Non molti lo sanno, in
quanto pensata da sempre solo come città siciliana ai piedi di
un vulcano da cui proteggersi, ma Catania non doveva
proteggersi solo dal Mongibello. Altri pericoli
incombevano sulle sue spiagge essendo, come altre città marinare del
1500, vulnerabile ai continui attacchi che
provenivano via mare dal Medio Oriente. Così, per volere di
Carlo V, si
rese necessaria la sua difesa attraverso fortificazioni, mura,
vedette e stratagemmi di segnalazioni.
Come Lucca e altri borghi
medievali, era una città "recintata" il cui accesso
avveniva solo dalle sue porte. Tante altre città italiane furono
fortificate per difendersi, con la differenza che queste hanno conservato i
loro ruderi, mentre i nostri se li è mangiati
l'Etna nel 1669. Ecco quel che è rimasto, o meglio,
tentare di far capire
dov'erano.
Niente di scientifico, i
testi non sono miei e in merito esistono già varie
pubblicazioni, ho solo voluto rendere l'informazione più
sintetica. Da profano, ho solo pubblicato dati già presenti
in rete al fine di mettere un po' di ordine a un passato che ci
appartiene.
Mi sono divertito un mondo
a raccogliere i dati e collegarli fra loro
come le mura di Carlo V. Capire finalmente perchè quella strada
si chiama così, cercare le sue immagini, riesumarla da sotto la terra.... credetemi, è stato davvero entusiasmante.
Indagare la nostra
storia e scoprire, con sorpresa, dove si poggiano i piedi sono le
gite domenicali più proficue, che consiglio a tutti.
Poco si conosce dell'antica fortificazione
che cingeva la città di Katane, antico nome di Catania, anche se
non mancano prove della sua esistenza, nelle gouaches di
Jean-Pierre Houël e in diversi ritrovamenti a seguito di scavi
archeologici lungo il tratto nord di Via del Plebscito. Tale
fortificazione dovette avere degli accessi di cui ad oggi non si
è ancora trovata traccia. In epoca tardoantica le mura dovettero
essere in grave stato di abbandono, se per le fonti riguardanti
le prime incursioni islamiche della Sicilia la città viene
descritta sprovvista di difese. Questo dato ci fa supporre che
gli antichi ingressi dovettero ormai essere crollati o di sicuro
non più manutenuti. Con l'avvento dei Normanni in città viene
eretta la nuova cattedrale, concepita come ecclesia munita, cioè
una sorta di incastellamento atto a sorvegliare la costa e il
porto vecchio, detto Saraceno. La presenza di tale fabbrica e lo
stesso porto fa supporre l'esistenza di una porta che conducesse
all'interno della città dal versante marino, quasi certamente
presso lo stesso porticciolo. Tuttavia è con gli Aragonesi che
abbiamo conoscenza della realizzazione di una robusta
fortificazione che proteggesse la città, già oggetto di
interessi politici al tempo di Pietro III d'Aragona e ancora al
tempo del pronipote Federico IV di Aragona. Di questo periodo
probabilmente sono alcune delle più antiche porte della città di
cui ancora al 20 aprile 1833 esistevano resti o memoria. Su
disposizione del re Carlo la città si dota di un nuovo sistema
difensivo basato su bastioni e nuove cortine. In questo sistema
difensivo vennero ricavate diverse aperture, tra cui nel 1553 la
Porta delli Canali. Tuttavia a seguito dell'eruzione del 1669 la
città rimase sprovvista di difese nel suo tratto a sud-ovest e
divenne necessaria la edificazione di un nuovo tratto murario
che cingesse la zona colpita dalla lava. Dopo diversi tentativi
nel 1672 venne completato un piccolo fortilizio isolato dal
resto della cortina muraria, chiamato per il suo aspetto
Fortino, in cui esisteva una sola apertura, la Porta di Ligne.
Non molti anni più tardi venne ricavata la Porta Uzeda nel
tratto di mura a sud, prossimo alla Cattedrale e prospiciente il
Porto. Tuttavia a seguito del sisma del 1693 il sistema
difensivo civico ormai cessava la sua esistenza e nelle mura si
aprirono diversi varchi per agevolare l'accrescimento della
città. I bastioni erano diventati ingombranti ricordi del
passato e vennero riciclati in abitazioni, mentre le porte
superstiti vennero demolite per l'ampliamento di alcune strade.
Porte della cortina muraria. Prima dell'eruzione del 1669.
All'alba dell'eruzione del 1669 le porte civiche esistenti erano
dodici, la maggior parte delle quali posteriori al 1550. Di
queste appena quattro giunsero fino al 1833, sopravvivendo a
colate e terremoti, ma a loro volta il numero venne ridotto nel
corso del XIX secolo per opera umana.».
http://it.wikipedia.org/wiki/Porte_di_Catania#Storia
La Cattedrale "Ecclesia
Munita"
L’impianto originario della basilica, edificata da Ruggero I
d’Altavilla, risale al 1094, quando i normanni, strappata la
Sicilia al dominio arabo, si impiantarono in città dando nuovo
vigore al cristianesimo. Nel 1092, Papa Urbano II concesse al
normanno Ruggero di ricostituire la diocesi di Catania affidando
il potere episcopale all’Abate benedettino Ansgerio il quale
sarà anche nominato signore feudale del vastissimo territorio
della diocesi attribuendogli piena giurisdizione con il potere
di amministrare la giustizia.
Ruggero per l’edificazione della Cattedrale scelse, in un primo
tempo, il sito dell’odierna chiesa di Sant’Agata la Vetere dove
nel 1091 aveva fondato il monastero Sant’Agata con l’annessa
chiesa abbaziale. Nel 1094 preferì trasferire la sede vescovile
nel cuore della città e l’antica Cattedrale venne denominata
Sant’Agata la Vetere (ossia la Vecchia) per distinguerla dalla
nuova che stava sorgendo.
Secondo Ruggero era necessario edificare la
nuova chiesa sul mare, con muri spessi e nelle forme di una
“Ecclesia munita” (chiesa – fortezza) non solo per difendere la
città e il litorale dagli attacchi esterni, provenienti dal
mare, ma soprattutto perché, con le sue forme, era chiara
espressione dell’accentramento dei poteri politici e religiosi
nelle mani del vescovo.
A questo periodo risale il Capitolo della Cattedrale,
un’importante istituzione ecclesiastica che per diversi secoli
segnò la vita della diocesi, composto sin dalla sua nascita dai
monaci benedettini dell’abazia di Sant’Agata (è importante
sottolineare che per molto tempo il vescovo si identificò con
l’abate e venne nominato dai monaci benedettini costituenti il
Capitolo della Cattedrale). Altra istituzione che risale al
periodo normanno è la così detta “parrocchialità universa” che
individua nel vescovo l’unico parroco della Diocesi e nella
Cattedrale l’unica parrocchia (tale istituzione permarrà fino al
XX sec).
Dell’antico impianto normanno rimangono solo i muri perimetrali
del transetto e delle absidi (visibili dal cortile del Palazzo
Arcivescovile) caratterizzati dalle feritoie e dai camminamenti
di ronda, delimitati dai merli. All’interno invece nella parte
superstite romanica la presenza di colonne provenienti dagli
edifici greco – romani della città testimonia, anche a Catania,
la consuetudine, diffusa in epoca medievale, di spogliare gli
edifici pagani e riutilizzare le decorazioni nella costruzione
degli edifici sacri trasformando ciò che era pagano in
cristiano.
Alla luce di ciò si comprende anche il motivo per cui i normanni
costruirono la cattedrale sopra le terme pagane cercando così di
cancellarne ogni traccia.
http://www.cattedralecatania.it/fasicostr.aspx
Le Mura di Carlo V erano un complesso murario che venne fatto realizzare
a Catania dall'imperatore Carlo V a difesa della città: esse
erano costituite da undici bastioni ed avevano sette porte di
accesso alla città. L'incarico della costruzione venne dato
all'architetto Antonio Ferramolino all'inizio del XVI secolo ma
la costruzione andò avanti con molta lentezza vista la
complessità dell'opera. Esse racchiudevano completamente la
città del tempo e la difendevano dai pericoli esterni. Ma, prima
l'eruzione dell'Etna del 1669 e poi il terremoto del 1693 le
rovinarono gravemente, ma la loro scomparsa definitiva si deve
al piano di rinnovo urbano del XVIII secolo. Agli inizi del
XVIII secolo il Duca di Camastra, che ebbe l'incarico della
ricostruzione di Catania, fece allargare un'apertura del 1672,
ovvero quella vicina alla piazza del Duomo, facendo realizzare
la Porta scenografica che venne intitolata al viceré duca di
Uzeda.
Sopra questo tratto di mura, contro il parere del duca di Camastra, vennero edificati il seminario arcivescovile ed il
Palazzo dei Chierici che si affaccia sulla piazza Duomo di
fronte al Palazzo degli Elefanti sede del Municipio. Del sistema
fortilizio rimangono ancora cospicue tracce.
"E quannu Carlu Quintu fici i mura pinsannu a la
difisa d'a citati,
Catania si 'ntisi cchiù sicura contru
l'incursioni d'i pirati.
A Civita ccu mari assai vicinu c'eranu
porti 'i ferru e baluardi,
e specialmenti a Portu Saracinu li
risistenzi erunu vagghiardi "
Vincenzo Zurria - da "O vinci o perdi"
1896.
I bastioni di Catania
erano fortificazioni
cinquecentesche distribuite lungo le mura di Carlo V.
Per volere di Carlo V di Spagna, lungo la cinta muraria
venne commissionato all'architetto Sferrandino da Bergamo di
edificare sette porte e undici bastioni, tutti in pietra lavica.
Le mura
e, conseguentemente, bastioni e porte, in seguito alle
devastazioni di fine Seicento (colata lavica nel 1669 e
terremoto nel 1693), furono quasi interamente distrutte. Durante
la ricostruzione settecentesca di Catania, lungo il tratto
sull'attuale via Dusmet, sui resti della cinta vennero edificati
numerosi palazzi, tra cui il prestigioso Palazzo Biscari e
l'Arcivescovato. Sono quindi visibili i baluardi inferiori delle
mura, riconoscibili per la tipica struttura scoscesa, così come
in alcune zone dello storico quartiere della Civita.
È ancora evidente, lungo la via Plebiscito, il percorso della
cinta tra il Bastione degli Infetti e il Bastione del Tindaro,
sul cui tratto - senza porte - si addossava il complesso
monastico di San Nicolò l'Arena; in queste zone sorgevano anche
il Bastione San Giovanni e il Bastione Sant'Euplio (in piazza
Sant'Antonio). Andarono invece completamente inghiottiti dalla
lava il Bastione San Giorgio e il Bastione Santa Croce, nei
pressi del Castello Ursino; tra via Dusmet e via Porta di Ferro
(per l'omonima porta), si trovavano il Bastione del Salvatore,
eretto nel 1552, e il Bastione Don Perrucchio, alla marina. Il
Bastione San Giuliano sorgeva sul terreno dell'odierno Convitto
Cutelli, il Bastione San Michele, al centro di piazza Santo
Spirito, e il Bastione del Santo Carcere, accanto alla chiesa
dedicata a Sant'Agata, su via dei Cappuccini, chiudevano il
cerchio difensivo attorno alla città.
Le mura alla Marina, un tempo dette Beloardo di Sant’Agata.
Del perimetro difensivo di Catania, infatti, proprio la cortina
muraria a mare è stata quella che ha subìto maggiori
rifacimenti, al punto che oggi risulta quasi del tutto
impossibile stabilire quale andamento seguisse nelle epoche più
antiche. Alcune planimetrie cinquecentesche permettono di
ipotizzare che parte delle mura medioevali non fosse ancora
stato abbattuto, permettendoci una vaga idea di come
proseguissero le mura della città prima dell’erezione dei nuovi
bastioni, ma nulla di davvero concreto. Così ciò che ci è noto è
frutto di quel progetto di fortificazioni iniziato poco prima
del 1550 su volere di Carlo V e fondamentalmente mai concluso.
Nella sua Pianta topografica della città di Catania, Sebastiano Ittar ricorda che il tratto di mura alla marina – che a partire
dalla Porta delli Canali circonda i palazzi dei Chierici e
dell’Arcivescovato, passando dalla Porta Uzeda e chiudendo con
la scomparsa Porta del Porticciolo – veniva impropriamente
chiamato “Bastione di Sant’Agata”.
Si tratta di una originale
conformazione a W delle mura che, presso il transetto merlato
della Cattedrale che fungeva da vedetta, stringe formando un
vertice. Sulla base della epigrafe che sovrasta la Porta di
Carlo V (già delli Canali) possiamo stabilirne la datazione al
1553, stabilendo anche una certa precocità dello stile della
medesima porta che richiama in anticipo su tutta l’Italia lo
stile Classico come elemento di decorazione urbana: in Toscana,
per esempio, solo la fine del secolo vedrà imitata la medesima
porta sulle cortine civiche.
Tale precocità può essere letta e
inserita nel confronto con le antichità classiche che a Catania
sopravvivevano all’epoca e facevano parte del vivere quotidiano
(un esempio per tutti: durante i moti del 1542 i catanesi
ribelli si davano appuntamento presso la Pietra del Malconsiglio,
un capitello liscio proveniente probabilmente da un tempio
romano, forse quello del culto isideo), un confronto che non
cessa di esistere nel 1612, quando viene inaugurata alla
presenza del viceré il duca di Ossuna la Fontana delli Canali in
seguito nota come fontana de’ setti canneddi e oggi la più
antica fontana urbana esistente, né tantomeno nel 1621, quando
il successore del duca di Ossuna, Francesco Lanario duca di
Carpignano, provvide alla risistemazione della cortina, al suo
abbellimento con tre ricche fontane e creò il primo passiaturi
di Catania, esempio unico al mondo occidentale di allora di una
passeggiata alla marina lastricata, alberata e dotata di comode
panchine: per la realizzazione di detta passeggiata infatti si
ricorse alla spoliazione dell’imponente acquedotto romano che da
quasi mille e settecento anni si imponeva nelle campagne che
dalla città giungevano all’odierno abitato di S. Maria di
Licodia, riducendone gli archi della metà.
La colata del 1669 raggiunse il Porto nella sua parte
meridionale, minacciando l’ingresso delle lave anche dalla
suddetta Porta civica, come fece già dalle porte del Sardo,
della Consolazione, della Decima e più a nord da una porta detta
del Regno o della Giudecca. La brusca frenata causata
dall’impatto tra le lave calde e il mare non risparmiò le
fontane del ’21, se non la più modesta di esse, ribattezzata in
seguito Fonte Lanaria.
Ma un sistema fortilizio non si limita all’estetica, essendo
esso frutto di una necessaria protezione militare di un comunità
costantemente sotto attacco piratesco. Pensiamo ai diversi
progetti che si sono susseguiti nel tempo per difendere la città
e quasi nessuno davvero compiuto: dal Ferramolino allo
Spannocchi, dal Negro (sebbene non sia chiaro se la sua presenza
in città fosse militare o di studio) al Camilliani passando per
altri architetti via via richiamati dai viceré per il
rafforzamento delle mura urbiche catanesi.
Uno dei progetti,
forse dei primi del Seicento, riguardava la vigilanza sulla
costa, con un sistema di torrette e di fuochi da fare invidia ad
un recente film di tolkeriana ispirazione.
Braun & Hogenberg, La clarissima
Città di Catania, 1592.
Le torrette, aventi
una distanza tra esse tale da permettere un rapido aggiornamento
visivo fino ai castelli che ospitavano le milizie, presero
presto il nome allusivo di Torri Sarracine, riferendosi al
nemico da cui difendevano la costa. Laddove non si sfruttavano
preesistenze come il campanile della Cattedrale
(resa nel 1662
una delle più alte torri d’Occidente con i suoi quasi 100
metri), della chiesa di Santa Maria di Ognina o le vedette del
Castrum Acis (ad Acicastello) e della Fortezza del Tocco (ad
Acireale), le torrette costiere, impropriamente dette anche
garitte, vennero realizzate secondo forme e dimensioni
standardizzate. In pianta quadrata, esse vennero alzate con
robusti angoli in conci lavici squadrati di varia dimensione; le
pareti sono invece in materiale lavico non lavorato, calce, ghiara, cunei di vario genere (ceramiche, pietra calcarea o
rocce laviche di minori dimensioni); si presentano con due
aperture contrapposte dagli stipiti e dalla trave in più conci
di pietra lavica ben riquadrata di cui una solitamente rivolta
verso il mare, mentre ortogonali ad esse (a nord e a sud) due
finestre si aprivano con analoga architettura. Chiudeva
l’edificio una riconoscibile cuspide piramidale circondata da
quattro più piccole piramidi ognuna su uno dei rispettivi
cantoni della guardiola.
L’esempio più antico, databile alla metà del XVI secolo,
sembrerebbe essere la torretta angolare intra moenia che
spalleggiava il Castello Ursino nella estremità meridionale
della linea fortificata alla Marina e ritrovata solo in anni a
noi molto recenti (oggi è sita in un delizioso giardino che
decora lo spazio tra il maniero federiciano e i resti ritrovati
delle mura civiche, sepolte dalla colata del 1669): questa
infatti appare nelle illustrazioni realizzate da Tiburzio
Spannocchi verso la fine degli anni cinquanta del secolo.
Il fascino e la suggestione di tali torrette ha incantato da
sempre chi scrive, instillando una vera passione per i sistemi
difensivi del passato. Molte generazioni di catanesi hanno
affrontato, ai tempi in cui piazza Europa era una piazza,
l’arrampicata coraggiosa verso la torretta sfidando vertigini e
aspre rocce sentendosi chissà quali cavalieri di perduti regni
delle favole.
Ma alle favole, crescendo, si smette di credere e i luoghi che
da piccoli sembravano magici si scontrano inesorabilmente con la
realtà.
Così duole narrare che il glorioso sistema difensivo, che un
tempo proteggeva la città dagli agenti esterni, non è riuscito a
proteggersi dalle “aggressioni interne”, finendo inesorabilmente
fagocitato, deturpato, dilaniato dalla medesima città che giurò
di proteggere.
Il caso del Bastione di San Giovanni è piuttosto eloquente in
merito, giacché di esso si può avere idea solo sbirciando
attraverso un cancello perennemente chiuso o immaginandoselo
sgombro dalle casette popolari o dalle piante che ai suoi
fianchi o al suo interno hanno ormai preso pieno predominio. Ma
anche la stessa Porta di Carlo V piange in silenzio il
soffocamento del settecentesco palazzo del Seminario e delle
bancherelle dei pescivendoli. La sorte non ha risparmiato nulla,
se la cortina muraria detta Beloardo di Sant’Agata è stato
svuotato nel tempo per ricavarne botteghe di ogni tipo. Per
tacere della scomparsa della passeggiata alla Marina a causa
della realizzazione del ponte ferroviario di fine Ottocento, cui
ci riserviamo la cura di un approfondimento in seguito.
Ma ciò che intristisce maggiormente è la amara lettura di un
articolo di Italpress e riportato dal Corriere del Sud,
intitolato Le garritte spagnole trasformate in case abusive. Già
tempo fa denunciammo altrove le pessime condizioni di piazza
Europa e della sua torretta ridotta a deposito di cartoni e
materiale accatastato da chissà chi, ma la coscienza che il
“biglietto da visita” alla città dal mare verta in sì gravi
condizioni rende difficile poter credere esista un interesse a
valorizzare e dare nuova linfa vitale a questi baluardi della
nostra storia passata.
Appaiono quindi le torrette del Lungomare quali depositi e
latrine, punti in cui trovare bottiglie, preservativi, siringhe,
dove il tanfo diventa irrespirabile e dove la cultura e la
coscienza civica muoiono. Invano si è cercato di ripulirle, al
punto da spingere Marco Morabito, responsabile servizio giardini
pubblici, a dichiarare che “l’ideale sarebbe murare le entrate
delle torri per evitare a tutti un simile spettacolo”.
Una soluzione tanto drastica – diremmo noi – appare
l’inverosimile. Impossibile ipotizzare che qualche blocco di
forato basti a far desistere incivili ed emarginati a
considerare un bene monumentale al pari di una
discarica-tugurio-alcova. Impossibile immaginare che nessuna
anonima bomboletta spray non uccida l’estetica del monumento e
che dopo poco anonimi martelli non decidono di riaprire le torri
isolate per ricavare ancora una volta un ambiente degradato.
Ecco perché ci sentiamo in obbligo a suggerire una visione
“nuova” delle cosiddette garitte. Prendendo spunto da un
progetto analogo vi vediamo bene la creazione di Case per i
Pipistrelli all’interno, affinché si incentivi l’aumento delle
colonie cittadine degli utilissimi “amici dell’uomo” (basti
pensare che in media un pipistrello riesce a mangiare ben 2000
zanzare per notte), fornendo loro un luogo dove stare, al
riparo, protetti e monitorati da gruppi volontari e da
ricercatori.
http://www.urbanfile.org/blogs/2012/10/31/ripari-perduti-analisi-di-alcuni-antichi-sistemi-difensivi-in-rovina/
Le porte di Catania prima del terremoto del 1693 erano dieci.
Oggi, di quelle antiche porte, ne resta solo una costruita al
tempo di Carlo V di Spagna, ed è la cosiddetta porta delli Canali
o porta di Carlo V (visibile dalla piazzetta Pardo in
pescheria).
Oltre a questa, percorrendo le mura verso est, vi era la porta
del Porticello che dava sull'antico molo; la porta di Ferro che
aveva di fronte la chiesa di San Francesco di Paola; la porta di
Sant'Orsola alla spalle dell'attuale Teatro Massimo Bellini; la
porta di Aci a nord da cui si dipartiva l'antica strada verso
Acium; la porta del re a fianco della chiesa di Sant'Agata la
Vetere; la porta di Sardo (contrada); la porta della
Consolazione (contrada); la porta della Decima dove vi erano i
magazzini del Dazio; ed in fine la porta del Sale che si apriva
nella cerchia muraria attorno al castello Ursino.
Poi a sud, dopo il terremoto, fu aperta nelle mura la Porta
Uzeda (che ricorda il nome di un viceré di Sicilia e collegava
Piazza del Duomo all'antica zona del porto che oggi è la
villetta Pacini. Porta Garibaldi fu costruita nel 1768 in
occasione della venuta a Catania del re Ferdinando IV di Borbone
(I delle Due Sicilie) e quindi fu detta inizialmente Porta
Ferdinandea. La zona è detta del Futtinu (o "Fortino").
La Porta delli canali o di Carlo V
è la sola porta delle cinquecentesche mura di Carlo V che
si conserva intatta alla Pescheria. Era collegata con un abbeveratorio con una fonte a sette canali e portava alla
marina. Qui sgorgava anche l'Amenano, il fiume, poi interrato
dal terremoto, che oggi riemerge nella fontana detta dell'«acqua
‘o linzolu». La porta si apriva su una piazza larga da cui si
accedeva alla strada che correva lungo le mura, fatta costruire
da Lanario e per questo detta «Lanaria». Da
questa porta il 4 febbraio usciva il fercolo di Sant'Agata per
il giro esterno della città.
Nota in passato come Porta delli Canali, prendeva il nome
dall'omonima fontana sulla quale si affacciava, è l'unica porta
superstite. La grande apertura, realizzata con largo uso di
blocchi lavici ben squadrati provenienti probabilmente da un non
ben identificato monumento antico, fa verso all'arte classica di
cui sono evidenti citazioni le lesene a capitello tuscanico e il
registro metopale che esse reggono.
Su tutto una lapide marmorea
incisa in caratteri e lingua latina che esprime il desiderio di
Carlo V di dotare di mura la città di Catania, donde l'attuale
nome. Un tempo aperta e ben visibile, a seguito della
ricostruzione settecentesca venne inglobata da una fabbrica del
sovrastante Seminario dei Chierici. La posizione e la presenza
della lapide commemorativa, nonché l'interesse del Lanario di
abbellire questo tratto di mura fanno pensare che la Porta fu
destinata per essere la principale apertura a sud, in
sostituzione della Porta del Porticciolo e della Porta della
Decima. La monumentale Fontana dei 36 Canali da cui prese in
passato il nome venne realizzata nel 1621, dietro un preciso
piano di abbellimento e decoro voluto da don Francesco Lanario
Duca di Carpignano, sulle mura di fronte alla Porta e sopra di
essa stava una sorta di tribuna adornata con pitture che
raffiguravano la storia del dio fluviale Amenano, ma venne
distrutta poi dall'eruzione del 1669. Oggi una fontana ben più
ridotta, la Fontana dei Sette Canali rimane a ricordo di quella
maggiore in piazza Alonzo di Benedetto, non distante dalla Porta
di Carlo V.
LA FONTANA DEI SETTE CANALI
Alle spalle della fontana dell'Amenano si apre piazza Alonzo di
Benedetto, conosciuta non solo perchè ospita l'antica pescheria,
ma anche perchè vi è ubicata l'antica fontana dei Sette Canali.
Quest'ultima, costruita nel 1912, si trova a fianco della
gradinata che costeggia la fontana dell'Amenano ed è incastonata
in un'ampia arcata incavata nella parte laterale del Palazzo del
Seminario dei Chierici. Può essere considerata di grande pregio
e valore poiché è sopravvissuta al devastante terremoto del
1693; infatti, proprio per questo motivo, si trova ad un livello
più basso.
La fontana, dall'architettura che ricorda lo stile greco,
realizzata in marmo pregiato, ha una struttura particolare
poiché è stata costruita per essere utilizzata come fonte per il
recupero di acqua potabile; è infatti composta da sette cannelle
dalle quali sgorga l'acqua attinta dal fiume Amenano, che
successivamente si riversa su una grande vasca rettangolare al
di sopra della quale è posta una lapide in marmo che riporta la
seguente iscrizione in latino, ormai non molto visibile: « D. O.
M. Philippo III Hispaniarum et Siciliae Rege invictissimo D.
Petro Giron Ossunae Dvce Pro rege, D. Carolvs Gravina Patritivs,
Don Matthevs De Alagona,D. Hieronymus Paterno, Fabritivs
Tornambeni, Hercvles Tvdiscvs, Joannes Baptista Scammacca et Don
Ioseph Fimia Vrbis Senatores, canales aquae vetustate pene
collapsos opere marmoreo magnificentiore forma reficiendos
publica impensa curaverunt.»
Successivamente, si intuì che le acque della fontana,
attraversando la città, venivano compromesse rendendole impure,
per cui il Comune procedette ad impedire l'accesso al pubblico
costruendo una massiccia grata in ferro, lasciando la fontana
come ricordo storico per la città, ed oggi rappresenta una
curiosa attrazione per i turisti proprio per la sua
particolarità.
http://turismoct.myhostingweb.com/articolo.php?idarticolo=8878
La Porta Vega o del Porticello,
ubicata nell'attuale via Porticello, era situata nella
cortina tra il Vescovado e il Palazzo Biscari alla Marina. Fu
costruita nel 1552 da Vega «per il commercio del carico dei formenti e delle feluche e barche, avea in avanti il porto
saraceno». Sul frontespizio vi era uno stemma degli aragonesi,
oggi conservato al museo civico di Castello Ursino. Dopo il
terremoto del 1693, quando la città fu ricostruita, su questo
tratto di mura - uno dei pochi conservati - ebbero il privilegio
di costruire i propri palazzi il vescovo e il principe di
Biscari, edifici che possiamo ammirare ancora oggi
Nota anche come Porta Saracena e riedificata nel 1553,
sostituiva una porta più antica - la Porta del Porto - e
prendeva il nome dal viceré Juan de Vega cui fu dedicata.
L'altro appellativo si deve invece al Porto Aragonese, detto
anche Porticciolo o Porto Saraceno, appunto, in quanto ritenuto
eretto dai musulmani durante la loro dominazione in Sicilia.
Nel Settecento fu oggetto di discordia tra
l'Arcidiocesi e la famiglia Paternò Castello, entrambe le parti
confinanti con la Porta e interessate al suo controllo. Venne
demolita nel corso del XIX secolo per l'ampliamento della viuzza che da essa
giungeva al porto, oggi via Porticello.
La
Porta di Ferro era
Ubicata in fondo all'attuale via omonima, vicino piazza
Cutelli. Era chiamata così perché celava sotto la copertura di
ferro una delle celebri porte di legno bottino di guerra
dell'Imperatore Carlo V, poi trasportate qui. Fu bruciata nel
1647 dai ribelli, e dai frantumi rimasti ne venne fabbricata
un'altra. Venne demolita intorno al 1860, insieme al tratto di
cortina, per tracciare l'attuale via Porta di Ferro. Sullo
sfondo la chiesetta di San Salvatore, una delle poche
sopravvissute al sisma del 1693, poi demolita per realizzare il
porto nuovo.
Questa Porta deve il nome alla grata metallica che la chiudeva,
secondo la tradizione ottenuta col bottino di una presunta
vittoria dei Catanesi sui Libici, avvenimento in realtà mai
accaduto. Venne detta anche Pontone, con chiaro riferimento
nautico. Risale al 1555 e sorgeva dov'è oggi l'omonima via.
Stando all'Ittar essa si sostituiva alla Porta del Porto. La sua
sorte venne decretata con l'ampliamento della strada che porta
il suo nome.
Della Porta del Porto è certa la sua presenza nel Medioevo, nasceva per garantire un
accesso alla città dal piccolo Porto Aragonese. L'accesso era
sotto la giurisdizione della famiglia dei Platamone,
arricchitasi proprio grazie alle concessioni portuali. Venne
abbattuta insieme al tratto di mura su cui si affacciava per la
realizzazione della nuova cortina cinquecentesca che circondava
il quartiere Civita il quale, in espansione, vedeva nel vecchio
tratto di mura un pesante limite. La sua incerta ubicazione
dovette essere non lontana dall'attuale piazza Duca d'Aosta.
Porta di Sant'Orsola,
chiamata in precedenza «posterna Joenio», fu aperta nel 1671
nella cortina di Nord-Est dove, fin dal 1500, si aprivano altre
posterne private che prendevano il nome dei proprietari delle
case prospicienti le mura, quale le posterne di Campanello e di
Savarino, quest'ultima antichissima, risalente al 1379. La porta
era ubicata vicino alla chiesa di Sant'Orsola, nell'area
dell'attuale piazza Scammacca 13, dietro il Teatro
Massimo, e fu demolita dopo il terremoto
del 1693 per tracciare le nuove strade di Catania.
Eretta nel 1671 non distante dalla Porta della Lanza, prese il
nome dalla vicina chiesa omonima. Essa non sopravvisse al sisma
del 1693, mentre la chiesetta cui deve il nome conservò parte
del fabbricato che ne condizionò una inusuale pianta ovale con
finto ingresso, oltre ad un'ampia cripta appartenente al tempio
originario.
La chiesa faceva parte del monastero di S.
Orsola sorto nei primi decenni del Quattrocento. Nel 1558 il
vescovo Nicola Maria Caracciolo chiuse il monastero perché esso
sorgeva a ridosso delle mura della città e trasferì altrove le
monache. La chiesa fu concessa quindi alla confraternita della
Orazione e morte. Distrutta dal terremoto del 1693, fu
ricostruita nella forma attuale. Dopo lavori di restauro che ne
hanno permesso l'agibilità e che sono stati curati
dall'arciconfraternita, nel 1972 è stata consacrata da mons.
Domenico Picchinenna.
Era detta anche porta Stesicorea perché vicina al sepolcro
del grande poeta imerese. Si aprirva sull'attuale piazza Stesicoro ed era una delle porte più importanti di città perché
conduceva alla strada per Jaci e consentiva l'ingresso in città
dei contadini e dei commercianti dei vicini casali etnei e di
quanti provenivano dal Val Demone. Subito fuori le mura si
conservavano i resti dell'anfiteatro romano i cui ordini
superiori erano stati demoliti nel cinquecento proprio per
evitare che, in caso di invasione, fosse facile per il nemico
dare l'assalto alle fortificazioni. Di fronte si apriva il
convento dei Cappuccini e l'omonima salita che tutt'oggi ne
conserva il nome.
Anticamente chiamata Porta Stesicorea in quanto la tradizione
vuole che si affacciasse sul Sepolcro di Stesicoro: non lungi da
tale porta dunque era l'antica necropoli civica. Situata nel
Piano che da essa prese il nome, venne ribattezzata Porta di
Jaci dalla città di Aci, indicante a partire dal XIV secolo
l'odierna Acireale. La porta appare nelle più antiche
planimetrie addossata all'anfiteatro, pertanto potrebbe essere
stata ad esso coeva.
La Porta del Re e S. Agata la Vetere
era chiamata così perché fu fatta aprire da re Federico III
d'Aragona. Si trovava all'inizio dell'attuale via Santa
Maddalena, vicino al bastione e alla chiesa di Sant'Agata la Vetere, una delle tre chiese - insieme al Santo Carcere e a San
Biagio -legate al martirio e alla morte della Patrona. Durante
la processione del 4 febbraio le reliquie della Patrona
entravano dalla porta e sostavano in chiesa dove veniva
celebrata una messa in suo onore. Una delle tappe che il fercolo
fa ancora oggi. Fuori la porta, su un grande piano, sorgeva la
chiesa Santa Maria La Grande, il convento dei Domenicani e la
chiesa di San Vito
Detta anticamente Porta Aquilonare, non è noto il re cui si
riferisca. Forse, data la sua posizione sulle mura di epoca
aragonese, poté essere l'ingresso privilegiato alla città dei
sovrani del Regno di Trinacria, diretti devozionalmente
all'antica chiesa di Sant'Agata la Vetere, prima sede della
cattedra vescovile e tradizionalmente sede del sepolcro della
patrona della città.
la porta del Re
La riverenza della più alta carica civica
verso tale chiesa è tutt'oggi celebrata dal sindaco di Catania e
dalle autorità cittadine che per l'apertura della Festa di
Sant'Agata si reca a rendere omaggio all'antico sepolcro sito
nella Vetere. Per Aquilonare, invece, si intende il nord (quindi
andrebbe letta come Porta Nord) in quanto nel XIV secolo in
lingua siciliana tale era il suo significato. La Porta si apriva
dov'è oggi via Santa Maddalena, proprio di fronte alla Chiesa
della Purità.
La Porta della Decima o Porta Siracusa
prende il nome dagli adiacenti magazzini delle decime, cioè
della tassa del 10% da versare alla curia vescovile, applicata a
tutte le merci provenienti dall'entroterra e che arrivavano in
città attraverso questo ingresso. Si trovava a settentrione
della chiesa di San Giuseppe al Transito, alla fine dell'attuale
via Naumachia. Era di disegno arabo con ornamenti di tipo
bizantino. Con la Porta di Carlo V era considerata una delle
porte più belle di città. Fu demolita dopo il 1860.
Secondo quanto riportato da Sebastiano Ittar nella sua Pianta
topografica della città di Catania la Porta della Decima era
nota anche come Porta Siracusa e nasceva in sostituzione
dell'antica Porta Ariana. La sua esistenza è certa nel Medioevo,
in quanto al di sotto di tale ingresso vi passarono i catanesi
ribelli al re Federico in umiliazione sotto un arco di spade.
Qui, dato il nome, avveniva il pagamento della decima, ossia un
decimo del raccolto che veniva versato come tributo al sovrano.
Ancora integra nel 1833, venne demolita per la lastricazione
dell'antistante piazza San Giuseppe, oggi titolata piazza
Carmelo Maravigna.
fonti: wikipedia
La Porta di Sardo, eretta sulla cortina muraria medioevale a ovest, nel tratto
di via Garibaldi che s'appresta all'incrocio con la via del Plebiscito, venne ricavata col piano di fortificazione
cinquecentesco. Mai completata, venne abbattuta nel 1792 per
ampliare la stessa via Garibaldi. Deve il nome al feudo del
Sardo, ricco terreno a occidente della città.
DOVE SI TROVAVA |
Porta della Consolazione, probabilmente medioevale, si apriva poco oltre il Bastione
di San Giovanni. La sua distruzione avvenne con l'eruzione del
1669 la cui colata entrò da questa porta per fermarsi parecchi
metri all'interno, presso l'attuale chiesa Santi Cosma e
Damiano.
DOVE SI TROVAVA |
Eretta nel sistema difensivo del fossato del Castello Ursino
nel corso del XVI secolo, anch'essa venne demolita totalmente
dall'eruzione secentesca. Quasi certamente nella zona occidentale di piazza Federico II di
Svevia. Qui avveniva il deposito, il controllo e la tassazione
del sale destinato al castellano il quale a sua volta ripartiva
il minerale ai cittadini.
DOVE SI TROVAVA |
La
Porta della Cunzaria era una postierla sita presso il Bastione
Grande o di San Salvatore, conduceva ad una conceria di pelli
che nel XVI secolo era ubicata dove oggi sorge la Dogana
Portuale e che nel Settecento venne adattata a lazzaretto,
su uno sperone lavico a picco sul mare. La porticciuola fu
chiusa certamente dopo l'eruzione del 1669, in quanto non
compare più menzione di tale apertura in piante posteriori a
tale data.
|
Le postierle erano «via di fuga». Alcune
partivano dal fossato del Castello Ursino che si apriva a
ridosso del Bastione di San Giorgio. Altre postierle si aprivano
presso alcuni dei bastioni, tuttavia di esse non è rimasta
denominazione alcuna. |
|
|
Porta della Lanza. Di porte con questo titolo ne
esistettero due. La prima di età non definita
dovette essere forse di epoca aragonese, aprendosi
sulle mura di tal periodo; la seconda la sostituì
nel XVI secolo, eretta non lungi e crollata a
seguito del terremoto del 1693. I pochi resti
residui furono abbattuti per l'ampliamento della
strada Lanza, cioè l'attuale via Antonino di San
Giuliano. |
I beni
archeologici di Catania in una mappa. Il tesoro che
abbiamo e non conosciamo
Di Claudia Campese | 18 aprile 2014
Beni facilmente visibili e
visitabili in verde, bellezze da scoprire con un po’
di pazienza in giallo e veri e propri misteri negati
a cittadini e turisti in rosso. È un semaforo troppo
lento quello della fruizione dei resti antichi nel
capoluogo etneo. Per lo più senza una vera
programmazione da parte degli enti locali, spesso in
stato di abbandono o affidati a cittadini volontari.
Una delle più grandi occasioni mancate della città,
che CTzen vi presenta in questa inchiesta. Guarda
la mappa
Non solo mare, Etna e
barocco. Le potenzialità del
turismo a Catania potrebbero passare anche dalle
inesplorate risorse archeologiche. Beni del
periodo greco o romano, ma anche medievale e
rinascimentale, per lo più sconosciuti ai cittadini,
non sempre di facile accesso per i turisti e spesso
nemmeno segnalati da un cartello. Se non immersi nel
degrado. A mancare sono i fondi, ci si sente
rispondere da più parti. Ma alla base sembra
non esistere una vera programmazione da parte degli
enti locali - su tutti la Regione
Siciliana – che riescono a farsi sfuggire
anche i finanziamenti europei
pensati proprio per la tutela e la valorizzazione
dei beni culturali. CTzen, con l’aiuto del tecnico
archeologo catanese Iorga Prato, ha
raccolto i principali in una mappa
commentata: beni facilmente visibili e
visitabili (in verde), bellezze da
scoprire con un po’ di pazienza (in giallo)
e veri e propri misteri negati a cittadini e
turisti (in rosso). Una sorta di
guida alla scoperta della Catania archeologica e
all’analisi della sua occasione mancata. Almeno
finora.
Dei 103 siti censiti
nella recente mappa a cura degli archeologi Maria
Grazia Branciforti – anche direttrice del
parco archeologico etneo - e Vincenzo La
Rosa, meno della metà esistono
ormai solo in letteratura. Aggiungendo
quelli fuori dalle mura Cinquecentesche della città
o di periodi successivi, la situazione non
migliora. L’entusiasmo per una cartina per metà
colorata di verde passa presto quando si nota che
la maggior parte dei beni liberamente
fruibili non rientra in nessun progetto. E
spesso non è nemmeno segnalata da un cartello che
aiuti il turista meno esperto, come nel caso dei
resti del ’600 dell’acquedotto benedettino, tra
le opere idrauliche più imponenti del suo tempo.
Fanno eccezione alcune delle
testimonianze del passato che rientrano sotto la
tutela del parco archeologico etneo,
come il teatro romano di Catania,
meta principale dei turisti che approdano in città
anche solo per pochi giorni. Una struttura, quella
del parco-museo, che presto potrebbe diventare
autonoma, staccandosi dall’assessorato regionale ai
Beni culturali – da cui oggi dipende -, con tanti
progetti ma poche risorse.
Al gruppo dei resti archeologici
in giallo appartengono per lo più quelli che
si trovano in strutture o terreni privati.
Tra i più noti, il cosiddetto mausoleo
Modica, nell’omonima villa, o la
necropoli sotto ai grandi magazzini La
Rinascente. Ma anche testimonianze in
anonimi condomini. Nonostante la legge prescriva al
proprietario di tutelare il bene e renderlo
accessibile su richiesta, troppo spesso la
norma viene ignorata. Senza troppa pressione da
parte della Sovrintendenza etnea. Nella stessa
categoria si trovano anche strutture antiche
accessibili su prenotazione e altre
solo parzialmente visitabili per motivi di
sicurezza.
Alla zona rossa, infine,
appartengono i beni non accessibili.
Perché chiusi dentro strutture private abusive o
edifici pubblici abbandonati. Ma anche perché
circondati da barriere architettoniche che nessuno
si è mai preoccupato di rimuovere. Come nel caso
dell’ex convento dei Gesuiti -
chiuso da anni e in attesa di un progetto di messa
in sicurezza – o degli scavi di via
Crociferi – il cui accesso attende ancora
di essere adeguato alle normative europee. In
entrambi i casi diretta responsabilità della Regione
Sicilia.
Ma in uno scenario desolante sono
tanti i cittadini che non si arrendono e fanno da
sé. Come spesso accade anche per altri servizi
cittadini. Associazioni come Etna ‘ngeniousa,
Officine Culturali e
Gammazita garantiscono infatti ai
visitatori – su base volontaria – tour dei beni o
anche solo la possibilità di fruirne. Un modello
ancora troppo poco imitato dalle istituzioni.
http://ctzen.it/2014/04/18/i-beni-archeologici-di-catania-in-una-mappa-il-tesoro-che-abbiamo-e-non-conosciamo/
Della
Porta della Giudecca se ne suppone l'esistenza, ma non si hanno
notizie certe su posizione o età di realizzazione. Certamente in
uso nel Medioevo collegava la Giudecca di Catania al relativo
cimitero che trovavasi fuori dalle mura civiche.
Verosimilmente realizzata nel XIV secolo sul
tratto di mura a nord-ovest, dove oggi è ubicato l'Ospedale
Vittorio Emanuele II, è andata distrutta dalla colata del 1669.
La posizione prossima al quartiere della Cipriana e di
conseguenza alla Judeca Suprana potrebbe portare a identificarla
con la predetta Porta della Giudecca.
I due quartieri noti si trovavano prevalentemente nella zona a
sud della città.
JUDECA SUPRANA
Il primo quartiere era detto Judeca Suprana
(Iodeka Supran, Giudecca superiore) o in siciliano Judeca di
Susu e corrispondeva al Piano della Cipriana, quartiere che dopo
l'esilio degli Ebrei dalla Sicilia venne acquisito dai Padri
Benedettini che nel 1558 iniziarono, alla presenza del viceré di
Sicilia Juan de la Cerda, duca di Medinaceli, il primo impianto
di quello che sarebbe poi stato il maggiore convento del Regno.
Il quartiere si estendeva tra le attuali via della Cipriana (è
una piccola traversa di via Quartarone), via Maura (in ebraico
significa Moro), piazza Dante e il convento benedettino. In via
Sant'Anna era la mezkita di questo quartiere, termine
ebraico-medioevale che indicava la sinagoga.
JUDEA SUTTANA.
Il secondo era invece la Judeca Suttana (Iodeka Sutanah o
Giudecca inferiore) detta anche Judeca di Jusu, dov'è oggi la
Pescheria: qui infatti dovette pure esserci un grande mercato
del pesce. La zona era piuttosto paludosa e talora malsana a
causa della presenza del fiume Amenano che qui scorreva a vista
e prendeva il nome di Judicello, propriamente a causa della
Giudecca. Interessante notare come nella cartografia della
Sicilia di XVI e XVII secolo il fiume fosse sempre segnalato con
tale nome e mai come Amenano. Era compreso tra le attuali chiesa
di Sant'Agata alle Sciare, la Pescheria (più precisamente presso
il Pozzo di Gammazita) e via Marano. La sinagoga di questo
quartiere era ubicata dov'è oggi la via Recupero, presso la
chiesa dei SS. Cosma e Damiano.
La dislocazione della comunità ebraica si può desumere anche
dalla toponomastica: via Marano viene propriamente da marrano,
cioè il termine dispregiativo riferito agli Ebrei convertiti al
Cristianesimo, mentre via Gisira viene dal termine islamico
jizia, la tassa cioè che veniva versata per la libertà di culto.
Indirettamente invece via Santa Maria della Catena indica la
presenza della giudecca: infatti in Sicilia tutti i toponimi che
indicano catena e le chiese titolate Santa Maria della Catena
sono rispettivamente contrade abitate in quel tempo da giudei e
sedi d’antiche sinagoghe.
fonte: wikipedia
Detta anche Porta di Ligne, era l'unica porta esistente nel
Ridotto o Fortino, un tratto di mura eretto nel 1672 sulle lave
ancora calde, distante dal sistema difensivo originario, ma
facente parte di esso in quanto ne sostituiva la parte
sud-ovest, irrimediabilmente perduta. Deve il nome al viceré
Claude Lamoral I di Ligne che inaugurò il fortilizio entrando
per tale porta in pompa magna. L'ultima testa coronata a
passarvi fu Vittorio Amedeo II di Savoia durante il suo
soggiorno siciliano, dopodiché decadde e si preferirono altri
più comodi accessi, come la Porta Ferdinanda del 1768. Il
Fortino datato un secolo divenne Fortino Vecchio e oggi la
Porta, ancora ben visibile in fondo alla via Sacchero, prende
tale nome.
La vera storia del Fortino
Un angolo suggestivo di Catania ma poco conosciuto. Stiamo
parlando della "Porta Ferdinandea" o "Porta Garibaldi" l'arco
trionfale costruito nel 1768, su progetto di Stefano Ittar e
Francesco Battaglia, per commemorare le nozze di Ferdinando I
delle Due Sicilie e Maria Carolina d'Asburgo-Lorena.
Sono molti i monumenti storici - appartenenti ad epoche diverse
- che caratterizzano Catania rendendola unica, di cui gli stessi
catanesi spesso sconoscono la storia. Il monumento in questione
soprannominato erroneamente "Porta Fortino" si trova tra piazza
Palestro e piazza Crocifisso, alla fine di via Garibaldi. In
realtà la vera "Porta Fortino" è quella che si trova in via
Sacchero, a pochi passi da piazza Palestro. Il "Fortino
Vecchio", come era chiamato una volta, fu di grande interesse
storico e fu voluto dal Principe di Lignè Claudio Smeraldo.
Temendo per le incursioni sempre più frequenti dei francesi,
nell'ottobre del 1672 decise di fortificare la città dalla parte
occidentale con mura esterne e con alcuni fortini costruiti
nelle vicine colline. In origine, nel 1673, si trattava di un
vero e proprio fortino militare, oggi della costruzione
originale non resta che un arco, mentre tutto il resto è sparito
sotto un groviglio di casupole. Ma torniamo alla "Porta
Ferdinandea" oggi diventata luogo di ritrovo di ragazzini in
scooter e ammirata distrattamente dai turisti stranieri che si
aggirano per le vie del centro storico.
La costruzione di questo monumento fu suggerita e poi
personalmente eseguita da Ignazio Paternò Castello di Biscari e
da Domenico Rosso di Cerami. Ne venne fuori un maestoso arco
trionfale, un capolavoro d'arte settecentesca, formato
alternando parallelamente strisce di pietre bianche e nere. La
porta nel suo progetto originale doveva rappresentare l'ingresso
solenne ad ovest della città, in perfetto asse con l'ingresso
del Duomo. Nel 1862 cambiò denominazione in "Porta Garibaldi" in
onore del generale che aveva messo fine alla denominazione
borbonica.
Daniela Cocina
http://forum.termometropolitico.it/forum/movimenti-e-cultura-politica/regno-delle-due-sicilie/37065-catania-la-vera-storia-del-fortino.html
PORTA CELEBRATIVA inaugurata come Porta Ferdinandea, venne
ribattezzata subito Porta del Fortino o Fortino. Dai catanesi e
ancora è così appellata. Eretta nel 1768 per celebrare le nozze
di re Ferdinando III di Borbone e Maria Carolina di Asburgo è
riconoscibile dalla elegante bicromia del nero della pietra
lavica e del bianco della pietra di Lentini, nonché dall'ampio
registro di simbologie legate alla città di Catania: l'elefante,
Sant'Agata, la Fenicie (Melior de cinere surgo è il motto della
ricostruenda città). La Porta presentava ai due lati due
torrioni semiconici, mentre l'intera piazza riprendeva il gusto
bicromo della Porta, cui pure faceva da contraltare una coppia
di egide con le armi borboniche poste ad ingresso della piazza
(oggi piazza Palestro) sul lato opposto alla Porta. L'intero
apparato decorativo esterno ad essa, però, venne demolito nel
corso del XIX e degli inizi del XX secolo, così che oggi di
quell'aspetto non restano che stampe settecentesche e sbiadite
foto degli inizi del XX secolo.
Porta Uzeda,
PORTA CELEBRATIVA detta anche Porta
grande della Marina, si trattò di una breccia aperta nel 1696
nel tratto di mura che si affacciava sul mare (detto Bastione di
Sant'Agata per mettere in comunicazione la nuova insenatura
creatasi a seguito della colata e la Platea Magna, oggi piazza
del Duomo. Venne voluta dal Duca di Camastra, fautore della
ricostruzione come simbolo della rinata città: avrebbe
rappresentato lo spirito di rinascita dalle macerie di Catania
creando nel contempo un "salotto urbano" con il resto degli
edifici che sarebbero dovuti sorgere tutt'intorno alla piazza
che fosse il cuore del nuovo volto barocco impostato con il
piano di risanamento. In seguito la porta venne battezzata Porta
Uzeda, in onore al viceré Giovan Francesco Pacecho Duca di Uzeda.
La Porta esiste ancora ed è una delle maggiori attrazioni della
medesima piazza. Al suo interno una rappresentazione del Cristo
incoronato di spine venne danneggiato dal bombardamento alleato:
si scheggiò propriamente un punto della fronte, quasi a
rappresentare come la guerra non fosse altro che un'altra piaga
sul Suo volto sofferente.
Gli undici bastioni.
Bastione San Giorgio (Castello Ursino) Bastione Santa
Croce (Castello Ursino) Bastione Don Perrucchio (Civita)
Bastione Grande (del Salvatore) (Civita) Bastione San
Giuliano (Convitto Cutelli) Bastione San Michele (Piazza
Santo Spirito) Bastione del Santo Carcere (Via Cappuccini)
Bastione degli Infetti (Via Plebiscito) Bastione del
Tindaro (Via Plebiscito) Bastione San Giovanni (S. Nicolò)
Bastione Sant'Euplio (Piazza Sant’Antonio)
Esistono altri edifici, al di fuori delle mura cinquecentesche,
che hanno avuto la funzione di fortificazione e sorveglianza per
la città di Catania e possono quindi essere considerati bastioni
a tutti gli effetti. Ne sono esempio la garitta di guardia in
pietra lavica presente al centro di piazza Europa e la torre del
campanile della Parrocchia-Santuario di Santa Maria di Ognina.
fonte: "Catania dal blasonato
Barocco della ricostruzione al vivace Liberty dei viali" -
Gaetano D'Emilio - Edizioni Media snc Catania
Il Bastione degli infetti - di cui resta tutt'ora una parte
vicino via Plebiscito - venne chiamato così perché, nel 1576,
durante la peste, vi furono ricoverati i maschi di città.
Attigua al bastione era la torre del Vescovo, che nel 1370 le
autorità cittadine donarono a don Antonio de Vulpone, vescovo di
Milevi, perché benemerito della città. Alle sue spalle si apriva
la contrada della Gurna di Anicito costituita da una valle,
coronata di monti, dove d'inverno si raccoglieva l'acqua piovana
formando un grande lago navigabile. Il lago viene colmato in
sole 6 ore, e scompare, con la colata lavica del 1669.
COSTRUITO IN PIETRA LAVICA DA CARLO V. C'è chi crede nella
bellezza culturale della propria città. Chi si domanda come mai
New York riesca ad avere un numero di centri commerciali vicino
a quello di Catania. Forse questo nessuno potrà mai spiegarlo.
Così come trovare resti della cinta muraria cittadina
cinquecentesca abbandonati: nessuno potrà mai pensarlo.
Fantascienza per chi vive fuori Catania. Realtà per chi vive,
invece, tutti i giorni il quartiere Antico Corso. Qui, infatti,
il Bastione degli Infetti, uno degli 11 costruiti per volere di
Carlo V, totalmente in pietra lavica, rimane chiuso al pubblico.
Abbandonato.
FERMO' LA LAVA NEL 1669. Salvatore Castro, presidente del
comitato popolare Antico corso, ha svelato la storia che
racchiude il bastione cinquecentesco. "Siamo in presenza di una
fortificazione di rinforzo, simile al bastione del Tindaro, che
rimane però in condizioni migliori di questo". In occasione
dell'eruzione vulcanica, che distrusse parte della città etnea,
quest'area della cinta muraria di Catania contribuì a deviare il
corso della lava. "La colata defluì - continua Castro - lungo la
zona periferica e Castello Ursino. Insieme al convento dei
Benedettini - la parte più vecchia - contribuì a preservare e
custodire la zona più abitata della città"
OGGI COSA RIMANE. Passando lungo Via Torre del Vescovo
muore la dignità di un posto così prezioso per la storia di
Catania. Inizia qui, infatti, il basamento roccioso in pietra
lavica eretto secoli fa su ordine del sovrano Carlo V. La
presenza dei cassonetti della spazzatura, però, lascia nel
degrado una vista tanto importante. Tra sporcizia e rifiuti,
muore la memoria e il valore storico-architettonico della città.
http://www.cataniatoday.it/cronaca/bastione-degli-infetti-antico-corso-cosa-rimane-11-dicembre-2012.html
Prende il nome dal vicino bastione dell'Arcora o del Tindaro,
nella mitologia greca re di Sparta e padre di Elena. Era ubicato
dove oggi sorge il padiglione pediatrico dell'ospedale Vittorio
Emanuele. Prospiciente via Botte dell'Acqua, attigua a via
Plebiscito, era utilizzata per portare le mercanzie al monastero
dei Benedettini. Fu parzialmente sommersa dalle lave del 1669 il
cui banco, alto almeno dieci metri, è tutt'ora visibile in zona.
La Torre del Vescovo
sorge nei pressi dell’ospedale Vittorio
Emanuele e occupa il limite nord-occidentale della collina di Montevergine, antica acropoli di Catania. La torre si ritene
fondata agli inizi del XIV sec. (1302 d.C.?) ed è parte
integrante dell’antica cinta muraria aragonese. Venne acquistata
dal vescovo Antonio de Vulpone e trasformata, insieme all’area
antistante, in lazzaretto.
L’edificio si caratterizza per la pianta quadrata e la tecnica
edilizia (non uniforme) costituita da pietrame lavico appena
sbozzato, inzeppato con frammenti di terracotta e legato insieme
da malta. I cantonali sono rinforzati con blocchi di pietra
lavica squadrati. Della torre si conservano solo tre dei quattro
muri perimetrali, solo quelli rivolti verso l’esterno della
cinta muraria. Si tratta, probabilmente, di un semplice
accorgimento architettonico: in caso di assedio e di conquista
della cinta muraria, gli attaccanti non avrebbero potuto
utilizzare la torre contro la città, essendo essa, in
corrispondenza del lato meridionale, esposta al tiro degli
arcieri. L’edificio conserva solo le saettiere del primo piano,
sebbene sia probabile che esistesse anche una seconda
elevazione, oggi del tutto scomparsa. Il pavimento di entrambi i
piani doveva essere ligneo. Non si conserva merlatura e la
scarpa del pianterreno appare come aggiunta posticcia di tempi
relativamente recenti.
Nel XVI sec. il lazzaretto si estese, comprendendo oltre alla
Torre del Vescovo anche il limitrofo bastione di Carlo V. Il
nuovo complesso prese il nome di “Ospedale degli Infetti“.
http://www.medioevosicilia.eu/markIII/torre-del-vescovo/
BASTIONE DEGLI
INFETTI
La delegazione di Catania quest'anno promuove
il "Bastione degli Infetti". Costruito nel 1550, sotto il regno
di Carlo V, è il più integro degli undici bastioni i cui venne
munita la città a scopo difensivo (sette sono del tutto
scomparsi, di quattro se ne intravedono dei frammenti limitati),
ma non sono molti i catanesi che ne conoscono l'esistenza,
essendo inglobato nel quartiere Antico Corso.
«Il recupero del Bastione degli Infetti -
dice Antonella Mandalà - avrebbe una duplice funzione:
culturale, perché fa riemergere e dà valore a un bene che fa
parte della storia cittadina; sociale, perché si donerebbe a un
quartiere trascurato dalle istituzioni uno spazio di
aggregazione per anziani e bambini e un luogo silenzioso e
lontano dai pericoli e dal traffico».
Il bastione ha bisogno di limitati interventi
al suo interno. All'esterno l'intervento consisterebbe
nell'acquisizione di alcune casupole fatiscenti che andrebbero
demolite per mettere in vista il bastione esterno, attualmente
non visibile.
Venerdì prossimo alle ore 18,30, alla testata
nord di via Antico Corso, di fronte alla Torre del Vescovo, il
Fai di Catania presenterà l'iniziativa e inviterà a votare per
il Bastione degli Infetti. Dalle ore 16,30, sarà possibile
visitare il Bastione, fino a sera inoltrata, e nel pomeriggio di
sabato 4, grazie all'attività del "Comitato Popolare Antico
Corso".
La Sicilia 01/10/2014
CATANIA - C’è l’università. C’è il monastero
dei Benedettini. C’è Piazza Dante e c’è via Plebiscito. In mezzo
alla strada i bracieri ardono e
migliaia di polpette di cavallo vengono cotte a ritmi da catena
di montaggio. C’è un bene storico che sta cadendo in rovina,
preda dell’abbandono.
Siamo nell’Antico Corso, uno dei quartieri
più ricchi di importanti reperti della città etnea e meno
valorizzato. Dagli anni ’90 un comitato di cittadini, il
“comitato popolare Antico Corso”, come un martello vigila sul
quartiere. Qui dove i bambini hanno poche chances e pochissimi
spazi per giocare, i cittadini si sono sostituiti al Comune.
L’ultimo obiettivo del combattivo comitato è ripartire dalla
preservazione di un bene appartenente a tutta la città.
Si tratta del Bastione degli infetti,
costruito in pietra lavica per volontà di Carlo V. Quando ci fu
l’eruzione lavica del 1669 questo bastione contribuì a
preservare la zona, cuore storico e pulsante di Catania.
Il bastione, adesso, è in totale abbandono. È
visitabile all’interno, ma non è visibile dall’esterno perché
circondato da costruzioni, alcune delle quali fatiscenti. Alcuni
hanno utilizzato le mura perimetrali del bastione come mura
portanti. E, tra l’altro, non è raro sentire il nitrire dei
cavalli all’interno della struttura, dove probabilmente vengono
tenute le bestie prima della macellazione.
Eppure il sito archeologico di via del
Vescovo è un’attrazione segnalata in tutte le guide turistiche
della città. L’iniziativa del comitato è semplice e chiunque
abbia a cuore la bellezza e la storia della propria terrà può
contribuire, basta una semplice firma.
Il
Bastione è stato candidato come “luogo del cuore” nella campagna
del Fai, Fondo Ambiente Italiano, e con un congruo numero di
firme potrebbe ricevere un cospicuo finanziamento per poter
essere riportato agli antichi splendori e divenire un’attrazione
turistica fruibile.
NewSicilia.it fa propria la campagna di
sensibilizzazione lanciata dal comitato popolare Antico Corso e
vi segnala il link a questa pagina per poter votare il Bastione.
C’è tempo sino a novembre per poter votare.
“Questo è un primo passo - spiegano dal
comitato - per valorizzare un bene di Catania e tutto il
quartiere. È nato come un gioco ma l’idea è di ridare una
dignità storica alla città”.
Inoltre, dopo le operazioni di pulizia del
Bastione condotte con grande abnegazione dai membri del comitato
e da semplici cittadini, vi sarà una due giorni di eventi
all’interno del sito per raccogliere ulteriori firme e adesioni.
I prossimi 3 e 4 ottobre il Bastione si
aprirà alla cittadinanza e vi saranno laboratori, concerti e
work shop. A questo indirizzo è possibile visitare la pagina
facebook dell’evento completo. Una semplice firma può
restituirci un pezzo importante della nostra storia, spesso
bistrattata.
Andrea Sessa
(foto di Elvira Tomarchio)
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CATANIA - Se l’Antico Corso è la nostra casa,
il Bastione degli Infetti è il giardino: curiamolo insieme.
Queste sono le parole d’ordine lanciate dai volontari del
Comitato Popolare Antico Corso, impegnati nel pomeriggio di oggi
in una pulizia straordinaria del Bastione. Armati di attrezzi da
giardinaggio, guanti e sacchi per la raccolta della spazzatura,
i volontari si sono dati appuntamento davanti a quello che la
delegazione catanese del Fai (fondo ambiente Italia) candiderà
ufficialmente il 3 ottobre come “luogo del cuore”: il Bastione
degli Infetti. Una grande opportunità che potrebbe consentire,
in caso di finanziamento, l’abbattimento delle costruzioni (in
parte fatiscenti) che circondano il bastione “per rendere
visibile una parte del suo perimetro esterno”.
Negli stessi giorni il comitato organizzerà
degli spettacoli nell’area interna al bastione. In vista
dell’appuntamento i militanti hanno effettuato una pulizia
straordinaria, estirpando piante infestanti e raccogliendo
spazzatura. “L’iniziativa serve a dire che la cittadinanza c’è
ed è in grado di spendersi attivamente per valorizzare questo
bene”, spiega il presidente del comitato, Salvatore Castro. Il
degrado di questa porzione di terra, al centro di un recente
reportage di Live Sicilia Catania, è il primo nemico da battere.
“Lo sforzo successivo è quello di accendere i riflettori a
livello nazionale – continua Castro- e focalizzare l’attenzione
su questa parte del centro storico”.
Qualche segnale è arrivato anche da parte
dell’amministrazione comunale: due pulizie straordinarie della
zona limitrofa al bastione: una sabato (giorno in cui
originariamente doveva svolgersi l’iniziativa), l’altra oggi
pomeriggio. Rimane ancora orfano del cartello, indicante il
bastione, il palo posto davanti all’area. “Ci abbiamo pensato
noi”, dice un volontario indicando una locandina raffigurante il
bastione. Castro si dice “felice” delle pulizie straordinarie
dell’area, ma rinnova l’invito a collaborare. “Il nostro non è
un messaggio di sfida: noi ci siamo e vogliamo lavorare insieme
all’amministrazione su un progetto di riscatto comune”.
avide Ruffino, animatore del comitato e
consigliere di quartiere in quota Pd, è dello stesso avviso.
“Questo è l’inizio di una serie di appuntamenti volti al
rilancio di questo spazio; spero che l’amministrazione comunale
colga al volo quest’opportunità e appoggi i volontari che stanno
tentando di far rivivere questo luogo”. Un messaggio che la
prima municipalità ha recepito. “Presidente e consiglieri hanno
sposato in toto questa iniziativa perché vogliono che questo
luogo torni a vivere”, dice Ruffino. Adesso tocca alla giunta
comunale.
http://catania.livesicilia.it/2014/09/15/il-comitato-antico-corso-ripulisce-il-bastione-degli-infetti_308720/
http://www.anticocorso.it/
Ballarò al Bastione (le foto)
Ruderi del Bastione di San Giovanni, presso
la via omonima, eretto nel 1555 a rinforzo delle mura
medioevali. Illeso all'eruzione del 1669, venne in parte
demolito dal terremoto successivo, mentre il degrado, l'incuria
e "l'aggressione" dei nuovi fabbricati hanno fatto il resto. Ad
oggi la porzione in migliori condizioni è sita nel vico
Cancello.
testo e foto:
http://www.panoramio.com/photo/47094021
DOVE SI TROVAVANO I DUE BASTIONI
ALLA MARINA, COLLEGATI DALLE MURA,
A DIFESA DELLA CITTA' DAI
PRESSANTI ATTACCHI TURCHI
Il bastione Grande (o del Salvatore) di fronte alla chiesetta
del Signore Ritrovato
A proposito di questa zona delle mura, la questione della strada
ferrata quando, negli anni ’60 dell’800, ingegneri sabaudi che
conoscevano solo dalle mappe la costa catanese decisero a
tavolino di distruggere in maniera criminale una parte del
centro storico. Pagina che merita di essere visitata.
http://markaliotru.it/il-giorno-in-cui-perdemmo-il-mare-aspirazioni-per-la-marina-di-domani/
Chiesetta del Signore Ritrovato
GLI ALTRI BASTIONI
(Via Cappuccini) |
(Piazza Sant’Antonio) |
(Castello Ursino) |
(Castello Ursino) |
(Piazza Santo Spirito) |
(Convitto Cutelli) |
ex bastione San
Michele
ciò che rimane di una parte delle mura di Carlo V,
vicino al luogo dove sorgeva il bastione di San Giuliano
Vicolo della Sfera, una traversina di Via Landolina
fra il teatro Massimo e il Convitto Cutelli.
ALTRE FORTIFICAZIONI
Il Piano S.Agata
era uno spazio vasto per l'epoca,
ampliato nel 1599 per volontà del vicerè. Vi sorgeva la
cattedrale fondata nel 1091 da Ruggero il Normanno, con il
vescovado e il campanile, allora il più alto d'Europa. Con il
sisma del 1693 rovinò paurosamente sulla chiesa distruggendola.
Nell'immagine è possibile vedere il Palazzo o Loggia del Senato
e l'Elefante, simbolo di città, allora senza la «ricostruzione»
fattane da Vaccarini, dunque senza obelisco e senza le insegne
di Sant'Agata. Nella piazza c'erano anche banche e le botteghe
degli orefici e degli argentieri. Nei giorni della festa di
Sant'Agata era addobbata di arazzi e di luci e ospitava una
fiera ricca di mercanzie.
La
torre di Don Lorenzo Gioeni sorgeva nel quartiere di Sant'Agata la Vetere ed era uno dei
più importanti palazzi privati di città, ubicato sulla collina
di Monte Vergine dove oggi sorgono il collegio Pio IX e
l'ospedale Santa Marta. Nel 1516 fu presa d'assalto dai
rivoltosi catanesi che non volevano come capitano d'armi don
Giovanni Gioeni che vi si asserragliò con i suoi fedelissimi.
Nel 1576 vi furono ricoverate in convalescenza le donne scampate
alla peste. In questa Torre, nel 1669, si trasferirono i soldati
spagnoli di guardia al castello Ursino investito e parzialmente
coperto dalla colata lavica. Crollò nel sisma del 1693.
La Certosa
abbandonata di Catania. Dai fasti medievali ai fitti rovi di
oggi
Claudia Campese, Marco Di
Mauro 17 Agosto 2015
Cultura e spettacoli – Alle spalle del
cimitero etneo, costruita nel Trecento, dell'abbazia restano un
grande cortile con il pozzo saraceno, la schiera di celle di
difficile accesso, e la chiesa di Santa Maria di Nuovaluce ormai
impraticabile. Sconosciuta da catanesi e turisti, è prima
diventata stalla per mucche e poi dimenticata.
Da abbazia a stalla per le mucche. Ignorata
dai catanesi e sconosciuta dai turisti. Tra l'erba alta di Fossa
della Creta, alle spalle del cimitero etneo, restano le tracce
dei fasti medievali dell'unica certosa di Catania: Santa Maria
di Nuovaluce. Dietro gli anonimi caseggiati della periferia, un
sentiero conduce a uno dei luoghi storici della città.
«L'edificio sorge intorno ai resti di una chiesa che la
tradizione vuole eretta all'indomani del terremoto del 1169 -
spiega Iorga Prato, tecnico archeologo - Secondo i racconti, dal
colle emerge un bagliore che guida la popolazione in fuga.
Questa luce proviene da un'icona orientaleggiante della Madonna,
da quel momento venerata come “di Nuova Luce"». Due secoli dopo,
Artale I Alagona - condottiero di nobile famiglia che sconfigge
la truppa angioina durante i Vespri nella battaglia navale nota
come Scacco di Ognina - decide di costruire il monastero e di
affidarlo all'ordine dei Certosini. Una piccola comunità di
circa trenta monaci si stabilisce così a Fossa della Creta, a
partire dal 1370.
Ma quella che oggi è una verde collina che
domina la città si rivela allora un'area malarica. Poco più di
dieci anni dopo, i monaci certosini abbandonano la struttura per
trasferirsi sull'Etna. Il loro posto viene preso dai frati
benedettini e il complesso acquisisce il titolo di Regia
Abbazia. Compare così nella planimetria di Van Aelt del 1592. Il
secolo dopo arrivano la colata di lava del 1669 e il terremoto
del 1693. Superato indenne il primo fenomeno naturale, nel
secondo caso l'abbazia ha bisogno di un importante restauro.
Dopo, cambiano ancora una volta gli inquilini: saranno i
carmelitani scalzi a vivere attorno al grande cortile oggi
occupato dall'erba alta. Almeno fino a quando il regime sabaudo
non incamera i beni ecclesiastici e l'abbazia viene abbandonata.
«Alcuni frammenti marmorei del cenobio
trecentesco, tra cui la stessa lapide di fondazione, sono stati
recuperati e destinati al museo civico Castello Ursino, dove
sono ancora conservati - spiega Prato - mentre l'icona della
Madonna si ammira oggi al museo Diocesano». Il convento,
abbandonato al suo destino, finisce per essere adattato in
complesso di stalle e ricovero per cavalli e mucche. Oggi, della
vita trascorsa durante gli ultimi otto secoli, restano un grande
cortile con il pozzo saraceno, la lunga schiera di celle di
difficile ma possibile accesso, e la chiesa di Santa Maria di Nuovaluce, impraticabile a causa dei fitti cespugli di rovi. Per
lo più dei ruderi, usurati dal tempo e dall'abbandono, coperti
dalla vegetazione spontanea, ma che con l'attenzione delle
istituzioni potrebbe diventare un'ulteriore attrazione turistica
della città.
http://catania.meridionews.it/articolo/35202/la-certosa-abbandonata-di-catania-dai-fasti-medievali-ai-fitti-rovi-di-oggi/
Molte
dominazioni e differenti civiltà si sono succedute in Sicilia, sia
per l'importanza strategica del luogo, sia per la singolare bontà del
clima. Tutte le dominazioni hanno lasciato segni tangibili come i
castelli, che raggiunsero il loro massimo splendore nel medioevo.
Molti
furono edificati da Normanni e Svevi. Con Federico II il Regno di
Sicilia raggiunse livelli invidiabili di prosperità, mai conseguiti
fino a quell'epoca da nessun paese europeo e le più importanti casate
nobiliari come i Chiaramonte, i Ventimiglia ed altri, si impegnarono
in una vasta opera di edificazione. Nati per scopi di difesa e di
potere, oggi i castelli sono luogo di attrazione per numerosi turisti
e amanti dell'arte.
I 4 CASTELLI
NORMANNI DI CATANIA
(video di G. Liotta)
MANIACE
- BRONTE . Come
si raggiunge: Arrivati a Bronte, prendere la strada statale per
Cesarò-Maniace, appena usciti dal paese dopo circa 2 km, seguire le
indicazioni per il Castello. Facilmente raggiungibile dalla strada
statale 120. Condizioni:
Discrete. Visitabile:
sì
Cenni
storici:Quando Re Ferdinando di Borbone decise di ricompensare Orazio
Nelson per i servigi che l'ammiraglio gli aveva reso stroncando la
rivoluzione napoletana del 1799 e facendo impiccare l'ammiraglio
Caracciolo, dovette scegliere fra alcune baronie siciliane che potevano
essere regalate perché di regio patronato. La sua scelta ricadde alla
fine sui possedimenti delle due celebri abbazie di 'Santa Maria di
Maniace' e di 'S. Filippo di Fragalà', unite dal 149l, se non dal 1188,
ed appanaggio da tre secoli dell'Ospedale grande e nuovo dei poveri di
Palermo. Con la sua donazione Ferdinando concedette all'ammiraglio
Nelson la facoltà di trasmettere la Ducea non solo a qualsiasi dei suoi
parenti ma pure ad estranei nonché il privilegio di non pagare la tassa
dell'investitura. Nella concessione, inoltre, il re spiegava che
l'entità della Ducea era la stessa che papa Innocenzo VIII aveva donato
nel 1491 all'Ospedale di Palermo e cioè tutti i possedimenti un tempo
appartenenti alle due abbazie di Maniace e di Fragalà. Per volere di
Nelson, alla cara lady Emma Hamilton andava una rendita di cinquecento
sterline annue. Con una grande festa, che venne definita il 'Trionfo di
Nelson', i Borboni festeggiarono a Palermo, il 3 settembre del 1799, la
riconquista del Regno. Primo successore di Nelson nella Ducea fu il
fratello, il reverendo William, ch'era stato detto erede con testamento
del 10 maggio 1803. A William successe, nel febbraio del 1835, la figlia
Charlotte, sposata a Samuel Hood, secondo visconte di Bridport. Fu
Charlotte Nelson-Bridport la prima fra i successori dell'ammiraglio a
voler conoscere l'estesa Ducea ereditata. Nel 1836 Charlotte,
accompagnata dal marito decise di recarsi a visitare di persona la
località. La divertirono i costumi dei locali, le uose degli uomini e
le loro giubbe aperte fino a mezza schiena, mentre le donne avevano la
testa avvolta in scialli di flanella bianca. Ma restò a tal punto
scossa dalle difficoltà del viaggio in lettiga, dal nero paesaggio
vulcanico e dai racconti delle atrocità commesse nel 1820, tra cui
decapitazioni e squartamenti, che giurò di non rimettere più piede
nell'isola a meno che in Inghilterra non scoppiasse una rivoluzione e
anche in tal caso probabilmente sarebbe andata altrove. La duchessa non
tornò mai più a Maniace. Nel 1838 una controversia sulla successione
nella Ducea divise Charlotte Nelson-Bridport e il cugino Orazio Bolton,
figlio di una sorella del grande ammiraglio. Il processo terminò il 17
dicembre del 1841 con la riconosciuta successione di Charlotte ed anche
se le questioni legali, per l'opposizione di Orazio Bolton, si
protrassero fino alla fine del 1846, la Ducea rimase proprietà della
duchessa Nelson-Bridport. Molti dei locali del "Castello"
furono costruiti nell'ottocento, quando fu ristrutturato ed ing1obato
quello che restava dell'antica abbazia e soprattutto gli ambienti che si
dipartivano dalla destra del portale della chiesa e circondavano il
chiostro. Ma per potere avere il quadro completo e chiaro delle
trasformazioni che il monumento ha subito (dal terremoto del 1693 fino
al settembre 1981, quando Alessandro, ultimo discendente dei
Nelson-Bridport, lo ha venduto al Comune di Bronte) sarebbe necessario
uno studio accurato e profondo delle strutture del 'Castello', anche in
vista di un suo probabile restauro e di una sua utilizzazione come
centro culturale. Durante le agitazioni del 1820, ma soprattutto durante
quelle del 1848 e del 1849, fu naturalmente la Ducea l'obiettivo
principale dei rivoluzionari brontesi e della zona. Un gruppo di
rivoluzionari riuscì ad occupare nel 1848 alcune terre della Ducea al 'Boschetto',
presso Maniace. Ma l'episodio fu sporadico e rimase isolato. Anche
nell'agosto del 1860 all'epoca dei famosi 'fatti di Bronte' le cose non
cambiarono. Anche se il popolo brontese si scatenò, sfogando la sua
rabbia secolare con il saccheggio delle case dei maggiorenti del paese e
con l'assassinio di quindici persone, paradossalmente non indirizzò la
rivolta verso il Castello di Nelson, che era il vero centro e simbolo
della feudalità. Ciò nonostante l'avv. Nicolò Lombardo, già
animatore dei moti del '48, avesse in mente di guidare i rivoluzionari
verso la Ducea. Scoppiata la rivolta, gli sfuggì di mano e non riuscì
più a guidare e a convincere. In ogni caso Nino Bixio, giunto a Bronte
il 6 agosto, pose subito lo stato d'assedio e nel giro di pochissimi
giorni domò ogni focolare di ribellione. Assistito da un'improvvisata
ed impaurita "commissione", condannò alla fucilazione cinque
persone, fra cui l'avv. Nicolò Lombardo, giudicati colpevoli di quelle
sanguinose intricate vicende, sulle quali il giudizio storico non è
ancora concorde.La liberazione garibaldina continuava, riprendeva il suo
corso, eliminato anche sommariamente uno dei pochi intralci che si erano
creati allo svolgimento dell'impresa dei 'Mille'.
I Duchi erano rimasti
nella Ducea, malgrado la liberazione garibaldina e l'unificazione
italiana del 1861. Fallita anche la sanguinosa rivolta brontese del
1860, chi avrebbe più potuto togliere ai Nelson-Bridport le terre della
Ducea per dividerle fra i contadini di Bronte o di Maniace o di Maletto
se non il nuovo Stato italiano? Ma le speranze di un intervento in
questo senso furono presto deluse. Da quella fallita sollevazione
popolare, anzi, derivò altra repressione. Il regime di feudalità non
fu superato neanche nel periodo fascista, nonostante l'accesa rivalità
con la Gran Bretagna. Solo a seguito della dichiarazione di guerra
dell'Italia all'Inghilterra del giugno del 1940 qualcosa nella Ducea
cominciò a cambiare. Il Duca Rowland Arthur Herbert Nelson-Bridport
dovette abbandonare il Castello insieme a George Biblett, suo
amministratore. Castello e Ducea, sequestrati il 19 settembre 1941,
passarono allora nelle mani dell'ente di colonizzazione del latifondo
siciliano, che, nel giro di qualche anno, realizzò, fra le altre opere,
anche un borgo contadino nel parco del 'Castello' e quasi prospicientemente all'ingresso della residenza dei duchi. Il villaggio
fu polemicamente chiamato 'Borgo Caracciolo' per ricordare la vittima
italiana più illustre dell'ammiraglio Nelson e dello strapotere inglese
nel Mediterraneo. Il 'Borgo Caracciolo', costruito insieme ad altre case
coloniche, dalla ditta Castelli di Roma, non fu mai portato a termine,
perchè la guerra e l'occupazione degli alleati ne impedirono il
completamento. Durante la seconda guerra mondiale il 'Castello' fu anche
sede del comando di Rodt e residenza del feldmaresciallo Kesselring. Nel
1956 una speciale commissione di conciliazione italo-britannica,
istituita per occuparsi dei danni di guerra, decise che il duca
Nelson-Bridport era il proprietario legittimo della Ducea e che lo
stesso 'Borgo Caracciolo' gli apparteneva. Ritornati, dunque, i Duchi a
Maniace, le grandi costruzioni del 'Borgo Caracciolo' vennero in un
primo tempo adibite a fienili e a magazzini e, dopo qualche anno, nella
primavera del 1964, abbattuti dalle ruspe. Le rovine di quei fabbricati,
impressionanti, giacciono ancora fra gli alberi del parco del 'Castello',
prive non solo di vita ma ormai anche di quel monito che i Duchi forse
vollero, distruggendole, cancellare.
Il
secondo dopoguerra é stato, per i problemi che hanno riguardato la
Ducea e per le agitazioni e le rivendicazioni ch'essa ha direttamente o
indirettamente provocato, un'epoca molto tormentata. Le riforme agrarie
dei primi anni Cinquanta non poterono non interessare anche gli estesi
possedimenti della Ducea di Bronte: un decreto del gennaio del 1951
della Regione siciliana sottopose infatti a scorporo la Ducea per 4.207
ettari su una superficie complessiva di 6.574 ettari. I Duchi e i loro
amministratori ricorsero a degli espedienti. Obbligarono, in qualche
modo, i contadini a comperare quelle terre, che altrimenti sarebbero
state espropriate, ad un prezzo perfino superiore al loro valore reale.
Fu facile, infatti, ventilare ai contadini che da decenni lavoravano le
terre della Ducea il pericolo che quei fondi potessero essere,
altrimenti, comprati da estranei.
E quei contadini s'indebitarono fino
all'inverosimile pur di restare sulle loro terre, mentre i Duchi
raggiungevano il loro scopo, mantenendo integra la proprietà e
percependone una rendita che li metteva al sicuro da ogni legge e da
ogni riforma. Carlo Levi, che visitò la zona nel 1950, così descrisse
quello che vide e che seppe: "Si incontravano per le strade i tortoriciani, alti e grossi, poi, tra lave antiche e recenti si torna
nel deserto cui sovrasta solo e nudo l'Etna incombente e compare il
piano della Ducea, dove nascono i tre affluenti del Simeto, Martello
Cutó e Saraceno e i monti desolati su cui corre l'ombra delle nuvole.
Sulle pendici dei monti si vedono, piccolissimi, i pagliari, piccole
costruzioni di paglia a cono, con una porticina bassa, in cui vivono,
alla rinfusa, i contadini del monte. Scendiamo in fretta al Castello di
Maniace, il castello dell'ammiraglio Nelson e dei suoi eredi. C'è una
chiesa antichissima con una Madonna bizantina, un cortile tra mura di
pietra che sanno di caserma e di prigione e, in mezzo, una croce di lava
con la scritta HEROI IMMORTALI NILI. Ci sono gli uffici della Ducea, un
ufficio postale, i carabinieri. Lord Rowland Arthur Herbert Nelson Hood
Visconte Bridport, Duca di Bronte, è l'attuale proprietario, ufficiale
della marina inglese.
"Giravamo
per i campi parlando con i contadini e uno di essi mi raccontava che per
evitare lo scorporo la Ducea aveva costretto i contadini a comperare le
terre dove lavoravano. Costretti con la minaccia di venderli ad altri e
di cacciarli immediatamente dal loro lavoro: e queste vendite forzate
avvennero, in buona parte, dopo il termine ultimo del 27 dicembre 1950
consentito dalla legge siciliana di riforma. Ai contadini che non
avevano denaro fu detto di farselo prestare, e tra gli usurai di
Tortorici e di Randazzo il tasso usuraio é del 35, 40, 50 per cento; il
prezzo della terra imposto dalla Ducea, il doppio del suo valore. I
contadini vendettero le vacche, le masserizie per pagare la prima rata e
non essere cacciati dalle loro case. La terra deve essere pagata in
cinque anni ma, quando non potessero pagare una rata, tornerebbe
proprietaria la Ducea.
Così i contadini forzati ad acquistare, si
trovarono indebitati, rovinati, padroni di una terra venduta dopo i
termini legali, soggetta perciò ad essere espropriata per la Riforma e
data ad altri, in lotta quindi anche fra loro, coi braccianti, senza
terra di Bronte". Dagli anni Cinquanta in poi la Ducea fu dunque il
centro delle lotte contadine tese ad ottenere dall'amministrazione del
Duca condizioni più umane di lavoro e di vita, lotte che nella zona
hanno portato col tempo a profondi cambiamenti nella distribuzione delle
terre e nella vita dei contadini, all'autonomia amministrativa del
popolo maniacese e all'acquisto del castello Nelson da parte del Comune
di Bronte, nel l981. Il 'Castello' non fu subito aperto al pubblico.
Problemi di personale e di manutenzione, del resto mai risolti, hanno
permesso solo un'intermittente fruizione di questo monumento. Nel
gennaio del 1984 il 'Castello' ha subito anche un gravissimo furto ad
opera di ignoti che sono penetrati di notte nei locali superiori e vi
hanno asportato una ventina di preziose opere, fra dipinti e mobili, che
non sono state ancora recuperate.
Questo
il passato, ricostruito fino agli anni più recenti, dell'antica abbazia
benedettina di 'Santa Maria di Maniace' alias "Castello
Nelson". E il suo futuro? Oggi qualcosa finalmente sembra muoversi.
Opinione pubblica, studiosi ed associazioni culturali della zona
richiedono un impiego del monumento a fini culturali per evitare ch'esso
decada sempre più e richiedono naturalmente un restauro attento ed
efficiente - che però non stravolga l'aspetto del Castello, come é
già successo in occasione di recenti restauri ai tetti - di alcune sue
parti che purtroppo negli ultimi anni sono state molto rovinate dagli
agenti atmosferici e dall'incuria degli uomini. Per la bellezza dei
luoghi in cui sorge, per il suo grande valore storico ed architettonico
e per i preziosi cimeli che conserva, il 'Castello' può, se restaurato
e gestito correttamente, diventare nei prossimi anni una grande
attrattiva turistica e un centro culturale d'importanza nazionale e
internazionale. I progetti e le idee sono molti ma é necessario, oggi,
soprattutto evitare gli errori commessi nel passato e cominciare a
pensare seriamente, e subito, a ridare la vita al famoso 'Castello
Nelson'.
"
I Duchi che hanno abitato il Castello ": 1) Ammiraglio Orazio
Nelson - 1799-1805, 2) Reverendo William Nelson - 1805-1835, 3)
Charlotte Nelson-Bridport - 1835-1874, 4) Alexander Nelson-Bridport -
1874-1904, 5) Alexander Nelson-Hood - 1904-1937, 6) R. Arthur Herbert
Nelson-Hood - 1937-1969, 7) Alexander Nelson-Hood - 1969-1981
Indirizzo:
Piazza Castello - Acicastello. Come
si raggiunge: Arrivati in paese, sulla piazza principale. Visitabile:
sì
Storia:
Durante il periodo della colonizzazione greca prima, e della dominazione
romana poi, sicuramente la rocca sulla quale si erge il castello
normanno fu frequentata per la sua posizione strategica, che permetteva
il controllo del mare e del passaggio delle navi dirette verso lo
stretto di Messina.
Sebbene
non si siano conservati resti di strutture di tale periodo, a causa
probabilmente della distruzione delle fortezze costiere operata dagli
Arabi, gli scrittori antichi ci hanno lasciato il ricordo di famose
battaglie navali combattute in queste acque (Diodoro Siculo ci ricorda
quella tra lmilcone cartaginese e Leptine siracusano).
Anche
i rinvenimentì archeologici, soprattutto quelli sottomarini, esposti
nelle vetrine del Museo Civico, attestano l'antica frequentazione di
questi luoghi.
L'arrivo
degli Arabi fu segnato da un periodo sanguinoso di guerre e distruzioni,
testimoniato dagli stessi scrittori arabi.
La
fortezza sulla rupe fu distrutta dall'emiro lbrahim nel 902. Non si sa
con esattezza se il Califfo Al Moez, nel 909, fece riedificare sulla
rupe una fortificazione (kalat), che doveva far parte di un più vasto
sistema difensivo atto a proteggere l'abitato di Aci (Al-Yag). Tra il
1071 e il 1081, nell'ambito della conquista dell'isola da parte dei
normanni Roberto il Guiscardo e Ruggero d'Altavilla, si deve porre la
costruzione del castello di cui ancora oggi si possono visitare le
strutture superstiti ed ammirare gli splendidi archi a sesto acuto. Il
castello fu in seguito concesso ai vescovi di Catania che proprio qui,
nel 1126, ricevettero le sacre reliquie di Sant'Agata, riportate in
patria dalla città di Costantinopoli dai cavalieri Goselino e
Gisliberto. Sono ancora visibili, all'interno di un ambiente che
probabilmente era una piccola cappella, i resti di un affresco che
ricorda appunto la consegna delle sacre reliquie della Santa al vescovo
Maurizio.
L'affresco,
purtroppo, versa in uno stato di avanzato degrado, soprattutto a causa
di "romantici" visitatori che hanno graffito su di esso il
loro nome.
Nel
l169 una disastrosa eruzione investì il paese di Aci e raggiunse
perfino la rupe che fino ad allora emergeva dal mare, isolata dalla
terraferma; la colata colmò il braccio di mare antistante la rupe,
rendendo inutile il ponte levatoio che serviva a congiungere il castello
al paese.
Il
possesso del castello rimase ai vescovi dì Catania fino al 1239.
Quando
però il vescovo Gualtiero di Palearia fu rimosso dal suo incarico da
Federico II di Svevia, il castello entrò a far parte del Demanio Regio.
Poco più tardi, durante il breve periodo angioino (che si concluse con
la rivolta dei Vespri Siciliani del 1282), il castello tornò nuovamente
in possesso dei vescovi di Catania.
Dalla
fine del XIII secolo fino all'età dei Viceré, il castello fu testimone
della lunga lotta che contrappose gli aragonesi di Sicilia agli angioini
di Napoli. Federico III d'Aragona, re dì Sicilia, tolse il fondo di Aci
ed il relativo castello ai vescovi di Catania e lo concesse
all'ammiraglio Ruggero di Lauria come premio per le sue imprese
militari.
Quando
però quest'ultimo passò dalla parte degli angioini, il re fece
espugnare il castello (1297) entro il quale si erano asserragliati i
ribelli. Per riuscire nell'impresa il re fece costruire una torre
mobile, dì legno, chiamata "cicogna" (essa era alta quanto la
rupe lavica ed aveva un ponte alla sommità per rendere agevole l’accesso
al castello). Nel 1320, su concessione ancora di Federico III, il
possedimento di Aci andò a Blasco d'Alagona ed in seguito al figlio
Artale. Nel 1354, durante un assalto del maresciallo Acciaioli, inviato
in Sicilia per ordine di Ludovico d'Angiò, il castello fu espugnato e
devastato il territorio di Aci. Artale in breve tempo organizzò una
flotta, usci dal porto di Catania e vinse gli angioini in una dura
battaglia navale condotta nel tratto di mare tra Ognina ed il castello.
In seguito a questa battaglia, passata alla storia come "lo scacco
di Ognina", il castello fu liberato.
Nel
1396 il castello, allora in possesso di Artale II d'Alagona, fu
nuovamente espugnato da Martino il Giovane (nipote di Pietro lV, re
d'Aragona), il quale era sbarcato in Sicilia dopo aver contratto
matrimonio nel 1391 con la regina Maria, unica figlia di Federico lV ed
ultima erede al trono aragonese di Sicilia.
Martino,
approfittando dell'assenza di Artale II, riuscì nell'impresa dopo aver
guastato il sistema di approvvigionamento idrico del castello, mentre l'Alagona,
che aveva fatto di Aci e di Catania l'epicentro della sua accanita
resistenza contro la presenza di Martino in Sicilia, raggiunto
frettolosamente il suo possedimento non poté far altro che constatare
la propria sconfitta e la perdita del castello, ormai dato alle fiamme.
Spesso d'estate il Comune di Acicastello ripropone la rappresentazione
di tale avvenimento storico, che per la sua suggestività richiama
grande afflusso di pubblico.
Martino
fece del castello la sua stabile dimora insieme a Bianca di Navarra
divenuta sua sposa nel 1402 dopo la morte della prima moglie, la regina
Maria. In questo periodo il castello conobbe un breve periodo di
splendore in cui furono organizzate feste e lussuosi ricevimenti. Alla
morte di re Martino, Bianca, nominata vicaria di Sicilia da Martino II
succeduto a Martino il giovane, lasciò il castello a Ferdinando il
Giusto di Castiglia, nuovo re di Sicilia (1412).
Nel
1416 il primo viceré di Sicilia, Giovanni di Castiglia, ordinò alcune
opere di ristrutturazione del castello, per le quali stanziò la cifra
di 20 onze d'oro.
Successivamente,
nel 1421. il viceré Ferdinando Velasquez divenne il nuovo signore del
castello e del feudo di Aci, per il quale pagò al re Alfonso il
Magnanimo la somma di 10.000 fiorini. Alla morte del Velasquez, il
castello tornò al demanio regio di re Alfonso, che lo rivendette al suo
segretario Giambattista Platamone. Il successore di re Alfonso, Giovanni
Il d'Aragona, rivendicò il possesso del castello a Sancio, discendente
del Platamone. Questi si rifiutò di restituire il castello, che di
conseguenza fu assediato ed espugnato in breve tempo; Sancio e suo
figlio furono catturati e segregati nel Castello Ursino di Catania, dove
morirono. Durante il XVI secolo il castello passò nelle mani di diversi
privati, finché fu adibito a sede di una guarnigione che aveva il
compito di segnalare i pericoli provenienti dal mare alle popolazioni
interne ed alle altre fortificazioni vicine, poste lungo la costa. Allo
stesso tempo il castello assolveva la funzione di prigione: si hanno
testimonianze delle precarie condizioni in cui versavano i detenuti, che
spesso venivano lasciati morire d'inedia nelle segrete. Anche un
tesoriere comunale di Aci, Miuccio di Miuccio, incarcerato nel 1595 per
debiti contratti con il Municipio, seguì la stessa sorte.
Interessante
é anche la notizia che nel 1571 ventiquattro prigionieri preferirono
arruolarsi nella spedizione navale che condusse alla battaglia di
Lepanto, piuttosto che continuare a stare rinchiusi nelle tetre prigioni
del castello. Una tappa fondamentale nella storia di Aci e del suo
castello é l'anno 1528, quando l'imperatore Carlo V la rese libera da
ogni vassallaggio erigendola a Comune, dietro il pagamento di ben 72.000
fiorini. Nel 1571, inoltre, si diede incarico a don Vincenzo Gravina di
definire lo stemma della città, rimasto così fino ad oggi; lo
stendardo veniva custodito all'interno del castello e portato fuori per
la festa patronale.
Nel
seicento il castello conobbe un rinnovato splendore, dovuto anche alla
radicale opera di ristrutturazione voluta nel 1634 dal re Filippo III,
che per l'occasione fece apporre una lapide marmorea all'ingresso con la
dicitura: "PHILIPPUS
III DEI GRATIS REX HISPANIARUM ET INDIARUM ET UTRIUSQUE SICILIAE ANNO
DIVI 1634".
Esso
venne anche dotato di artiglieria, della quale é probabile
testimonianza il cannone murato sulla terrazza superiore. Nel 1647 il
castello venne venduto da re Filippo IV di Spagna a Giovanni Andrea
Massa, che lo pagò 7.500 scudi.
Il
disastroso terremoto che sconvolse la Sicilia orientale nel 1693 recò
al castello ingenti danni, che furono tuttavia riparati negli anni
successivi dai discendenti del Massa.
Poche
le testimonianze relative al castello nel XVIII secolo, se si esclude la
leggenda di un povero cacciatore che venendo un giorno a cacciare nelle
vicinanze del castello, uccise per errore una gazza di proprietà del
governatore del castello, uomo crudelissimo. Questi fece arrestare il
cacciatore e lo fece segregare nelle prigioni del castello, dove rimase
ben 13 anni. Un giorno, saputo dell'arrivo del Duca Massa, proprietario
del castello, il cacciatore compose un canto in suo onore; quando lo
udì, il duca volle conoscerlo e, appresane la triste storia, diede
subito ordine che venisse scarcerato.
Nel
XIX secolo il castello entrò a far parte del Demanio Comunale, ma nel
1818 un terremoto provocò nuovamente danni così gravi che esso non
poté più essere utilizzato come prigione. Carenti le notizie storiche
sulla seconda metà dell'ottocento; il castello tuttavia ispirò in
questo periodo a Giovanni Verga la novella "Le stoffe del Castello
di Trezza" che, tra amori, tradimenti e fantasmi, narra le
affascinanti vicende di don Garzia e di donna Violante.
Agli
inizi del XX secolo il castello di Acicastello divenne deposito di
masserizie; durante la seconda guerra mondiale una grotta della rupe
venne usata come rifugio antiaereo.
Negli
anni 1967-69 la Soprintendenza ai Monumenti della Sicilia Orientale
restaurò il castello; si trattò tuttavia di un restauro poco
filologico, del quale rimane in ricordo una lapide all'ingresso.
Dal
1985, anno di inaugurazione del piccolo museo posto all'interno del
castello, grazie alla promozione di diverse iniziative culturali
(mostre, convegni, visite guidate, concerti, studio del materiale
paleontologico ed archeologico), esso sta via via assumendo sempre più
la fisionomia ed il ruolo che più si addicono ad un monumento storico
ed architettonico di tale importanza: non una muta testimonianza
storica, ma il centro propulsore di un vivo e continuo dialogare tra i
contemporanei ed il passato.
Il castello di Re Federico II di Svevia ad Ortigia
Ubicazione:
Via Castello - Calatabiano. Come
si raggiunge: Autostrada Messina Catania uscita Giardini Naxos. Da
Calatabiano, si snoda un sentiero verso il colle dove si trova il
Castello, seguire le indicazioni.
Condizioni:
Ruderi. Visitabile:
Si
Storia:Argomentando
dalle vaghe e scarse memorie dello Schubring, pare che nel primo
millennio a.C. le alture poste quasi di fronte a Taormina, dominanti la
vallata sud-est dell'Alcantara, fossero abitate dai Siculi . Due fatti
importanti ci fanno accogliere queste induzioni. L'aiuto che nel 427 a.C
venne dalle popolazioni montane a Nasso, situata sul capo Schisò,
quando i Messeni la investirono e la ridussero in tristissime condizioni
. L'ospitalità data nel 403 a.C dalle popolazioni sul monte Tauro
(Taormina) ai greci della medesima Nasso, già distrutta da Dionisio .
Evidentemente le popolazioni del monte Tauro dovevano tenere qualche
villaggio fortificato sulla riva destra dell'Akesines (Alcantara), atto
a dominare la vallata omonima, di suprema importanza per le
comunicazioni col mare . Lo Schubring, infatti, ha identificato questo
villaggio col castello di Bidio, che secondo l'epitomatore Di Stefano
era di origine sicula, nei pressi di Taormina, e il cui nome, secondoil
Bochart, deriva dal fenicio e significa: << castello delle bianche
mura >>.
Ma sin qui, come abbiamo detto siamo sempre nel campo
delle induzioni, le quali cominciano a diventare certe con la
dominazione romana, poiché tra le costruzioni aragonesi dell'attuale
Castello, si vedono qua e la dei grossi mattoni, come quelli esistenti
nel teatro di Taormina . Con la dominazione saracena comincia a farsi
maggior luce e diversi autori non hanno nessuna difficoltà ad assegnare
origini saracene a Calatabiano, che dicono fondato tra il 900 ed il 1000
dopo Cristo . Invero lo storico Amico, seguito dai contemporanei, lo
vuole di origine araba e afferma che derivò il nome da Biano, signore
dei possedimenti, essendo la parola araba << Calata >>
equivalente alla italiana castello . Ma noi, basandoci sulle anzidette
induzioni e sull'esame obiettivo dei ruderi, opiniamo che il castello
ebbe più antiche origini . Di fatti la rocca più alta differisce dalle
altre costruzioni, per posizione e per sistema, tanto da poter formare
parte indipendente . Quella certamente dovette essere la prima fortezza
costruita sul monte, ma ad opera di quali popoli e in quale epoca non
possiamo determinare con certezza.
Ubicazione:
Castiglione di Sicilia - centro urbano, ingresso ad ovest nella Via
Pantano, che si può imboccare dalla centrale piazza Lauria. Come si raggiunge: Autostrada Messina
Catania, uscita Giardini Naxos, direzione Francavilla di sicilia, bivio
per Castiglione di sicilia. Visitabile: Si
Storia: Il castello nel Medioevo
costituiva la parte centrale e la roccaforte del paese. La sua posizione
è quella tipica di molti altri castelli medievali, che permettevano il
controllo su un vasto territorio, oltre che sulle vie di comunicazione,
garantendo un opportuno isolamento, fattore essenziale di difesa. Non
abbiamo notizie certe sulla sua origine, ma le due finestre bifore della
parte ovest ci lasciano intuire che il nucleo principale sia stato
edificato molto probabilmente durante il periodo normanno-svevo.
Tale sito nel corso della storia
dell'abitato ha avuto di sicuro una funzione molto rilevante tanto da
dare il nome al paese. E' certo che Castiglione nel XII secolo viene
chiamato Quastallum dal geografo arabo Edrisi, Castillo in un diploma di
Ruggero II re di Sicilia, Castillio in un diploma di papa Eugenio III,
castellou in un documento greco, cioè semplicemente Castello. L'attuale
nome, invece, significa Castello grande. Al latino medievale castellum,
infatti, è stato aggiunto il suffisso accrescitivo -ione, facendolo
diventare Castellione,
che gli Aragonesi prima e gli Spagnoli poi pronunziavano Casteglione. Il
termine ben presto comunque venne interpretato come Castello del Leone
per offrire al paese un marchio di regalità, dando luogo anche allo
stemma: un castello e due leoni accovacciati.
Il castello nel Medioevo, collegato
alla roccaforte del Castelluccio e ad un avamposto identificabile con la
chiesa di San Pietro, era messo in comunicazione con questi da passaggi
sotterranei, che giungevano, si dice, fino al Cannizzo. Essi
costituivano un vero e proprio complesso architettonico e difensivo, ed
un vecchio stemma cinquecentesco della città, con tre torri, mette in
evidenza la loro importanza. I vari quartieri del castello assumevano
funzioni diverse. Vi era la parte più nobile riservata al castellano; vi
erano le scuderie, i fienili, le stalle, le abitazioni per i servi e per
gli addetti alla manutenzione; vi erano le carceri, all'interno delle
quali, nelle scomode celle dette dammusi, lunghe non più di due metri e
alte appena un metro, venivano rinchiusi spesso i più facinorosi
avversari politici e i più incalliti delinquenti; vi erano le cisterne
per conservare l'acqua piovana o per nascondervi, durante gli assedi,
vettovaglie e suppellettile preziosa; vi erano le rotonde bombe di
pietra, pronte per essere scagliate contro i nemici; vi era nella parte
più alta un ampio locale, detto Solecchia, che comunemente si ritiene
fosse la zecca dove si coniavano le monete, ma poteva essere la
garçonnière o il luogo dove il feudatario si riparava dal sole, dopo
aver contemplato quasi per intero il suo vastissimo feudo.
Ubicazione:
centro urbano di Maletto, Via Petrina, tra la casa al n° 29 e la
parte Absidale della
chiesa di S,Antonio da Padova.
Come si raggiunge: Percorrendo la
strada statale per Bronte, venendo da Randazzo, si incontra il bivio per
Maletto. Al castello si accede tramite un cancello posto alla base della
rocca nel centro centro storico del paese. Se il cancello è chiuso a
chiave, chiederla alla signora della porta adiacente sulla sinistra.
Condizioni: Ruderi.Visitabile: Si
Storia: Nel 1263, il conte Manfredi
Maletta, degli svevi, su un impervio sperone roccioso, nel cuore di
fitte foreste, costruisce una torre di avvistamento, che prende il nome
di Torre del Fano. Da quel momento, dal nome del suo possessore, il
luogo si chiama Maletto e nasce l’omonimo feudo. Questa torre,
denominata anche il Castello, per la sua posizione è coinvolta nella
lunga guerra dei "Vespri" tra angioini e aragonesi (1282). Perduto dai
Maletta, il feudo e il castello passano, nel 1386 alla potente famiglia
Spatafora, nelle cui mani resterà fino al 1812.
Ubicazione:
Centro Urbano di Licodia Eubea, Colle Castello
Come si raggiunge: superstrada
Catania-Gela, uscita Licodia Eubea. Condizioni: Ruderi. Visitabile: Si
Storia: Quando nel IX secolo
arrivarono gli arabi in Sicilia, sul colle castello si doveva già
trovare una fortezza bizantina, infatti le mura del castello sono
tipiche delle costruzioni bizantine, così come la galleria scavata sotto
il castello, costruita con i mattoni di argilla cotti alla maniera
dell’architettura tardo romana, la galleria metteva in comunicazione il
castello
con i cunicoli sottostanti che si dipanano per l’intero abitato. La
fortezza, probabilmente fu rasa al suolo dagli arabi dopo la morte del
loro capo e, solo dopo un lungo silenzio, precisamente nel 1269 Licodia
viene nuovamente menzionata come "Castrum di Licodiae". Quando a
seguito di Carlo I d’Angiò vennero in Sicilia molti signori francesi il
re assegnò loro castelli, feudi e cariche dello Stato. Il Castello di
Licodia fu assegnato a Bertrando Artus, prima nominato amministratore e,
in seguito dopo varie vicende, feudatario. Verso la fine del 1282 il
Castello passa nelle mani degli Aragonesi per poi passare negli anni
successivi nuovamente agli Angioini che lo concedono ad Ugolino da
Callaro con le terre di Licodia per i meriti conseguiti durante la
riconquista angioina. Negli anni successivi, furono i Filangeri ad avere
il possesso del Castello dove, vi apportarono modifiche e migliorie
negli anni della loro signoria. Nel 1393, il Camerlengo di origine
catalana Ughetto Santapau venuto al seguito di re Martino ebbe in feudo
il Castello di Licodia che, rimase alla famiglia Santapau fino al 1610,
anno in cui viene nominato marchese Vincenzo Ruffo, figlio di Camilla
Santapau e Muzio Ruffo, questi ultimi sepolti nella chiesa dei
Cappuccini a Licodia Eubea. La famiglia Ruffo fu proprietaria del
Castello fino al 1812 anno in cui fu abolito il feudalesimo. Dopo la
distruzione del terremoto del 1693, rimangono solo i ruderi di un
glorioso passato che attendono, solitari e silenziosi, il momento in cui
potranno narrarci la magnificenza e la storia del loro passato.
Ubicazione:
Contrada Borgo Lupo, territorio di Mineo
Come si raggiunge: Da Catania,
imboccare la superstrada per Gela, passato il paese di Palagonia, nel
territorio di Mineo, seguire le indicazioni per Contrada "Borgo Lupo",
non vi è segnaletica per il Castello. Condizioni: Diroccato. Visitabile:
Si
Storia: questo castello rappresenta
un'opera unica dell'architettura medioevale siciliana per la sua torre "torroidale",che
si ergeva un tempo su quattro piani con scala interna. Esistente nel
1143, apparteneva a Manfredi, figlio di Simone conte di Policastro e
nipote di Matilde, figlia del conte Ruggero. Vicino al castello si trova
un antico abbeveratoio, in ottimo stato, del 1641.
Epoca: XIII secolo. Il colle, presso
la sommità del quale sorge il castello, ha restituito tracce e reperti
risalenti all'età del bronzo (XII/XI sec. a.C.). In epoca medievale
abbiamo notizie tramite l'opera geografica di Edrisi, il quale parla del
casale malga al-Khalil (rifugio di Khalil). Nel 1199 Bartolomeo de Lucy
dona alla figlia Margherita l'insediamento di Mineo e probabilmente
anche quello di Mongialino. Agli inizi dell'anno successivo la stessa
Margherita rinuncia ai possessi donatele dal padre e Mongialino
appartiene ad un Manfredi signore di Mazzarino.
Nel 1287 l'insediamento torna alla
corona e nel 1320 è feudo di Blasco Lancia. Nel 1355 Mongialino viene
occupata da Manfredi Chiaramente conte di Modica. Nel 1558 lo storico
ecclesiastico Fazello ricorda l'esistenza del castello e nel 1757
l'abate Vito Amico definisce quasi interi gli edifici del castello e
ricorda il tentativo di ridare vita all'insediamento durante il XVII
secolo.
Il castello sorge su di un colle
roccioso sul limitare del vallone del torrente Pietralunga, affluente
del fiume dei Monaci e del fiume Gornalunga. La fortezza si compone di
un singolare dongione o mastio circolare e di una cinta muraria
poligonale, presso la quale si conservano ancora parte delle merlature.
Vito Amico afferma di distinguere, nel XVIII secolo, la presenza di una
porta d'ingresso con corrispondente ponte levatoio, dei quali oggi non
rimane più traccia. Il torrione circolare possedeva un diametro
complessivo di 21 metri, con uno spessore murario esterno di circa 2,10
m. e un diametro del nucleo interno di circa m. 8,35. L'ambiente anulare
interno presenta una larghezza di m. 4,12 ed è ancora in parte coperto
da volte a botte, edificate in conci regolari e rinforzi di archi
radianti impostati sulla muratura.
Sempre Amico ricorda dell'esistenza
di ben quattro elevazioni, mentre attualmente si conservarono
parzialmente il piano terreno e pochi ruderi del primo piano, del quale
si intuisce una copertura medesima a quella del piano inferiore. Si
ritiene, comunque, che le ulteriori soprelevazioni fossero lignee. Il
nucleo centrale del cilindrico presenta singolarmente al suo interno una
cisterna, che raccoglieva le acque piovane convogliate dalla copertura,
la quale, secondo quanto scrive Amico, era rivestita da lamine di
piombo. Esiste una seconda cisterna sotto il cortile cintato. Purtroppo
l'equilibrio statico dell'edificio è quasi del tutto compromesso e
sarebbero necessari degli interventi mirati al consolidamento di quanto
rimane di questa splendida quanto rara struttura fortificata.
Benché
la tradizione attribuisca la costruzione del castello al condottiero
siculo Ducezio, fatta eccezione per un breve tratto di muro a
secco
del VI secolo a.C., quanto oggi rimane del castello non può certo
essere assegnato ad una età così antica.
Si è pensato che i Romani, sulla base della fortificazione sicula,
abbiano costruito un ridotto fortificato, poi ampliato dagli arabi.
L'impianto del castello sembra
comunque datarsi tra il 1060 e il 1181 i Normanni completarono la
costruzione che appariva formato da dodici torri merlate, disposte in
circuito con triplice atrio, e nel punto più importante una torre più
grande, detta "maestra", di forma ottagonale, costruita con blocchi
squadrati. Ai piani superiori vi erano ampie aule, stanze segrete e
appartamenti principeschi. In seguito venne ristrutturato, e divenne
famoso per le nozze che vi si celebrarono nel 1361, fra Costanza
D'Aragona e Federico III il Semplice. Ma già nel XVII secolo la
fortificazione perdette importanza strategica e nel 1629 venne venduta
ai Morgana e trasformata in carcere. Dopo il terremoto del 1693, non
rimase che parte delle antiche mura e della torre centrale e il
materiale di risulta fu utilizzato per la costruzione del palazzo
Morgana. Purtroppo oggi si possono ammirare solo i resti della torre
maestra, (muratura a sacco con blocchi calcarei squadrati), di cui si
può vedere la base a pianta ottagonale, ma affacciandosi sulla vallata
del pianoro del Castello Ducezio, si ha la meravigliosa vista dell'Etna,
dell'intrecciarsi della catena Iblea con quella degli Erei, di
Grammichele e Palagonia e della valle dei Margi.
Una delle porte della città,
incorporata nelle mura del castello, venne recuperata e murata nel
prospetto della confraternita del SS. Sacramento, contigua alla
collegiata di S. Maria Maggiore. I resti del castello si trovano in cima
al colle più orientale, e vi si accede tramite la via Castello partendo
dal Largo S. Maria Maggiore. Oggi quest'area, a ridosso della quale vi è
la casa del custode, è stata adibita a sede del serbatoio idrico del
centro.
Ubicazione:
Centro urbano di Paternò. Come si raggiunge: Da Palermo
autostrada A19 PA/CT uscita Gerbini. Da Catania SS 121, superstrada per
Adrano, uscita Paternò. Da Messina Autostrada A18 ME/CT uscita
Misterbianco dalla tangenziale ovest di Catania. Condizioni: Ottime.
Visitabile: Si
E’ Ruggero D’Altavilla che costruì il
maestoso castello sulla rupe lavica di Paternò ed è sempre lo stesso
Ruggero che fece costruire a scopo difensivo i castelli di Adrano,
Motta, Troina, Nicosia e in tanti altri comuni dell’isola.Secondo le
affermazioni del coevo monaco benedettino Goffredo Malaterra, il
castello di Paternò sorge su alcuni resti di una costruzione araba fatta
costruire dall’emirato musulmano dell’epoca a scopo difensivo.Questo
monaco era sempre al seguito dell’Altavilla con il compito non solo
di raccoglierne e divulgare le gesta, ma anche perché Ruggero notò
l’esigenza di contrapporre all’elemento arabo ormai presente, la cultura
cristiana.Egli vedeva di buon animo il nascere di comunità religiose per
riaffermare il culto cristiano.In un mondo in cui infuriavano guerre e
disordini, violenze e corruzione, il monastero benedettino sviluppava un
nuovo modello di società, dove al posto del concetto della proprietà
privata e del privilegio subentrava la cristiana solidarietà fraterna. A
Paternò diversi erano i monasteri ( S. Leone, S. Vito, S. Nicolò,
L’Alena).
Col tempo il castello normanno non
ebbe solo motivi bellici ma anche amministrativi e residenziali. Molti i
personaggi storici che lo hanno abitato il più famoso è Federico II di
Svevia che vi soggiorno nel 1221 e nel 1223. Il castello fu poi
abitazione della regina Eleonora D’Aragona alla morte di Federico II
D’Aragona avvenuta nel 1337. Divenne in seguito dimora della regina
Bianca di Navarra che nel 1405 dall’alto del castello normanno
promulgava le "Consuetudini della comunità di Paternò". Il castello
infine passò poi alla famiglia Moncada, dinastia che governò la città
per quattro secoli e che lo adibì ,per periodi, a pubbliche
carceri.Alcuni graffiti ne sono la triste testimonianza.Attualmente è
sotto la tutela della Regione Sicilia nella speranza di trasformarlo in
sede di civico museo.La cappella del castello, alla sinistra appena si
entra, è ricca di resti cromatici risalenti al 1200 e raffiguranti
l’Annunciazione, una natività e un Cristo solenne oltre a vari
medaglioni di santi.
foto di Francesco Pappalardo.
«Non
conosciamo le origini di questo castello (un tempo posto al
centro di un vasto territorio feudale) del quale rimane la torre
del XV secolo. E nulla sappiamo della sua storia fino a quando
verso il 1700 i proprietari del tempo, baroni Chiarandà di
Friddani, non aggiunsero alla torre un edifizio attiguo per loro
comoda abitazione. Esso presenta, nelle belle loggette e negli
affreschi, le caratteristiche dell'epoca e Michele Chiarandà,
dopo averne curato personalmente ogni dettaglio, amava alternare
ai suoi lunghi soggiorni in Francia brevi e riposanti parentesi
in questa signorile dimora. Di questo signore si racconta che
durante la rivoluzione sanfedista del 1789, essendo sospetto di
infedeltà al rè a causa della sua amicizia con la Francia, venne
perseguitato e costretto a sostenere un breve assedio da parte
del popolo capeggiato da tale Marronchio. Rinchiuso nella torre
egli tenne testa ai suoi assalitori ma infine fu costretto a
fuggire attraverso un sotterraneo del castello e, raggiunto poi
il mare, si pose in salvo nella sua carissima Francia. Poco
chiara la figura di questo italiano del quale è nota la grande
amicizia con Napoleone III. Nel 1861 il castello fu acquistato
da Giuseppe Milazzo, signore caltagironese, ed il suo
discendente On. Silvio Milazzo, attuale proprietario, ne cura i
pregevoli restauri con quell'amore che tutti i siciliani
dovrebbero avere per queste loro antiche dimore. Oggi, nel suo
armonioso insieme, con la bella terrazza alla sommità della
torre e circondati dal verde intenso di una folta vegetazione
(tanto più suggestiva dell'elegante e curato giardino di un
tempo cinto di alte mura merlate e con colonne a sostegno delle
caratteristiche pergole) il "Noce" ci appare quale delizioso
luogo di soggiorno e di pace».
http://www.famiglia-nobile.com/links.asp?CatId=1412
«In
contrada Diana sorge un’elegante residenza del XVIII secolo
“Palazzo Corvaja” Questa contrada, attualmente appartenente al
Comune di Fiumefreddo di Sicilia, un tempo faceva parte della
baronia di Calatabiano. ... L’edificio presenta un pittoresco
prospetto serrato fra torricini pensili, che chiude sul fondo
una corte rettangolare entro magazzini, stalle e abitazione
della servitù. Esso costituisce un esempio di villa-fattoria
realizzata dai nobili del tempo per la villeggiatura e per il
controllo dei latifondi e delle strutture produttive. Suggestivo
è l’uso della pietra lavica per le mostre di porte, balconi e
finestre, i corpi scalari merlati e la coloritura dei paramenti
con forte tinte. Agli angoli del palazzotto, sorrette ognuna da
tre mensole in pietra lavica, due garitte a pianta quadrata,
coronata da cupole emisferiche ed ingentilite da un cornicione
con decorazioni in stucco, serrano ai lati la facciata. Dietro
di esse emergono due torrette più grandi, anche’esse a pianta
quadrata e coronate da una merlatura ghibellina che ha un
preciso valore simbolico oltre che funzionale. I due cortili e
la recinzione del giardino dietro la casa, oltre a contribuire
alla difesa, costituivano degli spazi esterni estremamente
articolati e differenziati per lo svolgimento delle più svariate
attività. In linea di massima la corte chiusa davanti alla
residenza era riservata alle attività aziendali e familiari,
mentre nel cortile esterno si svolgevano tutte le attività
connesse al transito nella via pubblica. A lato del passaggio
fra le due corti vi era lo “studio”: un locale dove la famiglia
Diana probabilmente esplicava molti degli atti amministrativi
relativi ai loro fondi ed ai feudi amministrati per conto dei Gravina-Cruyllas. Sul lato nord della corte esterna con la
facciata rivolta alla strada è collocata la Chiesa di San
Vincenzo, che assolveva funzioni sia di Chiesa per la
popolazione locale, sia di cappella privata della famiglia. ...
Addossato al palazzotto, al pianterreno vi è il palmento,
costruito nel 1694 dalla famiglia Bottari. Originariamente
separata dalla residenza fortificata di Francesco Diana, la casa
dei Bottari fu successivamente unita a questa: il corpo centrale
fortificato venne così a perdere uno dei suoi attributi
difensivi conferitogli dal totale isolamento da altre fabbriche.
Dalla fine del ‘700 il complesso, abbandonato dai proprietari
quale residenza, non subisce ampliamenti e modifiche
sostanziali. Gli interventi più consistenti sono tutti della
fine del secolo scorso e dei primi anni del ‘900, quando alcuni
locali di servizio attorno alla corte vengono ristrutturati.
Fortunatamente la residenza fortificata si mantiene ancora
pressoché integra; non altrettanto può dirsi invece di altre
parti del complesso. In tempi recentissimi sono state asportate
le pietre angolari del parapetto e del collo del pozzo, ancora
visibili di F. Fcihera dell’inizio del secolo. A sud del cortile
esterno alcuni dei vecchi fabbricati sono stati sostituiti da
una squallida palazzina "moderna", mentre altri interventi hanno
invece alterato una parte consistente dei fabbricati della corte
interna che costituiscono un unico organismo architettonico con
la residenza».
http://www.comune.fiumefreddo-di-sicilia.ct.it
«I
resti della Fortezza o Bastione del Tocco si possono ammirare
alla fine del secondo tornante delle Chiazzette, una suggestiva
stradina spagnola, di grande valore paesaggistico, che collega
dal 1500 Acireale al mare Ionio e che s’imbocca a piedi lungo la
Strada Statale 114. Quest’ultima è facilmente raggiungibile sia
da chi proviene in macchina dall’autostrada A18 (CT-ME), uscita
Acireale, sia da chi giunge dalla Stazione ferroviaria di
Acireale, mediante autobus. Il sentiero spagnolo (detto
anticamente Scala d’Aci e poi ribattezzato Chiazzette) era la
principale via di collegamento tra la città di Acireale ed il
mare, per il commercio e per le provviste d’acqua, e testimonia
l’antico ed importante rapporto tra il centro abitato e la
costa. è caratterizzato da massicce strutture di sostegno ad
arco, tutte in pietra locale, e da tornanti dai quali si può
ammirare un incantevole panorama. In quest’area si può anche
notare la presenza di una ricca vegetazione arborea (es.il Gelso
papilifero, l’Euforbia, la Robinia pseudoacacia, l’Alianto ed il
Cappero) che rende l’aria particolarmente profumata. La Fortezza
o Bastione del Tocco, edificio interamente in pietra, si erge
tra terrazzamenti di pietrame lavico, lungo le Chiazzette, sulla
Timpa di Santa Maria La Scala e fu edificato su disegno
dell’ingegnere fiorentino Camillo Camilliani. Quest’ultimo, tra
il 1584 ed il 1593, in qualità di Soprintendente delle
fortificazioni regie dell’isola, per conto della Deputazione del
Regno si occupò del potenziamento delle difese costiere
dell’isola di Sicilia, muovendo da Palermo in senso antiorario
lungo tutta la zona costiera. Allora,accanto all’endemica
minaccia dei predoni saraceni, si venne prospettando anche
l’incubo delle invasioni dei Turchi perché, malgrado la
sconfitta di Lepanto (1571), le scorrerie turche lungo il
litorale della Sicilia Orientale continuarono ad essere
frequenti e ciò rese necessario, agli inizi del 1600, la
realizzazione di opere di fortificazione. La Timpa fu prescelta
come posto di guardia marittima perché forniva la possibilità
sia di dominare un ampio spazio di mare sia di assicurare la
continuità delle segnalazioni tra le torri dell’isola e fra
queste ed i centri abitati. ...
Il fortilizio, praticamente inespugnabile, è realizzato in
pietra locale, a forma di terrapieno e fu costruito dal lavoro
forzato dei condannati. Dall’archivio municipale risulta che nel
1592 furono spese 80 onze per la costruzione di un cannone che
desse il segnale di pericolo e per mantenerlo adeguatamente fu
imposto ai cittadini il pagamento di un dazio. Il Bastione è
costituito da due piani intercomunicanti per mezzo di una
scaletta che doveva passare attraverso un foro e si compone di
due ambienti con volta a botte nella zona del
basamento,destinati a cisterna e a deposito delle polveri e
della legna e di due- tre vani, pure con volta a botte, nel
piano superiore,adibiti all’alloggiamento dei guardiani,dal
maggiore dei quali,per mezzo di una scaletta, si accedeva alla
terrazza che doveva essere munita di parapetti e feritoie e
nella quale erano ubicati i pezzi di artiglieria. Non si tratta
dunque di un caso isolato perché, per la facilità con cui i
pirati barbareschi giungevano nei litorali della Sicilia, il
governo fu indotto a formulare nel 1579, sollecitato dall’allora
viceré M.A. Colonna, il progetto della realizzazione lungo il
litorale dell’isola di una cintura di Torri di avvistamento e di
“accomodare quelle che avessero bisogno di riparazione e
racconciamento”. Il viceré Colonna incaricò allora l’architetto
Spannocchi di visitare le marine della Sicilia da Messina a
Messina”muovendo in senso orario” per controllare la capacità
difensiva dell’isola. Dette torri sorsero alla distanza di due o
tre Km. l’una dall’altra, in genere per proteggere o località
isolate o obiettivi che potessero essere d’interesse per i
pirati,come corsi d’acqua, agglomerati sparsi di case e centri
di pesca. Altro scopo era quello di garantire la produttività
della costa perché l’intento dell’impero spagnolo, di cui la
Sicilia faceva parte, era di sfruttare l’isola sia per le
capacità produttive delle sue terre sia per la sua posizione
chiave nel Mediterraneo,quale baluardo difensivo del mondo
cristiano contro il nemico turco.
La Fortezza o Bastione del Tocco fu utilizzata anche come
prigione. Al primitivo progetto del Camilliani furono apportate
alcune modifiche ad opera dell’architetto Vincenzo Tedeschi e la
struttura fu totalmente compiuta intorno al 1651. A causa del
sisma del 1693, che distrusse il Val di Noto, la Torre fu poi
consolidata nel 1696 dall’ingegnere acese Vincenzo Geremia,
soprannominato Pucciddana (Porcellana), a cui si deve l’aggiunta
di un cannoncino portatile. Tra le ispezioni, come ricorda il
Villabianca, si ricordano quella effettuata nel 1751, per
incarico del viceré duca di Laviefuille,da Giuseppe
Salomone,ufficiale del Senato di Palermo, ed una successiva
ricognizione, fra il 1803 e l’inizio del 1804, a cura del
direttore del Genio, brigadiere Guillamant e del comandante
delle Artiglierie, colonnello Salinero, a seguito della quale il
principe di Cutò, che reggeva allora l’isola con la carica di
Luogotenente e Capitano generale,invitò la Deputazione del Regno
a dotare le Torri di munizioni e pezzi di artiglieria e venne
introdotta la norma che ogni anno il deputato preposto alle
Torri dovesse disporre una visita generale delle stesse. La
Torre del Tocco, gradualmente abbandonata, è oggi chiusa al
pubblico e, per non andare del tutto in rovina, necessita con
urgenza di adeguati e conservativi lavori di restauro che la
riportino al suo antico splendore, affinché possa restituire
alla collettività una testimonianza di lontane e drammatiche
vicende della nostra storia».
http://www.siculina.it/torre_del_tocco.htm
«Il
Castello di San Marco sorge nell'omonima contrada in territorio
di Calatabiano, in uno degli angoli più affascinanti della
Sicilia orientale, la riviera di Taormina, fra la foce del fiume
Alcantara e la riserva naturale di Fiumefreddo non lontano
dall'antica Naxos. Commissionato nel 1689 dal principe di
Palagonia, Ignazio Sebastiano Gravina Cruyllas, e immerso in un
lussureggiante parco di 4 ettari, è circondato da piccole dimore
arredate in stile "Vecchia Sicilia", tutte dotate degli adeguati
comfort e servizi. Dopo un accurato restauro, da qualche anno la
famiglia Murabito ha aperto le porte ai visitatori, trasformando
il castello in uno splendido Resort una dimora prestigiosa ed
ancestrale dove trascorrere un soggiorno o vivere la calda
accoglienza delle antiche dimore accogliendo i suoi ospiti negli
antichi saloni restaurati con cura certosina, nell'anfiteatro e
nel il grande giardino botanico. I saloni all'interno del
castello, la chiesetta, il palmento e gli antichi fabbricati
restaurati rispecchiano fedelmente lo stile secentesco e
conservano tutto il fascino del tempo. Ogni angolo del Castello
di San Marco rimanda alla sua storia più antica. Gli archi in
pietra lavica e gli splendidi lampadari racchiudono lo stile di
una nobiltà ricca ma sempre attenta ai dettagli raffinati. Nelle
camere e nelle suite dell'albergo tutto ruota intorno a
un'eleganza d'altri tempi che riesce a fondersi perfettamente
con i servizi e i comfort contemporanei. Il castello ospita
anche una attrezzata sala congressi (Sala Cruyllas) e con il
Salone Principe di Palagonia e il Giardino d'Oriente, si propone
come luogo d'eccellenza ove poter organizzare meeting o incontri
d'affari. La struttura offre servizi interni quali: il rinomato
ristorante "Mastri Favetta", la piscina, l'area fitness, campi
da tennis ed internet point. Nelle vicinanze doveva esistere una
chiesetta medievale, dedicata a San Marco, che ha dato il nome
alla contrada, quasi certamente distrutta durante le incursioni
dei Turchi nel secolo XVI».
http://www.virtualsicily.it/index.php?page=luoghi&tabella=luoghi&c=522
« Il "Ponte dei Saraceni" è una delle opere civili più belle e
storicamente più interessanti del Medioevo siciliano. Il ponte
resiste da circa mille anni alle sollecitazioni non indifferenti
del maggior fiume della Sicilia, "il Simeto", caratterizzato da
una variegata struttura geologica che prevede l'alternanza di
cascate, gole e colate laviche. Il fiume precipita per un buon
tratto nelle cosiddette "Gole" creando un naturale gioco d'acqua
di grande suggestione. La contrada è denominata "Salto del
Pecoraio" in omaggio ad una antica leggenda secondo la quale un
pastore innamorato saltava dall'una all'altra sponda per recarsi
dalla sua amata. Nella limitrofa contrada del Mendolito si trova
l'area della più estesa, e forse più evoluta, città ellenica
della Sicilia: la Città Sicula del Mendolito, del IX-V sec. a.C.
Di questa città è stata individuata la cinta muraria e messa in
luce recentemente la monumentale Porta Sud. Dai ritrovamenti
archeologici nella città del Mendolito, possiamo dedurre che nel
luogo dove oggi sorge il ponte, già in età neolitica, poteva
esistere una struttura, possibilmente un passaggio, costituito
da una passerella in legno, per esigenza di commercio e scambi
fra le città sorte sulle vie del Simeto, frequentata da numerosi
viaggiatori che batterono sempre le stesse vie per poter
attraversare il Simeto. ... Costruito in epoca romana in
muratura, della quale ci rimangono le basi dell'arco maggiore,
successivamente con l'occupazione islamica, gli Arabi lo
rifecero probabilmente per ripristinare l'attività del ponte a
seguito di un crollo dovuto forse ad una piena del Simeto. Così
sostituirono all'arte romana i canoni della loro architettura,
curando gli effetti cromatici, con l'alternanza di pietre chiare
e scure nelle ghiere degli archi. La struttura che ne viene
fuori, ad arco acuto, tipica di tutta l'architettura islamica,
aquisterà così snellezza e leggerezza.
Il ponte, in epoca
normanna, faceva parte di un importante asse viario che
collegava la città di Troina, prima capitale del regno di
Ruggero I di Altavilla, con Catania. Con l'arrivo dei Normanni e
fino al XVIII sec., il ponte e tutto il vasto territorio attorno
ad esso, faceva parte di vari feudi, tra cui il feudo dei Duca
di Carcaci. Il terremoto del 1693 causò forti danni al ponte,
facendo crollare l'ultima arcata verso levante e lasciando malconci
l'arcata principale e l'altra arcata piccola ad ogiva a fianco dalla
maggiore.
Nel corso del '700 molti furono i lavori
di restauro e di riparazione e fino alla prima metà del '700
l'unica viabilità esistente per recarsi a Catania passava
proprio per il Ponte dei Saraceni. Solo alla fine del '700, il
ponte fu declassato ad un semplice "sentiero" e perdette la sua
importante funzione di raccordo tra interno e sbocco a mare.
Anche la nascita di nuove vie di comunicazione, più comode,
contribuirono a far perdere la sua importanza. In seguito, la
costruzione del ponte-acquedotto di Biscari (1761-66, 1786-91)
che attraversava il Simeto lungo il Guado della Carruba,
contribuì maggiormente a far perdere l'originaria funzione del
Ponte dei Saraceni. Dell'antica struttura oggi se ne conserva
solo l'arcata maggiore centrale, in stile gotico. Le altre
arcate, una più piccola anch'essa gotica e un'altra romana,
andarono distrutte durante l'alluvione del 1948 e ricostruite in
seguito. Sotto il ponte, il fiume scava profonde gole nel
basalto lavico a causa delle acque turbolente.».
http://www.comune.adrano.ct-egov.it/la_citt%E0/siti-di-interesse/ponte-dei-saraceni.aspx
Ubicazione:
Piazza Umberto - Adrano. Condizioni: Ottime. Visitabile: Si
Come si raggiunge: Dalla
Circonvallazione di Catania imboccare all'altezza di Misterbianco la
S.S. 121 per Paternò, e proseguire per la S.S. 284.
Le radici di Adrano affondano
addirittura nel Neolitico, come è testimoniato da un gran numero di
reperti, e ci portano ai Siculi che nell'area del Mendolito avevano
fondato uno dei centri più importanti dell'intera isola. Del resto, la
città greca Adranon, sorta nel 400 a. C., trae il nome proprio dalla
divinità sicula Adranos. Seguirono poi il dominio romano, quello
bizantino e, successivamente, quello saraceno. Gli Arabi, abili
agricoltori e artigiani, segnarono un notevole progresso del centro,
fiorente anche sotto i Normanni, i quali lasciarono proseguire ai
Saraceni l'esercizio di quelle loro attività che potevano essere
proficue per gli abitanti. Non altrettanto invece fecero gli Svevi, la
cui persecuzione degli Arabi si rivelò rovinosa per l'economia del
luogo. Tempi migliori non giunsero nemmeno con gli Angioini, i quali
probabilmente storpiarono alla francese il nome latino-medievale della
città, Adernio, in quello di Adernò che si è mantenuto fino al 1929, né
con gli Aragonesi.
Secondo la tradizione il castello fu
fondato dal Gran Conte Ruggero, padre di Ruggero II, che nel 1070 aveva
riscattato Adrano dalla dominazione araba.
È probabile che la costruzione del
castello nell'area (la odierna piazza Umberto) già occupata da una torre
di difesa di età greca, si debba agli Arabi. Della costruzione araba
sono testimonianza le due porte del piano terreno che mettono in
comunicazione i due vasti ambienti con archi ogivali realizzati con
conci di pietra pomice.
La data 1000, incisa nello stipite
della seconda porta, documenta probabilmente il completamento del piano
terra.
Il castello non subì danni materiali
nella signoria aragonese e durante il viceregno, ma fu più volte
risistemato e in qualche parte subì trasformazioni architettoniche. Il
bastione con le quattro torri, le finestre trilobate e le nicchie nei
piani superiori testimoniano i lavori effettuati nell'edificio in età
aragonese.
Nel 1754 il castello passò ad Alvarez
di Toledo, figlio del Duca Vincenzo di Ferrandina e di Caterina Moncada,
ma non fu abitato tanto che lo storico Vito Amico, che nel 1756 fu ad
Adrano scrisse: "Il castello è crollato nei soffitti, è disabitato; solo
il pianterreno è abitato a carcere". Nel 1797 Luigi Moncada Ventimiglia
Aragona potè togliere il possesso del castello agli Alvarez, divenendone
il proprietario. Tra la fine del settecento e i primi anni
dell'ottocento, il castello subì altri lavori di deturpazione poiché il
carcere venne spostato dal piano terra al primo piano. Fino al 1920
rimase patrimonio dei Moncada Ventimiglia, mentre il carcere
mandamentale rimase fino al 1958, anno in cui l'edificio è stato
dichiarato pericolante e il Comune di Adrano ha ceduto l'uso del
castello alla Sovrintendenza BB. CC. AA. di Siracusa per destinarlo a
museo archeologico. Da quel momento la Sovrintendenza di Siracusa
insieme a quella di Catania, ha effettuato i lavori di restauro e il
castello ospita sin dall'ottobre 1959 il Museo Archeologico Etneo con la
Pinacoteca, la Galleria d'Arte Contemporanea, il Museo dell'Artigianato
e delle Tradizioni Popolari e l'Archivio Storico.
Il castello ha un altezza di circa 34
metri, dalla base ai merli. Esso ha una pianta quadrilatera con una mole
massiccia e con contrafforti angolari in conci lavici, una larghezza di
20 metri per ogni lato, mentre alla base del bastione ha una larghezza
di 33.70 metri per ogni lato.
Ospita il Museo Archeologico
Regionale, gestito dalla Soprintendenza ai Beni Culturali e Ambientali
di Catania, che ha sede presso il Castello Normanno, dove sono raccolti
materiali preistorici in gran parte provenienti dal territorio etneo,
che documentano l'esistenza in quest'area di numerosi villaggi
preistorici.
Primo
simbolo cittadino e riferimento storico e' il Castello Normanno,
edificato per volere del Nobile Ruggero I nel 1070 e rientrante nello
schema difensivo posto contro gli arabi insieme alle altre roccaforti
catanesi importanti, quella di Paterno' e quella di Adrano. Esso si
presenta come un caparbio torrione rettangolare alto circa 21 metri, con
una copertura a terrazza arrichita dalla merlatura ed una suddivisione
della struttura in tre elevazioni, la prima per gli alloggi militari, la
seconda per l'alloggio del comandante della guarnigione e la terza
caratterizzata dalla presenza di un arco a sesto acuto. La sua base
presenta dei blocchi in pietra lavica. Gia' a partire da pochi anni
dalla sua edificazione, inizia il passaggio di propieta' della struttura
che cosi' appartenne alla Diocesi di Catania, al Conte di Aidone Enrico
il Rosso, a Rinaldo Perollo, al Re Alfonso d'Aragona, ad Antonio Moncada,
conte di Aderno', per arrivare agli inizi del 1900 quando fu acquistato
dal Comune di Motta.
La Torre di Motta (o Dongione) fu
costruita fra il 1070 ed il 1074 (pare sul rudere di una torre araba)
per volontà del gran conte Ruggero il Normanno. Il massiccio torrione a
pianta rettangolare è alto circa 21 metri e rappresenta una tipica
struttura a carattere difensivo del tardo medioevo. La copertura a
terrazza conserva la quasi intatta merlatura. La struttura è costituita
da tre elevazioni. Solo la prima di queste presenta ancora le finestre
originali ad arco a sesto acuto (esterno) e a tutto sesto (interno). Le
altre due finestre quadrate così come l’attuale porta d’ingresso
risalgono invece al XV sec.
Il piano terra era destinato ad
alloggio militare. In esso sono visibili una serie di feritoie per la
difesa. Sempre al piano terra fu ricavata la cisterna per la raccolta
delle acque piovane e dove, come scrive l’umanista Lorenzo Valla, fu
rinchiuso il conte di Modica, Bernardo di Cabrera.
Il primo piano era destinato
all’alloggio del comandante della guarnigione. Il secondo piano è
caratterizzato da un arco a sesto acuto. Le tre elevazioni erano
collegate tra loro da una serie di scale a pioli retrattili di legno.
Già nel 1091, il castello venne
concesso alla istituenda diocesi di Catania che ne detenne il possesso
fino alla fine del XIII sec. Nel XIV secolo, per diciannove anni (dal
1355 al 1374), fu dimora del conte di Aidone, Enrico il Rosso.
Dopo essere stato di proprietà di
Rinaldo Perollo, nel 1408 il castello fu acquistato da Sancho Ruiz de
Lihorj per poi passare nelle mani del re Alfonso D’Aragona.
Nel 1514 il territorio di Motta fu
acquistato da Aloisio Sanchez. Successivamente, nel 1526, Antonio
Moncada, conte di Adernò, per
1210 once acquistò la terra di Motta
ed il castello che rimasero di proprietà dei suoi discendenti fino al
1900, anno in cui venne acquistato dal comune di Motta.
Quel che rimane del Castello di Militello si trova compreso tra
via del Castello, ad ovest ed a nord, e via Pernice, a sud.
Probabilmente eretta nei primi decenni del XIV secolo da Abbone
de Barresio sul modello dei castelli svevi, la fortezza aveva
pianta quadrata (circa 33 metri per lato) e possedeva un cortile
interno; da ognuno dei quattro angoli esterni sporgeva una torre
cilindrica, mentre un torrione quadrangolare, adibito ad
abitazione, s'innalzava al centro di uno dei suoi lati, Al
riguardo le fonti riferiscono, forse erroneamente, che era dalla
parte di ponente. Nei primi anni del XVII sec. il castello fu
ampliato verso sud, con la creazione di un secondo ampio cortile
interno rettangolare, abbellito da un ninfeo. Possiamo osservare
diverse fasi costruttive, delle quali restano alcune parti del
fortilizio.
Fase dei secc. XIV-XV. Del lato occidentale si conserva:
- la metà occidentale della torre angolare di sud-ovest (D),
visibile da via porta della Terra. La costruzione (diam. m 5,20
alia base), non intonacata, e di blocchetti di lava (pochi
quelli di calcare bianco), cementati con malta contenente cocci
e ciottoli; nove strati di malta e grossi frammenti di tegole,
equidistant! m 0,80 l'uno dall'altro, dividevano la superficie
in fasce. La torre era dotata di una scarpa (alt. m 1,45),
appena accennata, evidenziata alia sommita mediante una cornice
liscia, non aggettante, di blocchetti bianchi. Un'ampia finestra
rettangolare nel terzo superiore e la parte ad essa sovrastante
non appartengono alla fase originaria.
Del lato settentrionale restano:
- buona parte (un terzo, in larghezza ed in altezza) della torre
angolare di nord-est, squarciata alia base da una apertura (A);
- meta (a partire dalla suddetta torre) del muro esterno, il
quale, in corri-spondenza del centre, si eleva in un alto e
stretto rudere di muraglione (alt. complessiva m 20 ca.),
evidentemente parte di un torrione non aggettante (B). Lungo il
muro (in cui si intravede un finestrone ad arco a tutto sesto),
sporgevano, a m 15 ca. dal suolo e regolarmente intervallati,
dei mensoloni, certamente non facenti parte dell'edificio
originario; ne sono visibili cinque, di cui tre alla base del
muraglione del presunto torrione centrale. Su quest'ultimo ci si
deve basare sulla descrizione di Baccelli "... e nella parte di
Ponente [?] si vedea una gran torre, dove era l'abitazione; di
dentro nella torre vi era al primo ordine una cisterna, come
oggi si vede, e poi si veniva al secondo ordine per una scala a
lumaca tra il muro, il quale era di grossezza piu di sedici
palmi, e tal grossezza si scorge, e considera dal fraccamento
del muro di detta torre verso Levante.
Per la scala a lumaca si veniva in una sala, e appartamenti di
camere, e cosi nel terzo e quarto ordine vi erano stanze , dove
si abitava, e per ultimo con la stessa scala a lumaca si veniva
ad uno scoverto, per quanto era tutta la torre, poiche tutte le
stanze erano a volta indammusate. Questa torre cascò tutta,
restando solo il muro della faccia di levante, che dava tra il
baglio, dentro della quale era detta scala a lumaca; cascò,
dico, per causa del gran terremoto dell'anno 1542",
Fase del sec. XVII:
- dentro l'area in cui doveva essere il primo cortile (non più
esistente), probabilmente in corrispondenza dell'angolo
nord-orientale, pesante costruzione a parete inclinata (C), che
puo essere interpretata o come scarpa di torrione o come
contrafforte a sostegno di muri pericolanti.
- Immediatamente a sud della torre di sud-ovest, vi è l'ingresso
principale la c. d. 'Porta della Terra' (E). E' fiancheggiato da
due lesene a bugnato e coperto da volta a botte, il tutto in
blocchi bianchi (largh. m 3,05 all'esterno e m 3,85 all'interno;
lungh. m 14). Al di sopra della volta non vi sono costruzioni,
ma si arguisce che la larghezza della fabbrica racchiudente il
nuovo cortile doveva essere pari alla lunghezza della porta.
- Nella via Pernice in corrispondenza dell'angolo sud
occidentale dell'ampliamento del 1607 vi è un contrafforte
d'angolo che per la struttura richiama la costruzione di cui
sopra. Detto contrafforte, con parete a piombo nel lato
occidentale, in quello meridionale presenta un basamento
rettangolare, (lungh. m 8,50; alt. m 1,80) su cui s'imposta la
parete inclinata, alta m 8 ca., al termine della quale vi è una
fila di mensoloni, non si capisce se originari. I cantonali sono
di pietra bianca, mentre il resto è in pietrame cementato con
malta grigiastra. La fronte è divisa in fasce da tre cornici
bianche, piatte, non sporgenti e regolarmente intervallate a
partire dal basamento. Una finestra con arco a tutto sesto,
anch'essa incorniciata in bianco, si apre nella fascia
superiore.
- Il ninfeo di Zizza (F) al centro del lato orientale del
cortile recente celebra il mito di Zizza e Lembasi, pastorelli
trasformati una in fonte, I'altra in torrente, trattato da
Pietro Carrera nelle sue Chorographia Militelliana (1600) e
Zizza (1623) (cfr. Branciforti 1995, pp. 106 e 118). Detta
fontana, d'intonazione rinascimentale, ma già con accenni
barocchi, è costituita da un fondale in muratura (lungh. m 8,25;
alt. m 5), delimitato da due lesene, colorato in rosso e bordato
da una bianca cornice piatta, decorata con duplice meandro ad
onda inciso. La parete s'innalza a gradoni (due), sormontati da
pinnacoli, e culmina con due volute, affrontate a guisa di
piccolo timpano ed affiancate da due mazzi di foglie
fuoriuscenti da un vaso, il tutto in pietra. Al centro del
fondale spicca l'edicola formata da un bassorilievo marmoreo (m
0,80 x 0,80), tra due colonne ioniche sostenenti un architrave
con fregio e sorrette a loro volta da una mensola rivestita di
foglie.
II bassorilievo, il cui originale è conservato dal 1995 presso
il locale museo San Nicolò, rappresenta, entro una nicchia
sormontata da architrave dentellato, Zizza, a mezzo busto,
acconciata alia greca, che colla destra accenna al cartiglio in
alto dove e scritto NON SINE TEMPERANCIA, mentre quello di sotto
è d'incerta lettura (QUI SITIS PARCE MENTIRI [ ?]).
Caratterizzano la naiade due docce, al posto dei capezzoli, che
versano in un catino baccellato 1'acqua, che viene da qui
convogliata in una doccia posta nella mensola di sostegno del
catino stesso. Ai lati sono due nicchie con volta a conchiglia
ospitanti ognuna una protome leonina, dalle cui fauci sgorga
1'acqua, raccolta da due piccole sottostanti vasche
semi-circolari in pietra lavica. L'acqua dell'edicola finiva
invece in una grande vasca ottagonale ben lavorata (largh. max.
m 3,10; alt. m 1,20) di pietra bianca.
Scheda Compilata da: Dott. Andrea Orlando Scheda Compilata da:
Dott. Andrea Orlando
http://www.icastelli.it/castle-1234811546-castello_di_militello_in_val_di_catania-it.php
un rigranziamento al Dr. Sebastiano Schiavo
Per arrivare: da Catania prendere l'autostrada A18 CT-ME e si esce allo
svincolo per Fiumefreddo. Si prende la SS 120 per Randazzo e si arriva a
destinazione TEL. 095/79991214 - ORARIO: 9-13 E
16-19. FESTIVITA' NAZIONALI CHIUSO.
Il Castello Carcere sorge sul
ciglione lavico di ponente della città e domina tutta la Valle del
Torrente Annunziata, emissario del lago Gurrida. Esso faceva parte delle
fortificazioni che difendevano la città. Ingranditasi la cittadina
intorno al Mille, fu circondata in tempi normanni da poderose mura di
cinta, rafforzate da otto torrioni. Una di queste torri, la più
poderosa, era il
cosiddetto "Maschio", circondato da rafforzamenti particolari, da difese
supplementari e da una cinta muraria più scura. Le notizie più remote,
ci dicono che il Castello fu sede dell’Imperatore Federico II di Svevia,
quando fuggendo con la madre Costanza la pestilenza di Palermo, vi si
rifugiò. Con re Pietro I di Aragona, passate le furie del "Vespro" il
Castello subì i primi rimaneggiamenti. Del periodo Aragonese non abbiamo
altre notizie. Sappiamo che esso fu manomesso profondamente e che sotto
Filippo II fu trasformato in pubbliche carceri per i delinquenti di
tutta la Valdemone. E così il glorioso Castello, entrò nel ruolo di
povero edificio comunale affidato a vari e spesso indegni padroni. Fu
una prigione terribile; qui si infliggevano supplizi atroci e si
esercitavano sopraffazioni sui malcapitati prigionieri come: violenze,
torture, arbitri, stupri, estorsioni pecuniarie e privazioni di ogni
genere, soprattutto di cibo. Un pubblico Consiglio del 1587 delibera le
dovute riparazioni e la costruzione della camera delle donne. Un
avvenimento politico mise a repentaglio un grande privilegio di cui da
lungo tempo godeva la città. Crescendo sempre più i bisogni dello Stato,
Re Filippo IV rivolge una lettera a Randazzo nella quale, raccontando le
varie peripezie della guerra e le spese enormi fatte ed ancora
necessarie per le operazioni in corso, si raccomanda alla loro
generosità, dalla quale spera un buon gusto di spontaneo contributo. Il
foglio reale portato in città suscitò il subbuglio fra i Giurati e la
popolazione, e radunato il Consiglio si deliberò di offrire urgentemente
un largo donativo da ricavarsi dalla vendita del Castello e del feudo
Torrazze. E così il Castello fu messo in vendita e passò in mano di
privati. Don Carlo Romeo l’undici Gennaio del 1640 ottenne l’atto di
cessione ed in seguito il titolo di Barone del Castello di Randazzo.
Finita la dinastia dei Romeo, il castello passò ad altri privati. Oggi
restaurato è sede del museo archeologico Vagliasindi e lo si può
ammirare in tutto il suo splendore.
Il
Castello Romeo di Montaguardia, piccola frazione di Randazzo,
rappresenta un concentrato unico di storia e di cultura. Appartenuto
al Marchese Romeo delle Torrazze, in passato ha avuto ospiti
illustri: i Reali d'Italia Vittorio Emanuele III e la Regina Elena
nel 1911,
il Principe ereditario Umberto II futuro Re d'Italia nel
1922, le Principesse Mafalda
e Giovanna di Savoia, molto legati ai Marchesi Romeo delle Torrazze
e al Castello stesso. E' un maniero settecentesco di grande fascino
e suggestione: collocato a "vedetta" del territorio dell'Alcantara,
guarda il fiume omonimo da una terrazza naturale, avendo alle spalle
il massiccio del vulcano Etna. Beneficia di una posizione
incantevole: il suo territorio, infatti, al pari di quello di
Randazzo, è custodito da ben tre aree protette, ossia il Parco
dell'Etna, quello dei Nebrodi ed il Parco Fluviale dell'Alcantara.
Recentemente un gruppo
imprenditoriale del veneto ha rilevato la struttura iniziando alcuni
lavori di miglioria che ne hanno cambiato positivamente il volto e, da
qui ad un anno, Castello Romeo si presenterà al grande pubblico
interamente rinnovato ed arricchito di servizi-benessere ed alla
persona, molto importanti.
Un cambiamento, comunque, all’insegna
della continuità: a curare la ristorazione, infatti, la famiglia
Scrivano, che da anni ha legato il proprio nome e il marchio aziendale
al Castello Romeo.
Chi visita il paese di Fiumefreddo di
Sicilia non può certamente lasciarsi sfuggire l'opportunità di visitare
il Castello degli Schiavi, uno dei gioielli in assoluto del barocco
rurale siciliano del '700.
Ogni castello che si rispetti
possiede almeno una leggenda ed anche il Castello degli Schiavi non
viene meno a questa buona tradizione. Si narra che, un due secoli
addietro, un valente medico palermitano, certo Gaetano Palmieri, abbia
salvato da gravissima malattia il figlio del Principe di Palagonia, il
Gravina-Crujllas, e che questi, riconoscente, gli abbia donato un
appezzamento del suo feudo, quello vicino al fiume Fiumefreddo. Il
Palmieri volle costruirvi una villa munita, per abitarla per lunghi
periodi dell'anno, anche perchè quel luogo era gradito alla sua
avvenente moglie, Rosalia, che amoreggiava con un certo Nello Corvaja di
Taormina. Un dì, alla marina, sbarcarono alcuni pirati ottomani, i quali
si diedero al saccheggio e, raggiunto il Castello, rapirono i due propietari. Mentre musulmani e cristiani stavano per arrivare alla
spiaggia, ecco che, armati, si fecero loro incontro dei giovani, alla
cui testa era il Corvaja (che dall'alto di Taormina aveva visto
approdare le tristi galere) : i pirati furono uccisi o messi in fuga e i
Palmieri liberati. Per ringraziare Iddio, fu eretta la chiesetta,
accanto al Castello, dedicata alla Madonna della Sacra Lettera e fu
costruita la loggia nella quale furono poste le due statue di musulmani,
che guardano ansiosi verso il mare, come in attesa di essere liberati
dai loro compagni. Per la presenza di queste due statue di mori (in
siciliano, anche, "schiavi") la leggenda vuole che il Castello sia stato
denominato "degli Schiavi".
Un cancello di ferro è l'ingresso,
sopra un arco di pietra lavica chiuso da un mascherone dal viso
arrabbiato, sormontato da una conchiglia consueta nel barocco catanese
migliore di quel periodo. L'arco poggia su due false mensole che stanno
come a sorreggere i due laterali lavici del portale.Tutto il portale
alterna rettangoli spianati (con una linea chiusa incavata per tutto il
perimetro, posta all'interno di questo di 2,5 cm.) con altrettanti
aventi una piramide, atipica al vertice, in rialzo. I laterali poggiano
su due false basi. La linea del murato laterale al portale
ricorda tanti ingressi di fattorie di quella splendida Andalusia del
'600. Sul murato, ancora i cappi di pietra lavica, dove, un tempo,
venivano legati le cavalcature.
Gli interni : Il piano inferiore fa
tutt'uno con lo scantinato. Non sembra esserci traccia di palmento;
d'altronde la vite non doveva essere (come non è) una caratterizzante
pianta di quel fondo, piuttosto gli agrumi. Era ed è un frigido
ripostiglio per tenere a buona conservazione cibi e vini. Vi si deve
scendere con torcia infuocata quando il buio della notte diventa padrone
degli occhi dell'uomo. Le otto stanze del piano superiore abbagliano il
visitatore, perchè cariche di ogni oggetto che il tempo ha accumulato,
da quadri di antichi signori allo stemma dei Gravina in toson d'oro di
Spagna, ad oggetti disutili nel tempo della disutile frenesia. La
bandiera nostalgica con lo stemma dei Savoia nel bianco, i libri di
pregio, i mobili antichi (del secolo scorso), il pianoforte non troppo
remoto. Le porte bianche al sapore di nobile del '700, la pavimentazione
disgraziatamente rifatta un trentennio addietro.
Mentre i prospetti settentrionale ed
occidentale non meritano attenzione critica, quello meridionale completa
l'armonia del già descritto orientale; d'altronde, l'osservatore,
entrando per il cancello dalla strada, ha sotto gli occhi proprio questi
due ultimi, mentre gli altri rimangono sempre esclusi, perchè danno
sulla campagna di non dura fatica ma di alberi fitti che coprono la
visuale del palazzo. Il prospetto meridionale, oltre a tre finestre (una
nel piano di sotto e due in quello di sopra, queste ai lati della porta
d'ingresso), del tutto simili a quelle dell'orientale, è interessante
perchè presenta la scala esterna che dà alle stanze signorili del piano
superiore. La scala sale, all'inizio, allineata al prospetto, per poi
voltarsi in direzione della porta (in doppio movimento, il cui secondo è
in allineamento col prospetto ma in direzione opposta rispetto
all'allineamento di partenza), davanti alla quale si slarga in un
armonioso ed invitante terrazino. La scala, stretta e con passamano in
pietra lavica, ha al suo iniziare un archetto ed è preceduta da
un'aiuola addossata al Castello (aiuola che prosegue anche davanti al
prospetto di parata) ed è inseguita da rampicanti che donano un verde
necessario ai chiaroscuri dell'insieme.
Il Castello degli Schiavi è stato in
passato ma lo è tutt'oggi, il luogo in cui sono state girate scene di
alcuni film : fù scoperto già nel 1968 da Pier Paolo Pasolini, che vi
girò alcune parti de "L'orgia". Poi il grande balzo nella fama di tutti.
Vi furono girate centrali scene de "Il Padrino" sia della parte I (1971)
che della parte II (1974) e non solo.
I proprietari del Castello
custodiscono infatti foto di Francis Ford Coppola che, stressato, scende
di svelto la scala esterna di mezzodì; foto di Al Pacino affacciato,
come signore impreziosito d'aria, dal balcone del prospetto di parata. E
poi, come non citare la più ricordata scena de "Il Padrino" girata al
Castello: l'auto che esplode per dinamite.
La
Masseria Silvestri viene costruita per volere di Antonino Silvestri
(acquirente del 40% del feudo Granieri nel 1869). L'anno di costruzione
si aggira intorno al 1885. Lo scopo è quello di dar vita ad un imponente
opera di trasformazione agraria per la quale è richiesta una gran
quantità di personale. La masseria diviene quindi la sede e la base di
un primo nucleo insediativo legato strettamente all'attività agricola di
trasformazione.
La masseria costituisce dunque
l'embrione di quello che sarà, alcuni decenni dopo, il borgo agricolo e
rurale di Granieri.
La masseria ha impianto rettangolare
con dimensioni di m 70 x 100 circa. I quattro angoli sono turriti, e tra
questi corre un muro di cinta alto circa 4 mt privo di aperture verso la
campagna. Le torri sono costruite con pietre irregolari di piccolo
taglio, ma con cantonali ed aperture a bugne lavorate e sagomate. Sono a
pianta quadrata, con il piano inferiore leggermente scarpato, con
segnapiano formato da una coppia di listelli piatti e poco aggettanti
che collegano i cantonali. Nei due lati corti si aprono gli archi di
accesso al vasto cortile interno, sul quale si affacciano i diversi
locali adibiti ad alloggi e magazzini. Dal cortile si accede al palazzo
padronale, posto sul lato nord. Il palazzo è a pianta rettangolare a due
elevazioni, addossato al muro di cinta sul lato nord. I locali al
pianterreno erano adibiti ad uffici e locali di servizio dell'azienda
agricola. Il piano superiore era destinato ad abitazione della famiglia
Silvestri.
Nella masseria furono istituiti
alcuni dei primi servizi pubblici a servizio sia della popolazione che
vi abitava sia di quella che abitava nelle contrade circostanti.
Furono istituiti: scuola elementare,
stazione dei carabinieri, rivendita di generi alimentari, cappella per
le funzioni religiose.
Oggi la masseria versa in parte in
uno stato di abbandono, presentando gli acciacchi del tempo. Coperture
diroccate e mancanti in alcune parti, lesioni diffuse nelle murature,
infissi rovinati, speriamo non siano il preludio a danni ancora più
gravi se non si provvede ad interventi di restauro organici che
interessino l'intera struttura nella sua globalità.
Le origini del feudo Granieri non
sono certe, ma documenti ne danno l'esistenza a metà del XIV secolo,
quando è in possesso di Nicolò Lancia (o Lanza), Maestro Razionale del
Regno di Sicilia.
Il territorio del feudo si suppone
sia stato smembrato dalla vasta Baronia di Fatanesimo (o Santo Pietro)
nel periodo in cui la Sicilia era sotto gli aragonesi.
Nicolò Lancia vendette il feudo a
Corrado Piza, milite della terra di Licodia, e da questi passa al figlio
Riccardo Piza.
Questi lo vende al conterraneo
Ruggero Scolaro, anch'egli milite di Licodia.
Lo Scolaro a sua volta, nel 1365,
dona il feudo al Monastero Benedettino di S. Nicola l'Arena e di S.
Maria di Licodia.
I Benedettini del Monastero di S.
Nicolò l'Arena di Catania e di S. Maria di Licodia, entrarono in
possesso del feudo nel 1365 grazie alla donazione fatta dallo Scolaro
con "il patto della redenzione".
Fino al 1417 fu in possesso del
Monastero che lo vendettero, per capitalizzare, al nobile Francesco
Paternò (Duca di Carcaci) per la somma di 150 onze d'oro.
Successivamente i monaci vollero
restituito il feudo e, dopo controversie, ne ottennero nuovamente il
possesso che si manterrà fino alla confisca del 1865 in attuazione alle
leggi eversive sui Beni degli Enti Ecclesistici.
Durante il possesso benedettino il
feudo è concesso in gabella per uso di pascolo e semina per periodi che
vanno dai tre ai cinque anni. I gabelloti provengono da Vizzini e
Licodia. Nell'ottocento sono anche di Grammichele, Mirabella, Piazza.
Esclusi erano gli abitanti di Caltagirone, città con la quale il
Monastero fu varie volte in lite per l'esercizio di diritti civici
avanzati dai calatini.
Tale fatto escludeva la nomina dei
cittadini calatini alle cariche pubbliche del feudo: giudice, notaio,
guardie.
I monaci difesero presso le autorità
regie il possesso del feudo e dei suoi beni, soprattutto il bosco che
ricopriva gran parte della superficie e che garantiva proventi al
monastero.
Nel 1865 il feudo è incamerato dal
Regio Demanio in attuazione della legge 10 agosto 1862 più nota come
"Legge Corleo", in attesa che venga messo in vendita.
Il feudo fu suddiviso in dodici
quote, coincidenti con le diverse contrade che lo costituivano, e cioè:
Cirrìo, Olivella, Cugnolungo, Conventazzo, Poggio delle Forche, Inchiuso,
Vaito, Pietra Scritta, Insolio, Valle Bruca, Camarella, Mascalucia.
Le suddette quote furono acquisite
all'asta da sei partecipanti, che divennero i nuovi proprietari del
feudo dal mese di giugno del 1869.
Definizione - Baglio/Masseria
fortificata.
L'intero complesso sorge sulla
sommità di un poggio, in posizione prominente rispetto alla campagna
circostante. Si tratta di un tipo di masseria fortificata, meglio
conosciuta con il nome di "baglio". Possiede una cinta muraria dalla
pianta irregolare, inframezzata di tanto in tanto da alcune garitte
lievemente aggettanti. All'interno del circuito murario si distinguono
due corpi di fabbrica: il primo, orientato est/ovest, rappresentava
probabilmente la zona residenziale; il secondo, orientato nord/sud,
ospitava tutte le attività legate alla coltivazione del vasto territorio
sottomesso al controllo della grande masseria. Non è da escludere che la
parte settentrionale di quest'ultimo corpo di fabbrica un tempo fosse
l'abitazione del custode del "baglio" (meglio conosciuto con il nome di
"massaro"). Infine alla confluenza delle due strutture si erge,
imponente, una torre dalla pianta poligonale irregolare. Quest'ultima
struttura parrebbe presentare una stratificazione edilizia risalente ad
epoca più antica, probabilmente medioevale.
Il Castello Duca di
Misterbianco
d’impostazione
neogotica, fu edificato nel 1930 dal 9° Duca di Misterbianco
Vespasiano. E’ situato all’interno dell’area “Oasi del Simeto”,
in prossimità della foce del fiume. Attualmente si trova a nord
rispetto al percorso del fiume, ma, fino alla metà del 1900 si
trovava a sud, poiché il fiume, superato il ponte Primosole,
prima di sfociare sul mare Jonio descriveva un’ansa passando più
a nord. L’edificio era circondato da ettari di terreno coltivato
a vigneti ed agrumeti, dotato di un pozzo
per
l’approvvigionamento dell’acqua, di una zona termale corredata
di piscina e di un colonnato neoclassico. Il piano terra del
castello era destinato ad alloggi per la servitù, locali per la
lavorazione dei prodotti raccolti nei campi, con un palmento, il
frantoio, le scuderie e magazzini deposito. L’accesso avveniva
dai cinque archi presenti a sud della struttura. In tale piano
si trovavano due scale, una nell'angolo sud-ovest a due rampe
che permetteva l'accesso al loggiato posto ai piani superiori e
l’altra posta in posizione centrale rispetto al manufatto, che
permetteva l'accesso al livello superiore sia in direzione
ovest, quindi verso il loggiato, che in direzione est,
permettendo l’accesso sulla terrazza con vista sul mare. Dal
primo piano, dall’angolo nord-ovest, si elevava una magnifica
torre quadrangolare su cinque livelli fuori terra, che
costituiva il loggiato dello stabile, mentre nell’angolo
sud-ovest vi erano quattro archi a sesto acuto sorretti da
colonne e capitelli. La parte centrale del primo piano era
adibita al soggiorno della famiglia, con finestre, aperture ad
arco e terrazzi che permettevano di vedere la vegetazione
circostante ed il mare. Nella parte centrale, si elevava
un’altra piccola edificazione costituendo il secondo piano. Le
parti sommitali del castello erano tutti coronati da merli. Il
castello costituiva la dimora estiva della famiglia Trigona.
Rimase in buono stato fino alla terribile battaglia che si
combatté tra il 14 e il 17 luglio del 1943 al Ponte Primosole.
In quella occasione, il castello fu occupato prima dai tedeschi
e dopo dagli inglesi (Royal Artillery) come posto di
osservazione. La torre alta 30 metri in posizione dominante, fu
distrutta dall'ultima cannonata dei tedeschi alle ore 17 circa e
non fece neanche un morto poiché le guardie inglesi erano a
consumare il tè pomeridiano.
Le origini della famiglia Trigona. La famiglia Trigona trae
origini dai duchi "de Monti Chirii in Isvevia" (Germania
sud-occidentale) e dal duca Salardo, il cui figlio Coraldo,
acquistando il castello e la signoria di Trigona o Trigonna, in
Picardia (Francia settentrionale), prese il cognome. Un
discendente di Coraldo, Ermanno, valoroso capitano
dell'imperatore Federico II di Svevia, ricevette per i servigi
offerti al re, diverse ricompense, tra cui, nel 1239 la nomina
di governatore di Mistretta. Un discendente di Ermanno, Giacomo,
sposandosi nel 1369 con Margherita d'Aragona, figlia di Giacomo,
nipote di Pietro d'Aragona II, re di Sicilia, ricevette lo
stemma originario con l'aquila nera della Casa Reale d'Aragona.
Lo stemma del Casato Trigona raffigura un'aquila nera coronata,
recante sul petto uno scudo con incisa una cometa che illumina
un triangolo. Da quando fu affidata la Piazza del Castello della
città di Mistretta al Capitano Ermanno, la famiglia Trigona
entrò a far parte di una casta nobiliare assai nota in quasi
tutti i maggiori centri Siciliani, possedendo molti vassallaggi,
signorie e feudi. Il ducato di Misterbianco. Nel XVII secolo,
Vespasiano Trigona di Piazza Armerina, acquistò il Casale di
Misterbianco, dove si trasferiva con la famiglia nei mesi caldi
dell'anno. Il figlio Francesco sposò Felicita Paternò Castello,
nipote del Principe Agatino Paternò Castello, dalla quale ebbe
un figlio, Pietro Domenico. Quest'ultimo, grazie all'influenza
della famiglia materna Paternò Castello, ricevette nel 1685 il
titolo di Duca di Misterbianco dal re Carlo II di Spagna. Con
Pietro Domenico nacque il Ducato di Misterbianco ed i successori
furono nell'ordine: Tullio zio di Pietro Domenico, Vespasiano,
Mario, Vespasiano, Alberto, Vespasiano, Alberto, Vespasiano,
fino al 10° Duca Alberto nato a Catania il 27.02.1928. Le foto e
le informazioni si devono ad un paziente lavoro di ricerca
dell'amico Salvo Nicotra.
https://www.etnanatura.it/sentieri.php?nome=Castello_duca_di_Misterbianco
LE TORRETTE DI GUARDIA
La garitta di Santa Tecla (foto F.
Pappalardo) |
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La Garitta di Santa Maria La Scala |
La
garitta di S. Tecla
Il piccolo edificio fortificato sorge
su di un suggestivo sperone di roccia
lavica a ridosso del piccolo porto di S. Tecla. La garitta presenta una
pianta quadrangolare e una consistente muratura in malta e pietra
lavica. La copertura della costruzione è a quattro spioventi. Ad ogni
punto cardinale corrispondono aperture rettangolari, utilizzate
probabilmente come feritoie per mosche
La garitta di S. Maria la Scala
Il piccolo abitato di S. Maria la
Scala, fra i più suggestivi di Sicilia, perché preserva quasi intatto il
suo stato di piccolo scalo portuale al servizio di Acireale già dal
XVIII secolo, presenta, similmente a S. Tecla, una garitta edificata su
uno sperone di roccia lavica a strapiombo sul mare. Essa presenta una
pianta circolare ed è edificata interamente in pietra lavica.
Leggermente più piccola rispetto alla sorella presso S. Tecla, la
garitta sembra quasi apparire come un'appendice naturale dello scoglio
medesimo sul quale è stata costruita.
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Piazza Europa |
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Viale Artale Alagona |
Ad Ognina esisteva un vecchio castello, l’Italion,
che attraverso i secoli subì le molteplici traversie. Sui suoi ruderi
nel 1548 venne eretta la Torre cilindrica, tutt’ora a fianco della
chiesa.
Il popolo la chiama Torre dei Saraceni, ma non perché costruita dai
Saraceni ma per difendersi dai Saraceni. Era stato l’imperatore Carlo V
a dare disposizioni al Vicerè di Sicilia Giovanni Vega, per fortificare
l’isola nei punti strategici e per difendere la popolazione dall’incubo
degli sbarchi musulmani.
La torretta – o guardiola, come viene anche chiamata – è posizionata in
uno spazio nella via Artale Alagona, 3 Km fuori Catania, in direzione
Nord. La torretta non poteva valere che come punto di osservazione
avanzato rispetto alla più interna torre di Ognina. Aveva una funzione
con le due garitte in pietra lavica che si ammirano ancor oggi, una sul
lungomare vicino al porto di Ognina e l’altra sulle lave di Piazza
Europa.
Le chiamano garitte arabe, ma arabe non lo sono mai state perché
furono costruite per difendersi proprio da loro. Quando i galeoni
musulmani venivano avvistati, le sentinelle delle garitte, attraverso
una torcia accesa, davano il segnale ai soldati di guardia nella Torre i
quali lanciavano l’allarme al popolo suonando una campana.
Il suono della campana veniva avvertito anche al campanile-fortezza del
Duomo di Catania. Da tutti i quartieri della città quindi, e anche dalle
campagne, era un accorrere di gente per apprestare la più tenace difesa.
La torre di "Lognina".
Bella e misteriosa, niente o quasi nulla conosciamo della sua storia e delle sue
origini, sembra aver attraversato i secoli nell'oblio. Le prime scarne notizie
scritte ci vengono tramandati dal notaio Merlino che nella sua "cronaca
Siciliana" del XVI secolo, ne riporta il crollo in seguito al terremotus magnus
del 1542, "la turri tucta roinao et fichi cadiri nencsa impinnata, et ruppisi la
campana chi era a la turri".
Segue in ordine di tempo 30 anni dopo un'altra
notizia riportata
dall'architetto militare Tiburzio Spannocchi nella sua "Description" redatta nel
1578 che trovandola ricostruita, così annota: "Avvy una torre fabbricata al
presente la quale sebene è alquanto lontanetta servirebbe per detta guardia, è
di buona fabbrica da la qual torre sino a Catania tre miglia"; il manoscritto di
Spannocchi ci lascia anche il disegno più antico che raffigura la torre
attaccata alla chiesa. Alcuni anni dopo l'architetto Camillo Camilliani nella
sua "Descrizione delle Marine di tutto il Regno di Sicilia" del 1584, ci lascia
una raffiguraziomne della torre dove si nota una vistosa crepa lungo la parete
esterna delle mura. Il silenzio dei secoli si interrompe nel 1714 con il
"rapporto sulla situazione del litorale Castelafiere", così recita il
manoscritto: ..."Continuando per altro bon tratto di sciare, si entra nel porto
piccolo di Lognina capace di barche e tartane, et ove vanno le barche di Malta a
caricar neve e altro..." "... à canto del sudetto Porto, e dalla parte sinistra,
vi è una torre rotonda, munita di moiana di metallo, e due spingardi piccoli e
solo custodita in qualche tempo da due uomini di guardia mandati dal Senato di
Catania, secondo li urgenti".
Qualche anno fa consultando una antica "Guida
turistica Stradale Commerciale - edizione 1932 - 1933 - anno XI ", trovai una
notizia interessante che definiva la torre "di origine assai antica rimonta
forse all'epoca normanna, torre di guardia restaurata nel XVI sec. porta la data
1564".
Purtroppo anche Questa epigrafe è stata trafugata. Questo citato restauro
è da mettere forse in relazione con la ricostruzione della torre dopo il crollo
avvenuto 20 anni prima in seguito al terremotus magnus. Il buon don Foti nel suo
libro "Ognina", ci fa sapere da testimone oculare che sulla volta superiore
esterna della torre stava una lapide datata 1571, dove era riportato il nome
dell'eroico marinaio siciliano Enrico Venusta il quale si distinse nella
vittoriosa battaglia di Lepanto, dove il Venusta continuò a combatte con un solo
braccio dopo che una bombarda lo aveva privato di una mano.
La sparizione di
quest'altra lapide, secondo il Foti la si deve alla permanenza dei soldati
tedeschi che durante la seconda guerra mondiale si installarono in quel luogo.
Le pareti interne della torre sono ricoperti da numerosi graffiti e incisioni,
molte delle quali datate. Particolare curioso é che non ho riscontrato alcun
autografo germanico. È auspicabile che gli studiosi moderni ci facciano sapere
altre notizie del passato misterioso della torre custode silenziosa di antiche
memorie. Riporto alcune foto scattate molti anni fa e poco conosciute della
torre di lognina: particolari dei graffiti, una nicchia "latrina" tra i merli
della torre con il foro di scarico posizionato all'esterno delle mura,
l'ingresso di uno strano cunicolo che si snoda al di sotto del piano di
calpestio della terrazza, un misterioso simbolo inciso nei pressi del buco che
immette nella terrazza, e infine un altro simbolo forse dell'incisore del
duecentesco portale della primitiva chiesa dell'Ognina, i cui pezzi superstiti
furono murati sulla torre.
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