Raffaello Lucarelli, il pioniere del cinema siciliano.
Antonio La Torre Giordano riflette sulla figura di un pioniere del
cinema italiano.
È
noto quanta confusione regni nei settori della storiografia, della
t eoria e della critica cinematografica. Le origini del cinema e
l’attribuzione cronologica delle scoperte e dei meriti, per molti,
rimane una materia controversa. A tale disordine contribuisce anche un
certo unilateralismo metodologico delle ricerche che non si è mai
uniformato ad uno standard condiviso, soprattutto per le ricerche di
prima mano. Non esistono convenzioni uniformi compartecipate a livello
internazionale per la ricerca nel campo della storiografia del cinema.
La difficoltà di accesso a fonti primarie autentiche e la mancanza di
una metodologia standardizzata per la loro analisi complicano
ulteriormente il quadro. Le fonti primarie possono essere incomplete,
frammentarie o difficili da interpretare, e senza un approccio condiviso
alla loro analisi, i risultati delle ricerche possono differire tra
loro. Il cinema è un campo intrinsecamente multilaterale; coinvolge
aspetti tecnici, artistici, culturali e sociali e, paradossalmente, ciò
complica ulteriormente le indagini poiché private di un approccio
integrato e multidisciplinare. Questo tema è quanto mai confacente alla
trattazione biografica sul pioniere del cinema italiano Raffaello
Lucarelli, sul quale in passato – anche recente – sono state elaborate
deduzioni inesatte.
Agli
albori, i precursori del cinema si ergevano come dei moderni profeti,
diffondendo l’evangelio della nuova forma espressiva dell’immagine,
proprio come fecero in precedenza i lanternisti itineranti. Tra i primi
cineasti italiani di rilievo storico vi è Vittorio Calcina, precursore
nella realizzazione di cortometraggi documentaristici e narrativi. In
breve tempo, altri antesignani emergono sulla scena cinematografica. Tra
questi spicca il regista e inventore Filoteo Alberini che già dal 1895
perfeziona un dispositivo di ripresa simile e contestuale a quello dei
fratelli Lumière. Operano in più direzioni anche figure di rilievo come
Italo Pacchioni, Arturo Ambrosio, Luca Comerio, Giovanni Vitrotti,
Roberto Omegna e molti altri, con contributi significativi e diseguali,
ma sempre volti allo sviluppo del cinema italiano delle origini. Sono
tutte personalità con storie emerse dall’oblio nel corso dei decenni,
grazie ad indagini approfondite che hanno in parte colmato gli aspetti
più lacunosi dell’epopea cinematografica. A questi apostoli del cinema
va assegnato il nobile merito di aver contribuito all’evoluzione del
film, arricchendo il panorama storico del cinema con opere e
sperimentazioni rinnovatrici e progressiste. Tuttavia, non tutti hanno
ricevuto il riconoscimento che avrebbero meritato, soprattutto se si
considera il loro contributo effettivo alla cinematografia sia regionale
che nazionale. Nonostante il loro impatto significativo e le innovazioni
introdotte, molti precursori del cinema sono rimasti nell’ombra come dei
fantasmi, immolati ad un mancato tributo per il loro ruolo così
fondamentale a causa di una certa approssimazione storica, oppure – ed è
l’ipotesi più plausibile – per una semplificazione metodologica di
ricerca. Raffaello Lucarelli – fotografo, esercente, documentarista,
regista, produttore, distributore, impegnato nel cinema per oltre
vent’anni – ne è un esempio preclaro. Molti degli studi sul pioniere
umbro compiuti da ricercatori e storici del cinema – su tutti, i lavori
imprescindibili di Nino Genovese, Franco La Magna, Nila Noto e
Sebastiano Gesù – impongono una revisione – poiché presentano alcune
lacune e inesattezze dovute al mancato accesso alle fonti documentali
originali che recentemente sono emerse.
Reputato erroneamente fiorentino – o semplicemente toscano e talvolta
romano (sic!) –, Raffaello Lucarelli (all’anagrafe Raffaele, Gabriele,
Pietro) nasce in Umbria l’11 ottobre 1879 , a Gualdo Tadino (Perugia),
l’antica Tarsina, e poi Tadinum, storica città situata nel nordest della
Regione. In piazza Vittorio Emanuele, nel cuore dell’abitato, vi era il
negozio «Fotografia Lucarelli», ovvero, il luogo familiare ispiratore
che ha agito come una placenta, nutrendo e modellando le future
inclinazioni del futuro cineasta. Esaminare la vita e l’opera di
Lucarelli, proveniente da una modesta famiglia e precoce fuggitivo dalle
strette provinciali, implica un viaggio attraverso la nascita del mondo
della celluloide. Questa è un’indagine che attinge alle radici dello
stesso, esplorando il suo concepimento, il suo sviluppo, e
l’affermazione come rituale profano e universale, che va oltre la mera
biografia individuale.
Il
Cinematografo seduce ed incanta il giovane Lucarelli da Gualdo Tadino,
sebbene il cinema non sia ancora accompagnato da una particolare
rilevanza popolare né cultu rale. Egli viene chiamato alle armi in quel
di Spoleto il 18 ottobre 1899, ma ciò non frammenterà il desiderio che
lo abita: investire la propria vita nel cinema. Sceglie Palermo come
sfondo al suo progetto, la sua città d’adozione in cui si trasferirà il
28 luglio del 1905, quando concluderà il servizio di leva nel personale
ferroviario d’armi. Nell’ottobre del 1905, i fratelli Lucarelli
fonderanno la Lucarelli-Film – tra questi, solo Lorenzo raggiunse
Raffaello a Palermo e collaborò costantemente con lui fino al 1911,
mentre Barbara guidò le sale in Gualdo Tadino –, nonché il cinema di
pregio Edison Saal, poi assumerà l’antroponimo rinascimentale di
«Raffaello» ché gli parve più consono al suo ruolo pubblico, nel brioso
contesto della Belle Époque; girerà i primi cinegiornali e fonderà a
Palermo uno dei primi multisala europei, ovvero il Cinema-Teatro
Lucarelli in via Cavour, la struttura cinematografica più lussuosa e
performante in Sicilia; si consorzierà con la francese Pathé Frères e
prenderà lezioni di ripresa presso «Le Studio Éclipse (Société Générale
des Cinématographes Eclipse)»; fonderà il Giornale Cinematografico
Lucarelli – GCL , quindicinale realizzato sul modello del Pathé Journal,
e poi diffuso in tutto il mondo. Lucarelli e la sua troupe filmeranno
gran parte degli eventi sociali, culturali, sportivi e di costume a
Palermo ed in Sicilia, diventando l’uomo dei primati e il cineoperatore
di riferimento della famiglia Florio, incluse, ovviamente, tutte le
edizioni della Targa e i numerosi eventi patrocinati dal Casato.
Supportato dalla famiglia Florio e dopo aver realizzato Festa a Villa
Igiea (1906), il tycoon umbro filmerà moltissimi eventi notiziabili a
Palermo e in Sicilia, mentre nel maggio del 1908 introdurrà in Sicilia
il «Cinemateathrophon», un innovativo dispositivo che rappresentava il
precursore del cinematografo parlante e già in uso nelle sale parigine.
Fornirà un sostegno fattivo a Filippo Tommaso Marinetti che nel 1911
effettuerà una serie di conferenze sul futurismo al Cinema-Teatro
Lucarelli. Inoltre, il cineasta riceverà prestigiosissime onorificenze
per l’impegno cinematografico come le medaglie d’oro conferite da
Vittorio Emanuele III Re d’Italia, che lo nomina Cavaliere della Corona
d’Italia, e quella del Kaiser di Germania e Prussia Guglielmo II, per le
riprese cinematografiche in occasione della sua visita a Palermo;
prolifico e stakanovista – nel dossier monografico di prossima
pubblicazione a lui rivolto sono stati catalogati oltre 70 titoli, ma il
numero è di fatto parziale – girerà i primi lungometraggi a soggetto in
Sicilia, alcuni dei quali co-prodotti con la Pathé , come La bufera
(1913), Più forte dell’odio (1913), Il silenzio del cuore (1914), Ondina
(1914), Occultismo (1914), Liquor somniferus (1914), ecc. e La regina
della notte (1915), realizzato dalla Azzurri Film del titolare
dell’omonima Scuola di recitazione, ovvero Paolo Azzurri, con la
supervisione dello stesso Lucarelli; gestirà contemporaneamente sette
sale e un’arena nella città di Palermo e due in Gualdo Tadino;
all’Esposizione Internazionale di Genova del 1914 verrà insignito di una
medaglia d’oro al valore artistico; dopo la collaborazione con la Pathé,
darà vita a un secondo ciclo co-produttivo con una Casa straniera,
partecipando alla realizzazione dei due gialli dell’elvetica Lumen-Film
di Losanna, retta dal precursore svizzero Albert Roth De Markus –
Profumo mortale (1915) e Il romanzo fantastico del dott. Mercanton o il
giustiziere invisibile (1915) – entrambi girati a Palermo nel 1915,
riutilizzando in gran parte le stesse scenografie della Lucarelli-Film.
Il contributo di Raffaello Lucarelli, a buon merito il “Capostipite del
cinema in Sicilia”, è annoverato tra i pionieri del cinema italiano e va
ben oltre un semplice profilo regionale. Il 30 settembre 2024,
l’Università di Milano-Bicocca ha organizzato una conferenza dal titolo
Il pioniere del cinema: Raffaello Lucarelli – Repertorio cinematografico
italiano tra passato e futuro, nell’ambito della XV ª edizione del Gran
Festival de Cinema Muto di Milano e in collaborazione con l’Archivio
Siciliano del Cinema di Palermo. Nel 2025, anno in cui ricorre il 120°
anniversario della fondazione della Lucarelli-Film, il Comune di Gualdo
Tadino, cittadina natìa del cineasta, celebrerà adeguatamente l’illustre
figura, riscoprendo e onorando un suo nobile cittadino, il cui impatto
nel mondo del cinema ha segnato profondamente la storia culturale del
Paese.
https://www.antoniolatorregiordano.it/libro/raffaello-lucarelli-il-lumiere-di-sicilia/

Il
cinema in Sicilia

La
Sicilia, con le sue tradizioni, la sua storia millenaria, i suoi
paesaggi sconfinati in cui già si trovano le prime contraddizioni
isolane costituite dall'alternanza tra speroni rocciosi e distese
pianeggianti, i suoi abitanti che tendono più che mai ad esser in
simbiosi con la propria terra, è tutto un mondo da scoprire. Un buon
metodo di lettura e di conoscenza dell'isola è senza ombra di dubbio il
cinema.
In
effetti, la Sicilia è una fonte inesauribile di storie nuove ed
atmosfere sempre suggestive e coinvolgenti che interessano non solo il
cinema, ma anche la letteratura, due forme espressive che spesso si
uniscono, pur mantenendo sempre la propria identità, nel tentativo di
offrire delle piacevoli rappresentazioni dell'isola stessa.
Parlare
di cinematografia in relazione alla Sicilia vuol dire ricordare una
serie di film spesso ineguagliabili, dei capolavori realizzati grazie
alla partecipazione di grandi interpreti italiani e stranieri e che
hanno trattato varie tematiche, da que lle comiche a quelle d'amore, da
quelle storiche a quelle mafiose.
La
cinematografia italiana e straniera si è molto interessata alla Sicilia
ed i nomi ricorrenti e celebri che hanno rappresentato l'isola sono
Visconti, Germi, Rosi, Taviani, ai quali si aggiungono quelli di artisti
più "giovani" del calibro dei "Premi Oscar"
Tornatore e Benigni e di Gianni Amelio.
Affrontare
il binomio Sicilia-Cinema vuol dire anche adottare criteri di scelta nel
ricordare i numerosissimi film ed interpreti che hanno contribuito a
rendere molto ricco tale settore.
Il
ilm di Francesco Rosi "Salvatore Giuliano", realizzato
nel 1962 con gli attori Salvo Randone, Frank Wolff e Pietro Cammarata,
è completamente girato in Sicilia e precisamente nei luoghi legati al
famoso bandito (Montelepre - Pa -, dove il bandito nacque, e l'ambiente
circostante costituito in prevalenza da montagne, a partire da Montedoro
dove spesso il bandito si rifugiava, e Castelvetrano - Tp - dove egli
visse l'ultimo periodo della sua vita e dove fu trovato morto). La
scelta dei luoghi fu determinata, come ammise lo stesso regista, per
ottenere un maggiore coinvolgimento emotivo alla vicenda che si stava
narrando.
Lo
stesso tema è stato successivamente ripreso dal regista Michael Cimino
nel 1987 per la realizzazione de "Il Siciliano". In
questo caso la storia del famoso bandito siciliano, qui interpretato da
Cristopher Lambert, ebbe una diversa ambientazione cinematografica,
cioè Sutera - Cl -. La città fu scelta perché molto somigliante, per
struttura, a quella originaria del bandito e per mantenere un certo
alone di riservatezza attorno alla produzione.
Il
regista genovese Pietro Germi (1914-1974) ha scelto di ambientare alcuni
dei suoi film a Sciacca - Ag - e precisamente per realizzare "In
nome della legge" nel 1949 e " Sedotta ed abbandonata" nel
1964.
I
vari luoghi della cittadina sono stati ripresi nei due film per
intrecciarsi meravigliosamente con le vicende narrate tanto da
confondersi con esse. Pensare di rivedere oggi gli stessi luoghi è
un'impresa ardua perché il tempo e soprattutto l'azione dell'uomo li ha
notevolmente modificati.
"Nuovo
Cinema Paradiso" realizzato nel 1988 da Giuseppe Tornatore,
film premiato con l'Oscar. Il film va
ricordato come una testimonianza d'affetto nei confronti del cinema.
In
questo film si hanno numerosi riferimenti a film celebri, a partire da "La
terra Trema", i cui titoli di coda scorrono nel cinema colpendo
gli analfabeti e curiosi clienti, e "Catene". Il film va
ricordato come uno squarcio della storia del costume, cioè di come il
cinema ha saputo coinvolgere e far
sognare chi vi si accostava e come un
buon strumento di aggregazione. Alcune scene del film furono girate a
Cefalù - Pa -, ed esattamente quelle riguardanti il porticciolo e le
distese di case abbandonate, riprese che riguardano alcune fasi della
crescita del protagonista del film.
Il
film "L'avventura", realizzato da Michelangelo
Antonioni nel 1960, fu girato nelle Isole Eolie, ed esattamente a Lisca
Bianca. Inizialmente l'isola è il teatro per l'incontro dei
protagonisti del film che la scelgono per raggiungere i loro amici, ma
ben presto essa si tramuta nel luogo della perdita. In effetti, durante
una sosta, "Anna" (Lea Massari) scompare e "Sandro"
(Gabriele Ferzertti) e "Claudia" (Monica Vitti) iniziano a
cercarla. Nel frattempo tra i due nasce un sentimento, che però si
rivelerà effimero quando, raggiunta Taormina, Claudia scoprirà Sandro
tra le braccia di una prostituta.
Molti
film sono stati girati nella provincia di Ragusa. Un primo esempio è
sicuramente "Marianna Ucria", film tratto dall'omonimo
romanzo scritto da Dacia Maraini e girato da Roberto Faenza nel 1996 in
buona parte a Villa Fegotto, nelle vicinanze di Chiaramonte Gulfi. Il regista Gianni Amelio realizzò nel 1993
il film "Ladro di bambini" per la Erre Produzioni e
Alia Film con gli interpreti Enrico Lo Verso, Valentina Scalisi e
Giuseppe Ieracitano.
Le scene sulla spiaggia e col mare furono girate
sempre nella provincia di Ragusa. Da
ricordare il film "La stanza dello scirocco" tratto dal
romanzo di Domenico Campana, realizzato dal regista Maurizio Sciarra ed
interpr etato da Giancarlo Giannini e dalla catanese Tiziana Lodato. Gli "interni" del film furono
girati nel Castello di Donnafugata ed altre scene sono state girate a
Monterosso Almo. Un successivo
aspetto della cinematografia isolana riguarda gli attori nati in Sicilia
e che hanno contribuito ad accrescerne la popolarità.
Un
altro grande attore siciliano è Giovanni Grasso (1873-1930),
discendente da una
famiglia di marionettisti e ricordato soprattutto per
la sua recitazione estremamente dura e verista. Tra i film da lui
interpretati occorre decisamente ricordare "Sperduti nel
buio", un film muto del 1914 realizzato da Nino Martoglio e
tratto dal dramma di Bracco.
Il
film tratta di due derelitti, il cieco Nunzio (interpretato da Grasso) e
Paolina (interpretata da Virginia Balistrieri), diseredata dal padre
naturale, il duca di Valenza, e sfruttata dalla malavita.
"Nunzio" riesce a liberare la ragazza dalla sua schiavitù ed
i due conducono insieme una vita misera mendicando.
Turi
Ferro (1921) è un altro attore siciliano molto famoso. Il suo impegno
lavorativo maggiore è rappresentato dal teatro, ma ha lavorato
spessissimo anche per il cinema. Si possono citare, infatti, film come "Un
uomo da bruciare" (realizzato dai fratelli Taviani e da
Valentino Orsini nel 1965), "Malizia" (film del 1973
realizzato dal regista Salvatore Samperi), "Il lumacone"
(film del 1975 realizzato da Paolo Cavara e con gli attori Agostina
Belli e Ninetto Davoli), "Il Turno" (realizzato da
Tonino Cervi nel 1981 e con gli attori Laura Antonelli, Vittorio Gassman
e Paolo Villaggio) e "Novella Siciliana" (opera
realizzata da Wolf Gaudlitz nel 1988 per la Salafilm & Duofilm
Munchen e con gli attori Hilmar Thate e Massimo Bonetti).
Indimenticabile
è la coppia di attori comici palermitani Franco Franchi (all'anagrafe
Francesco Benenato) e Ciccio Ingrassia che realizzarono insieme più di
cento film. Tra essi si può citare "L'Onorata Società"
di Riccardo Pazzaglia girato nel 1962 insieme ad attori
del calibro di
Vittorio De Sica, Domenico Modugno e Rosanna Schiaffino.
Indimenticabili
sono anche le trasposizioni di alcuni testi letterari in opere
cinematografiche.
Tra
le trasposizioni cinematografiche delle sue opere si possono citare, ad
esempio, quelle riguardanti "Storia di una capinera"
realizzata nel 1917 per la regia di Giuseppe Sterni per la Silentium
Film e quella del 1945 realizzata per la regia di Gennaro Righelli con
gli attori Marina Berti, Claudio Gora e Tina Lattanzi per la Titanius.
Indimenticabili
sono, inoltre, le trasposizioni cinematografiche de "La
cavalleria Rusticana". L'opera verghiana è ricordata
soprattutto per la sua drammaticità. Santuzza, compromessa per la sua
relazione con Turiddu Macca, scopre d'esser stata tradita dal compagno
che ha avuto un incontro amoroso con Lola, la moglie di Alfio di
Licodiano. Lo stesso Turiddu, in realtà, era stato a sua volta tradito
perché era innamorato di Lola, ma, quando ritorna dal servizio
militare, scopre che la donna si era già sposata. Mentre tutta la
cittadinanza sta seguendo la messa della mattina di Pasqua, Santuzza
rivela tutto ad Alfio ed i due uomini si scontrano in un duello che
decreterà la morte di Turiddu.
L'opera
letteraria divenne un film per ben due volte nel 1916, la prima per la
regia di Ubaldo Maria del Colle per la Flegrea Film e la seconda per la
regia di Ugo Falena per la Tespi Film. Ci furono altre rappresentazioni
di tale opera, a partire da quella realizzata nel 1924 per la regia di
Mario Gargiuolo per la Film d'Arte Italiana/Lombardo Film e quella del
1939 per la regia di Amleto Palermi,
per la Scalera Film e con gli attori Isa Pola, Carlo Ninchi, Doris
Duranti e Leonardo Cortese.
L'agrigentino
Luigi Pirandello si interessò al cinema in maniera sempre crescente.
L'autore collaborò attivamente dando spunti originali per la
realizzazione di vari film come "Acciaio" del 1933
realizzato da Walter Ruttmann, con articoli e conferenze aventi come
soggetto sempre il cinema e con la messa in scena di sue numerose opere
e novelle.
Da
citare, in quest'ultimo caso, sono le trasposizioni cinematografiche di
"Liolà" - celebre commedia che narra delle alterne vicende
amorose dell'anziano Zio Simone Palumbo e del gaio Liolà rappresentato
nel 1964 per la regia di Alessandro Blasetti con gli attori del calibro
di Ugo Tognazzi, Pierre Brasseur e Giovanna Ralli - e "Kaos"
- realizzato nel 1984 per la regia di Paolo e Vittorio Taviani con gli
attori Margarita Lozano, Claudio Bigagli e Massimo Bonetti -.
Non
si possono trascurare, inoltre, film come "L'uomo, la bestia e
la virtù" tratto dalla commedia omonima di Pirandello e
realizzato per la regia di Steno, film che riunisce attori del calibro
di Totò, Orson Welles, Viviane Romance, Franca Faldini, Mario
Castellani, Giancarlo Nicotra e Clelia Matania, ed ancora le varie
rappresentazioni de "Il fu Mattia Pascal", come quella
realizzata nel 1925 da Marcel L'Herbier e quella più recente realizzata
da Mario Monicelli dal titolo "Le due vite di Mattia Pascal".Successivo
esempio del felice connubio tra scrittori siciliani e cinema è
rappresentato dalle trasposizioni cinematografiche di alcune opere di
Leonardo Sciascia, a partire da "A ciascuno il suo" -
realizzato nel 1967 per la regia di Elio Petri, per la casa Cemo Film e
con gli attori Gian Maria Volontè, Irene Papas e Gabriele Ferzetti - e
"Il giorno della civetta" - realizzato nel 1968 per la
regia di Damiano Damiani per la Panda Cinematografica e con gli attori
Franco Nero, Claudia Cardinale e Lee J. Cobb -.
L'incontro
tra Sciascia ed il cinema si ha anche con il film di Gianni Amelio
"Porte Aperte" - realizzato nel 1990 per l'Istituto Luce Ucrania Film e con gli attori Gian Maria Volontè, Ennio Fantaschini e
Vitalba Andrea - e con il film di Emidio Greco "Una storia
semplice" - realizzato nel 1991 per la BBE Internatinal-Claudio
Bonivento Production e con gli attori Gian Maria Volontè, Ennio
Fantaschini, Ricky Tognazzi e Massimo Ghini . Lo
stesso Sciascia ammise di sentirsi molto debitore nei confronti del
cinema grazie al caratteristico modo di raccontare che ha tale strumento
di comunicazione, così come il cinema, del resto, è debitore nei
confronti di questo genio letterario siciliano dal quale attinse molto
quando si voleva parlare di mafia, politica, giustizia, di intrighi dal
chiaro riferimento a tematiche civili e sociali.
Vitaliano
Brancati può esser degnamente ricordato come un illustre figlio della
Sicilia e come un intellettuale che si distinse per le sue attività di
letterato, critico cinematografico, commediografo e sceneggiatore. Come
autore teatrale, soprattutto nella maturità, si distinse per la
trattazione di alcuni temi ricorrenti come l'osservazione dei costumi e
la trasposizione, spesso esagerata, dei vizi della provincia. Lo
scrittore nativo di Pachino aveva pubblicato il racconto "Il
vecchio con gli stivali" da quale si ottenne l'idea per la
sceneggiatura del famoso film "Anni Difficili"
realizzato nel 1948 dal regista Luigi Zampa, girato a Modica - Rg -ed
interpretato dagli attori Ave Ninchi, Umberto Spadaro e Massimo Girrotti.
Tale
lavoro è l'esempio classico della massima fedeltà tra cinema ed opera
letteraria, è la testimonianza di come il protagonista Aldo Pisciatello
è un antieroe, un uomo destinato a sottostare alla mentalità della sua
Modica per esser successivamente e nuovamente sconfitto quando i tempi
cambiano sotto il vento del fascismo e della democrazia.

Il
binomio Brancati-Zampa merita d'esser ricordato non solo per questo
film, ma anche per "Anni Facili" del 1953 e
"L'arte di arrangiarsi" del 1955, film che costituiscono una
chiara testimonianza della forza della Sicilia e primi esempi di satira
sociale e politica.
Tra
le altre trasposizioni cinematografiche di opere letterarie occorre
citare quella del romanzo di Luigi Capuana "Il Marchese di
Roccaverdina" realizzata da Fernardo M. Poggioli nel 1943; il film
è intitolato "Gelosia", ha come interpreti Luisa
Ferida, Ronaldo Lupi ed Elena Zareschi e fu prodotto da
Cines-Universalcine.
"Il
Gattopardo", film del regista milanese Luchino Visconti (1906
-1976), è tratto dal classico di Tommasi Di Lampedusa e fu realizzato
nel 1963 per la Titanius e con gli attori Burt Lancaster, Alain Delon e
Claudia Cardinale.
Il
film va ricordato come uno spaccato della società siciliana al tempo
dell'impresa dei garibaldini, dell'avvicinamento di due differenti
classi sociali attraverso una proposta di matrimonio (da una parte c'è
Tancredi-Alain Delon, esponente della vecchia classe nobiliare siciliana
che dalla sua parte ha solamente il buon nome ed il rango e Angelica -
Claudia Cardinale, esponente della nuova classe media emergente che non
possiede cultura ma che può contare su un ingente patrimonio. Il film
è un tipico specchio dei travolgimenti sociali che riguardarono la
Sicilia in quegli anni ed il tutto è reso ancora più vivo dai discorsi
disincantati del Principe di Salina che denunciano, con il loro
pessimismo, la fine di un'epoca con la dissoluzione che il ceto
nobiliare si appresta a vivere.
Infine,
occorre citare "Diceria dell'untore", opera realizzata
nel 1990 da Beppe Cino e tratta da un romanzo di Gesualdo Bufalino con
gli attori Franco Nero, Lucrezia Lante Della Rovere, Fernando Rey, Remo
Girone, Salvatore Cascio, Dalila Di Lazzaro, Gianluca Favilla, Nando
Murolo, Egidio Termine e Vanessa Redgrave.
Il
film va ricordato per l'estrema fedeltà data allo spirito del testo
letterario, per l'intensa interpretazione degli attori e per l'attenta
rappresentazione della cruda ed estrema realtà del sanatorio. Il
contatto tra la Sicilia ed il cinema si può vedere sotto una diversa
angolazione, cioè quella che unisce i grandi registi alle tematiche
siciliane.
Un
primo esemp io è dato dalla forte presenza del regista genovese Pietro
Germi (1914-1974). Sorvolando sui
già citati "In nome della legge" (film di mafia del
1949 per la Lux Film e con gli attori Massimo Girotti, Jone Salinas,
Charles Vanel e Saro Urzì tratto dal romanzo dell'ex magistrato
Giuseppe Lo Schiavo) e "Sedotta e abbandonata" (film
realizzato nel 1964 con gli attori Stefania Sandrelli, Saro
Urzì e Aldo Puglisi per la Ultra-Vides-Lux Film), il binomio
Germi-Sicilia si ricorda degnamente per lo splendido film "Divorzio
all'italiana" e "Il cammino della speranza".
"Divorzio all'italiana" fu girato nel 1962 con gli attori
Marcello Mastroianni, Daniela Rocca e Stefania Sandrelli.
Ad
Agramante, un paesino disperso nella provincia siciliana, il barone
Fefè Cefalù (Mastroianni) ha per moglie una donna gelosa e trascurata,
rappresentata dalla Rocca, e nel contempo è innamorato, e ricambiato,
dalla cugina (rappresentata dalla Sandrelli). Il barone, per coronare il
suo sogno d'amore, ha come sola via d'uscita quella data dal
"delitto d'onore". Spinge la moglie nelle braccia dell'ex
spasimante per poterli così cogliere in flagranza
di reato, cosa che
però non accade perché i due amanti riescono a fuggire prima
dell'arrivo del barone. Così egli diventa lo zimbello del paese e la
vendetta diventa quasi un obbligo: quando Fefè trova ed uccide i due
amanti ottiene un processo trionfale che si chiude con la condanna al
minimo della pena, tre anni di reclusione. Quando Fefè torna ad esser
un uomo libero, può finalmente sposare l'amata cugina, non sapendo che
la donna incomincerà a tradirlo già dal viaggio di nozze. "Il
cammino della speranza" fu girato nel 1950 con gli attori Raf
Vallone, Elena Varzi, Saro Urzì e Franco Navarra. La tematica
affrontata è sociale e riguarda le vicende di un gruppo di minatori
dopo la chiusura delle miniere e la loro conseguente emigrazione.
Da
non dimenticare è decisamente l'ingente produzione del regista
napoletano Francesco Rosi. Il suo legame con la Sicilia si vede già
dall'esordio della sua carriera, quando lavorò come aiuto-regista per
Luchino Visconti per la realizzazione de "La terra trema". I suoi primi film si ricordano come una
sorta di denuncia sociale e danno una chiara idea di come il regista
elaborò
un suo codice linguistico-cinematografico del neorealismo. Se
il suo capolavoro eccellente è il già ricordato "Salvatore
Giuliano", indimenticabili restano altri film, dalle chiare
tematiche sociali.
Da
citare, innanzitutto, è il film "Il caso Mattei"
girato nel 1972 ed interpretato magistralmente da Gian Maria Volontè,
Franco Graziosi e Luigi Squarzina. Il film-inchiesta tratta
dell'attività di Enrico Mattei e del contesto storico in cui essa si
svolse ed anche della scomparsa del giornalista Mauro De Mauro che
lavorava per il quotidiano "L'Ora" di Palermo.
Un
film dalla chiara tematica mafiosa realizzato da Rosi è "Lucky
Luciano" realizzato nel 1973, prodotto da Franco Cristaldi per
la Titanius ed interpretato in maniera magistrale da Gian Maria Volontè,
Edmund ÒBrien, Vincent Gardenia, Silverio Blasi, Charles Cioffi, Larry
Gates e Rod Steiger. Il film è una
sorta di biografia del gangster che evitò l'ergastolo grazie all'aiuto
che diede agli Alleati durante lo sbarco in Sicilia e che, ritornato in
Italia, continuò le sue attività illegali di controllo sulla mafia
italo-americana finché non morì a causa di un infarto.
Occorre
citare il film "Cadaveri eccellenti", opera tratta dal
lavoro di Leonardo Sciascia "Il contesto" e realizzata nel
1976 con gli attori Lino Ventura, Alain Cuny e Tino Carraro. Il
film ha una
doppia ambientazione (Sicilia-Roma) e dimostra ancora una
volta che il connubio Sciascia-cinematografìa permette di creare delle
opere dagli intrighi sociali e politici davvero corposi e dai chiari
richiami sociali e politici. In questo caso il protagonista è
l'ispettore Rogas che indaga sulle morti sospette di alcuni procuratori
e giudici, cioè delle personalità importanti, "eccellenti",
finché non scopre un contesto eversivo particolare, una sorta di potere
negativo che si è fortificato creandosi una discreta rete di interessi
economici ed intrecciando legami sociali. Il film non ha un lieto fine
poiché si conclude con la morte dell'ispettore.

Un
affresco corale sulla memoria collettiva che diventa un omaggio al
cinema del passato
Giancarlo Zappoli
La
storia di una famiglia siciliana che prende le mosse dal ventennio
fascista in cui Cicco, sin da bambino apertamente contestatore, è un
pastore che ha la passione per la letteratura epica. Suo figlio Peppino,
cresciuto durante la guerra, entrerà nelle file del Partito Comunista
divenendone un esponente di spicco sul piano locale e riuscendo a
sposare, nonostante la più assoluta opposizione della famiglia di lei, Mannina che diventerà madre dei loro numerosi figli che saranno
comunque considerati da alcuni sempre e comunque ‘figli del
comunista'.
Tornatore riprende a narrare della terra che ama, la Sicilia, e lo fa
con un affresco collettivo che abbraccia numerosi decenni della storia
del secolo scorso. Lo fa con quel piglio che a tratti travalica
nell'enfasi che ormai gli è proprio quando torna cinematograficamente a
varcare lo Stretto di Messina (e che gli procura tante critiche) ma
anche con la sincera voglia di fare cinema a tutto campo. Fare cinema si
traduce per lui in un omaggio consapevole e dichiarato a quanti lo hanno
preceduto (qui in modo particolare a Sergio Leone ma non solo) senza
però rinunciare a un proprio stile narrativo che procede per accumulo
di immagini e di situazioni. È una corsa contro il tempo quella che ci
viene proposta sin dall'inizio con la figura del bambino che apre il
film. Corsa contro il tempo che cancella una memoria collettiva che
sembra progressivamente non esistere più e che Tornatore vuole
restituirci scegliendo la via della spettacolarità
rivolta al pubblico più vasto possibile. C'è una scena in cui Peppino
torna a Bagheria dopo essere emigrato per lavoro a Parigi. Ha ancora in
mano la valigia e un gruppo di suoi conoscenti, incontrandolo, gli
chiede per dove stia partendo. Nessuno di loro si è accorto della sua
assenza.

Oggi ben pochi sembrano accorgersi della perdita della conoscenza di un
passato recente in cui umiliazioni, lotte e parziali vittorie lasciavano
segni profondi nella collettività. Segni che, come l'affresco sulla
volta della chiesa, 'dovevano' essere cancellati. Ma ciò che al regista
sembra premere ancor di più è il mostrare come il retaggio di un
passato di tradizioni ormai incancrenite nella società non sia stato
ancora superato nella realtà sociale siciliana e non solo. La sequenza
dell'assessore all'urbanistica non vedente che si fa portare i piani
regolatori in plastico e li apprezza solo dopo aver intascato
l'ineludibile mazzetta è di quelle che si ricordano. Così come (pur
nel caleidoscopio a tratti pensoso e a tratti decisamente
macchiettistico della miriade di personaggi che attraversano la scena)
resta presente, nello scorrere degli anni e delle vicende, la
pessimistica sensazione di una sorta di atavica maledizione a causa
della quale le uova rotte e i serpenti neri finiscono col far parte del
passato, del presente e del futuro di una terra che ha bisogno di una
frattura traumatica per poter liberare una volta per tutte una vitalità
creativa che certo non le manca.
http://it.wikipedia.org/wiki/Baar%C3%ACa
http://www.mymovies.it/film/2009/baarialaportadelvento/
Un catanese DOC al
servizio del Cinema Siciliano
Nuovo Cinema Paradiso,
ecco cosa fa il piccolo Totò 30 anni dopo
Martedì 18 Dicembre 2018 di James
Perugia
Trent'anni fa esatti, nel 1988, usciva uno di
quei film che non si dimenticano e che un po' ti cambiano: Nuovo
cinema Paradiso. In tanti si ricordano gli occhi pieni di meraviglia
del piccolo Totò, il protagonista di 9 anni, davanti al
cinematografo. In molti, forse, si sono innamorati del cinema
proprio grazie a questo film.
Il piccolo Totò, all'anagrafe Salvatore Cascio, è
cresciuto, oggi è un uomo. Ma non smette di sognare.
Salvatore Cascio, il Totò adulto cosa fa nella
vita?
«Ho un ristorante in Sicilia con i miei genitori;
sono tanti i turisti che vengono a trovarmi».
Ma non sogna Hollywood?
«Ho altri sogni: avere una famiglia tutta mia,
stare bene con le persone a cui voglio bene. Il mio obiettivo non è
mai stato Hollywood».
Come ricorda i giorni delle riprese?
«Tornatore riusciva a tirare fuori il meglio di
me».
Cioè?
«Anche se ero un bambino, mi responsabilizzava,
si arrabbiava anche davanti a tutti quando facevo i capricci, ma poi
mi coccolava».
Tornatore vide qualcosa in lei quando la scelse.
«Dopo 30 anni posso dire che lui, insieme a mio
padre, è stato l'unico ad avermi capito veramente».
E Philip Noiret, com'è stato lavorare con lui?
«È stato un atto d'amore, c'era un affetto
profondo, era come se fosse un nonno. Un legame bellissimo».
Che impatto ebbe sulla sua vita di bambino tutta
questa notorietà?
«Non fu semplice. Ero un bambino timido, schivo,
tutto il contrario di Totò che era una peste».
Anche se ora si occupa di altro, esclude un
eventuale ritorno al cinema?
«Sarebbe bellissimo».
Con chi le piacerebbe lavorare?
«Amo le commedie, mi piacerebbe lavorare con
Pieraccioni o Salemme».
Un altro film in cui ha recitato che le è rimasto
nel cuore?
«Jackpot, un fallimento totale al botteghino ma
ne ho un ricordo bellissimo, con il grande Adriano Celentano».
Come spiega la magia di Nuovo cinema paradiso?
«Parlarne così come se ne parla dopo 30 anni in
tutto il mondo è qualcosa di incredibile. Il segreto, per me, sta
nel grande messaggio d'amore che il film trasmette».
https://www.ilmessaggero.it/persone/nuovo_cinema_paradiso_salvatore_cascio_oggi-4180251.html?fbclid=IwAR3gGmfqoQ7NUptQuIVVJWLi5ws5SReRaCf48lJ7bqLeoXoZHlZRFZlIX9Q
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Sul set con Burt Lancaster tra ville, feste e tante gelosie
Un
despota rinascimentale trapiantato in epoca dannunziana. Questo era
Luchino Visconti.
Lo
conobbi a Roma, nella casa di Fedele d' Amico, di cui ero stato
allievo, e della moglie Suso Cecchi che sceneggiò poi "Il
Gattopardo". Io fui coinvolto appieno, seppur in forma non
ufficiale, come «consigliere». La lavorazione durò da maggio a
ottobre; tutte le scene sono state girate in Sicilia, salvo gli
interni di Donnafugata per i quali fu utilizzata villa Chigi di
Ariccia e qualche scena a Cinecittà.
Durante la lunga estate siciliana, facemmo una vita molto
particolare. L' idea era quella di un gruppo di gran signori che
fanno una vacanza in Sicilia: Visconti prese in affitto la Tonnara
Bardonaro vicino Palermo e la addobbò a meraviglia, Burt Lancaster
prese Villa Scalea, e di sera c' erano sempre feste e ricevimenti.
Del resto, si sa, Luchino viveva come un sovrano. Un' atmosfera
ricca, fastosa... Un set fondamentalmente tranquillo.
Se
problemi c'erano, investivano non il mondo professionale, ma quello
personale, privato. Soprattutto per gelosie, nell' harem che Luchino
si portava dietro. Suso Cecchi e Romolo Valli facevano da mediatori.
è stata un' esperienza unica. E quando mi chiedono se il film ha
tradito il romanzo, dico no. Non in questo caso. E per un motivo:
Visconti e Tomasi di Lampedusa erano due persone simili, due
aristocratici che avevano memoria del secolo precedente attraverso
la tradizione orale familiare, i racconti dei nonni. Il sentimento
nei confronti della storia era in entrambi di reminiscenza e
nostalgia. Anche l' attrazione per certi luoghi, come i palazzi di
famiglia... se sei cresciuto in posti così sei segnato, gli spazi in
quel caso sono più forti dell' individuo. Insomma, erano due uomini
della stessa classe sociale, separati però da un punto di vista:
Tomasi di Lampedusa aveva quello dei vinti, Visconti quello dei
vincitori.

Insomma due esponenti dell' aristocrazia separati
"filosoficamente" dalla storia, e dalle storie, dell' Italia. E
credo sia questo il motivo per cui Luchino portò qualche piccola
alterazione al testo. Fu una estate affascinante. Conobbi Claudia
Cardinale e Burt Lancaster. Quest' ultimo era di spettacolare
intelligenza. E poi c' era il gruppo che faceva teatro con Visconti,
da Paolo Stoppa a Romolo Valli. E proprio su Stoppa Luchino esercitò
una delle sue consuete cattiverie: chiamò nel cast sua moglie, Lola
Braccini, che lui aveva lasciato per Rina Morelli, anche lei nel
film. E passammo qualche momento molto imbarazzante. Luchino,
sebbene artista dotato di colossale autorità, aveva con gli attori
lunghissime conversazioni.
Se
dovessi esprimere in due parole il tratto che distingue lo
storicismo romantico di Visconti da quello corrente lo individuerei
nell' assenza di ogni sentimentalità. Gli attori dovevano
trasmettere l' immagine della perfezione di cui è capace un attore,
non dovevano confondersi con la mimesi della realtà. Gli attori de
"Il Gattopardo" risposero a queste aspettative e lasciarono un segno
nella sua vita.

Da non sottovalutare Visconti come regista d'opera.
Nel mio lavoro di sovrintendente penso spesso a Visconti perché ebbe
grande influenza sulla regia lirica italiana e ritengo che il suo
genio l' abbia in un certo senso annientata. A rivedere oggi le
riprese dei suoi allestimenti essi possono sembrare superati, invece
Visconti è stato un regista altamente innovativo.
Ricordo "Le nozze di Figaro" del '66, così anti-salisburghese. Erano
di moda fino ad allora le messinscene incipriate, settecentesche,
invece lui ambientò l' azione in una casa di campagna in Spagna a
fine Seicento; tutto molto campestre e meno imparruccato. Visconti
ha trasformato l' opera da mascherata a storia degli affetti. Un
cambiamento affascinante. * sovrintendente del teatro San Carlo di
Napoli
GIOACCHINO LANZA TOMASI - 02 novembre 2006
https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2006/11/02/sul-set-con-burt-lancaster-tra-ville.html

Considerato da Martin Scorsese uno dei suoi gangster-movie
preferiti, Mafioso è una ulteriore testimonianza del talento del
sottovalutato Lattuada, capace di raccontare una storia lineare con
diverse sottotrame scottanti senza cadere in banalità, merito anche
della calibratissima sceneggiatura di Rafael Azcon, Marco Ferreri,
Age&Scarpelli. Il regista milanese conduce una efficace riflessione
sul libero arbitrio e la coscienza individuale, arrivando a un
finale amaro e cupo (se Cosa Nostra riscuote tanto successo è
sicuramente un po' colpa di tutti noi). Alberto Sordi, all'apice
della sua carriera, è bravissimo nella parte di un uomo onesto messo
alle strette da un sistema più grande di lui. E non manca uno
sguardo critico verso il mezzogiorno, che non riesce a emanciparsi
dalla zavorra dell'onore malavitoso.
Girato tra Belmonte Mezzagno, Bagheria, Capaci, New York e il New
Jersey.

IL PADRINO PARTE II

Leopoldo Trieste, un calabrese che seppe
interpretare la Sicilia in modo sublime.


Vitaliano Brancati, lo scrittore che non ho mai conosciuto di
persona perché quando di venne famoso se ne andò a Roma dove conobbe
e sposa la bellissima attrice di teatro Anna Proclemer. Mussolini
avrebbe voluto arruolare Vitaliano Brancati tra gli scrittori del
fascismo, ma lui era un indipendente e i dittatori non gli
piacevano.
Dopo la guerra tornò per un certo periodo a Catania, fonte della sua
ispirazione, e scrisse uno dei suoi migliori romanzi, "Paolo il
caldo", dal quale venne tratto un film diretto da Marco Vicario.
Protagonisti del film erane Giancarlo Giannini e Gastone Moschin. Li
incontrai casualmente in un ristorante della vecchia Catania e ci
siamo messi a parlare del romanzo e del film
che stavano interpretando. Film che poi sbancò il botteghino
(ricordate la scena di un funerale davanti alla chiesa di San Nicolo
in piazza Dante?)
Giannini e Moschin mi raccontarono di un episodio che avevano
appreso su Brancati e che io non conoscevo. Lo scrittore durante il
festival del cinema di Taormina era stato ospitato al San Domenico
assieme ad unaltro scrittore catanese, Ercole Patti. Il Comune
invitava scrittori che tu li vedevi nel chiostro del San Domenico
mentre si divertivano tra di loro. A tenergli compagnia c'erano
Carlo Laurenzi, Sandro De Feo e il giornalista Maurizio Liverani.
Ogni tanto ci passavamo Pippo Fava ed io ma non eravamo lì per
lavorare, non per fare vacanza a 5 stelle.
Dunque questa combriccola di scrittori italiani famosi si divertiva
a contare battute su chi commentava battute su chi passava in quel
piccolo spiazzo. Ad esempio, Guglielmo Biraghi, che fu direttore
artistico del festival di Taormina, aveva il soprannome di Inversio
Dolcemare, protagonista di un vecchio romanzo francese del 1700 che
forse soltanto loro conoscevano. Giannini e Moschin mi raccontarono
che, nel fare scherzi anche pesanti, Brancati e Patti prendevano di
mira pure la mezza dozzina di aspiranti attrici che la "signora
Anna" portava ogni anno da Roma per lanciarle sul mercato. Un giorno
i due celebri scrittori catanesi telefonarono in camera ad una di
queste stelline. E Vitaliano Brancati le disse: «Signorina, abbiamo
notato che recita bene e le volevamo fare le nostre
congratulazioni». E lei confusa: «Grazie, maestro, detto da lei è un
gran complimento». E Brancati: «Dovrebbe fare un bel lavoro di
Verga...». «Ah, magari!». «Ma che ha capito, Verga 'sta min....». E
giù risate grasse.
Erano tempi cosi, anche un po' licenziosi (sempre meno di adesso).
Loro, i rappresentanti della cultura dell'epoca, se lo potevano
permettere. Erano gli effetti della dolce vita che di li a poco
sarebbe stata raccontata in un film memorabile.
_____________________________
estratto da
“Catania. C’era una volta” di Tony Zermo – Domenico Sanfilippo
Autore 2018
Battiato
non ha girato un film ma ha scritto una canzone montandoci delle
immagini al posto delle note. Ha preso il pentagramma e come un album di
ricordi ci ha incollato sopra le fotografie della sua infanzia a Riposto
negli anni Cinquanta. 
Però, come dichiarato da lui stesso, non è un
film autobiografico, infatti i ricordi della sua infanzia si limitano
soltanto ai luoghi, agli oggetti e alle usanze che fanno da contorno
alla storia dell’immaginario Ettore Corvaia. Ha usato i sogni e l’emancipazione
del protagonista come un binario che ci porta attraverso tanti flash di
rimembranze sul percorso Catania-Milano; e i cambi improvvisi fra la
trama e le altre inquadrature non sono altro che introduzione,
ritornello, refrain, ritornello, refrain, ritornello, finale, proprio
come in una canzone, una canzone di quelle buone, di quelle che ti
raccontano una storia invitandoti, per vederla, ad entrarci dalla porta
di servizio e non da quella principale. La Madonna nera di Fossati parla
di una processione religiosa, di una statua nera che si inclina, di un
uomo che la sorregge e la paragona alla donna amata. Eppure è una
canzone d’amore. Chi l’avrebbe mai immaginato se non l’avesse
detto lo stesso Fossati? Questo è il bello di entrare dalla porta di
servizio.
Non pensavo che Battiato, cimentandosi al cinema quasi per
gioco, riuscisse ad ottenere una fotografia degna di un regista con
quattro oscar in bacheca. Ogni fotogramma è quasi un quadro. E poi i
luoghi: Ragusa, Acicastello, Acitrezza, Catania e Palazzolo Acreide con
i loro colori fanno già sceneggiatura; le suore con le tonache nere che
si stagliano sulle facciate barocche di chiese costruite col tufo
giallo, con lo sfondo del cielo azzurro… e poi la luce, l’immensa
luce che c’è qui. Ungaretti deve essere passato da queste parti.
Geniale la scena al macello, quando la cinepresa si sposta dalla
mano armata di coltello - pronta ad uccidere l’animale – fino a
salire sopra quel muretto affacciato sul mare dove s i vede di spalle il
piccolo Ettore, che non vuole più accettare quel mondo e sogna di veder
passare il Rex dei suoi desideri e della sua fantasia, perché dentro di
noi c’è sempre stato un Rex, simbolo di una partenza liberatoria che
ti porta via.Gli oggetti, le situazioni, le battute necessarie per
riportare lo spettatore indietro nel tempo sono tutti molto curati e,
come uno storico consumato, Battiato non ha mai lasciato niente al caso.
Nel bagno di casa Corvaia il padre con la brillantina in pomata davanti
a un autentico specchio che si usava negli anni Cinquanta e dieci anni
dopo il figlio con altro tipo di gel, altri pettini, altri specchi,
altre canottiere, altro tutto (ma dove li ha trovati?). Tutto è stato
messo al suo posto, minuziosamente, come in un museo di modernariato.
Ho
letto della visione metafisica di Battiato riportata in questo film. Mah…io
non ne capisco niente di metafisica, forse sto parlando di metafisica e
nemmeno me ne rendo conto. Comunque, le immagini presentano con dovizia
di particolari una generazione e un mondo che non c’è più. Alcune
cose me le ricordo e sono arrivato in tempo a vederle, anche se sono
più giovane di Battiato: il mangiadischi, le seicento, quelle lampade
sulle scrivanie, i complessini che suonavano su un palchetto con
tastiere Farfisa traballanti e con improvvisati impianti di
amplificazione, le uova acquistate in campagna, ecc. E anche i modi di
dire e di fare: con calma, senza fretta, senza stress; ritmi molto
cadenzati, perché allora di tempo ce n’era tanto e di cose, a
differenza di oggi, se ne facevano poche ma buone. Le ventiquattro ore
di un giorno sembravano non finire mai e, a volte, la salutare partita a
briscola nel film serviva ad esoricizzare certe situazioni.
Oggi
sembrerebbe una cosa inutile e noiosissima e si scapperebbe subito
presso lo studio di un consulente familiare, per non perdere tempo.
Sempre per non perdere tempo.
Perché non lo fermiamo questo tempo? Dalle
parti di Acireale, in una frazione incastonata fra giardini di limoni e
il mare, c’è un bar a conduzione familiare che produce una granita di
mandorla buonissima, ma il servizio è pessimo. Può capitare di
ordinarla e sentirsi rispondere "Ora a voli? Si facissi du passi ca
poi a facemu!". Magari poi te la preparano subito, anche a
mezzanotte, ma quelle lamentele sprigionano tutto il folclore e la
sottile ironia che circolano da queste parti. I catanesi lo sanno, ci
vanno apposta e stando al gioco si divertono a ricevere le risposte più
colorite alle loro richieste. E fanno questo anche per passare tempo, e
questo da noi si chiama "sbaddu" (spiego altrove cosa
significa).
Il bello viene quando capita da quelle parti una famigliola
del Nord che si incazza quando riceve quelle risposte, risposte che non
comprendono, perché la loro vacanza è tutta programmata e il tempo
destinato all’assaggio di quella prelibatezza era soltanto di venti
minuti, sempre per non perdere tempo. E invece non sanno che il
divertimento è proprio lì, cogliere l’attimo di certe situazioni
occasionali, sfruttarne tutti i suoi aspetti positivi e spassosi, senza
guardare l’orologio o il telefonino.
Devo dire che il film mi ha
affascinato fin dall’inizio. Tanto ne ero preso che nel finale vengo
pure colto di sorpresa: "Oh, guarda chi c’è… che ci fa De
Gregori qui?", quasi dimenticando il motivo della mia presenza in
quel cinema. Subito dopo, però, ho sollevato istintivamente la mia mano
destra quasi a cercare il testo "rewind" del telecomando. Devo
dire che nella parte del musicologo che parla di catarsi e sciamani si
è comportato davvero bene, complimenti.
La Sicilia, chiaramente, non è
più come quella descritta nel film, anche qui la gente corre e
pigramente si affida alla tecnologia perché è più comodo e non fa
perdere tempo. Il cucito non si fa più come in quel bellissimo cortile
circondato da banani, dove le donne, fra l’ago, la lingua e il ditale
(facendo finta di essere sottomesse) regolavano il destino dei loro
uomini.
E’ sempre stato così, in Sicilia hanno sempre comandaro loro.La battuta finale di
Sgalambro, seduto al tavolino di un bar in una
piazza assolata, simboleggia tutto il nostro modo di essere: "La
Sicilia esercita un diritto di appartenenza. Per favore, una granita
alla mandorla".
E’
vero, siamo fatti così. Seduti a un tavolino, con una granita di
mandorla davanti e stavolta PER perdere tempo, volutamente, quaggiù
siamo ancora capaci di consumarla impiegandoci anche due ore
filosofando, filosofando, filosofando, filosofando, filosofando,
filosofando, filosofando, filosofando, filosofando, filosofando,
filosofando, filosofando …
(Mimmo Rapisarda)
Domenico
Modugno era siciliano d’adozione:
l’omaggio al cantautore a 30 anni dalla sua scomparsa
Il 6 agosto
1994 il cantautore pugliese ma siciliano d'adozione Domenico Modugno ci
ha lasciati, proprio nella sua amata Lampedusa: non sono mancate nel
tempo le storie sul suo legame con la Sicilia.
Oggi, 6 agosto
2024, ricorrono trent’anni dalla scomparsa di Domenico Modugno, un
artista che ha lasciato un’impronta indelebile nella musica italiana e
che ha sempre avuto un legame speciale con la Sicilia.
Nonostante fosse nato a Polignano a Mare, in provincia di Bari, nutriva
infatti un profondo affetto per la nostra Isola, al punto da farsi
percepire siciliano di adozione. È proprio nella sua amata terra morì
nel ’94. In particolare, nella villa che aveva acquistato negli anni ’70
a Lampedusa che si affaccia sulla nota Spiaggia dei Conigli.
Quest’ultima è stata venduta nel 2020 e ad oggi appartiene a un resort.
Il legame tra
Domenico Modugno e la Sicilia non si limita tuttavia esclusivamente a
Lampedusa. Sua moglie, Franca Gandolfi, era infatti messinese di
origine, nata a Montalbano Elicona. La famiglia Gandolfi gestiva una
lavanderia nel villaggio Regina Elena e la donna frequentò il liceo
classico Giuseppe La Farina. La coppia spesso tornava in questi luoghi,
soprattutto per le vacanze estive. Il cantautore amava passeggiare nella
zona del Ringo, affacciata sullo Stretto, e suonare la chitarra
presso villa Mazzini, come ricordano alcuni testimoni. Negli anni ’50 e
’60, frequentò spesso anche Taormina, dove cantò la celebre “Resta cu’
me” in un giardino del Casinò. Negli anni ’80, Modugno si impegnò
attivamente nelle battaglie sociali in Sicilia, come quella per il
miglioramento delle condizioni dell’Ospedale Psichiatrico di Agrigento.
Questo impegno, insieme alla sua carriera musicale e politica, consolidò
il suo legame con l’Isola.
Il suo sentirsi
“siciliano per adozione” rifletteva dunque un legame profondo e sincero
con la nostra Isola. Per molto tempo, si diffuse persino una leggenda
sulle origini siciliane di Modugno. Questa convinzione popolare nacque
negli anni ’50, quando interpretò un soldato siciliano nel film “Carica
eroica” e continuò con le sue prime canzoni, che mescolavano dialetto
pugliese e siciliano. Il cantautore stesso non smentì immediatamente
questa voce, il che causò non pochi disappunti tra i suoi concittadini.
Nel 1993, durante un concerto a Polignano a Mare, mise una pietra sulle
questione, ironizzando: “Chiedo scusa, ma per la fame avrei anche d etto
di essere giapponese!“. Nonostante ciò, la Sicilia rimase una presenza
costante nella sua vita e nella sua arte, influenzando profondamente la
sua produzione musicale.
Domenico
Modugno attinse spesso alla tradizione siciliana per la sua musica. La
canzone “Malarazza“, pubblicata nel 1976, fu ispirata da una poesia
siciliana del 1857. Anche “Vecchio Frac“, una delle sue canzoni più
conosciute, ebbe eco siciliano, in quanto ispirata dalla figura del principe
Raimondo
Lanza di Trabia, presidente del Palermo Tra le numerose canzoni di
Modugno, “Lu Pisci Spada“ occupa un posto di rilievo per il suo forte
legame con la Sicilia e, in particolare, con Messina. Questa canzone,
intrisa di pathos drammatico
e romantico, racconta la storia di due pesci spada innamorati, separati
tragicamente dai pescatori. Il brano, cantato in siciliano con voce
accorata, è accompagnato da un suggestivo video girato in una feluca
nello Stretto di Messina, che immortala la caccia a questa specie. Il
cantautore fu ispirato dai racconti dei pescatori locali e creò una
narrazione che celebra l’amore e il sacrificio.
“Lu Pisci
Spada” non solo ebbe un grande successo, ma contribuì anche a rilanciare
la tradizione della pesca del pesce spada. La canzone divenne il centro
di documentari storici come “Tra Scilla e Cariddi” e “Lu tempu di lu
piscispada“, diretti da Vittorio De Seta, che evidenziarono il legame
profondo di Modugno con le tradizioni marinare di Messina.
A trent’anni
dalla sua scomparsa, Domenico Modugno continua a vivere nei cuori dei
siciliani e non solo. Le sue canzoni, intrise di passione e sentimento,
risuonano ancora oggi.
https://www.besicilymag.it/2024/08/arte-e-cultura/domenico-modugno-era-siciliano-dadozione-lomaggio-al-cantautore-a-30-anni-dalla-sua-scomparsa/
Lina
Wertmüller - Catania nel cuore
ORNELLA
SGROI - La Sicilia 26.7.2012
Lo
scrittore Henry Miller l'ha definita la migliore regista sul campo,
migliore di qualsiasi collega uomo. E in effetti, nel panorama della
regia al femminile, Lina Wertmüller ha scritto e diretto film che -
è il caso di Pasqualino Settebellezze (1975) con l'immancabile
Giancarlo Giannini - l'hanno portata ad essere la prima donna regista
candidata a ben quattro premi Oscar. Non solo per il miglior film
straniero, ma anche nelle sezioni principali: regia, sceneggiatura,
attore protagonista. Il prossimo 14 agosto compirà 86 anni e d è
pronta a festeggiare le sue nozze d'oro con il mestiere del cinema,
anche grazie ad un documentario diretto dal suo giovane assistente,
Valerio Ruiz, che per il film ha scelto un titolo già significativo:
Dietro gli occhiali bianchi. Il riferimento è all'accessorio che più
è caro alla signora Wertmüller, che dei suoi occhiali da vista ha
fatto praticamente un segno particolare da indicare nell'apposita voce
della carta d'identità.
"Sarà anche un viaggio attraverso i luoghi in cui Lina ha girato
i suoi film - racconta Ruiz - un'immersione nella storia del suo
cinema. E sarà un itinerario che in parte percorremo insieme, anche
se non voglio anticipare nulla sulle tappe. Posso dire, però, che
stiamo lavorando per venire anche in Sicilia".
Inconfondibile
con i suoi capelli sempre cortissimi, oltre che per le lenti sempre
sul naso, voce graffiante e volto austero, sguardo vivace e sorriso
pieno, la regista romana ha anche un nome impossibile da pronunciare
per intero - Arcangela Felice Assunta Wertmüller von Elgg Spanol von
Braueich in Job - lungo quasi quanto i titoli proverbiali dei suoi
film. "Il mio nome - ci spiega al telefono la signora Wertmüller
- unisce le mie origini paterne meridionali, divise tra Napoli, Puglia
e Basilicata, con quelle svizzere di mia madre legate a Zurigo. Io
sono molto romana, però".
Può essere, questo, uno dei motivi del suo interesse per il Sud,
argomento portante della sua cinematografia, dall'esordio de I
Basilischi a Mimì Metallurgico ferito nell'onore, Pasqualino
Settebellezze e via dicendo?
"Può darsi. La Sicilia è molto cara al mio cuore, è una terra
che amo particolarmente e mi piacciono molto i siciliani. In verità
il Meridione mi è caro tutto, non gli manca niente. Nei miei film ho
sempre legato il Sud al Nord, Catania e Napoli a Milano e Torino. È
questo incontro italiano che mi ha sempre interessato".
Cosa racconterebbe, oggi, dell'Italia?
"Non lo so davvero. L'Italia è sempre così tanto piena di cose,
che qualcosa mi inventerei. Aspettiamo un'idea, non appena l'avrò
gliela dirò (ride) ".
Lei ha un forte legame con Catania, dove ha girato Mimì metallurgico,
e conosce bene la tradizione tealtrale della città visto che ha
lavorato anche con attori del calibro di Turi Ferro. Che ricordo ha?
"Catania è il cuore teatrale della Sicilia. Penso ai grandi
attori che ha partorito, da Angelo Musco a Turi Ferro, Ida Carrara,
Tuccio Musumeci. È la patria degli attori e mi è tanto cara per
questo. E poi ci sono delle case bellissime e si parla una lingua
straordinaria. Parlo proprio del catanese, visto che in Italia i
dialetti cambiano ogni 3 chilometri. Quanto a Turi Ferro, ne sento
molto la mancanza".
Nella sua carriera ha fatto teatro, televisione - con Canzonissima, ad
esempio, di cui è stata autrice - radio, cinema, ha anche scritto dei
libri. Ha un linguaggio che predilige?
"Direi nessuno in particolare. In fondo sono la stessa cosa.
L'importante è avere qualcosa da raccontare, per il resto non importa
come la si racconta. Io devo molto a Enrico Job, che è stato mio
marito per quarant'anni e uno splendido compagno di lavoro (scenografo
e costumista di tutti i suoi film, ndr). Lui era nato per caso a
Napoli, ma era praticamente lombardo. Ed era un uomo di grande
cultura, un artista molto raffinato. Attraverso di lui ho imparato
tanto, soprattutto quella lunga linea che attraversa l'Italia di cui
parlavo. Tanto vicina all'Africa, a Sud. Tanto vicina alla Svizzera e
alla Francia,a Nord".
C'è, nella sua filmografia, un'opera a cui è più affezionata?
"Lei ha figli? Quando ne avrà, se qualcuno le chiederà qual è
il suo preferito, capirà che è una domanda cui non si può
rispondere. Per me è così con i miei film".
E di Mariangela Melato e Giancarlo Giannini, coppia strepitosa che Lei
ha regalato alla commedia grottesca italiana, tra lotte di classe
proletariato/borghesia e stereotipireinventati, cosa ci dice?
"Quello dello stereotipo è un concetto vago, tutto da
riscrivere. Quanto a Giancarlo e Mariangela, mi sono carissimi. Li amo
profondamente e spero di rilavorarci presto".
In questi cinquant'anni di carriera, c'è qualcosa che vorrebbe fare e
non ha ancora fatto?
"Almeno altri cinquanta film. E spero di continuare a fare questo
mestiere per altri cinquanta

Tuccio Musumeci: «Con
Mariangela fu un divertimento girare a Catania»
IL RICORDO DELL’ATTORE
CATANIA. Ognina, il santuario della Bambina, i
balconi terrazzati che si affacciano sul golfo. Le strade nere di
basalto lavico e poi il mare, azzurrissimo. Scorci di una città del
1972 che raccontano una delle più straordinarie pagine
cinematografiche di Mariangela Melato (Fiore) in Mimì Metallurgico,
ferito nell’onore, con Marcello Giannini per la regia di Lina
Wertmuller. Nel cast c’era un giovanissimo e baffuto Tuccio Musumeci,
che interpretava Pasquale, uno dei due amici comunisti di Mimì, che
oggi, a distanza di 40 anni, ricorda con nostalgia quegli anni e la
scomparsa prematura di Mariangela Melato.
«Ci divertimmo tantissimo. Era un altro cinema con veri registi e
attori autentici, che venivano dal teatro e recitavano con piglio e
sicurezza – ricorda Musumeci – A Catania girammo poche scene, allora
non si poteva lavorare bene sul montaggio ed era persino difficile
rivedere il girato, perché non c’erano strutture adeguate. Tutto il
materiale si andava a vedere da Ugo Saitta, che allora era l’unico a
Catania ad avere la saletta di doppiaggio. Tutto il resto si doveva
completare a Cinecittà».
Mariangela Melato lo colpì subito, a prima vista: «Era una donna
simpaticissima, dotata di grande senso dell’umorismo. Quando arrivò
in Sicilia vidi una ragazzina esile, minuta e neppure tanto bella,
ma la macchina da presa la trasformava. Era una vera e propria
bellezza cinematografica, che rendeva molto di più sul grande
schermo che nella vita privata». Per tutti, poi, c’era l’ostacolo
del dialetto. «Nessuno capiva bene le parole e Giannini, grandissimo
nel suo ruolo, alla fine riuscì a parlare perfettamente il catanese
grazie alle lezioni di Turi Ferro e all’ascolto dei dischi con le
mie canzoni». Le parole di Tuccio Musumeci lasciano trasparire un
po’ di malinconia: «Quel cinema non esiste più, mancano attori
preparati e i registi, forse è proprio per questo che Mariangela
scelse di dedicarsi al teatro».
Mariangela Melato avrebbe dovuto recitare al Teatro Verga di Catania
nel 2009, con L’anima buona del Sezuan di Brecht, spettacolo
inserito nel cartellone artistico dello Stabile. Ma il destino le fu
avverso. «Ci avvertirono della terribile malattia dell’attrice
proprio in quell’occasione – racconta il direttore artistico
Giuseppe Di Pasquale – nelle settimane successive le sue condizioni
migliorarono, ma lei non riuscì più a riprendere la tournée. Oggi
anche il nostro teatro piange la scomparsa di una grandissima
artista».
mariangela a Catania - «Con questo sole -
diceva - sembra d'essere a Miami»
Sabato 12 Gennaio 2013 Mario Bruno (La Sicilia)
Prima di essere la "brutta bottana industriale" di "Travolti da un
insolito destino nell'azzurro mare di agosto", Mariangela Melato era
stata una splendida Fiore, amante di Giannnini-Maddocheo,
nell'ottimo film "Mimì metallurgico ferito nell'onore", sempre
diretto da Lina Wertmuller e in gran parte, era il 1972, girato a
Catania.
Esilarante la scena che vedeva Mimì, Fiore e il loro
figlioletto, arrivare a Catania in gran segreto per non essere
scoperti dalla moglie di lui (Agostina Belli) e dal parentado. Per
evitare di farsi riconoscere, i tre "clandestini" attraversavano via
Etnea a bordo di un'auto con tendine coprivetri e tutti armati di
occhialoni neri (da ciechi più che da sole) compreso il pupo di
pochi mesi. Incontrammo Mariangela sul set catanese, durante una
pausa e ci colpirono subito il sorriso cordiale e l'allegria. Era
giovane, poco più che trentenne, bella ed esuberante.
Niente pose da
diva, niente supponenza, ma tanta spontanea cordialità verso tutti,
dalla Wertmuller al "ciakkista". «Per me che vengo dalle nebbie
milanesi - ci disse - Catania mi sembra Miami, con il sole e il mare
caraibico che vi ritrovate. E poi, i cannoli… me ne porterei, se
potessi, un camion su a casa mia! »

Altra scena memorabile è quella
girata davanti alla chiesa di Ognina, quando Mimì rivela
pubblicamente che sua moglie aspetta un figlio
dall'amante-finanziere e che anche quest'ultimo è cornuto perché la
sua grassa signora (l'attrice napoletana Elena Fiore) è incinta di
Mimì. «Questa è una scena molto teatrale - sottolineava la Melato -
che mischia il melodrammatico al comico specie con l'arrivo
inaspettato di Turi Ferro dal cipiglio minaccioso». E ci confessò,
Mariangela, di essere più attratta dal cinema: «Perché sul set mi
diverto, è tutto un gioco, una favola, mentre a teatro lo sforzo, la
concentrazione, l'impegno sono maggiori, devi soffrire ogni sera e
non puoi sbagliare perché sei nel mirino del pubblico. Davanti alla
macchina da presa invece sei più libero: se sbagli ripeti il ciak e
si accomoda tutto». Oltre che per i cannoli stravedeva per i
rigatoni alla Norma e per le fritturine di pesce. Parlava
velocemente, sempre spigliata, briosa, scherzava coi colleghi e i
tecnici, ovunque portava una ventata di buonumore alternando il suo
dialetto meneghino (con tanto di "pirla" e "pistola") a un catanese
maccheronico pieno di "mizzica" e "ciao ‘mpare".
Amarcord ciak alle Terme, la
"Palombella rossa" partì da Acireale
La Sicilia, 11/12/2016 - di
Gaetano Rizzo
Ricordi indelebili per centinaia di acesi
coinvolti sul set, in prevalenza come comparse
Acireale (Catania) - Il recente restauro del film “Palombella
rossa”, presentato all’ultima edizione del “Torino Film Festival”,
ha fatto riavvolgere il nastro dei ricordi a molti, in particolare
agli acesi, considerato che il set principale dell’opera, quasi per
intero, fu la piscina delle Terme “Santa Venera”.
Un aspetto,
questo, che parecchi - anche nella città di Aci e Galatea -
sconoscono e che vale la pena di ricordare partendo dall’antefatto.
Primavera del 1988. La Federazione italiana nuoto, interpellata da
Nanni Moretti, chiede a Pietro Nicolosi, presidente della Pozzillo,
gloriosa società pallanostica di Acireale, di mettere a disposizione
del regista la propria piscina. «In prima battuta - ricorda Nicolosi
- avevano “bussato” alla porta del Nervi (storica squadra genovese,
n.d.c.), ma l’operazione non era andata in porto; quindi,
dirottarono su Acireale».
Moretti, accompagnato dal produttore Angelo Barbagallo, suo socio
nella “Sacher film”, effettua un sopralluogo alle Terme “Santa
Venera” e resta favorevolmente impressionato, al punto da chiedere
di mettere subito “nero su bianco” ovvero di ottenere il via libera.
«Che, ovviamente, non esitiamo a concedergli - prosegue Nicolosi -
consapevoli del ritorno di immagine per Acireale». L’estate sta per
fare capolino quando nel parco delle Terme “Santa Venera” si
riversano centinaia di persone, in prevalenza giovani, che aspirano
a fare da comparsa. Trascorrono ore ed ore tra i viali alberati, in
attesa del ciak. Moretti è noto per essere un perfezionista e,
quindi, capita che le scene si ripetano anche decine di volte. «Non
a caso - osserva Pietro Nicolosi - le riprese durarono sino a
novembre, sebbene fosse previsto si dovessero concludere un mese e
mezzo prima». Tra gli attori anche un acese che già si è fatto
apprezzare su altri tra palcoscenici e set. Mario P atanè vive da
circa quattro anni a Roma quando Moretti lo chiama per interpretare
Simone, un giovane appartenente al movimento di “Comunione e
liberazione”, al suo primo lungometraggio. «Un’esperienza bellissima
- ricorda - ed anche faticosa. Moretti era molto esigente e, dunque,
i ritmi di lavoro erano davvero sostenuti».
Un rigore che, probabilmente, sarà servito a Mario Patanè, poi
capace di recitare persino con Vittorio Gassman nel film “La cena”,
di Ettore Scola, che gli valse il nastro d’argento come migliore
attore non protagonista.
Nel corso degli ultimi 30 anni ha lavorato per produzioni di
rilievo, ma quel “rigore” vissuto sul set di “Palombella rossa” non
lo dimenticherà mai, assieme alle emozioni.
Che, in parte, erano le stesse delle comparse, quasi tutte acesi, in
prevalenza ingaggiate per indossare i panni dei tifosi presenti
sulla tribuna della piscina delle Terme, per l’occasione ridotta
nelle dimensioni attraverso una serie di accorgimenti scenografici,
così da non richiedere la presenza di almeno 700 persone per
gremirla. Dalla tribuna alla vasca.
Nella foto sopra , Moretti è raffigurato tra due pallanotisti di
fazioni opposte, entrambi “pilastri” della Pozzillo dell’epoca e
oggi entrambi ingegneri, come il loro “patron” Pietro Nicolosi: a
sinistra del regista c’è Concetto Bosco, poi anche imprenditore, a
destra Sandro Paternò. E mentre la pellicola veniva impressa, ai
margini della piscina c’era il compianto Carlo Testa, trascorsi
apprezzabili da pallanonista, ma già medico affermato e riferimento
sanitario per tutta la produzione. Un ruolo di rilievo, dal punto di
vista scenico, venne affidato al castellese Mauro Maugeri
(accreditato tra gli attori), allenatore della Pallanuoto Acireale,
avversaria della Monteverde, nella quale militava lo stesso Moretti,
Michele Apicella nel film. Per alcuni mesi la piscina delle Terme di
Acireale fu il quartiere generale del regista romano, in gioventù
anche apprezzato pallanotista, con il “factotum” Nino D’Anna,
dipendente della Polisportiva Pozzillo “prestato” alla produzione,
pronto a risolvere ogni problema e a confrontarsi con le esigenze
del cast e delle centinaia di comparse.
Qualcuna tra loro fu anche “parlante”, come nel caso di Giuseppe
Costarelli, oggi stimato avvocato, all’epoca studente in
Giurisprudenza. «Volevamo sapere come sta» la richiesta formulata da
Costarelli ad un dirigente della Monteverde in relazione ad un
infortunio patito da Moretti. «Per il ruolo di comparsa - ricorda
l’avvocato Costarelli - si registrò un’autentica mobilitazione,
anche per via dei compensi che erano apprezzabili. Faticavamo
parecchio, comunque, perché si lavorava molto di notte. Furono
momenti indimenticabili perché tra molti, trascorrendo parecchie ore
assieme, si cementarono anche rapporti di amicizia che ancora durano
nel tempo». E di certo non è poco.
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