, Roberto, pur conoscendo i difetti di tutti, era tollerante, accomodante, affettuoso. E, soprattutto con i ragazzi, aveva, in un certo senso, la vocazione della chioccia. Tanto che, a un certo punto del suo percorso umano e professionale, volle diventare capocomico. Non era perfetto, badate, ma umanità e ironia sono sempre stati le sue caratteristiche: le stesse che ricordo in Mariella Lo Giudice, sua grande amica. A una cena a casa di Mariella e Angelo Giordano è legato il mio più curioso ricordo di Roberto Laganà: la scoperta che portava al collo una piccola catena con attaccato non l'immagine di un santo protettore o un amuleto, ma una fiala di vetro chiusa da un cappuccio d'oro bianco. La fiala custodiva un ingrediente meraviglioso: della rossa polvere di peperoncino, che Roberto amava spandere - teatralmente - sulle pietanze, quand'era a tavola con amici. E mentre lo spargeva, raccontava: sapeva cogliere con straordinaria arguzia pregi e difetti celati nelle grandi personalità del mondo del teatro con cui aveva lavorato. La sua galleria di ritratti si animava. Perché sapeva narrare, Roberto, con quella voce curiosa, a volte afona, punteggiata da catanesissimi "ah?" Così voglio ricordarlo, Roberto Laganà Manoli: con quella fiala in mano piena di magica polvere rossa. Sempre pronto a spargere, ovunque, il pepe della sua ironia. Giuseppe Lazzaro Danzuso
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Teatro
Della Città
Dopo
anni di attesa si alza il sipario del Teatro Brancati |
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Teatro Massimo Bellini |
Teatro
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Grotta Smerlada di Acicastello
Teatro S. Anna
Teatro
Delle Arti
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