NON
QUALIFICATA ALLA FASE FINALE
ALCUNE PARTITE: 9-2-1930, Roma (AM)
Italia-Svizzera 4-2 Reti: 17’ e 19’ A. Poretti, 22’ Magnozzi,
26’ Orsi, 37’ e 39’ Meazza Italia: Combi, V. Rosetta, Caligaris,
Pitto, Ferraris IV, Castellazzi, Costantino, Giovanni Ferrari,
Meazza, Magnozzi, Orsi. Ct: V. Pozzo. Svizzera: Pasche, Wernli,
Ramseyer, Fässler, Spiller, De Lavallaz, Stelzer, Sturzenegger,
A. Poretti, Grassi, E. Fink. Ct: commissione tecnica della
Federazione. Arbitro: Gray (Inghilterra).
2-3-1930, Francoforte sul
Meno (AM) Germania-Italia 0-2 Reti: 53’ Baloncieri, 75’ Meazza
Germania: Stuhlfauth, Hagen, H. Weber, Knöpfle (Mantel),
Leinberger, Heidkamp, E. Albrecht, Szepan, Pöttinger, Frank, L.
Hoffman. Ct: O. Nerz. Italia: Combi, V. Rosetta, Caligaris,
Barbieri, Ferraris IV, Pitto, Costantino, Baloncieri, Meazza,
Magnozzi, Orsi. Ct: V. Pozzo. Arbitro: Ruoff (Svizzera).
6-4-1930, Amsterdam (AM)
Olanda-Italia 1-1 Reti: 24’ Baloncieri, 63’ Van den Broek
Olanda: Van den Meulen, Denis, Van Kol, Kools, De Wildt,
Breitner, Landaal, W. Tap, De Kreek, Van den Broek, Van den
Heijden. Ct: Glendenning. Italia: Combi, V. Rosetta, Caligaris,
Colombari, Ferraris IV, Pitto, Costantino, Baloncieri, Meazza,
Magnozzi, Orsi. Ct: V. Pozzo. Arbitro: Bauwens (Germania).
Le prima edizione della Coppa
del Mondo colloca già nel ruolo delle protagoniste le squadre
sudamericane che dimostrano di essere la scuola calcistica più
evoluta del momento. La finale fra argentini e uruguagi non è
che l'esatta ripetizione del duello olimpico di Amsterdam
1928Montevideo, circa 600.000 abitanti all'epoca, aveva preso
il nome da una vicina collinetta battezzata così da Magellano
nel 1520. La città era nata due secoli più tardi come cittadella
fortificata atta, ad evitare le infiltrazioni portoghesi dal
Brasile. Capitale di una nazione di quasi due milioni di
abitanti, Montevideo raccoglieva quasi un terzo della
popolazione ed era centro commerciale di notevole importanza
continentale dotata com'era di strutture portuali moderne per le
industrie che in essa si trovavano.
La situazione politica, Jean
Campisteguy presidente, era quella di un paese in crisi,
dall'economia in larga parte condizionata dal «martedì nero»
della borsa di New York dell'ottobre del '29 e con il
«socialismo di stato» imposto dal «Caudillo» Battle Ordonez nel
1911 che aveva meritato all'Uruguay l'appellativo di «Svizzera
del Sudamerica», incamminato verso il tramonto per la reazione
della parte conservatrice del partito «Colorado».
Il «Campeonato Mundial de
Futbol» impose una tregua al procedere della crisi e tutto il
popolo della «Banda Oriental» diede mano ai preparativi, per
dare la migliore immagine possibile della propria
organizzazione civile. Montevideo disponeva allora di due soli
stadi presentabili e livello internazionale, ma certamente non
adeguati ad accogliere le decine di migliaia di appassionati
che avrebbero voluto assistere alle imprese della «celeste».
«Prociros» e «Parque Central»
erano le canchas di Penarol e Nacional, due fra le massime
esponenti societarie di Montevideo e proprio dalla
insufficienza di questi impianti nacque l'idea di quello che
divenne poi l'Estadio Centenario costruito in cinque mesi a
ritmo serrato, con tre turni nelle 24 ore grazie a potenti
riflettori che rendevano possibile il lavoro notturno. Sarà
pronto solamente il 18 luglio, giorno dell'inaugurazione e del
debutto dell'Uruguay, le ultime rifiniture messe in opera
durante la notte precedente, in alcuni punti il cemento ancor
fresco era stato graffiato con le più strane scritte: «El Tito
ama a la Chonga»... «El Placo es loco» ...o interessati vaticini
«Uruguay campeon»...
http://www.storiedicalcio.altervista.org/1930-1_Prologo.html
CAMPIONE DEL MONDO
CT: Pozzo
P
Cavanna ·
P
Combi ·
P
Masetti ·
D
Allemandi ·
D
Caligaris ·
D
Monzeglio ·
D
Rosetta ·
C
Bertolini ·
C
Castellazzi ·
C
Ferrari ·
C
Ferraris IV ·
C
Meazza ·
C
Monti ·
C
Pizziolo ·
C
Varglien I ·
A
Arcari ·
A
Borel ·
A
Demaría ·
A
Guaita ·
A
Guarisi ·
A
Orsi ·
A
Schiavio ·
(colorata da Daniele
Romano)
|
27-5-1934, Roma (MO)
Italia-Stati Uniti 7-1 Reti: 18’ Schiavio, 20’ Orsi, 29’
Schiavio, 57’ Donelli, 63’ Giovanni Ferrari, 64’ Schiavio, 69’
Orsi, 90’ Meazza Italia: Combi, V. Rosetta, Allemandi, Pizziolo,
L. Monti, Bertolini, Guarisi, Meazza, Schiavio, Giovanni
Ferrari, Orsi. Ct: V. Pozzo. Stati Uniti: Hjulian, Czerkiewicz,
Moorehouse, Pietras, Gonsalves, Florie, Ryan, Nilson, Donelli,
Dick, McLean. Ct: Gadsby. Arbitro: Mercet (Svizzera). |
|
31-5-1934, Firenze (MO)
Italia-Spagna 1-1 d.t.s. Reti: 31’ L. Regueiro, 45’ Giovanni
Ferrari Italia: Combi, Monzeglio, Allemandi, Pizziolo, L. Monti,
Castellazzi, Guaita, Meazza, Schiavio, Giovanni Ferrari, Orsi.
Ct: V. Pozzo. Spagna: Zamora, Ciriaco, Quincoces, Cilaurren,
Muguerza, Fede, Lafuente, Iraragorri, Langara, L. Regueiro,
Gorostiza. Ct: D.A. Garcia Salazar. Arbitro: Baert (Belgio). |
|
1-6-1934, Firenze (MO)
Italia-Spagna 1-0 Rete: 12’ Meazza Italia: Combi, Monzeglio,
Allemandi, Ferraris IV, L. Monti, Bertolini, Guaita, Meazza,
Borel II, Demaria, Orsi. Ct: V. Pozzo. Spagna: Nogues, Zabalo,
Quincoces, Cilaurren, Muguerza, Lecue, Ventolra, L. Regueiro,
Campanal, Chacho, Bosch. Ct: D.A. Garcia Salazar. Arbitro:
Mercet (Svizzera). |
|
3-6-1934, Milano (MO)
Italia-Austria 1-0 Rete: 19’ Guaita Italia: Combi, Monzeglio,
Allemandi, Ferraris IV, L. Monti, Bertolini, Guaita, Meazza,
Schiavio, Giovanni Ferrari, Orsi. Ct: V. Pozzo. Austria: Platzer,
Cisar, Sesta, Wagner, Smistik, Urbanek, Zischek, Bican, Sindelar,
Schall, Viertl. Ct: H. Meisl. Arbitro: Eklind (Svezia). |
Pubblico ora il primo di tre articoli a
firma Matteo Bodei riguardanti le vittorie italiane ai Mondiali
di calcio. Il primo appuntamento è con il Mondiale del 1934, diisputato nell'Italia fascista e vinto non senza polemiche
arbitrali dagli azzurri di Vittorio Pozzo. Prima dell'inizio di
Sudafrica 2010 le altre due puntate (1938 e 1982, mentre per il
2006 il ricordo è ancora troppo vivo per essere raccontato in un
post). Ringrazio Matteo Bodei, come sempre documentato e
bravissimo nell'intrecciare la parte sportiva e quella
storico-politica.
La seconda edizione dei Mondiali di
calcio, la manifestazione voluta e creata dal francese Jules
Rimet, presidente della Fifa dal 1921 al 1955, verrà ricordata
ai posteri per almeno tre motivi: fu la prima edizione svoltasi
in Europa (dopo Uruguay 1930), fu la prima vittoria di una
formazione europea e fu il trionfo assoluto del fascismo.
Benito Mussolini infatti aveva voluto
fortemente ottenere un evento di risonanza planetaria come il
Mondiale di calcio e l’ aveva fatto esclusivamente per due
ragioni: dimostrare al resto del mondo la forza e la potenza
organizzativa di una nazione come l’ Italia e aggregare le masse
sotto un’ unica bandiera, ritenendo il football un utile
strumento per favorire l’ unità nazionale.
Alla fase finale, svoltasi dal 27 maggio
al 10 giugno, parteciparono 16 nazioni. 12 europee (Italia,
Austria, Belgio, Cecoslovacchia, Francia, Germania, Olanda,
Spagna, Romania, Svizzera, Svezia e Ungheria), 3 americane (Usa,
Argentina e Brasile, l’ Uruguay campione in carica si rifiutò di
partecipare per protesta) e una africana (l’ Egitto). Le otto
città prescelte per ospitare le gare furono: Roma, Torino,
Bologna, Firenze, Genova, Napoli, Milano e Trieste)
Il cammino degli azzurri, all’ inizio
sfavillanti con il 7 a 1 rifilato ai malcapitati Usa (3 reti del
bolognese Schiavio), però non fu così facile e venne
accompagnato da un feroce alone di polemiche sugli arbitraggi
favorevoli.
La squadra di Vittorio Pozzo comunque era
una formazione composta da autentici fuoriclasse (come
dimostreranno in seguito la vittoria alle Olimpiadi del ’36 e
ai mondiali del ’38) in cui spiccava il blocco juventino (Combi,
Monti, Bertolini, Orsi, Borel e Giovanni Ferrari), che aveva
dominato il campionato nazionale per ben 5 anni consecutivi
(record tuttora imbattuto e solo eguagliato dall’ Inter post
calciopoli), e dove trovavano posto campioni del calibro del
“biondino di Borgo Pio” cioè il mediano romano Attillio Ferraris,
del “Balilla” Giuseppe Meazza, leggenda dell’ Inter a cui è
stato addirittura intitolato lo stadio della cittadina lombarda,
e del bolognese Angelo Schiavio (capocannoniere degli azzurri
con quattro reti).
Dopo il facile successo sui malcapitati
Stati Uniti, ben più arduo fu eliminare la Spagna nei quarti di
finale. Gli iberici, che avevano sconfitto nel turno precedente
il Brasile del grande Leonidas, il giocatore che aveva inventato
il gesto tecnico della “bicicleta”, potevano vantarsi di
schierare tra i pali uno dei portieri più famosi di tutti i
tempi, quel Ricardo Zamora che nel 1929, in occasione di una
partita tra le Furie Rosse e i maestri inglesi, giocò e
contribuì indiscutibilmente alla vittoria, nonostante si fosse
rotto lo sterno dopo pochi minuti. Il derby del Mediterraneo
terminò sull’ 1 a 1 con gol del madridista Regueiro e pareggio
irregolare (per un evidente carica su Zamora) del sabaudo
Giovanni Ferrari (il giocatore con il record di scudetti vinti
in carriera: 5 con la Juve, 2 con l’ Ambrosiana Inter e 1 col
Bologna). Siccome non vigeva ancora la regola dei rigori l’
incontro si dovette ripetere e nel replay, giocato allo stadio
comunale di Firenze, fu un gol di “Pepin” Meazza a regalare ai
padroni di casa il pass per le semifinali.
Nel penultimo atto della manifestazione
disputatosi a San Siro contro l’ Austria, e condito da aspre
polemiche sull’ arbitraggio del fischietto svizzero Mercet da
parte dell’ allenatore asburgico, fu un gol (irregolare) dell’
oriundo Enrique Guaita (che nel 1936 fuggi, dopo un
viaggio-odissea, in Argentina per evitare una sua eventuale
partecipazione alla Guerra di Eritrea) a portare gli azzurri
alla tanto agognata finalissima contro la temibile
Cecoslovacchia della Scarpa d’ Oro Oldrich Nejedly.
Nell’ atto conclusivo ,disputatosi allo
stadio del Partito Nazionale Fascista di Roma davanti a
cinquanta mila spettatori e alle più alte autorità del mondo
politico italiano, la formazione del torinese Vittorio Pozzo
faticò tremendamente per avere ragione della temibile squadra
dell’ est. Furono infatti i cecoslovacchi a passare in vantaggio
per primi con un gol del giocatore dello Sparta Praga Antonin
Puc e solo a nove minuti dal termine Raimundo Bibian Orsi (l’
oriundo con più presenze e reti con la maglia azzurra) detto
“Mumo” regalò un pareggio ormai inaspettato. Nei tempi
supplementari poi ci pensò Schiavio (alla sua ultima presenza
con la Nazionale) che realizzò il gol che valse uno storico
trionfo. Il primo di una lunga serie che speriamo non si
interrompa a Sudafrica 2010.
Matteo Bodei
http://simonesalvador.blogspot.com/2010/05/italia-campione-del-mondo-il-mondiale.html#sthash.pCxym5ae.dpuf
GIAMPIERO COMBI.
Nato
a Torino, il 20 novembre 1902, milita esclusivamente nelle file
della Juventus. Portiere di grande classe, Combi è una delle
colonne della squadra che domina per tanti anni in Italia. Con i
bianconeri vince cinque volte il Campionato d’Italia: nel 1926,
nel 1931, nel 1932, nel 1933 e nel 1934, totalizzando 367
presenze. Forma con Rosetta e Caligaris il più famoso terzetto
di difesa che sia mai esistito. Di media statura per quell’epoca
(171 centimetri), muscolato in modo meraviglioso, ha una
struttura fisica robustissima. È detto fusetta, che in dialetto
piemontese significa lampo, petardo.
Al termine della stagione
1924-25: «Voleva quasi lasciare – racconta il fratello Maurizio
– lui rappresentava la parte commerciale della nostra
distilleria di liquori e doveva partire per l’America. Ne parlò
alla Juventus e così diventò professionista. Ha avuto la prima
macchina ed è diventato grandissimo. Io mi ero dato al
canottaggio.
Mi attirava quella disciplina seria, e ho vinto due
titoli italiani; ma mio fratello è stato un vero campionissimo.
Ha giocato con tre costole incrinate, dopo una partita con il
Modena; con la Cremonese ha giocato con la vertebra coccigea
incrinata, stava appoggiato al palo e interveniva quando era
necessario. Non voleva perdere il posto, si preoccupava sempre
di perderlo.
Forse più si è bravi meno si è sicuri di esserlo.
Ha giocato anche con l’itterizia, tutto fasciato, nel gran
freddo; ha giocato con i polsi e le dita e la faccia scassati;
ha giocato».
In un Juventus-Bologna, fa
una parata incredibile: Angelo Schiavio, che è un fuoriclasse,
un grandissimo campione e un gentiluomo, si presenta da solo
davanti a lui. Lo stadio piomba in un silenzio angoscioso,
allucinante; i due grandi campioni si guardano negli occhi e
Schiavio, con una finta, indirizza la palla nell’angolo, alla
sinistra di Combi, il quale intuisce il tiro e, con un gran
balzo, respinge a pugni chiusi.
L’attaccante felsineo è di nuovo
sul pallone e, senza aspettare un istante, tira ancora,
esattamente nello stesso angolo di prima, dove Giampiero è
rimasto ad aspettare la palla, per bloccarla comodamente. Combi,
giocatore di rara intelligenza, aveva capito che Schiavio,
vedendolo a terra nell’angolino sinistro, avrebbe creduto che si
sarebbe buttato dall’altra parte, dove ogni altro giocatore al
mondo, all’infuori di Schiavio, avrebbe indirizzato il pallone.
E, contrapponendo l’astuzia all’astuzia, era rimasto fermo,
sicuro della mossa dell’attaccante bolognese, il quale, non
appena Combi si alzò da terra, corse subito a stringergli la
mano.
(colorata da Daniele
Romano)
Giocatore dotato di grande
serietà e dirittura morale, è senza alcun dubbio uno dei
migliori portieri che abbia prodotto il calcio italiano.
Conclusa la sua vita di calciatore, Combi diventa dirigente. Il
suo giudizio è competente e ponderato, fatto di tanto buon senso
e tanta esperienza. Mai un apprezzamento azzardato, mai una
valutazione che non fosse ben pensata. Nel consiglio direttivo
della Juventus porta la sua saggezza, la sua onestà. Viene anche
chiamato alla direzione della squadra nazionale con Busini e
Beretta in un periodo agitato della vita calcistica.
La morte lo coglie nel 1956
mentre coopera con Umberto Agnelli a risollevare i destini della
Juventus: anche grazie a lui e ai suoi preziosi servigi, la
squadra bianconera rivedrà, in poco tempo, le stelle.
http://ilpalloneracconta.blogspot.it/2007/11/giampiero-combi.html
(colorata da Daniele
Romano)
CAMPIONE DEL MONDO
CT: Pozzo
P
Ceresoli ·
P
Masetti ·
P
Olivieri ·
D
Foni ·
D
Monzeglio ·
D
Rava ·
C
Andreolo ·
C
Chizzo ·
C
Donati ·
C
Ferrari ·
C
Genta ·
C
Locatelli ·
C
Meazza ·
C
Olmi ·
C
Perazzolo ·
C
Serantoni ·
A
Bertoni ·
A
Biavati ·
A
Colaussi ·
A
Ferraris II ·
A
Pasinati ·
A
Piola
|
5-6-1938, Marsiglia (MO)
Italia-Norvegia 2-1 d.t.s Reti: 2’ Ferraris II, 83’ Brustad, 94’
Piola Italia: A. Olivieri, Monzeglio, Rava, Serantoni, Andreolo,
Locatelli, Pasinati, Meazza, Piola, Giovanni Ferrari, Ferraris
II. Ct: V. Pozzo. Norvegia: H. Johansen,
Johannessen, Holmsen, Henriksen, Eriksen, Holmberg, Frantzen,
Kvammen, Brynhildsen, Isaksen, Brustad. Ct: Halvorsen.
Arbitro: Beranek (Germania). |
|
12-6-1938, Parigi (MO)
Italia-Francia 3-1 Reti: 9’ Colaussi, 10’ Heisserer, 52’ e 72’
Piola Italia: A. Olivieri, Foni, Rava, Serantoni, Andreolo,
Locatelli, Biavati, Meazza, Piola, Ferrari G., Colaussi. Ct: V.
Pozzo. Francia: Di Lorto, Cazenave, Mattler, Bastien, Jordan,
Diagne, Aston, Heisserer, J. Nicolas, Delfour, Veinante. Ct: G.
Barreau. Arbitro: Baert (Belgio). |
|
16-6-1938, Marsiglia (MO)
Italia-Brasile 2-1 Reti: 5’ Colaussi, 60’ Meazza rig., 87’ Romeu
Pelliciari Italia: A. Olivieri, Foni, Rava, Serantoni, Andreolo,
Locatelli, Biavati, Meazza, Piola, Giovanni Ferrari, Colaussi.
Ct: V. Pozzo. Brasile: Walter, Domingos da Guia, Machado, Zezé
Procopio, Martim Silveira, Alfonsinho, Lopes, Luisinho, Romeu
Pelliciari, Peracio, Patesko. Ct: A. Pimenta. Arbitro: Baert
(Belgio). |
1938: la finale Premiata ditta del gol
Biavati-Piola
I tre giorni di riposo nel sobborgo
parigino di Saint Germain hanno giovato agli azzurri, che vanno
in campo con grande concentrazione, assumendo subito il
controllo del gioco. Si gioca di nuovo nel sobborgo parigino di
Colombes, davanti a 50 mila persone.
Tra gli ungheresi manca il
centromediano Turay, infortunatosi contro la Svezia, mentre
Toldi è stato sostituito per motivi tattici con Vincze.
Colaussi porta sollecitamente in vantaggio
l’Italia, su cross dal fondo di Biavati trasformato in assist da
Piola. L’Ungheria pareggia nel giro di due minuti, su bellissima
azione di Sarosi e conclusione di Titkos.
La bilancia del gioco,
tuttavia, è assolutamente pendente dalla parte dell’Italia.
Splendido il raddoppio di Piola: Biavati sfonda a sinistra, il
suo cross rasoterra viene intercettato da Piola che tocca a
Ferrari, allungo sulla destra per l’accorrente Andreolo, doppio
dribbling e palla al centro per Piola che stoppa e infila
all’incrocio dei pali.
Una ventina di minuti dopo un magnifico
tiro a effetto di Colaussi, lanciato da Meazza, pare chiudere il
conto. Nella ripresa, invece, dopo un palo di Biavati, Sarosi
dal limite accorcia le distanze.
La Nazionale azzurra, però, è
troppo superiore e Piola dopo dieci minuti trasforma l’ennesimo
traversone del formidabile Biavati in un tiro nell’angolo che
inchioda il portiere Szabo. E’ l’apoteosi: per la seconda volta
consecutiva la Coppa del Mondo va all’Italia, applauditissima
dal pubblico locale, conquistato dalla qualità del suo calcio.
Francia 1938: l’Italia in
camicia nera vince il suo secondo mondiale
Valerio Benedetti - 13 giugno 2014.
Roma, 13 giu – Come abbiamo già potuto
constatare qui sul Primato, l’80° anniversario della vittoria
degli azzurri ai Mondiali di calcio del 1934 è purtroppo passato
sotto silenzio. Eppure la materia si presentava assai
interessante, sia perché in quell’occasione si consacrò
definitivamente una delle nazionali più forti di tutti i tempi,
sia perché allora si manifestò tutto lo spirito combattivo,
generoso e audace dei calciatori italiani. Pensiamo solo alla
finale contro la Cecoslovacchia, vinta dai padroni di casa
all’ultimo respiro, giocando buona parte della partita
praticamente in 10 a causa dell’infortunio di Angelo Schiavio
(al tempo le sostituzioni non esistevano). Eppure, nonostante il
dolore, il centravanti del Bologna restò stoicamente in campo,
segnando addirittura la rete decisiva nel primo tempo
supplementare, quella che passò alla storia come il «gol dello
zoppo». Insomma, di cose da raccontare e da ricordare ce
n’erano, ce n’erano eccome. Ma la presenza ingombrante di
Mussolini sugli spalti deve aver frenato la penna e raffreddato
gli animi anche dei più fervidi appassionati di calcio.
E se già il trionfo azzurro del ’34 si
presenta come «politicamente scorretto», possiamo appena
immaginare che cosa si avrebbe da dire o pensare del bis ai
Mondiali francesi del ’38. Tanto più che la situazione politica
del tempo si presentava ancor più incandescente: l’Italia,
malgrado le sanzioni della Gran Bretagna e proprio della
Francia, si era da poco conquistata il suo impero africano, il
Wunderteam austriaco era stato assorbito dalla compagine tedesca
così come l’Austria era stata annessa alla Germania
nazionalsocialista, mentre la nazionale spagnola doveva dare
forfait a causa dell’infuriare della sanguinosa guerra civile in
cui, peraltro, italiani e francesi si affrontavano su opposte
barricate. Quest’atmosfera politica particolarmente tesa,
quindi, non poteva che avere ripercussioni anche sulla più
importante kermesse calcistica del globo.
Partiamo per Marsiglia – racconterà in
seguito l’allenatore –, dove ci attende la Norvegia. E qui
piombiamo subito in piena tempesta. La partita viene avvolta
immediatamente in uno sfondo polemico-politico. Nello stadio
sono stati portati circa diecimila fuorusciti italiani,
coll’intenzione e l’ordine di avversare al massimo la squadra
azzurra. Il momento critico è quello del saluto: quando i
giuocatori nostri alzeranno la mano per salutare alla moda
fascista, deve scoppiare il finimondo. Io vengo avvisato di
quanto ci attende. È una sfida diretta al nostro temperamento,
al nostro carattere.
Come comandante so con precisione quale sia
il mio, il nostro dovere. Vado in campo colla squadra,
ordinata alla militare, e mi pongo sulla destra. Al saluto, ci
accoglie come previsto una bordata solenne ed assordante di
fischi, di insulti e di improperi. Pare di essere in Italia
tanto le espressioni a noi rivolte echeggiano nell’idioma e nei
dialetti nostri. Ad un dato punto il gran fracasso accennò a
diminuire, poi cessò. Ordinai l’attenti. Avevamo appena messo
giù la mano, che la dimostrazione riprese violenta. Subito:
«Squadra, attenti! Saluto». E tornammo ad alzare la mano, come
per confermare che non avevamo paura.
La partita, nonostante le previsioni, non
fu agevole e ci vollero i tempi supplementari per aver ragione
degli scandinavi. In ogni caso l’Italia si qualifica ai quarti
di finale, proprio contro i padroni di casa. A Parigi
l’accoglienza è fredda e ostile, come c’era da aspettarsi, tanto
che Pozzo dovette caricare i suoi col motto «contro tutto e
contro tutti». A ulteriore dimostrazione della totale mancanza
di timore, l’Italia si presenta contro i Bleus in maglia nera,
alla fascista (l’azzurro invece fu in principio il colore di
omaggio ai Savoia). La stampa francese, dal canto suo, non
faceva che ripetere che l’Italia aveva trionfato nel ’34 grazie
a favori arbitrali, perché quelli dovevano essere i «Mondiali di
Mussolini». Insomma, stava ora ai transalpini ribaltare i ruoli
e dar lezioni di calcio alla squadra campione del mondo, delle
Olimpiadi (1936) e delle due ultime edizioni della Coppa
Internazionale (1930 e 1935), antenata degli Europei. La
partita, però, si sviluppa a senso unico: se la Francia tiene
testa ai ragazzi di Pozzo nei primi minuti, soprattutto nella
ripresa l’Italia si impossessa del gioco e schiaccia la
retroguardia avversaria. Poi sale in cattedra Silvio Piola:
doppietta e pratica archiviata. Finisce 3-1.
In semifinale ci aspetta il Brasile, che
viene dato per favorito. I verde-oro si erano addirittura
permessi il lusso e l’arroganza di acquistare in anticipo i
biglietti aerei per Parigi, dove si sarebbe disputata la finale.
Il tecnico carioca inoltre, certissimo del successo, lascia
riposare in panchina il fuoriclasse Leonidas, soprannominato il
«diamante nero» nonché capocannoniere del torneo. Ma le cose non
vanno per il verso giusto: la tattica «metodista» di Pozzo
imbriglia i funamboli brasiliani, che non riescono a
impensierire più di tanto la difesa italiana. Poi Colaussi porta
in vantaggio gli azzurri, che poco dopo possono beneficiare di
un calcio di rigore. Si appresta a battere Meazza, la stella
della squadra. Ma, proprio al momento del tiro, gli si rompe
l’elastico dei pantaloncini, e il capitano della nazionale
rischia così di rimanere in mutande. Nonostante tutto, tenendosi
con una mano i malconci calzoncini, il «Balilla» realizza il
tiro dagli 11 metri. La rincorsa è goffa ma il risultato non
cambia: 2-0. I verde-oro si riversano quindi in attacco,
riuscendo nel finale ad accorciare le distanze, ma la vittoria
arride all’Italia. Non manca neanche la «rosicata» finale dei
brasiliani: pregati da Pozzo di cedere i biglietti aerei ai suoi
giocatori, i carioca rifiutano stizziti, sicché gli azzurri
dovranno raggiungere Parigi in un treno affollatissimo e con
carenza di cuccette.
Era una squadra devastante, quella
italiana del ’38, una vera corazzata. Guidata dal «tenente»
Pozzo, l’alpino che allenava la squadra con stile militaresco
(inventò lui i «ritiri»), illuminata dal genio e dalla tecnica
sopraffina di Meazza, micidiale nelle ripartenze di Amedeo
Biavati, ala destra famosa per il suo «doppio passo», e
inesorabile nel centravanti Piola, l’attaccante più prolifico
nella storia del calcio italiano. Proprio Piola e Meazza
descrivono al meglio le due anime della nazionale. Se il
piemontese Piola si distingueva infatti per rigore, frugalità e
riservatezza, il milanese Meazza era invece un vero viveur, Don
Giovanni di chiara fama e festaiolo impenitente. La bellezza di
quell’Italia sta anche qui, in questi uomini dai caratteri così
diversi che però, una volta in campo, combattevano e vincevano
insieme, come un sol corpo. La creazione di un forte spirito di
squadra, non a caso, fu la costante preoccupazione di Pozzo e,
quindi, anche il suo successo. Il più grande ciclo del calcio
italiano si fondava pertanto su questi irrinunciabili princìpi
sportivi: agonismo, coralità, tenacia, generosità, disciplina e
aiuto reciproco.
Non può quindi sorprendere che la
«squadra di Mussolini» abbia poi vinto anche la finale. A Parigi
infatti, contro l’Ungheria, finisce 4-2. Ma il risultato non
rende adeguato conto dello sviluppo della partita, che vide
invece un predominio quasi assoluto degli azzurri. Il palleggio
elegante della compagine magiara, antenato del tiqui-taca, viene
infatti presto sopraffatto dalla mediana italiana. Il gol del
2-1 poi, che si può ancora ammirare in filmati d’epoca che
girano su youtube, fu un vero capolavoro: fitta rete di passaggi
nell’area avversaria e bordata conclusiva di Piola. E alla fine
della partita, nonostante i pregiudizi politici, fu tutto lo
stadio ad applaudire in piedi i campioni del mondo. Che vinsero
contro tutto e contro tutti.
Valerio Benedetti
Valentino Mazzola esordisce in nazionale
quando milita ancora nel Venezia. Il 5 aprile 1942, a Marassi,
contro la Croazia - stato fantoccio emerso dopo la dissoluzione
del Regno -, che in realtà schiera l'XI del Građanski di
Zagabria.
Il match è di palese valore propagandistico. In ritiro a
Chiavari, gli azzurri "si sono recati a visitare i feriti di
guerra degenti in un ospedale della cittadina intrattenendosi a
lungo amichevolmente con essi"; il loro spirito "è, come al
solito, elevato" (Monsù Poss). Sul campo non hanno problemi,
anche se si gioca tra vento e acquazzoni. "Mazzola ha stentato a
trovare l'equilibrio in corsa sul terreno e, più ancora, a
svincolarsi dalla guardia di cui era fatto oggetto. Alla
distanza però è venuto fuori", e il suo ultimo quarto d'ora è
stato "a spron battuto" (Eugenio Danese). Valentino è un
campione, quando finirà la guerra diventerà il capitano, e
giocherà in nazionale per tanti e tanti anni, pensano tutti
coloro che hanno il tempo di pensare al football.
http://eupallog-calendario.blogspot.it/2014/04/5-aprile.html
L'ITALIA DEL GRANDE TORINO
Un record. Mai prima di
allora e mai più dopo alcuna altra rappresentativa azzurra si
era e si sarebbe identificata in una sola squadra. Nel 1933,
ancora Ungheria-Italia, ma a Budapest, lo stesso commissario
tecnico Pozzo era arrivato a schierare 9 juventini.
Nel 1913 era stata la Pro
Vercelli a fornire 9 uomini alla Nazionale. Altrettanti della
Juventus sarebbero poi stati messi in campo da Bearzot nel
Mondiale 1978; e
avrebbero
giocato 9 della Fiorentina nel 1957 e 9 dell’Inter nel 1966. Fu
un primato inedito, quello del Toro-azzurro 1947, che contribuì
a dare fama continentale ai ragazzi di Ferruccio Novo:
sintetizzava la superiorità schiacciante di una squadra nel
Paese che deteneva da 13 anni (1934) il titolo di campione del
Mondo. Ed è per questa prerogativa che oggi, anche all’estero,
si ricorda la scomparsa del Grande Torino. Ma come si giunse a
questo straordinario record? Per puro caso, si potrebbe dire. E
dunque vale la pena ricordare nei dettagli l’intera storia.
Il Torino, lo sapete, è la
squadra che domina il campionato italiano negli anni a cavallo
della grande guerra. Sicché il vecchio CT Pozzo non trova di
meglio, alla ripresa dell’attività internazionale, che
ricostruire la Nazionale attorno al blocco granata: ne schiera
sette (più Sentimenti IV, Parola, Biavati e Piola) contro la
Svizzera nel 1945. Cercando altre soluzioni, nel 1946 a Milano
contro l’Austria ne manda in campo “soltanto” cinque, accanto a
cinque juventini e a Biavati del Bologna (l’inventore del
“passo doppio” che oggi pratica Ronaldo). Poiché la stampa
critica lo scarso amalgama di quella Italia, nel 1947 Pozzo
rompe gli indugi e in aprile contro la Svizzera sceglie 9 del
Torino più gli juventini Sentimenti IV e Parola, lasciando a
casa Rava, Biavati e Piola. Questa volta l’amalgama c’è, tant’è
vero che gli elvetici vengono travolti per 5-2, con tripletta
del debuttante Menti II.
La critica però si fa ancora
sentire, e questa volta per ragioni geopolitiche. Scrive il
Guerino: “Diciannove squadre che pure partecipano alla vita del
campionato hanno il diritto di sentirsi offese da un
‘esclusione aprioristica. E oltretutto la situazione diventa
gravosa per il Torino che lavora nella domenica in cui gli altri
riposano”. Due settimane dopo c’è il match con l’Ungheria, a
Torino, un test decisivo per valutare l’effettiva consistenza
dell’Italia. L’equivoco rimane. Per Pozzo l’Italia è la squadra
granata: ci potranno essere alcune individualità migliori di
alcuni torinisti ma per il vecchio alpino è il gruppo che conta.
Altri sostengono che per valutare le risorse dell’Italia sarebbe
bene presentare una Nazionale a mosaico. Pozzo non sente
ragione ed è intenzionato a far giocare i 9 torinisti più i
soliti Sentimenti IV e Parola. E qui il caso ci mette lo zampino
per far diventare “storica” quella partita con l’Ungheria.
Carlo Parola, mediano
centrale della Juve, è convocato per sabato 10 maggio a Glasgow,
unico italiano del Resto del Continente contro la Gran
Bretagna. Parola è indeciso: in maglia azzurra non ha mai
giocato a Torino, dove la domenica 11 è in programma la
partita dell’Italia con l’Ungheria. E d’altra parte non può
rinunciare a una convocazione europea. Con Pozzo si accorda per
un exploit inedito: il sabato gioca a Glasgow e la domenica a
Torino. Parola parte per la Scozia assieme a Barassi,
presidente della Federcalcio. L’accordo è che Pozzo li
raggiungerà il sabato con un aereo militare, un S-74 a sei
posti, preso a nolo per 400 mila lire, assisterà alla partita e
subito dopo riporterà il giocatore juventino nel ritiro azzurro
di Cuneo. Il cittì tiene molto a farsi vedere a Glasgow: la Fifa
ha incaricato un gruppo di tecnici europei di costruire la
formazione continentale, lui che ha vinto gli ultimi due
Mondiali e un’Olimpiade e che inoltre è poliglotta non è nemmeno
stato interpellato né invitato. Dunque vuole imporre la propria
immagine a quelli della Fifa.
Non se ne farà niente però,
di quel viaggio: la Francia non concede alla nostra aeronautica
militare l’autorizzazione a sorvolare il suo territorio per
ritorsione al fatto che pochi mesi prima a un aereo transalpino
atterrato in emergenza in Basilicata era stato negato il
rifornimento. Parola dunque gioca a Glasgow, perde 6-1 (ma sarà
premiato quale protagonista dell’incontro) e resterà lì ad
aspettare invano Pozzo. Il quale, costretto a rinunciare al
centrosostegno juventino, decide di far debuttare in azzurro un
altro torinista: Mario Rigamonti, 24 anni.
Ed ecco l’Italia con 10
granata, il record assoluto: l’estraneo è Sentimenti IV, lo
juventino di Bomporto capace di parare e tirare i rigori; gli
altri sono, in rigoroso ordine numerico e divisi per reparti
dal tradizionale punto e virgola: Ballarin, Maroso; Grezar,
Rigamonti, Castigliano; Menti II, Loik, Gabetto, Mazzola,
Ferraris II. Italia-Ungheria dell’11 maggio 1947 sarà in pratica
Torino-Ujpest, in quanto anche l’Ungheria ricorre a un
“blocco”: schiera 9 giocatori della squadra campione
nazionale, uno dei due estranei è il giovane e promettente
Puskas della Honved. Non sarà una bella partita: il “sistema”
torinista e di Pozzo, vecchia maniera, stenta contro il “metodo”
dei magiari che mettono in crisi i nostri con l’applicazione
sistematica del fuorigioco. In più i granata-azzurri paiono
avere le gambe pesanti e il cervello annebbiato.
Va in vantaggio l’Italia con
Gabetto che, lanciato da Mazzola, scarta il portiere Toth e
trascina la palla in rete andando poi a sbattere la testa contro
un palo. Pareggia nella ripresa Szusza ma è ancora il “barone”
granata a portare in vantaggio l’Italia: fuga sulla destra di
Castigliano, tiro sul palo, riprende Gabetto, gol. Sei minuti
dopo però Ballarin devia con una mano un pallone proveniente
dal corner: rigore per l’Ungheria, che Puskas trasforma per il
2-2. Ci si avvia alla fine stancamente, la gente sfolla già,
quando c’è il gol della vittoria azzurra: da Mazzola a
Castigliano e a Loik libero sulla destra: tiro, la palla sbatte
alla base del palo di sinistra, rimbalza sul palo di destra,
entra in rete, gol. È l’89’: gol della vittoria in “zona
Cesarini”. Tu guarda le coincidenze! Questa espressione, Zona
Cesarini, era stata coniata il 13 dicembre 1931, a Torino, di
fronte Italia e Ungheria, stessa sequenza di gol e rete vincente
all’89’ di Renato Cesarini, numero 8 come Loik. Che alla fine
piange di gioia mentre la gente impreca alla brutta esibizione
della Nazionale-Torino.
Non saranno teneri con
Pozzo, i giornali del giorno dopo. “Non bisogna insistere nel
mettere il Torino in Nazionale, questo esperimento ha esaurito
la sua funzione. Era stato preso il Torino perché squadra ma
sono mancati i collegamenti e la precisione, il risultato è
frutto di prodezze individuali e non del collettivo“. Pozzo, che
è anche giornalista, replica stizzito e ne fa solo una
questione di condizione fisica. Scrive in un editoriale sul
Calcio Illustrato: “L’undici azzurro è stato l’ombra di quello
che era stato 15 giorni fa a Firenze. Squadra nervosa,
imprecisa, incapace di giocare con calma e serenità. Parecchi
fra gli uomini che la compongono sì stanno avvicinando al
limite delle loro possibilità fisiche”.
Però Pozzo vorrà assecondare
i critici. Contro l’Austria, in novembre chiamerà solo tre del
Torino e l’Italia beccherà un memorabile 5-1. Un mese dopo,
avuta la sua soddisfazione, ne tornerà a chiamare 8 (fra questi,
il debuttante portiere Bacigalupo) contro la Cecoslovacchia e
vincerà per 3-1. E si continuerà a utilizzare il blocco granata
anche dopo l’allontanamento di Pozzo, avvenuto in seguito al 3-5
inflittoci dalla Danimarca alle Olimpiadi londinesi del 1948.
Fino a Superga.
http://storiedicalcio.altervista.org/blog/italia_torino.html
1949 - LA NUOVA NAZIONALE DOPO LA
SCOMPARSA DEL GRANDE TORINO A SUPERGA
ELIMINATA AL PRIMO TURNO
Ferruccio
Novo
P
Casari ·
P
Moro ·
P
Sentimenti IV ·
D
Annovazzi ·
D
Blason ·
D
Fattori ·
D
Furiassi ·
D
Giovannini ·
C
Magli ·
C
Mari ·
C
Parola ·
C
Remondini ·
C
Tognon ·
A
Amadei ·
A
Boniperti ·
A
Campatelli ·
A
Cappello ·
A
Caprile ·
A
Carapellese ·
A
Lorenzi ·
A
Muccinelli ·
A
Pandolfini ·
|
25-6-1950, San Paolo
(MO) Italia-Svezia 2-3 Reti: 7’ Carapellese, 25’ H.
Jeppson, 33’ S. Andersson, 68’ H. Jeppson, 75’
Muccinelli. Italia: Sentimenti IV, A. Giovannini,
Furiassi, Annovazzi, Parola, Magli, Muccinelli,
Boniperti, Cappello IV, Campatelli, Carapellese. Ct:
Commissione tecnica della Federazione. Svezia: K.
Svensson, L. Sameulsson, E. Nilsson, S. Andersson,
K. Nordahl, Gaerd, Sundqvist, Palmer, H. Jeppson, L.
Skoglund, S. Nilsson. Ct: Kock; allenatore: Raynor.
Arbitro: Lutz (Svizzera). |
|
2-7-1950, San Paolo
(MO) Italia-Paraguay 2-0 Reti: 12’ Carapellese, 62’
Pandolfini. Italia: G. Moro, Blason I, Furiassi,
Fattori, Remondini, Mari, Muccinelli, Pandolfini,
Amadei, Cappello IV, Carapellese. Ct: Commissione
tecnica delle Federazione. Paraguay: Vargas,
Gonzalito, Cespedes, Gavilan, Leguizamon, Cantero,
Avalos, Lopez, Saguier, Flutas, Loepz, Unzaim. Ct:
Solich. Arbitro: Ellis (Inghilterra). |
LA TRAGEDIA DI UN POPOLO
Il Brasile che perde il titolo mondiale in
casa nel 1950 è un esempio di psicodramma collettivo, che
commuove addirittura il capitano dei vincitori, l'uruguaiano
Obdulio Varela. NUNCA MAISIl 16 luglio 1950 più di duecentomila
persone andarono a piedi verso lo stadio Maracanà convinti di
assistere a una festa e si trovarono invece in mezzo alla
tragedia. Ambulanze che facevano suonare le sirene nel caos
generale, gente che si buttava dai palazzi impazzita di dolore,
e un uomo, uno solo, che camminava per la strada, e aveva le
lacrime agli occhi e che per annegare il dispiacere si prese una
sbronza e cercò di dimenticare che era stato lui l'autore di
tutto quel disastro, il motore della storia.
Quell'uomo si chiamava Obdulio Varela, era
il capitano dell'Uruguay che aveva appena battuto il Brasile e
conquistato a Rio de Janeiro, in casa del nemico, il titolo di
campione del mondo di calcio. Per tutta la vita si portò dentro
il rimorso: un popolo disperato per colpa sua. E non
gl'importava che a Montevideo lo avessero eletto eroe nazionale,
non gl'importava di essere il simbolo di un indimenticabile
trionfo: lui, Varela, vedeva i bambini piangere e capì allora
che cosa è la sconfitta.
Nunca mais, mai più, titolarono i giornali
brasiliani il giorno dopo. Mai più un dolore simile, mai più una
beffa tanto atroce. Loro che avevano appena inaugurato il
Maracanà, il tempio del calcio, loro che avevano già organizzato
le feste di celebrazione, loro che si credevano campioni del
mondo per diritto divino, loro che con la tipica presunzione
brasiliana non badavano agli avversari, loro che aspettavano il
fischio finale dell' arbitro per urlare di gioia e mettere in
scena un Carnevale fuori stagione, carri e ballerine già pronti,
fiato alla musica, samba e caipirinha a volontà. Ma la storia
che noi vorremmo scrivere diventa spesso prigioniera del
destino, finisce imbrigliata in una tela da cui è impossibile
uscire e non resta che piangere. Di rabbia e di delusione. Di
disperazione, anche. Successe questo: il Brasile, favoritissimo
alla vigilia, andò in vantaggio all'inizio del secondo tempo con
Friaca, l'ala destra, e il Maracanà esplose. Sembrava l'inizio
della disfatta per l'Uruguay: basti pensare che giocatori e
tecnici della Celeste, prima di scendere in campo, avevano
dichiarato che sarebbe stato un successo perdere con due gol di
scarto. Vittime designate e rassegnate: almeno pareva così.
D'altronde la nazionale brasiliana era da tutti considerata più
forte, con un attacco atomico formato da Friaca, Zizinho, Ademir,
Jair e Chico.
Lo
stadio, dunque, ballava di passione al gol di Friaca. E in quel
momento avvenne qualcosa di strano, qualcosa di cui nessuno si
rese conto immediatamente. Anni dopo fu lo stesso protagonista,
il capitano Varela, a raccontare la scena.«Presi il pallone
dalla rete e camminai lentamente verso il centro del campo. Ci
misi più di due minuti, sempre tenendo in mano il pallone, con i
brasiliani che mi urlavano di tutto e volevano che facessi in
fretta a ricominciare il gioco perché volevano seppellirci di
gol. Quando arrivai a centrocampo protestai con l'arbitro per un
presunto fuorigioco, chiamai un interprete per parlare con il
direttore di gara che naturalmente convalidò la rete di Friaca,
ma io intanto avevo guadagnato un altro po' di tempo, il furore
dei brasiliani si era placato e in quell'istante capii che
avremmo potuto vincere».
Varela guidò l'assalto. Pareggio di
Schiaffino, Maracanà ammutolito. E poi, a dieci minuti dalla
fine, il gol decisivo di Ghiggia, da posizione quasi
impossibile. La tragedia si era consumata. Quando Obdulio Varela
alzò al cielo la coppa Rimet, i brasiliani in lacrime uscivano
dal campo. Lutto nazionale. A Montevideo pubblico e tifosi in
delirio. Ma Varela era a Rio, non sentiva la vittoria, vedeva
soltanto la sconfitta dei suoi avversari.Con il massaggiatore
andò a fare un giro per i locali, lo riconobbero, ma non lo
toccarono. Fu lui ad avvicinarsi a un tifoso brasiliano per
consolarlo e per tutta risposta ricevette una birra e gli venne
offerto di bere alla memoria della coppa del mondo che fu.
Obdulio accettò, e quella notte si sentì con il cuore a
pezzi.Anni dopo disse: «Se dovessi giocare di nuovo quella
partita, mi segnerei un gol contro. L'unica cosa che abbiamo
ottenuto vincendo il titolo è stato di far felici i dirigenti
della Federazione uruguaiana che si fecero consegnare le
medaglie d'oro e a noi giocatori ne diedero altre d'argento.
Questo è stato il riconoscimento».
L'Uruguay si gloriò per il secondo
mondiale conquistato (il primo fu quello del 1930), il Brasile
dovette aspettare ancora otto anni per gioire, quando il bambino
Pelè portò a casa dalla Svezia il trofeo (era il 1958). Da
allora la Seleçao ha vinto cinque mondiali (nel 1958 in Svezia,
nel 1962 in Cile, nel 1970 in Messico, nel 1994 negli Stati
Uniti e nel 2002 in Corea/Giappone), ma la gioia per ogni
conquista è sempre stata attenuata dal dolore per il successo
mancato.Il 16 luglio 1950 resterà per sempre una data storica:
quella della morte dell'illusione. Come disse Varela, «chi non
c'era non potrà mai capire...».
Testo di Andrea Schianchi
http://www.storiedicalcio.altervista.org/brasile_1950_nunca_mais.html
ELIMINATA AL PRIMO TURNO
Czeizler
1
Ghezzi ·
2
Vincenzi ·
3
Giacomazzi ·
4
Neri ·
5
Tognon ·
6
Nesti ·
7
Muccinelli ·
8
Pandolfini ·
9
Galli ·
10
Cappello ·
11
Lorenzi ·
12
Viola ·
13
Magnini ·
14
Cervato ·
15
Mari ·
16
Ferrario ·
17
Segato ·
18
Pivatelli ·
19
Boniperti ·
20
Gratton ·
21
Frignani ·
22
Costagliola ·
|
17-6-1954, Losanna
(MO) Svizzera-Italia 2-1 Reti: 18’ R. Ballaman, 44’
Boniperti, 78’ Hügi II Svizzera: Parlier, Neury,
Bocquet, Kernen, Flückiger, Casali I, R. Ballaman,
Vonlanthen II, Hügi II, E. Meier, Fatton. Ct: K.
Rappan. Italia: Ghezzi, Vincenzi, Giacomazzi, M.
Neri, Tognon, Nesti, Muccinelli, Boniperti, C.
Galli, Pandolfini, Lorenzi. Ct: Commissione tecnica
della Federazione. Arbitro: Viana (Brasile). |
|
20-6-1954, Lugano (MO)
Italia-Belgio 4-1 Reti: 41’ Pandolfini rig., 48’ C. Galli, 58’
Frignani, 78’ Lorenzi, 81’ Anoul Italia: Ghezzi, Magnini,
Giacomazzi, M. Neri, Tognon, Nesti, Lorenzi, Pandolfini, C.
Galli, Cappello IV, Frignani. Ct: Commissione tecnica della
Federazione. Belgio: Gernaey, Dries, Van Brandt, Huysmans,
Carré, Mees, Mermans, Anoul, Coppens, H. Van den Bosch, P. Van
den Bosch. Ct: Comitato di selezione. Arbitro: Steiner
(Austria). |
|
23-6-1954, Basilea
(MO) Svizzera-Italia 4-1 Reti: 14’ Hügi II, 48’ R.
Ballaman, 67’ Nesti, 85’ Hügi II, 90’ Fatton
Svizzera: Parlier, Neury, Bocquet, Kernen, Eggiman,
Casali I, Antenen, Vonlanthen II, Hügi II, R.
Ballaman, Fatton. Ct: K. Rappan. Italia: G. Viola,
Magnini, Giacomazzi, Mari, Tognon, Nesti, Muccinelli,
Pandolfini, Lorenzi, Segato, Frignani. Ct:
Commissione tecnica della Federazione. Arbitro:
Griffiths (Galles). |
I mondiali
del 1954 segnano l'avvento della televisione: per la prima volta
milioni di persone possono seguire il torneo di calcio più
prestigioso dalle proprie case. Inoltre l'evoluzione del calcio
fa sì che in questa manifestazione si possano ammirare la classe
e la tecnica degli ungheresi e la
possanza fisica dei tedeschi. Sono queste le due linee guida del
torneo: il calcio tecnico, che si rifà alla tradizione, contro
il nuovo modo di intendere questo sport, portando in primo piano
l'aspetto atletico su quello tecnico.
Ma è soprattutto il mezzo televisivo che
rivoluzionerà il calcio: milioni di persone si innamoreranno,
nel corso del torneo, di grandi campioni come Julinho,
Schiaffino, Puskas e molti altri mostri sacri del pallone. Per
quanto riguarda le squadre partecipanti, partiamo con la nostra
nazionale: l'esperienza degli azzurri è delle più infelici, in
quanto escono mestamente al primo turno dopo una doppia
sconfitta con la Svizzera padrona di casa. Nel nostro girone si
qualificano dunque Inghilterra e Svizzera, che vanno ad
aggiungersi a Uruguay, Austria, Ungheria, Germania, Jugoslavia e
Brasile. I grandi favoriti per la conquista della coppa Rimet
sono proprio i maestri magiari: l'Ungheria guidata dal genio di
Ferenc Puskas ha infatti strapazzato tutte le concorrenti del
suo girone (Germania compresa). Ancora prima delle semifinali,
l'Italia rientra in patria e viene
accolta all'aeroporto da un fitto lancio di pomodori e verdure:
la contestazione è aspra ma non violenta. Il torneo intanto
procede, apparentemente senza grandi sorprese: l'Austria si
sbarazza della Svizzera in una partita spettacolare (7-5),
l'Uruguay batte l'Inghilterra (4-2), la Germania elimina la
Jugoslavia (2-0) e l'Ungheria supera brillantemente l'esame
Brasile (4-2). Le semifinali propongono due sfide particolari
per motivi diversi: da una parte c'è lo scontro fra due squadre
di cultura teutonica che praticano un calcio molto fisico,
agonistico e ruvido. L'altra semifinale, invece, mette una
contro l'altra la squadra campione del mondo uscente e la
pretendente più accreditata: Ungheria-Uruguay.
Mentre la Germania infliggeva un secco 6-1
agli austriaci, le altre due semifinaliste davano vita a una
partita intensa e spettacolare, che vedeva, alla fine, trionfare
i magiari per 4 a 2. Il 4 luglio del 1954 a Berna si gioca la
finale: il pubblico è per la stragrande maggioranza composto da
tedeschi giunti dalla vicinissima Germania. Nel giro di otto
minuti gli Ungheresi gelano il pubblico sugli spalti realizzando
due reti (Puskas e Czibor, due
dei migliori), ma i giocatori della Germania non si perdono
d'animo: spostano Liebrich in marcatura asfissiante su Puskas,
serrano i ranghi e macinano gioco. Dopo qualche minuto
accorciano le distanze (Morlock), rianimando le speranze dei
supporters sugli spalti. Al 18' la sfida è di nuovo in parità,
grazie alla rete del tedesco Rahn. Nella ripresa la Germania
ricomincia ad attaccare a testa bassa: Puskas viene azzoppato
dai marcatori e, con il loro uomo migliore praticamente fermo in
mezzo al campo, l'Ungheria perde morale e partita. E' ancora
Rahn, a sei minuti dalla fine, a realizzare il goal decisivo. La
partita termina sul punteggio di 3-2 e la coppa del mondo prende
per la prima volta la via per la Germania. La formazione
dell'Ungheria, pur non avendo conquistato il titolo, rimane
quella più forte degli anni '50: solo l'invasione sovietica potè
annientare questo team favoloso, che ha prodotto il miglior
calcio del mondo e i calciatori più talentuosi.
www.laziowiki.org
Un incontro Italia - Svizzera
a Palermo negli anni Cinquanta
NON
QUALIFICATA ALLA FASE FINALE
Dopo esser stata eliminata al
primo turno sia in Brasile nel 1950 che in Svizzera quattro anni
dopo, l'Italia fa ancora peggio venendo addirittura eliminata in
sede di qualificazione mancando così l'appuntamento con i
Mondiali svedesi del 1958.
L'impoverimento dei vivai e
l'ossessiva fedeltà ad un modulo tattico poco propositivo come
il "catenaccio", portano l'Italia sulla strada, da un punto di
vista calcistico, di una profonda fase di transizione, acuita
anche dall'audace e pure qui fallimentare utilizzo di un numero
congruo di oriundi che invece di elevare il tasso tecnico della
Nazionale ne ridimensionano il ruolo internazionale.
Inserita, come detto, nel
Gruppo 8 di qualificazione con Portogallo e Irlanda del Nord,
l'Italia, affidata ad Alfredo Foni, debutta il 25 aprile 1957
allo Stadio Olimpico di Roma, battendo con il minimo scarto
proprio l'Irlanda del Nord, 1-0 con rete di Cervato dopo soli 3'
di gioco che infila con un potente calcio di punizione. L'inizio
è promettente solo dal punto di vista del risultato, perchè la
qualità del gioco è scadente, se è vero che nel secondo tempo
gli irlandesi colgono ben tre pali, e il limite tecnico viene
confermato un mese dopo quando a Lisbona il Portogallo travolge
gli azzurri con un pesante 3-0 firmato da Vasques, Teixeira e
Matateu.
La riscossa degli azzurri non
si lascia attendere e nel mese di dicembre, nella nebbia di
Milano, l'Italia rende ai lusitani il 3-0, stavolta con Gratton
sugli scudi con una doppietta e Pivatelli a chiudere il
tabellino nei minuti finali. In virtù di questo successo
l'Italia guida la classifica con quattro punti, contro i tre
dello stesso Portogallo ormai eliminato, e i tre dell'Irlanda
del Nord a cui la formazione di Foni deve rendere visita
nell'ultima sfida del 15 gennaio 1958.
E qui succede il patatrac.
All'Italia basterebbe un pari per garantirsi la qualificazione
ai Mondiali di Svezia, come già accaduto nel match già andato in
scena il 4 dicembre al Windsor Park di Belfast, chiuso sul 2-2
ma non omologato perchè a causa della nebbia non è giunto in
tempo l'arbitro ungherese Istvan Zsolt e la gara è stato quindi
diretta da un arbitro locale, un certo Tommy Mitchell. Ma nel
"remake" le cose non funzionano, Foni (influenzato dalla stampa
che lo etichetta come catenacciaro) schiera una squadra votata
all'attacco pur essendo necessario solo un pareggio, con ben
quattro oriundi, Ghiggia e Schiaffino campioni del mondo nel
1950 con l'Uruguay, l'argentino Montuori, stella della
Fiorentina, ed il brasiliano Da Costa (alla sua unica presenza
in maglia azzurra), ed il solo Pivatelli di nascita italiana. E
così, dopo soli 28' l'Irlanda è avanti di due reti, segnate da
McIlroy e Cush, gli azzurri accorciano le distanze con Da Costa
che al 56' sfrutta un errore del mediocre portiere Uprichard ma
il serrate finale produce solo una traversa scheggiata da
Montuori, mentre Ghiggia, preso di mira dai difensori, viene
cacciato dal campo per un fallo di reazione. Finisce 2-1 e
l'Italia, per la prima volta perchè nel 1930 non aveva raccolto
l'invito per il Mondiale in Uruguay, e come solo nel 2018 sotto
la guida tecnica di Ventura, manca la kermesse iridata
ALCUNE PARTITE DELL'ANNO:
15-1-1958, Belfast (QM) Irlanda del Nord-Italia 2-1 Reti: 13’
McIlroy, 28’ Cush, 56’ Da Costa Irlanda del Nord: Uprichard,
Cunningham, McMichael, D.
Blanchflower, J. Blanchflower,
Peacock, Bingham, Cush, Simpson, McIlroy, McParland. Ct: P.D.
Doherty. Italia: Bugatti, Vincenzi, Corradi, Invernizzi, R.
Ferrario, Segato, Ghiggia, Schiaffino, Pivatelli, Montuori, Da
Costa. Ct: Commissione tecnica della Federazione. Arbitro: Zsolt
(Ungheria).
23-3-1958, Vienna (CI)
Austria-Italia 3-2 Reti: 41’ Kozlicek II, 47’ Petris, 61’
Firmani, 79 Körner II, 82’ Buzek Austria: Schmied, Kollmann,
Stotz, Swoboda, Hanappi, Koller, Kozlicek II, Hof, Buzek, Körner
II, Hamerl. Ct: J. Argauer. Italia: Bugatti, Corradi, Garzena,
Emoli, R. Ferrario, S. Moro, Montuori, Boniperti, Firmani,
David, Petris. Ct: Commissione tecnica della Federazione.
Arbitro: Versyp (Belgio).
9-11-1958, Parigi (AM)
Francia-Italia 2-2 Reti: 15’ Vincent, 57’ e 65’ Nicolè, 84’
Fontaine Francia: Colonna, Kaelbel, Marche, Penverne, Jonquet,
Lerond, Wisnieski, Douis, Fontaine, Deladérière, Vincent. Ct: P.
Nicolas. Italia: L. Buffon, Corradi, B. Sarti, M. Bergamaschi,
Cervato, Segato, Bean, Boniperti, Nicolè, C. Galli, Pascutti. Ct:
Commissione tecnica della Federazione. Arbitro: Gardeazabal
(Spagna).
Nasce la leggenda di Pelè
di MARIO GRASSO
Nel pieno dei mondiali svizzeri del 1954
venne scelta la Svezia quale paese ospitante per l’edizione del
1958. Due soli continenti rappresentati: l’Europa e l’America
(sia meridionale che centro-settentrionale). Assenze pesanti
furono quelle dell’Italia e dell’Uruguay,
che non riuscirono a centrare la qualificazione. Esentate dalle
qualificazioni la Svezia, paese ospitante, e la Germania Ovest,
campione in carica. Grandi favorite per la vittoria finale
erano: la Germania, forte del suo titolo da difendere;
l’Inghilterra, che dopo due mondiali non proprio esaltanti
cercava di dimostrare la sua forza; il Brasile, che vantava tra
le sue file il temibilissimo bomber Altafini e una schiera di
giovani campioni emergenti come Garrincha e Pelè; e la Svezia
padrona di casa dei vari Liedholm, Hamrin, Gren e Skoglund. Tra
le outsiders si segnalarono la Francia del goleador Fontaine e
del genio Kopa e l’URSS, al suo primo mondiale ma che stava
dando alla luce una generazione di calciatori molto promettenti.
Notevolmente indebolita era invece l’Ungheria, ormai priva di
molti campioni che sfiorarono l’impresa quattro anni prima.
Gli stadi della competizione furono molti:
il Raasunda di Stoccolma; l’Ullevi di Goteborg; il Malmo Stadion
di Malmo; l’Orjans Vall di Halmstad; l’Olympia di Helsingborg;
l’Idrottsparken di Norrkoping; l’Arosvallen di Vasteras; l’Eyravallen
di Orebro; il Tunavallen di Eskilstuna; lo Jerrnvallen di
Sandviken; il Rimmersvallen di Uddevalla; e il Ryavallen di
Boras.
La formula era grossomodo la stessa di
quattro anni prima, con la variante dell’eliminazione del
divieto di scontro tra teste di serie. Le avversarie dello
stesso girone si sarebbero tutte regolarmente affrontate tra
loro. Confermata anche l’ipotesi di spareggio in caso di parità
di punti. La gara inaugurale fu quella del Raasunda di Stoccolma
tra Svezia e Messico, vinta 3-0 dagli svedesi padroni di casa.
La Germania Ovest campione in carica
vinse il suo girone, ma con un cammino tutt’altro che semplice.
Vinta agevolmente la prima gara contro l’Argentina per 3-1, le
due successive sfide riservarono qualche delusione ai tedeschi,
costretti al pareggio in rimonta per 2-2 sia contro la
Cecoslovacchia (da 0-2) sia contro l’Irlanda del Nord (da 1-2).
Fortunatamente per i tedeschi, le avversarie si tolsero punti a
vicenda, facendo sì che Irlanda del Nord e Cecoslovacchia
giungessero a pari punti al secondo posto, per giocarsi la
qualificazione allo spareggio, vinto nei supplementari per 2-1
dai nordirlandesi. – Nel Gruppo 2 andò bene la Francia,
trascinata subito dalle reti di Fontaine, che in tre gare ne
realizzò ben sei. Ad insidiare i francesi ci fu la Jugoslavia,
che chiuse a pari punti con i “galletti”. – Sul velluto la
Svezia padrona di casa, vincente 3-0 sul Messico e 2-1
sull’Ungheria. Proprio l’Ungheria per accedere ai quarti dovette
vedersela col Galles nello spareggio. Spareggio a sorpresa vinto
proprio dai gallesi per 2-1. – Il girone più equilibrato e
interessante era il quarto con il Brasile, l’Inghilterra e
l’URSS. La prima giornata fu tutta di marca brasiliana, con i
verdeoro che annientarono l’Austria con un 3-0 grazie alla
doppietta di Altafini; l’Inghilterra, invece, pareggiò in
rimonta contro l’URSS per 2-2. L’Austria, squadra “materasso”,
fu battuta poi anche dall’URSS per 2-0, mentre Brasile e
Inghilterra non andarono oltre lo 0-0. Si arrivò all’ultimo
turno con Brasile e URSS avanti di un punto sugli inglesi.
Proprio l’Inghilterra non riuscì, però, a battere l’Austria,
pareggiando 2-2. Fortunatamente per gli inglesi, il Brasile
contro l’URSS si decise a schierare i suoi giovani talenti e
vinse 2-0 con doppietta di Vavà, costringendo i sovietici allo
spareggio contro l’Inghilterra. Spareggio comunque vinto per
1-0.
Nei quarti chi ebbe vita più facile fu
la Francia, che liquidò l’Irlanda del Nord con un 4-0 e con la
solita doppietta di Fontaine. – Vittoria soffertissima, invece,
per la Germania, che batté la Jugoslavia 1-0, capitalizzando al
massimo il vantaggio maturato ad inizio gara con una rete di
Rahn. – Molto equilibrata la sfida tra Svezia e URSS. L’equilibrio fu rotto nella
ripresa, dove emerse la maggior voglia di vincere dei padroni di
casa, che vinsero 2-0 con reti di Hamrin e Simonsson. – Il
Galles provò a resistere al Brasile e le difese ressero per
un’ora. Poi una perla del diciottenne Pelè permise al Brasile di
passare in vantaggio e vincere 1-0.
La semifinale tra la Svezia e la Germania
fu tiratissima. Tedeschi in vantaggio con Schafer, pareggio
quasi immediato di Skoglund. Poi crebbe la Svezia che, però,
nonostante l’uomo in più non riuscì a segnare. Almeno fino
all’81’, quando Gren finalmente riuscì a “scardinare il
fortino”. Hamrin allo scadere fissò sul 3-1 il punteggio. Svezia
in finale. – Grande attesa era anche per il
Brasile
di Pelè, Vavà, Didi e Garrincha, che doveva vedersela con la
Francia di Fontaine e Kopa. Inizio-razzo del Brasile, avanti
subito con Vavà. La Francia rispose quasi subito con Fontaine al
9’. Al 39’ il Brasile raccolse i frutti della sua elevata
qualità di gioco, realizzando con Didi il nuovo vantaggio. Nella
ripresa il genio Pelè stese da solo i francesi con una
devastante tripletta, che rese inutile il gol di Piantoni. 5-2
finale per il Brasile, che otto anni dopo la “tragedia del
Maracanà ” tornava a giocarsi il titolo mondiale.
Teatro della finale fu lo stadio Raasunda
di Stoccolma il giorno 29 giugno 1958. Il Brasile, decisamente
la squadra migliore vista in tutto il torneo, se la vedeva
contro una Svezia carica e decisa a tentare l’impresa davanti al
proprio pubblico. E l’inizio fu decisamente più favorevole ai
padroni di casa, che dopo soli 4’ passarono con un tiro dal
limite dell’area di Liedholm. Il Brasile allora iniziò a
macinare gioco come al solito e scatenò Garrincha. La terribile
ala fece impazzire la difesa svedese e collezionò per Vavà due
assist “fotocopia”. In entrambi i casi azione travolgente di
Garrincha sulla fascia destra e cross in mezzo per la spaccata
di Vavà. 2-1 per il Brasile a fine primo tempo. Nella ripresa le
intenzioni svedesi vennero drasticamente ridimensionate da una
grandissima rete di Pelè. Al 68’ la rete di Zagallo chiuse
definitivamente i giochi. Solo per la cronaca si segnalarono la
rete “della bandiera” di Simonsson all’80’ e un altro splendido
pallonetto di testa di Pelè all’ultimo minuto, per il 5-2 finale
in favore dei brasiliani. Dopo una lunga attesa anche il popolo
brasiliano poté festeggiare la vittoria di un mondiale, vinto in
modo strameritato e con una squadra tra le più forti della
storia del calcio.
http://www.frickfoot.it/2014/01/mundial-story-svezia-1958-nasce-la-leggenda-di-pele/
ELIMINATA AL PRIMO TURNO
Ferrari
-
Mazza
1
Buffon ·
2
Losi ·
3
Radice ·
4
Salvadore ·
5
Maldini ·
6
Trapattoni ·
7
Mora ·
8
Maschio ·
9
Altafini ·
10
Sívori ·
11
Menichelli ·
12
Mattrel ·
13
Albertosi ·
14
Rivera ·
15
Sormani ·
16
Robotti ·
17
Pascutti ·
18
David ·
19
Janich ·
20
Tumburus ·
21
Ferrini ·
22
Bulgarelli ·
|
31-5-1962, Santiago
del Cile (MO) Italia-Germania-Ovest 0-0 Italia: L.
Buffon, Losi, Robotti, Salvadore, C. Maldini,
Radice, Ferrini, Rivera, Altafini, Sivori,
Menichelli. Ct: P. Mazza-G.
Ferrari. Germania Ovest: Fahrian, Novak, Scnellinger,
Schulz, Erhardt, Szymaniak, Sturm, Haller, Seeler,
H. Schäfer, Brülls. Ct: S. Herberger.
Arbitro: Davidson (Scozia). |
|
2-6-1962, Santiago del Cile (MO) Cile-Italia 2-0
Reti: 74’ Ramirez, 88’ Toro Cile: Escuti, Eizaguirre,
Navarro, Contreras, R. Sanchez, Rojas, Ramirez,
Toro, Landa, Fouilleux, L. Sanchez. Ct: Riera.
Italia: Mattrel, David, Robotti, Tumburus, Janich,
Salvadore, Mora, Maschio, Altafini, Ferrini,
Menichelli. Ct: P. Mazza-G. Ferrari. Arbitro: Aston
(Inghilterra). |
|
7-6-1962, Santiago del Cile (MO) Italia-Svizzera 3-0
Reti: 2’ Mora, 65’ e 67’ Bulgarelli Italia: L.
Buffon, Losi, Robotti, Salvadore, C. Maldini,
Radice, Mora, Bulgarelli, Sormani, Sivori, Pascutti.
Ct: P. Mazza-G. Ferrari. Svizzera: Elsener,
Tacchella, H. Schneiter, Grobéty, E. Meier, H.
Weber, Antenen, Vonlanthen II, Wütrich, A. Allemann,
Dürr. Ct: K. Rappan. Arbitro: Latiscev (Urss). |
La battaglia di
Santiago.
Un libro di Facchinetti
ricostruisce Italia-Cile dei mondiali 1962 ospitati dal Paese
sudamericano. Una rissa di 90 minuti malissimo gestiti
dall'arbitro inglese Aston
Andrea Cuomo - Dom,
03/06/2012 - 17:38
Cinquant'anni fa l'Italia del
calcio aveva già perso la sua innocenza. Lo aveva fatto nel
corso di una partita giocata agli antipodi, una partita
sconvolgente per la violenza e l'intensità, che mise fine a un
Mondiale maledetto, che riassume tutti dei vizi del pallone
italico di allora e qualcuno di oggi (nel frattempo ce ne siamo
assicurati tanti altri).
È il 2 giugno 1962. L'Italia
allenata dal duo Giovanni Ferrari-Paolo Mazza, affronta la
seconda partita del girone eliminatorio dei Mondiali di Cile,
dopo aver pareggiato 0-0 la prima contro la Germania Ovest. È
un'Italia ambiziosa ma isterica quella giunta in Sudamerica.
Femmina, direbbe Gianni Brera, che in questa vicenda avrà parte
non secondaria. Secondo alcuni tecnici una squadra che potrebbe
vedersela con il Brasile di Pelè. Una squadra con quattro
oriundi, sudamericani naturalizzati spesso in modo disinvolto
per arricchire la scuderia azzurra, anche se a molti questo
escamotage fa storcere gli occhi: dei 22 convocati fanno infatti
parte Omar Sivori, Humberto Maschio, Angel Benedicto Sormani e
José Altafini, campione del mondo in carica per aver vinto il
titolo con il Brasile nel 1958. A questi talenti capricciosi si
aggiungono gli italiani: un giovane Gianni Rivera, e poi Mora,
Salvadore, Bulgarelli, una schiera di futuri grandi allenatori
(Trapattoni, Radice, Maldini senior), un portiere (di riserva)
di nome Buffon - Lorenzo, prozio di Gianluigi.
Quel 2 giugno allo stadio
Nacional, solo due giorni dopo aver giocato la dispendiosa
partita contro i tedeschi, l'Italia affronta i padroni di casa.
Ed è una partita maledettamente difficile. Non solo perché non è
mai semplice affrontare chi gioca in casa. Ma anche perché i
cileni ce l'hanno a morte con noi. Colpa di due giornalisti che
nei giorni che hanno preceduto l'inizio del Mundial hanno
mandato dal Cile in Italia delle corrispondenze ritenute
offensive per il Paese sudamericano.
Articoli in cui
l'assegnazione del mondiale di calcio al Cile viene raccontata
come un'assurdità. «Un campionato del mondo a tredicimila
chilometri di distanza è pura follia. Il Cile è piccolo, è
povero, è fiero: ha accettato di organizzare questa edizione
della Coppa Rimet, come Mussolini accettò di mandare la nostra
aviazione a bombardare Londra. La capitale dispone di settecento
posti letto. Il telefono non funziona. I tassì sono rari come i
mariti fedeli. Un cablogramma per l'Europa costa un occhio della
testa. Una lettera impiega cinque giorni», scrive il grande Antonio Ghirelli per il Corriere della Sera. «Denutrizione,
prostituzione, analfabetismo, alcolismo, miseria, sotto questi
aspetti il Cile è terribile e Santiago dolorosamente viva, e
tanto viva da perdere persino le sue caratteristiche di città
anonima», va oltre per La Nazione Corrado Pizzinelli, che ha
anche l'aggravante di non essere un giornalista sportivo, ma un
reporter indifferente al calcio che una volta scritti i suoi
pezzi intinti nel veleno riparte per l'Italia prima del calcio
d'inizio.
L'onta viene lavata sul
campo. La partita è un'interminabile rissa considerata
vergognosa dalla stampa internazionale. I cileni sono bravissimi
ad approfittare dell'incapacità dell'arbitro inglese Kenneth
Aston, grande innovatore - anni dopo inventerà i cartellini
giallo e rosso - ma disabituato a simili scene. Lèonel Sanchez,
talentuosa ala sinistra, distribuisce in egual misura dribbling
ubriacanti e pugni devastanti. Uno colpisce Humberto Maschio
nella rissa che segue all'espulsione di Giorgio Ferrini, punito
per uno sciocco fallo di reazione su Landa dopo soli sette
minuti di gioco. L'altro prende in pieno Mario David, difensore
italiano, in uno scontro di gioco che l'arbitro ignora e che fa
da preludio all'espulsione dell'italiano nel secondo round del
match con Sanchez. Così alla fine del primo tempo l'Italia si
ritrova con due uomini in meno, due pugni presi e tanta rabbia
in corpo. Eppure gli azzurri reggono fino alla mezz'ora del
secondo tempo, quando un'uscita sbagliata del portiere Mattrel
provoca il gol di Jaime Ramirez. Poi Jorge Toro - che avrebbe
giocato nella Sampdoria e nel Modena - con una fiondata realizza
il 2-0 che chiude una delle pagine più vergognose del calcio
mondiale.
L'Italia è eliminata. A nulla
servirà il 3-0 successivo alla Svizzera. Il Cile arriverà fino
alle semifinali, dove sarà sconfitto dal grande Brasile (4-2),
ma si aggiudicherà il terzo posto sconfiggendo la Jugoslavia 1-0
nella «finalina».
Gli azzurri torneranno a casa squassati dalle
polemiche. Contro l'arbitro Aston. Contro i giocatori espulsi,
fragili emotivamente e non solo: di Ferrini Brera scrive che
«sciocco, sicuramente drogato oltre il lecito (...) esce
piangendo: insisto, in anormali condizioni psichiche. Anzi
psicoaminiche». Contro l'improbabile duo che conduce la
nazionale (Mazza presidente della Spal e notorio talent-scout;
Ferrari onesto tecnico federale asservito al carisma del primo),
che secondo molti si faceva fare la formazione da un paio di
influenti giornalisti (tra questi ancora Brera) e che aveva
lasciato in tribuna nella partita decisiva Rivera, Bulgarelli,
Losi e Sormani. Il quale avrebbe dovuto giocare, ma era stato
scartato per la scenata di Altafini, che nel pranzo prima della
partita si era messo a fare dei saltelli spavaldi per mostrare
quanto fosse in forma, impressionando Mazza e Ferrari.
L'unica consolazione: gli
italiani non vedono in diretta tanto scandalo. Le partite di
quel mondiale antipodico e presatellitare vengono infatti
trasmesse due giorni dopo, al termine di viaggio interminabile
delle pizze. Quindi quella sera - in uno strano fenomeno di
anacronismo catodico - il primo canale trasmette Italia-Germania
e la radio Italia-Cile. E quando il 4 giugno andranno in onda le
immagini dello scempio calcistico tutti conoscono già la trama e
il nome dell'assassino.
http://www.ilgiornale.it/news/sport/battaglia-santiagoprima-vergogna-dellitalcalcio.html
David, espulso, esce dal
campo accompagnato dalla Polizia cilena.
La Nazionale nel 1966, prima
di partire per i Mondiali
ELIMINATA AL PRIMO TURNO
Edmondo
Fabbri
1
Albertosi ·
2
Anzolin ·
3
Barison ·
4
Bulgarelli ·
5
Burgnich ·
6
Facchetti ·
7
Fogli ·
8
Guarneri ·
9
Janich ·
10
Juliano ·
11
Landini ·
12
Leoncini ·
13
Lodetti ·
14
Mazzola ·
15
Meroni ·
16
Pascutti ·
17
Perani ·
18
Pizzaballa ·
19
Rivera ·
20
Rizzo ·
21
Rosato ·
22
Salvadore ·
|
13-7-1966, Sunderland
(MO) Italia-Cile 2-0 Reti: 9’ A. Mazzola, 88’
Barison Italia: Albertosi, Burgnich, Facchetti,
Rosato, Salvadore, Lodetti, Perani, Bulgarelli, A.
Mazzola, Rivera, Barison. Ct: E. Fabbri. Cile:
Olivares, Eyzaguirre, Villanueva, Cruz, Figueroa,
Marcos, Araya, Prieto, Tobar, Fouilloux, L. Sanchez.
Ct: L. Alamos. Arbitro: Dienst (Svizzera). |
|
16-7-1966, Sunderland
(MO) Urss-Italia 1-0 Rete: 57’ Cislenko Urss: Jascin,
Ponomarev, Danilov, Khurtsilava, Scesternev, Voronin,
Cislenko, Sabo, Baniscevski, Malofeev, Husainov. Ct:
N. Morozov. Italia: Albertosi, Burgnich, Facchetti,
Rosato, Salvadore, Leoncini, Meroni, Lodetti, A.
Mazzola, Bulgarelli, Pascutti. Ct: E. Fabbri.
Arbitro: Kreitlein (Germania Ovest). |
|
19-7-1966,
Middlesbrough (MO) Corea del Nord-Italia 1-0 Rete:
42’ Pak Doo Ik Corea del Nord: Li Chan Myung, Lim
Zoong Sun, Sin Yung Kyoo, Ha Jung Won, Oh Yoon Kyung,
Im Seung Hwi, Han Bong Zin, Pak Doo Ik, Pak Seung
Zin, Kim Bong Hwan, Yang Sung Kook. Ct: Myung Rye
Hyun. Italia: Albertosi, Landini I, Facchetti,
Guarneri, Janich, Fogli, Perani, Bulgarelli, A.
Mazzola, Rivera, Barison. Ct: E. Fabbri. Arbitro:
Schwinte (Francia). |
QUELL'ITALIA NON POTEVA ANDARE LONTANO
(Gigi Riva)
Aggregato al gruppo degli azzurri nella
sfortunata edizione inglese del 1966, Gigi Riva ricorda i
fragili equilibri di quell'Italia di Fabbri che si sbriciolò
contro la CoreaMondiali 1966RIVA: "quella nazionale non sarebbe
andata lontano"«I coreani arrivavano in quattro,
in
cinque sul pallone: i nostri compagni erano inebetiti,
impotenti, sgomenti. Finì come tutti sanno, col pubblico inglese
pazzo di gioia e dì crudeltà. Io rimasi per qualche minuto
incredulo sui gradoni: passò uno dei pochi tifosi italiani, un
immigrato: era talmente arrabbiato che mi diede una bandierata
sulla testa, come se fosse stata colpa mia. Ma la mia unica
colpa era quella di non aver giocato: e non ero stato certo io a
volerlo. Andai negli spogliatoi. Nel dramma, la farsa: si
stavano già facendo ì piani di fuga per rientrare in Italia.
Edmondo Fabbri voleva tornare da solo, di nascosto: ma non gli
venne concesso».
E a Genova, la notte dopo, furono pomodori
per tutti. Riva non aveva ancora compiuto 22 anni. Aveva già
esordito in Nazionale, si capiva benissimo di che pasta fosse
fatto: il Cagliari, grazie soprattutto ai suoi gol, era stato
promosso dalla B un paio d'anni prima e stava per diventare una
delle protagoniste del campionato italiano: come la Juventus,
come l'Inter, come il Milan, le grandi e ricche squadre
metropolitane. Il giovane campioncino di Leggiuno era ormai
stabilmente nel giro azzurro, ma Fabbri - il Commissario Unico -
non aveva avuto il coraggio di investire fino in fondo su di
lui. «Era molto "innamorato" di Pascutti» ricorda Riva: «i
maligni dicevano che lo preferisse anche perché aveva già in
tasca un contratto col Bologna. Comunque sia, non mi convocò: ma
mi propose, assieme a Bertini della Fiorentina, di andare ai
Mondiali come "aggregato", al di fuori della lista ufficiale dei
ventidue. In un primo tempo, deluso, rifiutai: mi sembrava
un'esperienza frustrante che non mi avrebbe dato nulla. Poi mi
si fece capire che non avevo possibilità di scelta: che in caso
di rifiuto sarei stato squalificato».
Strano e assurdo Mondiale, quello del
futuro mito azzurro. La Nazionale era in ritiro nella scuola di
agricoltura di Durham: un grande edificio a due ali che si
prestava benissimo alle divisioni "politiche" esplose in seno al
gruppo. «In una delle ali dormivano i "potenti", quelli che
facevano il bello e il cattivo tempo (Mazzola, Rivera,
Bulgarelli, Albertosi, Pascutti...), quelli che Fabbri "subiva".
Dall'altra parte c'erano, oltre a me e a Bertini, coloro che
contavano poco o nulla. L'unica maniera che avevamo di sfogarci
era quella di umiliare i nostri "rivali" in allenamento: le
partitelle le vincevamo sempre noi della "seconda" Nazionale. E
io segnavo, segnavo, segnavo: ero tanto informa, quanto
imbestialito».
Edmondo Fabbri aveva iniziato bene la sua
carriera azzurra: determinato, coerente, fortunato. Qualcuno
aveva visto in lui il nuovo Vittorio Pozzo. Ma, nell'imminenza
del Mondiale, fra pressioni giornalistiche e fissazioni
personali (come l'antipatia verso Herrera e di conseguenza verso
molti giocatori dell'Inter campione d'Italia) aveva perso la sua
lucidità: aveva cominciato a vedere nemici dappertutto. Per
l'Inghilterra c'eravamo comunque qualificati alla grande: le
ultime amichevoli prima della trasferta erano state trionfali
(in rapida sequenza: 6-1 con la Bulgaria, 1-0 con l'Austria, 3-0
con l'Argentina, 5-0 col Messico).
Molti, col Brasile ormai in declino,
vedevano in noi e nei padroni di casa i favoriti. Assolutamente
ininfluente nei pronostici era invece la presenza della Corea
del Nord che si era qualificata per puro caso, approfittando nel
magmatico girone austral-asiatico-africano, del ritiro di tutte
le squadre di quest'ultimo Continente per protesta contro la
mancata espulsione del Sudafrica razzista. I coreani
conquistarono il loro primo Mondiale, fra il sarcasmo generale,
battendo in campo neutro - nientemeno che a Phnom Penh in
Cambogia! - la frastornata Nazionale australiana.
L'Italia aveva vinto senza entusiasmare la
prima partita col Cile e perduto senza troppi demeriti quella
successiva contro l'Unione Sovietica di Jashin e Cislenko
(allegri dirimpettai del nostro tetro e militaresco ritiro:
Jashin faceva addirittura abitualmente colazione con la moglie
giornalista). Con la Corea sarebbe bastato un pareggio. E
invece... Fabbri era talmente sicuro di fare un sol boccone di
quelli che il suo osservatore Valcareggi aveva definito dei "Ridolini"
che cambiò sette undicesimi della formazione precedente,
intestardendosi però a confermare il suo pupillo Bulgarelli -
giovane e purtroppo acciaccato capitano di quell'infelice
partita - che dopo pochi minuti, colpito al ginocchio già
infortunato, lasciò la squadra in dieci. Il resto fu storia: e
non solo del calcio. «Nella tribuna dell'Ayresome Park di
Middlesbrough ero seduto vicino a Burgnich. Eravamo spostati
verso destra, quasi di fronte alla nostra area di rigore:
avevamo un palo davanti, tipico dei vecchi stadi inglesi, ma il
tiro di Pak Doo Ik lo vedemmo benissimo. Lo vedemmo partire e,
purtroppo, lo vedemmo anche arrivare. Albertosi si protese
inutilmente verso la sua destra. Pak Doo lk aveva aggirato
Landini e aveva indovinato una sciabolata micidiale: Landini,
curiosamente, aveva il numero 11. Il "mio" numero 11».
Erano le nove e venti di sera del 19
luglio 1966: c'era ancora luce, stava maturando il più famoso
disastro della storia calcistica italiana. Da quel momento in
poi la parola "Corea" non sarebbe più stata una definizione
geografica, ma la maniera moderna per dire "Caporetto". Gigi
Riva continuò ad assistere impotente al resto della partita: una
partita stregata. «Al contrario di Mazzola e di Rivera che da
lui vennero coccolati moltissimo» dice oggi Riva «non ho mai
ritenuto Fabbri un grande Commissario Tecnico: tutt'al più un
buon preparatore. Ma con me si comportò da galantuomo: il giorno
dopo, benché distrutto, mi prese in disparte e mi chiese scusa.
"Se avessi avuto il coraggio di farti giocare, ora non saremmo
qui". E le stesse scuse me le ripeté qualche anno dopo quando,
per uno strano caso della vita, diventò il mio allenatore al
Cagliari. Ma ormai, a quel punto, i nostri rapporti di "forza"
erano diventati molto, molto diversi».
Che cosa ti resta, Gigi, di quel Mondiale
a distanza di tutti questi anni? «L'amarezza dì una grande
occasione personale perduta. Ma "quella" Nazionale, credimi, non
sarebbe andata comunque lontano: se avessimo passato il turno ci
saremmo scontrati col Portogallo di Eusebio e credo proprio che
il nostro Mondiale, viste le premesse, sarebbe finito li. Troppe
divisioni, troppe incomprensioni, troppe inimicizie. Pensa che
Corso e Bedin, praticamente, rifiutarono la convocazione pur di
evitare convivenze sgradevoli».
E perché, visto quello che a te era stato
imposto, non vennero squalificati per questo rifiuto? «Perché io
ero del Cagliari, amico mio: mentre loro erano dell'Inter! Il
mondo, credimi, non è mai cambiato».
http://www.storiedicalcio.altervista.org/mondiali_66_riva.html
«Io non sentii quella frase,
ma so che venne detta. Alla vigilia immaginavamo lo schema, Barison era un metro e novanta, “ti mettiamo la palla sulla
testa Paolo e poi ci pensi tu…”».
Beh, non andò proprio così…
«Convinto che fosse una
passeggiata, Fabbri cambiò mezza squadra: lasciò fuori me,
Burgnich, Rosato, Salvadore, Leoncini, Pascutti e mandò in campo
Bulgarelli infortunato. Che si fece male subito, non c’erano le
sostituzioni e restammo in dieci. Sbagliammo anche un paio di
occasioni con Perani».
I coreani?
«Correvano come dei matti.
Alla fine Rosato, Burgnich ed io non volevano nemmeno scendere
negli spogliatoi. Nessuno dei dirigenti voleva tornare con noi,
era come l’8 settembre.
Decisero di atterrare a Genova, sperando
di evitare gli insulti, ma i tifosi lo seppero. Prendemmo fischi
e pomodori».
E Fabbri?
«“Non credevo finisse così”.
Fu l’unica cosa che disse. Ma vedeva complotti ovunque, così
scrisse un memoriale affermando di essere stato boicottato,
parlava di sostanze somministrateci per indebolirci. Con Salvadore, Rivera, Bulgarelli e Rosato ci trovammo a Milano
Marittima, firmammo quel documento.
Ci faceva comodo: ma capimmo
subito di aver fatto una scemenza».
Nel ’66 trionfò il calcio
fisico.
«Solo in parte perché
l’Inghilterra propose qualcosa di nuovo con due terzini, Wilson
e Cohen, molto bravi ad attaccare».
Chi fu il miglior giocatore?
«L’inglese Bobby Charlton:
dava sicurezza e personalità. Un incrocio tra Gullit e
Rijkaard».
Eusebio: un aggettivo per
lui?
«Felino. Un tipo alla Eto’o».
Che cosa guadagnò da quel
mondiale?
«Una bicicletta dalla
Valsport per aver usato le loro scarpe».
Chi si salvò di quella
spedizione?
«Quelli che due anni dopo
vinsero l’Europeo facendo dimenticare la Corea.
Perse solo
Fabbri».
https://storiedicalcio.altervista.org/blog/1966-lodetti-la-corea-del-66-fu-tutta-colpa-di-fabbri.html
Russia Italia
L’onta del calcio
italiano
Fu un Mondiale di incroci di
destino quello del 1966 in Inghilterra, in casa degli inventori
del calcio moderno e dei Beatles che spopolavano. Quegli anni
Sessanta erano un germogliare continuo di novità, di ribellioni,
di evoluzioni, dall’imposizione della cultura beat alle
manifestazioni anti Vietnam. Segnavano anche la voglia di mondo
dei Maestri inglesi del calcio che, dopo anni d’isolamento
dovuti al loro superiority complex, avevano capito di non poter
più restare arroccati al di qua della Manica: dovevano adeguarsi
ai tempi ed aprirsi agli altri, se non volevano diventare solo
un ricordo. Il calcio tornava a casa, il Brasile di Pelè dettava
legge già da due edizioni mondiali, al riscatto era attesa
l’Italia.
Reduci dal mondiale cileno
che aveva avuto, per gli Azzurri, un epilogo pugilistico (Cile-Italia
fu una delle partite più violente della storia), la squadra fu
affidata alla guida tecnica di Edmondo Fabbri. La scelta sembrò
felice e azzeccata per i tempi: il romagnolo aveva portato una
ventata di novità con il Mantova, che aveva guidato addirittura
dalla Serie D alla Serie A in cinque stagioni. Soprattutto il
suo gioco sembrava avere, agli occhi del presidente della
Federcalcio Giuseppe Pasquale, il giusto respiro europeo, in
contrapposizione con quello catenacciaro, ma vincente,
dell’Inter di Helenio Herrera e di un po’ tutto il movimento
calcistico italiano. I risultati iniziali dettero ragione al
nuovo corso. Solo l’Unione Sovietica diede un dispiacere
eliminando gli Azzurri dalla seconda edizione del Campionato
Europeo (1964 in Spagna), ma non contava: l’obiettivo erano i
Campionati del Mondo in Terra d’Albione.
Ottenuta la qualificazione,
il girone era tra i più abbordabili: per la squadra di Fabbri si
presentava subito l’occasione di vendicarsi del Cile; c’era
l’Urss di Lev Jašin, pronosticata per il superamento del turno
insieme all’Italia; c’era la sconosciuta e misteriosa Corea del
Nord. L’approccio a quel luglio inglese non fu tranquillo, a
partire da quell’ «Adesso siamo in guerra!» pronunciato dal CT
appena messo piede sul suolo inglese. Molto influirono
negativamente pure le polemiche con i sostenitori del gioco
“all’italiana” (tra cui anche Gianni Brera), ostracizzato, come
detto, da Fabbri. Neanche la sede del ritiro, la Scuola
dell’Agricoltura di Durham, con la sua tetraggine e quasi
desolazione, aiutò a sciogliere le nubi che si andavano
addensando sulle teste degli Azzurri.
Nel primo match (Sunderland,
13 luglio) l’Italia doveva vedersela proprio con il Cile, la
squadra che l’aveva eliminata nel Mondiale precedente. Stavolta
il tutto fu meno traumatico, la scontata vittoria italiana
pervenne grazie alle reti di Sandro Mazzola e Paolo Barison, ma
più di un dubbio sollevò la prestazione: il gioco espresso fu in
realtà un “non gioco”, le già poche certezze di Fabbri si
dispersero nella nebbia inglese.
La gara successiva, il 16
luglio, il CT rinnegò un po’ le sue idee: contro la tetragona,
monocorde ma potente URSS decise di giocare una partita di
attesa invece che di aggressione, con il risultato di perdere
per una rete di Igor Čislenko al 57’. Nulla era perduto, tranne
le convinzioni di Fabbri, che andò in totale confusione.
L’ultimo avversario sulla strada di una “sicura” qualificazione
erano gli “improponibili” giocatori della Corea del Nord, dai
nomi a filastrocca e dalle fattezze di “Ridolini”, come ebbe a
descriverli Ferruccio Valcareggi, allora assistente del CT. Un
grave errore di sottovalutazione.
La Corea del Nord
rappresentava una nazione che non c’era, un Paese non
riconosciuto dall’Occidente, che ancora non si era ripreso dalla
guerra civile che lo aveva devastato durante gli anni Cinquanta,
lasciando un lungo, triste, elenco di quattro milioni di morti.
Proprio questo era un punto di forza di quella squadra,
l’orgoglio, lo stesso su cui aveva fatto leva il presidente
coreano, Kim Il-sung, richiedendo almeno una vittoria.
Soprattutto di questo non tenne conto lo staff azzurro,
facendosi fuorviare dalla tecnica approssimativa e dalla tattica
elementare degli avversari. Quel 19 luglio, a Middlesborough,
“Mondino” cambiò ancora, ma l’errore più grave che fece fu
quello di schierare Giacomo Bulgarelli con un ginocchio
malandato, in un’epoca in cui non esistevano sostituzioni.
Pure, la partita non
presentava difficoltà apparenti: quando alle 19,30 l’arbitro
francese Pierre Schwinte fischiò l’inizio del match, subito
Marino Perani ebbe una, due, tre occasioni, sprecandole per
bravura del portiere Lee Chan-Myung o per errori di mira. Ogni
occasione sembrava scandire l’avvicinamento a quel vantaggio che
avrebbe liberato molti cuori oppressi. I minuti, però,
passavano, e i coreani, che sembravano in balia degli Azzurri,
iniziarono a dispiegare sul prato la loro velocità e una tecnica
non certo da analfabeti della pelota. Con il lievitare del
livello di prestazione degli asiatici, lentamente,
inesorabilmente, l’Ayresome Park si trasformava in un catino di
scherno per gli Azzurri, il prato in una palude mortale che ne
avvinghiava le gambe, impedendone i movimenti.
Gli avversari, i coreani, i “Ridolini”,
ingigantivano sovrastando per velocità, e anche gioco, gli
spaesati uomini di Fabbri. Il vero crack avvenne al
trentacinquesimo minuto, ed aveva il rumore del ginocchio di
Bulgarelli che cedeva nel contrasto con un avversario, lasciando
la sua squadra in dieci. Trascorsero altri sette minuti e al
42’, nel tramonto dei mari del Nord, tramontò anche l’Italia: la
palla giunse a Pak Doo-Ik, che dal limite dell’area, leggermente
decentrato a destra, incrociò un tiro verso la porta azzurra.
Enrico Albertosi si protese verso il radente, ma più la sua mano
sembrava avvicinarsi al pallone, più questo sembrava
allontanarsi, fino a chiudere la sua corsa in fondo alla rete.
Incredibile: un dentista (non lo era, fu una leggenda
metropolitana a dargli quella qualifica) aveva segnato alla
grande Italia!
La partita finì qui,
l’impensabile si materializzò, il restante periodo di gara vide
solo tanta confusione azzurra e tentativi frustrati da piccoli
giocatori che erano diventati giganti. Il postpartita fu
tipicamente italiano, tra accuse reciproche, risibili ipotesi di
complotto, pomodori e ortaggi vari che accolsero la comitiva
italiana al ritorno sul suolo patrio.
Da quel 19 luglio inglese,
nell’immaginario collettivo “Corea” divenne, ed è ancora,
sinonimo di vergogna sportiva. Ma è anche vero che fu, forse,
proprio in conseguenza di questa sconfitta che l’Italia
calcistica poté finalmente rinnovarsi nel suo movimento,
diventando, ci piace immaginarlo, il primo mattone su cui
costruire le basi per successi immediati (Campione d’Europa
1968, Vice Campione del Mondo 1970) e futuri.
Raffaele Ciccarelli
http://www.storiedisport.it/?p=3602
LA COREA DEL
NORD. UNA VERGOGNA CHE ANCORA NON ABBIAMO DIGERITO.
1966 – Lodetti:
«La Corea fu tutta colpa di Fabbri»
Davanti all’albergo di
Middlesbrough i coreani avevano riprodotto esattamente le misure
dell’Ayresome Park, il campo sul quale avrebbero giocato il
girone di qualificazione. Contavano i passi, li mandavano a
memoria. Saggezza orientale o lucida follia, fatto sta che
ebbero ragione loro quando il 19 luglio 1966 ci spinsero in
quella che, insieme con la Corea trapattoniana del 2002, rimane
la tomba del calcio azzurro.
È il mondiale di Inghilterra.
Oltre che per la nostra magra passerà alla storia per: il furto
della coppa Rimet alla vigilia (fu ritrovata in un parco di
Londra); l’ultima apparizione di Garrincha (marcato a uomo dalla
ballerina di samba Elsa Soares); la comparsa di Eusebio,
africano del Mozambico, lo chiamavano Ninguem da bambino
(niente, nessuno), trascinò il Portogallo in semifinale; il «gol
non gol» di Hurst in finale contro la Germania che spianò la
strada all’Inghilterra campione del mondo: 4-2 per i Maestri.
Pelè prese un sacco di botte dai bulgari, lui e il Brasile fuori
al primo turno.
In tutto questo l’Italia fece
da comparsa. Costruita con blocchi (quello del Bologna: Janich,
Bulgarelli, Perani, Pascutti) e blocchetti (Inter e Milan), era
allenata da Edmondo Fabbri, detto Topolino per la bassa statura,
ala destra di Atalanta e Inter. Produceva Sangiovese, Fabbri.
«Pareva un pretino arguto», scrisse Brera. L’ultimo mese
premondiale fu una stella filante: 3-0 all’Argentina, 5-0 al Messico,
6-1 alla Bulgaria. Risultato: «Arrivammo svuotati». Lo dice
Giovanni Lodetti, che in quella nazionale pedalava in mezzo al
campo.
«Una volta in Inghilterra il
giocattolo si era già rotto. Forse ci sentivamo troppo sicuri e
sbagliammo la preparazione».
Era una nazionale divisa in
clan?
«No, anche se quelli del
Bologna erano i più legati a Fabbri. Prima di partire il ct fece
fuori Picchi, “è troppo statico, tiene la difesa troppo
arretrata” diceva del libero dell’Inter. Decise lui, ma Rivera
ci mise una buona parola, Picchi non gli piaceva. E lì cominciò
a rompersi qualcosa…».
In che senso?
«Il ct stava con Rivera, si
alienò le simpatie degli interisti».
Fabbri: parliamone.
«Non era un uomo molto
tenero, chiedeva disciplina. Più offensivo di Herrera, ricordava
Trapattoni per le scaramanzie. Dopo una sconfitta, cambiava la
strada per andare allo stadio».
Dove sbagliò?
«In Inghilterra perse la
testa. La critica era feroce nei suoi confronti: Zanetti e Brera
gli facevano arrivare la formazione, lui buttava i foglietti, ma
andò in confusione».
In quella squadra c’era Gigi
Meroni: l’ala granata sarebbe morta un anno dopo. Era così naïf
anche in nazionale?
«Con la nazionale B era il
Gigi di sempre, occhiali scuri e capelli lunghi. Con Fabbri
modificò l’atteggiamento, il ct lo mise in riga. Vede, in quel
gruppo mancava l’allegria».
Nemmeno il ritiro vi salvò?
«La federazione sbagliò la
scelta: un college isolato a Durham. Ragazze? Ma se non venivano
nemmeno i ragazzi…».
Chi era il leader di quella
squadra?
«Il più ascoltato da Fabbri
era Bulgarelli. Ma anche Salvadore aveva grande personalità».
L’esordio con il Cile: 2-0,
gol di Mazzola e Barison. Vendicata la mattanza di Santiago del
’62
«Non giocammo benissimo, la
pressione era esagerata e volevamo dimostrare che Fabbri aveva
ragione».
L’Urss ci batté 1-0, c’era
Jascin in porta.
«Eravamo già in fase calante.
Jascin era massiccio, faceva paura. Assomigliava a Cudicini, ma
fisicamente era più forte».
E siamo all’epilogo.
Valcareggi, mandato da Fabbri a spiarli, definì i coreani, «una
squadra di Ridolini». Fini 1-0, rete di Pak Doo Ik, presunto
dentista.
Sull'orlo di una
crisi di nervi.
Il ricordo della
drammatica sconfìtta con la Corea nelle parole di Sandro
Mazzola.
Davvero un dramma per
l'Italia calcistica: uno choc per Edmondo Fabbri e gli azzurri.
Cosa è successo veramente in quella sfortunata spedizione, quali
sono stati i retroscena di un'avventura sicuramente
irripetibile?
Mazzola, come si usa dire,
vuota veramente il sacco, dice tutta la verità in proposito.
Dove cominciamo?
«Dal fatto che eravamo
caricatissimi avendo stracciato in amichevole i bulgari, battuto
l'Austria quindi Argentina e Messico. Però, tutto fu o quasi
vanificato da una decisione di Fabbri: nel momento di ridurre da
26 a 22 gli azzurri, cancellò quelli della vecchia guardia
interista, come Corso, Picchi, Bedin, Domenghini, creando una
vera e propria frattura. Fu una sorpresa per molti di noi anche
perché Corso e Domenghini sembravano punti fissi della squadra.
Ma non per Fabbri che cambiò le carte in tavola senza dare
spiegazioni. Da quel momento iniziarono le ostilità con la
stampa: veri e propri assalti al ct al punto che per la prima
volta vennero indette le conferenze stampa ad ore ben precise. Non più libero accesso al nostro ritiro come avveniva in
passato. A mezzogiorno, se non sbaglio, Fabbri parlava coi
giornalisti ed erano discussioni a non finire. La nostra squadra
era piuttosto giovane, anche abbastanza brava, ma tutte queste
cose contribuivano a creare un clima nervoso, la tensione invece
di aumentare si allentava e questo doveva suonare come un
campanello d'allarme. Secondo i nostri programmi dovevamo
battere il Cile, e infatti ci riuscimmo, poi potevamo anche
perdere con la Russia e così avvenne... Tanto c'era la Corea».
Ecco nascere i problemi per
gli azzurri...
«Proprio così, perché gli
orientali erano partiti molto male, incassando 3 gol con la
Russia ma poi inaspettatamente avevano bloccato il Cile. Ci
erano sembrati in netto progresso, non degli sprovveduti come
affermavano i rapporti dei vari osservatori. Noi vivevamo in un
posto molto isolato, finimmo per trovarci in un clima di paura,
proprio perché eravamo giovani ed il rapporto Fabbri-giornalisti
era in crescendo ma in senso negativo. Avevamo visto i nostri
rivali in tv, scoprivamo improvvisamente che avremmo dovuto
faticare per batterli. E poi ci fu quella strana sorpresa
pre-partita quando vedemmo i coreani allenarsi».
Cosa c'era di tanto
sorprendente?
«Semplicemente cose da matti.
Non ci crederete ma l'allenatore coreano aveva radunato tutti i
suoi 22 giocatori in un gran gruppo, come quando nel rugby si
getta il pallone per una mischia. Ebbene, quando la sfera finiva
in mezzo ai coreani tutti e 22 si alzavano in una gran
rovesciata, cercando di arrivare coi piedi a colpire il pallone.
Ricadevano a terra sulla schiena e si rialzavano come se fossero
fatti di gomma. Così per una decina di minuti poi il tecnico
cambiò sistema: lanciava in alto un pallone e un giocatore
cercava di colpirlo di testa mentre i
suoi compagni si arrampicavano letteralmente su di lui per
arrivare alla sfera. Ricordo che c'è una foto di Facchetti
ritratto appunto mentre cerca di colpire di testa un pallone con
a fianco una specie di piramide dei coreani. Tutti uguali,
precisi e identici. Non riuscivo mai a capire quale fosse il mio
avversario in campo, credevo che si alternassero, probabilmente
era sempe lo stesso...».
Però l'Italia avrebbe potuto
imporsi abbastanza tranquillamente: si crearono forse dei
problemi che non esistevano?
«Effettivamente nel giro di
pochi minuti ci trovammo con tre palle-gol, una più bella
dell'altra e le sbagliammo tutte. I guai cominciarono quando si
infortunò Bulgarelli: uscito lui, rimanemmo in dieci. Non si
poteva sostituire un giocatore, e gli undici comuni si
trasformarono in ventidue "robotini", correvano per il campo
come matti, quando uno di noi aveva la palla si trovava
puntualmente circondato da tre-quattro di loro. Altro che il
pressing attuale, altro che l'Olanda di Cruyff o il... Milan di
Sacchi! Perdemmo, non c'era scampo ma se dovessimo rigiocare
cento volte quella partita, sicuramente ne vinceremmo novanta,
pareggiandone 9 e perdendone una soltanto. Sono i casi della
vita, a volte sembra impossibile che possa succedere una certa
cosa, però succede».
Le cronache raccontano che
Fabbri abbia sbagliato molte cose mandando in campo contro i
russi una formazione molto tecnica, quando occorrevano i
gladiatori, e viceversa coi coreani: troppa gente pesante, pochi
i pesi leggeri da contrapporre agli orientali.
«Non sono d'accordo anche
perché contro la Corea l'unico "pesante" era Barison. Certo, ci
fosse stato Mariolino Corso, sarebbe stata un'altra cosa, ad
ogni modo non era una formazione di gladiatori, avremmo potuto
farcela benissimo in cinque minuti. Mettendo dentro due o tre
gol avremmo liquidato i coreani, non avremmo creato la leggenda
di Pak Doo Ik».
Il dentista fasullo così
celebrato per tanti anni quando non era affatto un dentista...
«Già, anche questo l'abbiamo
scoperto poi, chissà com'è venuta fuori questa storia. Comunque
il bello doveva ancora venire. Fabbri aveva talmente perso la
testa che in pieno ritiro, disse: Qui si scioglie la Nazionale!
Ma come, dovevamo tornare a casa per conto nostro? Le nostre
proteste e quelle dei dirigenti federali servirono a fare
cambiare idea al commissario tecnico: arrivammo assieme a Genova
dove eravamo attesi da cinquecento tifosi infuriati. O così
almeno lessi poi sui giornali. Io, Leoncini e Salvadore eravamo
usciti da una porta secondaria sulla vecchia "Millecento" del
padre di Salvadore: e non vedemmo praticamente nulla. La
"Balilla " di Gigi Meroni, al quale i tifosi genovesi volevano
bene, venne usata per distogliere l'attenzione della massa:
buona parte delle persone presenti la seguirono da un'altra
uscita e così Fabbri, Valcareggi e gli altri azzurri trovarono
soltanto i "resti" del comitato di accoglienza...».
http://www.storiedicalcio.altervista.org/mondiali_1966_mazzola.html
Franco Janich - Corea marchio
indelebile.
Franco Janich ha legato il suo nome alle
due pagine più brutte del calcio italiano. Esordì in Nazionale
ai mondiali del '62, nella drammatica partita contro il Cile;
vestì la sua ultima maglia azzurra in Inghilterra nel 1966
contro la Corea. Era il pilastro della difesa del Bologna di
Bernardini, campione d'Italia. Sfogliamo l'album dei ricordi...
- Cosa ha rappresentato per te la Corea
del Nord? Un incubo?«Diciamo un trauma. Certe sconfitte sono
traumatizzanti per tutti, non solo per l'allenatore. Edmondo
Fabbri ce ne mise per rimettersi!».
- Tornando scioccato da Middlesbrough, si
convinse di essere vittima di una congiura. Fece il giro
d'Italia per ottenere le testimonianze di voi giocatori contro
il dottor Fino Fini. Parlò di droga alla rovescia che faceva
venire le gambe molli. Ci scappò anche la solita querela, finita
poi all'italiana.- Si è parlato di un Fabbri suicida perché
portò Gigi Riva in Inghilterra solo come turista.«Adesso si può
dire tutto quello che si vuole. Ma dopo lo zero a zero di
Parigi, tutti avevano consigliato a Fabbri di togliere Riva e di
insistere su Pascutti. Il Riva che venne come turista in
Inghilterra, non era ancora il Riva che fece il mattatore in
Messico. Forse bisognava avere l'occhio lungo. Ma ricorderai che
Herrera, che di calcio se ne intende, a Moratti per l'Inter
aveva chiesto Pascutti, mentre aveva rifiutato Riva. Pascutti
era un grosso giocatore, aveva spunti irresistibili, te lo posso
assicurare io che ho avuto la fortuna di giocargli accanto».
- Per paura dei tifosi inferociti vi
fecero rientrare in Italia di notte e, invece che a Milano,
atterraste a Genova. Eppure all'aeroporto e' era tanta gente a
lanciarvi pomodori. Cosa ricordi di quell'accoglienza?«Rammento
che qualcosa in testa ci tirarono e non era certo frutta fresca.
Ma io ero in trance anche perché ho una fifa maledetta
dell'aereo, e così, un po' per la Corea un po' per l'aereo, mi
ero scolato qualche cognac di troppo per farmi coraggio».
- Due quotidiani sportivi, il «Corriere
dello Sport» e «Stadio» uscirono con lo stesso titolo a
caratteri cubitali: «Vergogna!». Cosa provasti leggendo quel
titolo?
«Ti devo confessare che scappai subito a
Lignano e non lessi i giornali, non mi sembrava il caso...
perché sapevo già tutto. Ad ogni modo, se anche l'avessi letto,
non non sarei arrossito. Se si deve provare vergogna per una
sconfitta, allora poteva andar bene anche quel quel titolo. Ma
secondo me uno deve provare vergogna solo se ha qualcosa da
rimproverarsi. E noi tutti eravamo coscienti di aver fatto il
nostro dovere. Quindi risultato a parte, non avevamo proprio
nulla di cui rimproverarci. Ripeto: se non si fosse fatto male
Bulgarelli avremmo vinto. Prima del suo infortunio avevamo già
avuto tre quattro palle gol. Non c'erano dubbi sul risultato
finale».
- Dopo la Corea, se ne andò Fabbri e
Janich non venne più convocato.«Valcareggi mi aveva fatto sapere
che mi teneva sempre in considerazione, ma io non mi ero fatto
illusioni. Sapevo che, per la sconfitta con la Corea, a pagare
sarebbero stati i meno dotati. Non mi sono mai ritenuto un
giocatore eccezionale, anche se la mia carriera l'ho fatta (fu
Bernardini a trasformarmi in libero, io mi sentivo più tagliato
per fare lo stopper, per stare attaccato all'uomo, a morderlo,
la mia arma migliore era la grinta). Era logico che fossi la
prima vittima della Corea».
http://www.storiedicalcio.altervista.org/mondiali_66_janich.html
VICE
CAMPIONE DEL MONDO
Ferruccio
Valcareggi
1
Albertosi ·
2
Burgnich ·
3
Facchetti ·
4
Poletti ·
5
Cera ·
6
Ferrante ·
7
Niccolai ·
8
Rosato ·
9
Puia ·
10
Bertini ·
11
Riva ·
12
Zoff ·
13
Domenghini ·
14
Rivera ·
15
Mazzola ·
16
De Sisti ·
17
Vieri ·
18
Juliano ·
19
Gori ·
20
Boninsegna ·
21
Furino ·
22
Prati ·
Dopo l’ultima
amichevole premondiale, vinta contro il Portogallo a Lisbona per
2-1, il centravanti titolare Piero Anastasi si infortunò. Per
sostituirlo Valcareggi ne chiamò due: Roberto Boninsegna e
dell’Inter e Pierino Prati del Milan, il che stava a significare
che uno dei 21 giocatori in ritiro era di troppo (all’epoca
infatti si andava in 22). A saltare alla fine fu il milanista
Giovanni Lodetti, al quale la Federazione propose di rimanere in
Messico ed invitare la famiglia per una vacanza ad Acapulco.
Lodetti, senza tanti giri di parole, li mandò a quel paese, fece
le valige e se tornò a Milano. Rivera, di cui Lodetti era fedele
scudiero in rossonero, prese il siluro del compagno come un
affronto personale, e sparò a zero sui dirigenti federali
minacciando di andarsene. Ci volle l’intervento di Roccò,
salito
sul primo aero per Città del Messico, per mediare col ‘Golden
Boy‘ e convincerlo a rimanere trovando un compresso con
Valcareggi: Mazzola il primo tempo, Rivera il secondo.
Pietro Anastasi, cosa ricorda
di quel 1970 quando fu costretto a saltare il mondiale
messicano?
«Ancora una grande rabbia. E
poi rammarico e delu- sione. Perché il forfait arrivò a causa di
una stupidità».
Ci racconta cosa successe?
«Eravamo ancora a Roma in
attesa di partire per Città del Messico. Io stavo scherzando con
il massaggiatore Spialtini ed ero seduto su un divano dietro a
lui. Lo scherzo diventò pesante, Spialtini si stancò e fece per
colpirmi. Mi prese al basso ventre. All'inizio non sembrò nulla,
poi alle 22 ebbi dolori fortissimi e chiesi a Furino di chiamare
il dottor Fini. Il responso fu da brivido: un versamento di
sangue in un testicolo. Mi portarono in ospedale e alla mattina
alle 8,30 venni operato. Addio al Mondiale».
Cosa provò?
«Lo può immaginare anche
lei».
Valcareggi chiamò Boninsegna
e Prati.
«Sì, ma oltre al sottoscritto
ci andò di mezzo Lodetti che il ct lasciò a casa. Ancora oggi
non me lo perdona. Comunque quell'anno successero cose strane:
in Messico Boninsegna giocò, Prati fece il turista».
Nel 1970 lei aveva 22 anni,
aveva vinto nel 1968 l'Europeo e aveva tempo per dimenticare la
delusione. Cannavaro di anni ne ha 35...
«La sua carriera in Nazionale
è sicuramente compro- messa, ma essendo un duro, un giocatore
grintoso penso che riuscirà a prendere parte anche al Mondiale
del 2010».
http://ricerca.gelocal.it/ilpiccolo/archivio/ilpiccolo/2008/06/04/MF_29_COMM.html
L'avventura messicana degli
azzurri comincia il pomeriggio del 3 giugno 1970, in altura.
Anzi, nell'abbaino del mondo, a Toluca, 2.700 metri sul livello
del mare (per dare il senso della cosa: il comune più alto
d'Italia è il Sestriere, a soli 2.000 metri; Livigno sta a
valle, a 1.800 metri). A fronteggiarli sono gli ancor più
spaesati svedesoni. La fatica è enorme e i giocatori in evidente
difficoltà sotto il sole zenitale. La partita finisce con
l'esser poca cosa.
Giggirriva, reduce
dall'epopea dello scudetto del Cagliari, appare "dissolto in
altura" a Brera, che era sugli spalti anche lui e che lo
vide, attonito, mangiarsi tre-quattro gol fatti. L'allenatore
svedese Bergmark, che aveva giocato nella Roma e imparato i
dettami del calcio all'italiana, "gli mise addosso un pisquano
che non faceva altro che spingerlo e provocarlo: Riva andava
dall'arbitro scozzese parlandogli una lingua che lo induceva a
sorridere divertito. Riuscì a non dar fuori da matto e a non
farsi espellere, ma fu dura".
Omar Sivori era seduto
accanto a Brera in tribuna e si disse "schifato della nostra
povertà di gioco". Se Pierluigi Cera impiegato da libero si
rivelò una bella intuizione di Valcareggi, non altrettanto poté
dirsi di Comunardo Niccolai, che randellò a lungo il centravanti
gialloblu Kindvall. Pare che proprio in quella occasione il suo
mentore cagliaritano, Manlio Scopigno, ebbe a esclamare
sulfureo: "Tutto mi sarei aspettato in vita mia, ma non di
vedere Niccolai via satellite".
Alla fine, per fortuna,
"scappa a Domenghini una ciabattata delle sue e il portiere
Hellstroem se ne lascia uccellare". Gol che si rivelerà
pesantissimo alla fine del girone.
http://eupallog-cineteca.blogspot.com/2012/07/italia-suecia-1970.html
PRIMO
TURNO
|
3-6-1970, Toluca (MO) Italia-Svezia 1-0 Rete: 10’
Domenghini Italia: Albertosi, Burgnich, Facchetti,
M. Bertini, Niccolai (37’ Rosato), Cera, Domenghini,
A. Mazzola, Boninsegna, De Sisti, Riva. Ct: F.
Valcareggi. Svezia: Hellström, J. Olsson, K.
Axelsson, Nordqvist, Grip, Bo Larsson (77’
Nicklasson), T. Svensson, O. Grahn, Kindvall,
Cronqvist, L. Eriksson (57’ Ejderstedt). Ct: O.
Bergmark. Arbitro: Taylor (Inghilterra). |
|
6-6-1970, Puebla (MO) Italia-Uruguay 0-0 Italia:
Albertosi, Burgnich, Facchetti, M. Bertini, Rosato,
Cera, Domenghini (46’ Furino), A. Mazzola,
Boninsegna, De Sisti, Riva. Ct: F. Valcareggi.
Uruguay: Mazurkiewicz, Ubiña, Mujica,
Montero-Castillo, Ancheta, Matosas, Cubilla, Cortes,
Esparrago, Maneiro, Bareño (70’ Zubia). Ct: E.
Hohberg. Arbitro: Glöckner (Germania Est). |
|
11-6-1970, Toluca (MO) Italia-Israele 0-0 Italia:
Albertosi, Burgnich, Facchetti, M. Bertini, Rosato,
Cera, Domenghini (46’ Rivera), A. Mazzola,
Boninsegna, De Sisti, Riva. Ct: F. Valcareggi.
Israele: Vissocer, Schwager, Primo, Rosen, Bello,
Rosental, Shum, Shpigel, Feigenbaum (46’ Rom),
Spiegler, Bar. Ct: E. Sheffer. Arbitro: Vieira de
Moraes (Brasile). |
QUARTI DI FINALE
|
14-6-1970, Toluca (MO) Italia-Messico 4-1 Reti: 13’
Gonzalez, 25’ aut. Peña, 63’ Riva, 70’ Rivera, 76’
Riva Italia: Albertosi, Burgnich, Facchetti, M.
Bertini, Rosato, Cera, Domenghini (84’ S. Gori), A.
Mazzola (46’ Rivera), Boninsegna, De Sisti, Riva. Ct:
F. Valcareggi. Messico: Calderon, Vantolra, Perez,
Munguia, Peña, Guzman, Padilla, Gonzalez (68’ Borja),
Fragoso, Pulido, Valdivia (60’ Velarde). Ct: R.
Cardenas. Arbitro: Scheurer (Svizzera). |
SEMIFINALE
|
17-6-1970, Città del Messico (MO) Italia-Germania
Ovest 4-3 d.t.s. Reti: 8’ Boninsegna, 90’
Schnellinger, 94’ G. Müller, 98’ Burgnich, 104’
Riva, 110’ G. Müller, 111’ Rivera Italia: Albertosi,
Burgnich, Facchetti, M. Bertini, Rosato (91’ Poletti),
Cera, Domenghini, A. Mazzola (46’ Rivera),
Boninsegna, De Sisti, Riva. Ct:
F. Valcareggi. Germania Ovest: Maier, Vogts, Patzke
(65’ Held), Beckenbauer, Schnellinger, Schulz,
Grabowski, Seeler, G. Müller, Overath, Löhr (51’
Libuda). Ct: H. Schön. Arbitro: Yamasaki
(Messico). |
Italia Svezia
Israele - Italia
Italia - Uruguay
Mexico 1970 - la squadra
italiana scesa in campo contro l'Uruguay
Messico - Italia
Italia-Germania 4-3
di Gianni
Brera -
Il Giorno, 18 giugno
1970
"Il vero calcio
rientra nell'epica... la corsa, i salti, i tiri, i voli della
palla secondo geometria o labile o costante..."
Non fossi sfinito per l' emozione, le troppe note prese e poi
svolte in frenesia, le seriazioni statistiche e le molte
cartelle dettate quasi in trance, giuro candidamente che
attaccherei questo pezzo secondo ritmi e le iperboli di un
autentico epinicio. Oppure mi affiderei subito al ditirambo, che
è più mosso di schemi, più astruso, più matto, dunque più idoneo
a esprimere sentimenti, gesti atletici, fatti e misfatti della
partita di semifinale giocata all' Azteca dalle nazionali
d'Italia e di Germania.
Un giorno dovrò pur
tentare. Il vero calcio rientra nell' epica: la sonorità dell'
esametro classico si ritrova intatta nel novenario italiano, i
cui accenti si prestano ad esaltare la corsa, i salti, i tiri, i
voli della palla secondo geometria e labile o
costante...Trattandosi di un tentativo nuovissimo, non dovrei
neanche temere di passare per presuntuoso. "Se tutti dovessero
fare quello che sanno", ha sentenziato Petrolini, "nulla o quasi
verrebbe fatto su questa terra".
È vero. Prima di
costruire il ponte di Brooklyn, l' architetto che lo progetta
non è affatto sicuro di esserne capace. Io stesso, disponendomi
a cantare una partita di calcio, non saprei di poterne cavare
qualcosa di valido. Però la tentazione è grande: ed io rinuncio
adesso perché sono stremato, non perché non senta granire dentro
la voglia di poetare. Italia-Germania è giusto di quelle partite
che si ha pudore di considerare criticamente. La tecnica e la
tattica sono astrazioni crudeli.
Il gioco vi si
svolge secondo meno vigili istinti. Il cuore pompa sangue
ossigenato dai polmoni con sofferenze atroci. La fatica si
accumula nei muscoli male irrorati. La squadra, a stento nata
traverso la applicazione assidua di molti, si disperde
letteralmente. Campeggia su diversi toni l'
individuo grande o
fasullo, coraggioso o perfido, leale o carogna, lucido o
intronato. Se assisti con sufficiente freddezza, annoti secondo
coscienza. Non ti lasci trasportare, non credi ai facili
sentimenti, non credi al cuore (anche se romba nelle orecchie e
salta in gola). Ho sempre in mente di aver cercato invano di
capire come siano andate realmente le cose nella finale mondiale
1934. Nessun cronista italiano aveva visto: tutti avevano
unicamente sentito.
Ora mi terrorizza l'
idea che qualcuno debba scorrere un giorno questo articolo senza
capire né poco né punto come si sia svolta la memorabile
semifinale Italia-Germania dei mondiali 1970. Retorica ne ho
fatta solo a rovescio, giustificando la mia umana impotenza a
poetare. Ho dato un. idea di quanto avrebbe meritato lo
spettacolo dal punto di vista sentimentale? Bene, non intendo
abbandonarmi a iperboli di sorta.
Fuori dunque le
cifre: e vediamo di interpretarle secondo onestà critica e
competenza. Soffoco i miei sentimenti di tifoso con fredda
determinazione. Parliamo allora di calcio, non di bubbole
isteroidi. I bravi messicani sono impazziti a vedere italiani e
tedeschi incornarsi con tanto furore. Adesso fanno i loro
ditirambi. Pensano di apporre una lapide all' Azteca. Sarei
curioso di leggere: e magari di veder fallire in altri la voglia
di poetare ore rotundo.
I nostri ospiti
hanno gaiamente bruciato adrenalina ad ogni sconquasso, e Dio sa
quanti ne siano stati perpetrati in campo. Ma domenica c'è
Italia-Brasile, e sarà, garantito, anche peggio. Basterà una
lapide un po' più grande per ricordare tutto. Non anticipiamo,
please. In finale sono due "equipos bicampeones": dunque è
sicuro ( a meno di eventi imponderabili ) che la Coppa Rimet
avrà finalmente un padrone definitivo. Questo conta!
La squadra azzurra,
benchè gloriosissima finalista, non va troppo lodata per ora.
Guardiamola freddamente. L' Italia è finalista, con il Brasile,
della Coppa Rimet: questo può bastare alla nostra gioia di
tifosi, anche se sul partitone di ieri, che ci ha portato a
battere i tedeschi, è meglio ragionare, di modo che non si
gonfino equivoci pericolosi. La prima doverosa constatazione è
questa: gli italiani si sono battuti, quasi tutti, con slancio
virile, molto ammirevole e, in certo modo, sorprendente. È
difficile non dirsi fieri di questi guaglioni, dopo quanto si è
visto e sofferto.
Se l' altura non è
un' opinione, vinceremo per la terza volta i mondiali: questo ho
detto e ripeto. Ma bisognerà che non giochiamo come s'è fatto
ieri, proprio no. La memorabile partita è stata avvincente sotto
l'aspetto agonistico e spettacolare: si è conclusa bene per noi,
e questo è il suo maggiore pregio, ai miei occhi disincantati.
Sotto l' aspetto tecnico-tattico, è da ricordare con vero
sgomento. Sia gli italiani sia i tedeschi hanno fatto
l'impossibile per perderla. Vi sono riusciti i tedeschi.
Evviva noi! Errori
ne sono stati commessi millanta, che tutta notte canta. I
tedeschi ne hanno forse commessi meno di noi, ma uno solo,
madornale, è costato loro la sconfitta. Enumero gli errori
italiani. Si parte con Mazzola, buon difensore, si segna e si
regge benino. Marcature discutibili (su Seeler andava messo
d'urgenza Burgnich): ma all' avvio tutto fila. Boninsegna tenta
di servire Riva, stolidamente soffocato in mischia, riceve un
rimpallo di Vogts e cannoneggia a rete: sinistro imperdonabile:
gol. È il 7' . I tedeschi arrancano grevi. Giocano con tre punte
e mezzo, come con gli inglesi: le ali, Muller e Seeler.
Acuiscono via via il forcing ma non cavano più di due tiri-gol
di Grabowski: li sventano Rosato e Albertosi. Muller conclude
fuori una volta. Seeler non riesce a tirare affatto: rifinisce
soltanto.
Gli italiani
concludono spesso con Riva, tuttavia mal situato. Mazzola tiene
Beckembauer e potrebbe segnare al 40' se l'arbitro gli
concedesse la regola del vantaggio. Facchetti inciampa nei piedi
di Beckembauer, lanciato a rete, e lo fa ruzzolare. Un arbitro
meno onesto darebbe rigore (17' ). Riva spreca di testa una
palla-gol (40') e un' altra ne sbuccia a metà (parata in angolo
di Maier:42').
Secondo tempo.
Mazzola e Boninsegna sono stati avvertiti il mattino che uno di
loro verrà sostituito da Rivera. Nell'intervallo si sostituisce
Mazzola, il migliore in campo. Un collega tedesco, Rolf Guenther,
sospira: "L' ultima nostra speranza è riposta in Rivera".
Maledetto. Come sostituire Bonimba, pure molto bravo, e autore
del gol? Dunque, fuori Mazzola. Entra Rivera e assiste smarrito
al forcing tedesco, sempre più acre. Domenghini è chiamato su
Beckembauer ma, ben presto, Schoen manda in campo Libuda, a
destra, sul più sciagurato Facchetti dell' anno, e poi
addirittura espelle Patzke e getta in mischia Held, un grintoso
biondone dal piglio da ss. Domenghini deve dividersi, a soccorso
di tutti.
Il forcing tedesco è
così fiducioso che Riva al 5' e Rivera al 12' possono battere a
rete autentiche palle-gol. Purtroppo sono sciape, e Maier le
para entrambe. Sotto Albertosi, continue gragnuole. Seeler
giganteggia, sgomitando Bertini e venendone sgomitato. Mischie
furenti nella nostra area. Due falli da rigore rilevati per
onestà (e dàlli): Rosato su Beckembauer e Bertini su Seeler. Una
rimbombante traversa di Overath (19' ). Una respinta di Rosato
sulla linea. Un gol sbagliato da Muller. Due o tre parate gol di
Albertosi.
I tedeschi ci
assediano. Rivera guarda. Domenghini affoga. Dal'area, continui
richiami. Nessuno torna, dalle posizioni di punta (eppure Riva è
meglio in difesa che all' attacco, di questi tempi: sissignori).
Il predominio tedesco è avvilente. Il pubblico ruggisce all'
ingiustizia del punteggio. I tedeschi attaccano con Libuda,
Seeler, Muller, Held e Grabowski di punta, e dietro loro premono
Beckembauer e Overath. Un vero disastro. Una sproporzione di
forze impressionante. Valcareggi prende atto. Io arrivo ad
augurarmi che segnino alla svelta i tedeschi perchè mi vergogno
(e ne soffro).
Sono difensivista
convinto ma questo non è calcio: è una miseria pedatoria. E
anche stupidità. Non abbiamo vigore sufficiente al facile
contropiede. I tedeschi schiumano rabbia. Infine pareggia
Schnellinger, al 47' 30". E meno male che è lui, der italiener.
Non l' abbiamo corrotto: Carletto è onesto Segna. È la sesta
punta. Schoen gioca senza libero, ormai. Vogts su Riva e Schultz
su Bonimba. Gli altri, tutti avanti (per nostra fortuna).
Tempi supplementari.
Si fa male Rosato, entra Poletti. A parte una lecca a Held, che
se la merita, gioca di punta per i tedeschi, e segna al 5' .
Cross di Libuda (che inciucchisce Facchetti), testa a rifinire
di Seeler: palla morta in area, Poletti non stanga via,
accompagna di petto verso porta: Muler si frappone: Poletti e
Albertosi fanno la magra: 1-2. Sciagura. Pubblico osannante.
Meritiamo, meritiamo, come no?
Ma qui incominciano
gli errori tedeschi. Pur imitando Ramsey, Herr Schoen ci ha
preso per degli inglesi. E insiste a WM. Vogts commette fallo su
Riva. Rivera tenta il pallonetto perché incorni qualcuno: chi
c'è in area tedesca? Il furentissimo Held. Il quale di petto
mette graziosamente palla sul sinistro di Burgnich, l'immenso:
2-2. Dice che il pubblico si diverte, a questi scempi. Il
critico prende atto: ma rabbrividisce pure.
I tedeschi sono
proprio tonti: ecco perché li abbiamo quasi sempre battuti. Nel
calcio vale anche l' astuzia tattica non solo la truculenza, l'
impegno, il fondo atletico e la bravura tecnica. I tedeschi
seguitano a pencolare avanti in massa. Così segna anche Riva.
Domenghini si ritrova all' ala sinistra (dove non è il mio
grande grandissimo sbirolentissimo Bergheim?): crossa basso:
trova Riva. Riva tocca a lato di esterno sinistro, secco, breve:
scarta di netto Vogts ed esplode la rituale mancinata di collo.
Gol strepitoso.
É il 14' del primo
tempo supplementare. I tedeschi sono anche eroici (e quante
botte pigliano e danno). Sono stanchi morti, ma quando Seeler
suona il tamburo (con il gomito in faccia a Bertini) tutti
ritrovano la forza per tornar sotto e pareggiare. É angolo a
destra. Batte Libuda. Seeler stacca da sinistra e rispedisce a
destra: Muller dà una incornatina che Albertosi segue
tranquillo: sul palo è Rivera (ma sì, ma sì): il quale sembra si
scansi. Albertosi lo strozzerebbe. Rivera china il capino
zazzeruto e la fortuna sua e nostra gli offre subito il destro
di salvare sé e la squadra. É il 6' : lanciato sulla sinistra:
Boninsegna ingaggia l' ennesimo duello con il cottissimo Schultz:
riesce a crossare basso indietro: i pochi tedeschi in zona sono
su Riva. Rivera in comodo allungo si trova la palla sul piatto
destro e freddamente infila Maier, già squilibrato prima del
tiro.
Adesso è proprio
finita. I tedeschi sono battuti. Beckenbauer con braccio al
collo fa tenerezza ai sentimenti (a mi, nanca un po' ). Ben
sette gol sono stati segnati. Tre soli su azione degna di questo
nome: Schnellinger, Riva, Rivera. Tutti gli altri, rimediati.
Due autogol italiani (pensa te!). Un autogol tedesco (Burgnich).
Una saetta di Bonimba ispirata da un rimpallo fortunato.
Come dico, la gente
si è tanto commossa e divertita. Noi abbiamo rischiato l'
infarto, non per ischerzo, non per posa. Il calcio giocato è
stato quasi tutto confuso e scadente, se dobbiamo giudicarlo
sotto l'aspetto tecnico-tattico. Sotto l'aspetto agonistico,
quindi anche sentimentale, una vera squisitezza, tanto è vero
che i messicani non la finiscono di laudare (in quanto di calcio
poco ne san masticare, pori nan).
I tedeschi meritano
l' onore delle armi. Hanno sbagliato meno di noi ma il loro
prolungato errore tattico è stato fondamentale. Noi ne abbiamo
commesse più di Ravetta, famoso scavezzacollo lombardo.
Ci è andata bene.
Siamo stati anche bravi a tentare sempre, dopo il grazioso
regalo fatto a Burgnich (2-2). L' idea di impiegare i dioscuri
Mazzola e Rivera è stata un po' meno allegra che nell'
amichevole con il Messico. Effettivamente Rivera va tolto dalla
difesa. Io non ce l' ho affatto con il biondo e gentile Rivera,
maledetti: io non posso vedere il calcio a rovescio: sono pagato
per fare questo mestiere. Vi siete accorti o no del disastro che
Rivera ha propiziato nel secondo tempo?
Tutto all'aria,
tutto sconnesso. Se non vedete e amate, almeno rispettate chi
vede, e proprio perché vede si raccomanda che Rivera sia punta o
mezza punta, non centrocampista, mai! Da punta è andato
benissimo, sia nell' amichevole con il messico, sia con gli
stessi tedeschi, sebbene di palle ne abbia lavorate assai poche.
I sentimentali, immagino, avranno cantato sonori peana per
tutti. Preferisco attenermi alla realtà non senza ringraziare i
tedeschi per la loro cieca dabbenaggine tattica e l'arbitro
Yamasaki per la sua vigile comprensione...
Ora siamo in finale,
e si può vincere. Ma bisogna condurre veramente la squadra, non
guardarla atterriti dalla panchina. Valcareggi e Mandelli,
guidati da Franchi (ma sì) hanno molta fortuna: Napoleone
gradiva moltissimo i generali fortunati. Sono graditi anche da
noi, benché siamo tifosi e non imperatori. Però la fortuna -
alla lunga - meritata. Mercoledì è stata meritata, onestamente:
e fortuna è stata anche quella di non vincere 1-0 in 90' rubando
la partita da pitocchi, dopo la rabbiosa e squassante offensiva
tedesca.
Il 4-3, a pensarci,
legittima tutto: anche le nostre fondate ambizioni a vincere
definitivamente la rimet. Ma se commettiamo gli sfondoni di
mercoledì con il fiero e disinvolto Brasile, poco poco ne
prendiamo de goleada. Attenti, allora. Da domani studiamo la
partita, ci ragioniamo su e vediamo com è possibile farla
nostra, se davvero sarà possibile.
Le geniali
pagelle di Brera
ALBERTOSI 7 - Va
perdonato, come la Maddalena, perché molto ha parato: però tre o
quattro volte è salito in pallone: 7 merita, con qualche
sospetto.
BURGNICH 9+ Eroe
della giornata: non per il gol, e neanche per avere scoraggiato
Löhr e poi Grabowski, ma per aver tenuto l'area su Müller da
grandissimo gladiatore: 9 più, come minimo.
FACCHETTI 5
- Diciamo disastroso, intronato, preoccupante (Dio, che
dispiacere parlarne male: ma debbo: e non meno doveroso mi
sembra rendere noto che, se gioca su Jairzinho, possiamo
tranquillamente salutare la Rimet. Va in Brasile garantito).
BERTINI 6- Un
muscolare tosto ma stolido: quando è in area, tremo. Lascia a
Seeler almeno cinque incornate da gol (o da rifiniture per il
gol). Su Seeler, in partenza, bisognava mandare Burgnich, che è
buonissimo di testa. Gli diamo 6 meno, al Bertini, per le
stoiche botte che ha preso e che ha dato.
ROSATO 6,5 Pare un
tavolino scancosciato, a volte, però duro, diligente,
maligno.Mùller, con lui, non segna.
CERA 7- Quando c'è
mischia in area, la sua fragile sagoma scompare. Bravo, attento,
però gracile. E dobbiamo stare zitti perché fa già miracoli. In
fondo non è quello del libero il suo mestiere: mercoledì sarebbe
andato bene il Ferrante: ma chissà in che stato psicofisico si
trova, adesso? A Cera: 7 meno meno.
DOMENGHINI 8 A
volte lo rincorrerei con un bastone, tanto è gnocco e stordito;
più spesso lo rincorrerei per abbracciarlo. Ha fatto poco poco
cinquanta chilometri: il terzino, il mediano, l'interno, l'ala!
Valutato il suo apporto compulsando le note, dopo la partita,
penso che meriti 8, non meno.
MAZZOLA 7,5 Ottima
partita su Beckenbauer, al quale ha restituito pure una bella
lecca. Sta imparando a fare il vero interno. Mi piace anche si
lagni di poter giocare solo 45'. Merita 7,5.
RIVERA 6- Come
sarebbe bello se potessimo farne giocare dodici. Lui ci vuole,
certe cose le fa meglio di tutti: ma quanto può costare a volte,
impiegarlo. Merita 6 meno.
BONINSEGNA 7,5 Dai
quarti, un vero fenomeno: e come dicevo, ricordando la legge dei
grandi numeri, doveva segnare proprio mercoledì. Poi ha sprecato
anche, ma quante buone cose! 7,5.
DE SISTI 6+ Con
Mazzola aveva un valido appoggio. Con Rivera, niente o quasi. Si
è salvato perché naviga sempre alla meglio nel mare magno del
centrocampo: 6+
RIVA 6,5 Ha giocato
meglio che con il Messico. Ha avuto sfortuna in due ottime
incornate volanti. Ha segnato un gol da grande campione. Poi, le
cose migliori le ha fatte a sostegno: 6,5.
POLETTI 5 Ha
esordito nel fuoco, povera anima. Autogol e lecche rabbiose. Un
bel cross-gol mancato al balzo da Boninsegna ormai esausto:
LA PARTITA LUNGA
TRENT'ANNI (Alessandro Baricco)
QUANDO Schnellinger insaccò,
un minuto e quaranta secondi dopo lo scadere del tempo
regolamentare, io avevo dodici anni. In una famiglia come la mia
ciò significava che ero a letto, a dormire, già da un bel po'.
Allo stadio Azteca stavano facendo la storia, e io dormivo. Era
giugno, il mese in cui ti spedivano dai nonni, al mare, a farti
di biglie e di focaccia. Mi immagino mio nonno, solo, davanti
alla tivu, fulminato, come Albertosi, dalla palettata di
Schnellinger. Dovette succedergli qualcosa dentro, in
quell'istante: forse il complesso di colpa per avermi negato per
sempre quell'emozione; forse, più semplicemente, pensò che era
troppo solo per sopportare tutto quello. Insomma: si alzò e
venne a svegliarmi. L' unica altra volta in cui qualcuno era
venuto a svegliarmi nel pieno della notte per portarmi davanti a
un televisore era poi successo che un uomo aveva messo un piede
sulla luna.
QUINDI, quando mi sedetti sul
divano, sapevo esattamente che non avrei più dimenticato.
Messico, giugno 1970, semifinale dei mondiali, Italia -
Germania. Per la mia generazione, quella è LA partita: è per la
gran parte di noi è una emozione in piagiama e vestaglia, piedi
freddi in cerca di pantofole, gusto di sonno in bocca e occhi
stropicciati. Quel che di più simile c'è a un sogno.
Lì per lì, la prima cosa che
mi rapì fu una stupidata: c'era in campo Poletti. Poletti era
l'unico giocatore del Toro che riuscisse a mettere la maglia
della nazionale, giusto ogni tanto, quando qualcuno si faceva
male. Giocava maluccio, aveva un nome da impiegato e faceva il
terzino, cioè niente di poetico: però era del Toro, e per me era
come se scendesse in campo mio padre. Lì, all'Azteca, mio padre
entrato per sostituire Rosato (un grandissimo, tra parentesi).
Passai i primi minuti a cercarlo anche quando era fuori
dall'azione, purché fosse dentro il televisore. Così lo vidi
benissimo quando si mise a pasticciare orrendamente davanti ad Albertosi, al 94: la palla se ne rimase lì in mezzo, a due passi
dalla porta, come un bambino dimenticato al supermercato: per
Mueller fu uno scherzo metterla dentro, anche perché era Mueller,
cioè un tipo umano che poi avrei incontrato infinite volte, cioè
quello che sta in agguato e poi ti frega, quello che non lo vedi
mai se non nel preciso istante in cui ti sta fregando, quello
che la natura si è inventata per riequilibrare il mondo dopo
aver inventato i Poletti. Colpetto rapinoso, e 2 a 1 per i
crucchi.
A quel punto la partita era
finita. Riva respirava come se avvesse avuto l'enfisema,
Boninsegna insultava tutti quelli che gli passavano a tiro, e
Domenghini sciabolava dei cross talmente surreali che per
ritrovare la palla dovevano ricorrere ai cani da tartufo.
Ontologicamente, la partita era finita. Martellini lo fece
capire, con la morte nel cuore e nella voce, a tutti i nonni di
Italia, e quindi anche al mio: che disse: a nanna. Mi salvò
Burgnich. Cosa ci facesse lui in mezzo all'area avversaria, al
98, è cosa che un giorno gli vorrei chiedere. Probabilmente si
era perso. Sparò il suo ferro da stiro su una palla ignobilmente
pasticciata da Vogts (Poletten), e insaccò, incredibilmente,
regalando a quella partita un eleganza geometrica
sovrannaturale, 2 a 2, i centravanti ad aprire la ferita e i
terzini a suturarla, Boninsegna-Schnellinger, Mueller- Burgnich,
in una splendida metafora di quello che il calcio è, lo scontro
tra gente che cerca di far accadere cose, gli attaccanti, e
gente che cerca di impedire che cose accadano, i difensori. A
ripensarci, era tutto così perfetto che avrebbero dovuto
mollarla lì, tornare a casa e non giocare a calcio mai più.
Il 3 a 2 fu calcio vero, di
quello che non ha bisogno del Poletti di turno per arrivare al
goal. Apertura di Rivera sulla sinistra, non un centimetro
troppo lunga, non un centimetro troppo corta, fughetta di
Domenghini sull'ala, cross non surreale al centro, e palla a
Riva: stop, finta, saluti vivissimi al difensore tedesco, palla
sul sinistro, colpo di biliardo sul paletto lontano, rete. Più
che un'azione, un'equazione. Dove quei tre abbiano trovato la
lucidità di risolverla con quella perfezione dopo 104 minuti di
battaglia è cosa che un giorno vorrei chiedergli. Era calcio
ridotto alle sue linee più pure ed essenziali. I tedeschi non ci
capirono niente. Intervistati, avrebbero potuto dire quello che
Glenn Gould diceva del rock: "non riesco a capire le cose così
semplici".
Da lì in poi è confusione.
Non ricordo più nulla, intorno a me, e questo significa che
doveva esserci un gran casino, dentro e fuori casa. E' strano
che io non abbia nemmeno un'immagine in testa di mio nonno che
schizza fuori dalla poltrona e, che so, dà di matto sul balcone
sparando dei vaffanculo tremendi a gente con cui, dall'8
settembre del '45, aveva qualche conto in sospeso. Niente del
genere. Mi spiace, anche, perché terrei con me volentieri
un'immagine di lui felice, incontrovertibilmente felice, lui che
era un uomo così pudico nelle sue gioie. Eppure tutto, nella
memoria, risulta ingoiato da due singole immagini, che hanno
cancellato tutto il resto, come due flash accecanti che hanno
spento tutto, intorno. E in tutt'e due c'è Rivera.
La prima è lui abbracciato
al palo, un istante dopo aver fatto passare un pallone pizzicato
dalla testa di Mueller e spedito proprio dove c'era lui, sulla
linea di porta, lì esattamente per fare quello che però,
all'ultimo, non era riuscito a fare, e cioè interporre un
qualsiasi arto o lombo tra pallone e rete, gesto per cui non era
necessaria nessuna classe, nessun talento, ma giusto la semplice
volontà di farlo, la determinazione di trasformarsi in corpo
solido, l'ottuso istinto alla permanenza che hanno le cose
tutte, tutte tranne Rivera su quella linea di porta, dove vede
passare il pallone e guardarlo è tutto, il resto è un palo
abbracciato comicamente e un Albertosi che ti grida dietro
domande senza risposta.
La seconda è l'icona massima
di quell'Italia-Germania. Rivera, ancora lui, completamente solo
a centro area, riceve un assist dalla sinistra (Boninsegna) e
tira in porta al volo, di piatto destro. Maier, il portiere
tedesco, un mattocchio che sapeva il fatto suo, è attaccato al
palo destro dov' era andato a chiudere su Bonimba: si aspettava
il solito centravanti che sfonda e poi tiracchia appena vede lo
spiraglio; Boninsegna era in effetti il più classico dei
centravanti; una sola cosa era logico che facesse: tirare. E
invece con l'orecchio aveva visto Rivera, là, olimpico e
apollineo, in una radura di magica solitudine nel cuore
dell'area: illogica rasoiata in quel punto, palla nella radura,
e Maier fuori posizione, fatto fuori da un'inopinata incursione
della fantasia nel tessuto di un teorema che credeva di
conoscere a memoria. Rivera e Maier. Tutta la porta spalancata,
vuota. Maier lo sa e alla cieca abbandona il palo e si
scaraventa a coprire tutto quello che può di quel vuoto. Rivera
potrebbe affidare al caso la pratica, scaricando sul pallone la
potenza approssimativa del collo del piede, e vada come vada.
Invece sceglie la razionalità. Apre la caviglia (ho visto donne
aprire ventagli senza nemmeno sfiorare quella eleganza), e opta
per il colpo di interno, scientifico, geometrico, magari meno
potente, ma nato per essere esatto: ha un'idea, e per quella
idea non gli serve potenza, gli serve esattezza. E' un'idea
fuori dalla portata di un portiere colto fuori posizione e
provvisoriamente consumato dallo sforzo animalesco di rientrare
nella propria tana prima che arrivi il nemico. E' un'idea
perfida e geniale: fregare l'animale in contropiede andando a
infilare il pallone non nel grande vuoto che sta davanti
all'animale, ma nel piccolo vuoto che gli sta dietro: l'unico
punto in cui, fisicamente, gli è impossibile arrivare. In
pratica si trattava di tirare addosso a Maier, fiduciosi nel
fatto che lui, nel frattempo, sarebbe finito altrove. Rivera lo
fece. Il pallone passò a quattro dita da Maier: ma erano come
chilometri. Goal. IL goal. Una buona parte dei maschi italiani
della mia generazione conserva la memoria fisica di quel tocco
riveriano appiccicato all'interno del proprio piede destro. Non
scherzo. Noi abbiamo sentito quel pallone, non smetteremo più di
sentirlo, ne conosciamo i più intimi riverberi, ne conosciamo
perfettamente il rumore. E ogni volta che colpiamo di interno
destro, è a quel colpo che alludiamo, e non importa se è una
spiaggia, e il pallone è quello molliccio sfuggito a qualche
stupido giocatore di beach-volley, e in braccio hai un frugolo
che pesa dieci chili, e in faccia la faccia di uno che l'ultimo
cross dal fondo l' ha fatto un secolo fa: non importa: peso
sulla sinistra, apertura della caviglia, tac, interno destro:
rispetto, bambini, quello è un colpo che è iniziato trent' anni
fa, in una notte di giugno, pigiami e zanzare.
Perchè poi tutto questo, chi
lo sa. Voglio dire: per quanto bella, era poi solo una partita.
Cosa è successo perché dovessimo mitizzarla così? A dire il vero
non l'ho mai veramente capito. Mi vengono in mente solo due
spiegazioni. Avevamo l'età giusta. Tutto lì. Avevamo l'età in
cui le cose sono indimenticabili. E poi: quella sera, quella
partita, l'abbiamo vinta. Sembra una stupidata, ma sapete qual è
la cosa più assurda di tutta questa faccenda? Che se voi citate
a un tedesco quella partita, magari con un' aria un po'
complice, come a condividere un ricordo pazzesco e perfino
intimo, beh, quello quasi non se la ricorda, quella partita.
Cioè, se la ricorda, ma non gli è mai passato per la testa che
fosse qualcosa di più di una partita. Anzi, hanno sempre un po'
l'aria di considerarla una partita stramba, folklorostica,
neanche tanto seria. Non è un mito, per loro. Non è un luogo
della memoria. Non è vita diventata Storia. E' una partita.
Tutt'al più ti citano Beckenbauer che gioca i supplementari con
la spalla fasciata e il braccio bloccato sul petto. Come sarebbe
a dire? Tu parli di una cena pazzesca e loro ti citano le patate
lesse? Non scherziamo. Tanto quello giocava rigido come una
scopa anche se non lo fasciavano, sempre lì a colpire d'esterno,
il fighetto, chiedigli un po' notizie di De Sisti, neanche l'ha
visto, per tutta la partita, te lo dico io, ma vattela a
rivedere poi ne riparliamo, altro che Beckenbauer, vattela a
rivedere, tac, interno destro, altro che esterno, comunque per
me quella partita abbiamo incominciato a vincerla al 91, credi a
me, no, che c'entra Schnellinger, dico al 91, adesso tu non te
lo ricorderai, ma è lì che si è deciso tutto, cambio dalla
panchina, fuori Rosato, dentro Poletti, ti dico che lì la
partita è girata, ascolta me, vattela a rivedere se non ci
credi... Prego? Ma guarda te, questo non sa nemmeno chi è
Poletti...
LO SPORTIVO SCAMBIO DELLE
MAGLIE ALLA FINE DELLA STORICA PARTITA
Quando Gianni Brera sentiva
usare l’espressione “Partita del secolo” a proposito di
Italia-Germania del 1970, prima guardava torvo l’incauto
interlocutore, poi lo apostrofava con una frase che più o meno
era sempre la stessa: “Prova a parlare di Jahrhundertspiel
(“Partita del secolo” appunto ) con un tudesc, pirlùn. Vedrai
cosa ti risponde!”. Gianni, si sa, era sempre piuttosto
estremizzante nei suoi giudizi. Diciamo che al netto del
“tudesc” e del “pirlùn” lui sosteneva che quella fosse stata una
partita bruttissima, diventata leggendaria per una somma di
errori tattici e individuali che generarono (quasi) altrettanti
gol e una somma di emozioni indimenticabili.
Resta il fatto che a torto o
- secondo me - a ragione, se ne parla da cinquant’anni esatti. E
chi l’ha vista ne ricorda ancora le sensazioni indelebili:
mentre chi non l’ha vista, se non nei filmati, probabilmente ha
capito (ma non del tutto) che notte trascorremmo quella notte.
Perché Italia-Germania, è giusto rammentarlo, finì alle due
abbondantemente passate. Ed è raccapricciante ricordare che, in
caso di pareggio sul 3 a 3, si sarebbe tirata la monetina. Altro
che algoritmi!
Fu la partita che ci spalancò
le porte della gloria. Ma fu anche la partita che ce le richiuse
immediatamente, perché la squadra arrivò stravolta dalla fatica
alla finale col Brasile (che vi approdò certamente più fresco) e
non potè che resistere un tempo solo davanti al samba
indemoniato delle furie oro di Pelè e compagni.
A quel match sono stati dati
tanti significati. Il più importante, secondo me, al di là del
valore sportivo, è che segnò agli occhi del mondo il culmine di
un riscatto umano, sociale e persino politico di un Paese che
era stato in ginocchio fino a qualche lustro prima e che anche
nelle gioie e nella coesione dello sport aveva ritrovato la sua
strada. Da Coppi e Bartali, via via fino agli eroi contadini
delle prime due Olimpiadi del dopoguerra, poi la bellissima
sbornia dei Giochi di Roma, per finire col primo e unico titolo
europeo nel calcio nel 1968: quel calcio che a livello di
Nazionale ci aveva visto iniziare da campioni del Mondo in
carica gli anni 50 e che, per vent’anni, ci aveva riservato solo
bastonate.
Quei ragazzi che ci fecero
sognare in Messico erano “tutti figli della guerra”: dai più
vecchi (Puia e Burgnich del ’38 e del ’39) ai più giovani (Niccolai,
Gori, Prati e Furino, tutti del ’46)). Si chiamavo Tarcisio,
Comunardo, Angelo, Ugo, Giuseppe, Dino, Giacinto. Venivano da
famiglie modestissime: quelle che si erano rimboccate le maniche
per dar loro da mangiare e per farli crescere in un Paese
migliore. E loro avevano ringraziato così: regalandoci un
sorriso e sputando l’anima finchè avevano potuto. Erano anni in
cui la maglia azzurra era più importante di tutte le altre
maglie messe assieme. Anche se quei ragazzi non cantavano
l’inno: anche se non si prendevano per mano. Perché era stato
loro insegnato - a torto o a ragione - che l’inno andava
ascoltato a testa alta e sull’attenti
La partita andò come andò: in
un crescendo di emozioni - e qui ha ragione Brera - a cui
contribuirono prodezze e svarioni, terzini fuori posto che
andarono a far gol e svolazzi difensivi. Eppure alle due di
notte di quel mercoledì, ormai giovedì, di un’estate già calda,
l’Italia si ritrovò tutta "desta" come da spartito. Il gol
decisivo di Rivera (subentrato a Mazzola nella celebre
"staffetta") suscitò, dalle finestre spalancate, il primo boato
in mondovisione della nostra storia. Si riempirono
spontaneamente le piazze: molti tirarono l’alba e andarono
direttamente a lavorare. Il resto lo fece la china del tempo: e
così quella palla di neve azzurra diventò prima una slavina, poi
una valanga e poi un mito. Forse sovradimensionato (in fondo era
solo una “semifinale” di un Mondiale, anche se non ci arrivavamo
dal 1938), forse preterintenzionale, probabilmente atteso e
"necessario". Di certo, indimenticabile
Io ero davanti alla tv con
mio padre. Ricordo che ci abbracciammo: cosa non usuale per una
generazione non esattamente cresciuta a smancerie. Sognavo di
fare il giornalista (e qualcosa già facevo a livello locale).
Mai avrei potuto immaginare, a vent’anni o giù di lì, che quello
sarebbe stato l’ultimo Mondiale che avrei visto in televisione.
A tutti gli altri avrei assistito dal vivo. Sì, forse fu davvero
la mia partita del secolo
Marino Bartoletti
IL GIORNO DELLA
FINALE E I SEI MINUTI DI GIANNI RIVERA
Fu
un caso clamoroso. Al tempo l'Italia calcistica era spaccata in
due per via di una rivalità tra due grandi campioni, il
milanista
Gianni Rivera
e l'interista Sandro Mazzola. Protagonisti di tantissimi derby,
rivali in campionato, Mazzola e Rivera trasferirono la loro
guerra anche in nazionale.
L'allenatore era Ferruccio Valcareggi, un tecnico di grande
competenza, il quale disse subito, che i due non avrebbero mai
potuto giocare insieme.
La formazione-tipo dell'Italia era composta da dodici giocatori:
Albertosi, Burgnich, Facchetti, Bertini, Rosato, Cera,
Domenghini, Mazzola, boninsegna, De Sisti, Riva e Rivera.
Quest'ultimo non entrava mai in campo dal primo minuto, ma dava
regolarmente il cambio a Mazzola all'inizio del secondo tempo.
Nacque così la 'staffetta'. Un tempo i guizzi di Mazzola,
l'altro i lanci di Rivera, e l'Italia andò sempre avanti.
Passato il girone di qualificazione si trovò nei quarti di
finale contro i padroni di
casa del Messico, gli azzurri vinsero 4-1 e la staffetta
funzionò a meraviglia.
Il 17 luglio, una delle giornate più luminose del calcio, Italia
Germania Ovest. Di questa partita ormai si è detto tutto, un 4-3
che ha scritto le pagine del calcio, con il fantastico gol di
Rivera nel finale. Ma Mazzola non digerì la sostituzione, nel
primo tempo aveva annullato
Beckenbauer
e l'Italia finì il primo tempo in vantaggio 1-0. Nella ripresa,
con Rivera in campo, l'Italia venne schiacciata e subì il
pareggio. Poi andò a finire con la vittoria degli azzurri in una
spettacolare alternanza di gol.
Mazzola 'sbottò', radunò i compagni di squadra dell'Inter e
chiese solidarietà. 'Se mi volete bene, dovete pronunciarvi
anche voi contro la staffetta'. I compagni lo appoggiarono e a
turno lo comunicarono al Valcareggi. Dissero che loro
preferirono Mazzola perchè era più utile alla squadra, sapeva
sacrificarsi meglio di Rivera.
E la staffetta svanì. Proprio dopo essersi dimostrata un'arma
straordinaria.
Nella finale Mondiale contro il Brasile, Mazzola giocò tutti i
90 minuti. Ma il 'giallo' riguarda gli ultimi 6 minuti della
partita. Italia Brasile alla fine del primo tempo è sul
risultato di 1-1, gol di Pelè e Boninsegna. Ma all'inizio del
secondo tempo milioni di italiani restano di sasso quando non
vedono entrare in campo Gianni Rivera.
L'Italia a poco a poco crolla. Al 21' segna Gerson, cinque
minuti più tardi Jairzinho. I minuti scorrono e quando ne manca
ormai una sola manciata, ecco il gesto tanto atteso, Rivera
entra in campo, mancano sei minuti soltanto alla fine e a uscire
non è Mazzola, ma Boninsegna. L'ingresso del fuoriclasse
rossonero non può dare frutti, troppo tardivo il suo inserimento
in campo. Ed è ancora il Brasile a realizzare il gol del
definitivo 4-1 con Carlos Alberto.
Il mastino
Burgnich: "Il mio Pelé, il migliore di tutti"
"Giocatori così nascono ogni
trent'anni. Lui, Maradona, Di Stefano e Sivori i più grandi,
ma Pelé è stato il più completo".
“È fatto di carne ed ossa
come tutti gli altri, mi dicevo prima di quella partita.
Sbagliavo”: Tarcisio Burgnich, qualche anno fa, così ricordò,
icasticamente, il giorno in cui marcò Pelé. 21 giugno 1970,
Città del Messico, finale dei Mondiali: Brasile-Italia finì 4-1,
la Seleçao portò a casa - aggiudicandosela in maniera definitiva
- la sua terza Coppa Rimet. Vinsero
tre Mondiali in tredici anni, il Brasile e Pelé, che in quel
1970 viveva probabilmente il periodo di massimo splendore. Segnò
il primo gol, o Rei, e alla Roccia azzurra non restò che
guardarlo esultare, da terra.
Burgnich, oggi, di anni ne ha 71,
vive in Toscana dalle parti di Altopascio, si tiene in
allenamento con la bicicletta e ferma volentieri il pedale per
parlare di Pelé: “Dalle immagini
di quel gol, e dagli scatti
fotografici, sembra che lui salga in cielo per colpire il
pallone. In effetti mi sovrastò, ma mi prese in controtempo:
avevo fatto un passo in avanti perché mi aspettavo che Rivelino
crossasse basso, arrivò un pallone alto e Pelé era già in
vantaggio. L’elevazione non fu straordinaria, ma il colpo di
testa fu perfetto”.
E allora lei capì che Pelé
non era di carne ed ossa…
“Lo confermo: un giocatore
così nasce ogni venti o trent’anni. Una perla rara”.
Pelé e chi altro?
“In ordine cronologico Di
Stefano, Sivori, Pelé e Maradona”.
È stato il brasiliano il
migliore?
“Direi di sì. Maradona era
forse un talento più individuale, ma il Pelé che ricordo io
aveva tutto: destro, sinistro, colpo di testa, velocità,
dribbling, tiro e visione di gioco. E poi aveva un’altra dote:
era leale”.
Il fuoriclasse senza la
faccia da schiaffi.
“Non amava irridere gli
avversari. Penso alla differenza fra i tunnel di Sivori e quelli
di Pelé: per quest'ultimo era una situazione di gioco, lo faceva
quando necessario. Tutte le volte che ho giocato contro di lui,
l’impressione veniva confermata”.
In
quella finale lo marcaste
in due.
“Sì, è vero, a dividerci i
compiti di marcatura su Pelé fummo io e Bertini, a seconda dei
movimenti che faceva il brasiliano in campo”.
Nelle pagelle del giorno
seguente Brera diede 7,5 a Pelé ma scrisse: “Non sempre è
riuscito a farsi luce perché avere addosso un mastino come
Burgnich non è comodo per nessuno”. Di lei vergò che “di riffe e
di raffe in un certo modo s'è salvato”, ma le rifilò un 5…
“Va detto che, proprio per
quel tipo di marcatura, Pelé in quella partita non ha mai
cercato di andarmi via in velocità o di affrontarmi a tu per tu.
Ci fu qualche contrasto, ma nessuno scontro con lui: più che
altro, organizzava il gioco da centrocampo. E, a giudicare da
come finì, evidentemente per il Brasile era più che
sufficiente”.
Lo ha affrontato altre volte?
“Sì, due o tre, in amichevole
contro il Santos o i Cosmos. Ma non mi capitò più di marcarlo, e
credo di non averci nemmeno mai parlato. Eppure una amichevole
contro il Cosmos in America finì con una scazzottata”.
Litigò con Pelè?
“No, Pelé non c’entrava e non
prese parte alla scazzottata che seguì la lite. Io sì”.
Una squadra da
sogno.
Il Brasile nel 1970 si
schierava con Félix tra i pali una difesa con Carlos Alberto,
Brito, Wilson Piazza e Marco Antonio, due centrocampisti tattici
come Clodoaldo e Gérson e tre centrocampisti offensivi come
Pelé, Jairzinho e Rivelino con Tostão attaccante di riferimento,
pronto a fare spazio agli inserimenti dei compagni o a fare da
punta.
Una punta? Due punte? In
quella squadra attaccavano tutti, indistintamente: "Sembriamo
una squadra di rugby - diceva il CT Zagallo - attacchiamo e
basta".
Eppure il Brasile arrivò da
una preparazione difficile e non era certo arrivata in Messico
da favorita: reduce da un brutto mondiale in Inghilterra, le
qualificazioni (che si giocavano ancora con un girone diverso da
quello odierno) videro il Brasile non faticare per nulla contro
Colombia, Venezuela e Paraguay: sei vittorie e 23 gol segnati
contro due soli subiti. Ma nonostante questo il clima era
tutt'altro che sereno.
Il CT che seguì le
qualificazioni, João Saldanha, era un giornalista: si era
‘costruito' grazie alle sue amicizie giornalistiche e politiche,
una professionalità da tecnico che in realtà quasi nessuno gli
riconosceva. Saldanha, convinto che Pelé e Tostão non potessero
giocare nella stessa squadra, litigò con giornalisti e dirigenti
della Federcalcio, e arrivò a dire che Pelé avesse problemi di
vista che la sua presenza al Mondiale poteva anche non essere
considerata necessaria.
Il Brasile la prese come
un'offesa di stato: che si aggravò quando alle richieste del
generale Emilio Medici, che dal canto suo amava molto un
attaccante che si chiamava
Dario e che non faceva parte dei piani di Saldanha, il CT
rispose... "io non mi occupo del suo governo, lui non si occupi
della mia squadra".
Pochi mesi prima del
Mondiale Saldanha fu esonerato e sostituito da Zagallo, esterno
sinistro e chioccia di Pelè nei Mondiali del 1958 e del 1962.
L'unico uomo che ha vinto quattro mondiali (due da giocatore uno
da allenatore e l'ultimo nel 1994 come secondo allenatore).
Zagallo, intelligente ad
allenare la squadra ma altrettanto scaltro nell'intuire gli
umori della folla che voleva tutte le sue stelle in campo, si
affidò ai suoi giocatori di magggiore esperienza: famosa una
riunione nello spogliatoio in cui il CT affidò il suo mandato a
Gérson, Carlos Alberto, Brito e Pelé: "Dobbiamo fare questa cosa
insieme", disse il tecnico.
Pelè ottenne la sua maglia numero
10, Tostão perse la maglia simbolo ma ottenne un ruolo da
titolare dimostrandosi un attaccante tra i migliori della storia
del calcio; Rivelino venne schierato a sinistra con Wilson
Piazza e Clodoaldo a fare da diga. E fin dalle prime partite
ufficiali quella stessa squadra che i fan non riuscivano a
ritenere la migliore possibile, girò come un orologio per
diventare un simbolo tattico e tecnico che lascerà il segno nel
calcio dei prossimi trent'anni. Se oggi guardiamo il famoso
4-2-3-1 di cui tanti parlano... beh, è nato proprio con quella
squadra. Anche se Zagallo amava di più 'i pistoni' come li
chiama lui: i due esterni che appesantivano una difesa a cinque
o la linea esterna offensiva affiancandosi alle punte.
Il Brasile parte con un 4-1
in rimonta sulla Cecoslovacchia: gol di Rivelino, di Pelè su
splendido assist di Gerson, e poi doppietta di Jairzinho. Il
'miope' Pelé sfiorò la rete anche con un tiro da 60 metri.
Contro l'Inghilterra
campione in carica, salvata dalle parate di Banks, il gol è una
meraviglia: Tostão dribbla tre difensori e con un no-look serve
Pelé che, sempre senza guardare, offre a Jairzinho la palla
della vittoria. Una delle immagini più belle di quella partita è
lo scambio della maglia tra Pelé e Bobby Moore (che poi
ritroveremo insieme in "Fuga per la Vittoria").
Il Brasile si diverte contro
la Romania vincendo 3-2 ma tenendo sempre la partita sotto
controllo. I quarti di finale sono contro il Perù che aveva una
delle squadre migliori della sua storia, battendo anche
l'Argentina nelle qualificazioni e un CT come Didi, un'altra
delle chiocce di Pelé. Il Brasile non ebbe molto rispetto per il
suo vecchio amico: due gol di Tostão, altre reti di Rivelino e
Jairzinho: finisce 4-2 ma poteva finire 6-0.
Poi,
con lo scheletro della Maracanaço (la sconfitta subita nella
finale di Rio dall'Uruguay nel 1950) nell'armadio, il Brasile
affronta proprio la Celeste in semifinale: l'Uruguay picchia
ferocemente arrivando in un tackle a calpestare letteralmente il
povero Pelé che, nel secondo tempo, finisce per difendersi e
picchiare a sua volta. In "Fuga per la vittoria" c'è una
citazione di quell'episodio quando Luis Fernandez (il caporale
interpretato da Pelé), gioca con una costola rotta e finisce per
rispondere per le rime alle gomitate di un giocatore tedesco.
Uruguay in vantaggio (gol di Cubilla) con i giocatori che, in
pieno clima di provocazione, ricordano ai giocatori brasiliani
la tragedia del Maracana. Ma con il secondo tempo cambia la
musica: prima Clodoaldo, poi Jairzinho e infine Rivelino a tempo
quasi scaduto fissano il risultato sul 3-1. Mazurkiewicz dirà di
aver vissuto come un incubo la sola presenza in campo di Pelé.
La finale purtroppo sappiamo
bene com'è andata a finire. Il Brasile affronta l'Italia, reduce
dall'epica sfida con la Germania, e vince 4-1: gol di testa di
Pelé e dopo il pareggio azzurro, nel secondo tempo gol di Gerson,
Jairzinho e Carlos Alberto.
Restano le immagini sbiadite
di quella squadra e della sua impresa, e i ricordi di un Brasile
squassato da crisi e drammi sociali. Ma ubriaco di felicità di
fronte a una squadra che ispirò il cinema, la letteratura, la
musica. Le leggende intorno a quella squadra sono decine: alcune
non del tutto positive. Ad esempio quella che riguarda il
sindaco di San Paolo, Paulo Maluf, che regalò a tutti i
giocatori come premio per la vittoria un Maggiolone. Ma pagò
tutto con i soldi pubblici: fu condannato a restituire i soldi e
nel 2005 dopo decenni di accuse di truffa e appropriazione
indebita fu arrestato... Trentacinque anni dopo!
Fonte: it.eurosport.yahoo.com
Gigi Riva racconta il suo
Mondiale
L’estratto dell’intervista al grande
campione azzurro dal libro di Massimo Rota e Franco Dassisti, Il
Mondiale è un’altra cosa (Bompiani)
In Il Mondiale è un’altra cosa (Bompiani)
di Massimo Rota e Franco Dassisti 11 azzurri raccontano 40 anni
di Mondiali da un punto di vista inedito e personale: quello del
campo. E rivelano retroscena, rivalità, segreti dello
spogliatoio. Scorrono 11 partite fondamentali, vittorie e
sconfitte, da Messico 1970 a Sudafrica 2010. Al fianco dei
racconti mondiali di Mazzola, Boninsegna, Zaccarelli, Collovati,
Galli, Bergomi, Albertini, Di Biagio, Tommasi, Gattuso,
Zambrotta, c’è un intervento di Sacchi, un incontro con
Prandelli e un’intervista a Gigi Riva, per gli autori l’azzurro
di sempre. Un eroe che: “non ha indossato la maglia azzurra, è
la maglia azzurra. Tre numeri raccontano questa verità: 42-35-2.
La prima cifra è relativa alle poche presenze (rispetto alla sua
immensa classe) che ha collezionato in Nazionale; 35 sono le
reti che ha messo a segno e che ne fanno il più grande
cannoniere della storia azzurra; 2 le fratture che ha subito per
difendere i colori della Nazionale.
Ecco un ampio stralcio dell’intervista al
grande Rombo di Tuono, che pubblichiamo su gentile concessione
degli autori e dell’editore.
Se pensa alla maglia azzurra, quali sono
le prime immagini che le vengono in mente?
“Sono due e racchiudono un po’ tutta la
mia vita azzurra. La prima è la vittoria all’Europeo del 1968.
La serata della finale, il mio gol in apertura. Il fatto che
Roma quella notte non andò a dormire. Io avevo l’aereo per
Cagliari alle 7 del mattino e ho girato tutta notte per
partecipare ai festeggiamenti. Mi sono immerso in quell’allegra
follia collettiva. La seconda è negativa ed è la frattura che ho
subito a Vienna”.
Cosa rappresentava per lei quella maglia?
“L’ho sempre detto, la maglia azzurra mi
si è attaccata alla pelle. La sento dentro. Quella del Cagliari
l’ho altrettanto amata, ma in modo differente. Quei colori mi
hanno dato tanto. In quest’isola mi sono fermato più di
cinquant’anni fa e ho ricevuto affetto, amicizia.
Se potesse rigiocare una partita della
Nazionale, quale sceglierebbe?
“Non ho dubbi quella con l’Austria che mi
è costata troppo. Starei fuori, non scenderei nemmeno in campo.
Quello è stato uno snodo importante della mia carriera. Avevo 26
anni e un incidente così grave non ci voleva proprio in quel
momento. Se dovessi quantificare penso di avere perso un 20% di
tiro, di stacco di testa, il cuore del mio gioco. Per tornare in
una buona condizione ci ho messo un anno e mezzo”.
A rivedere le sue partite quello che
impressiona è il coraggio, la voglia di battersi.
Un’attitudine
che gli attaccanti di oggi sembrano avere perso…
“Una volta se volevi fare gol dovevi non
avere paura di entrare in area di rigore, accettare la battaglia
con il tuo marcatore che poteva anche essere alto due metri e
potente o piccolo e cattivo. Non potevi temere nessuno. Dopo il
tuo marcatore trovavi il libero che era lì proprio per stenderti
e prima o poi ti pigliava”.
Ci ha raccontato Boninsegna che dopo una
serie di interventi rudi, è capitato che voi vi guardaste come a
dire: ora questo lo mettiamo in mezzo…
“Confermo. Soprattutto sui calci piazzati
e sui corner non si guardava la palla ma ci si interessava di
più all’uomo. Tentavamo di metterlo in difficoltà. Erano tempi
di battaglie, tempi molto differenti da oggi”.
In Nazionale ha giocato anche infortunato.
Nel ’73 è sceso in campo a Roma con il Brasile con una
contrattura e ha pure segnato…
“È vero, ma era l’inizio di una
contrattura e poi ho giocato solo un tempo. Mi è arrivata una
palla buona su una corta respinta del portiere Leão e ho fatto
gol. E la partita successiva con l’Inghilterra a Torino l’ho
saltata”.
Qual è il gol in Nazionale a cui è più
affezionato?
“Per importanza non posso non citare la
rete che ha sbloccato il risultato nella finale con la
Jugoslavia agli Europei del ’68. Per bellezza penso al gol fatto
alla Germania Est a Napoli durante le qualificazioni mondiali
del ’70, in tuffo di testa. Mi piace perché avevo trovato il
tempo giusto più che su un cross su un mezzo tiro proveniente da
destra da parte di Domenghini. Una botta che cercava la
deviazione e che sono riuscito a impattare bene con la fronte,
tuffandomi in avanti”.
Con le regole di oggi Gigi Riva farebbe 40
gol a stagione…
“Certo qualche rete in più la farei. Oggi
tutti i falli che subivo sarebbero da ammonizione o espulsione.
Per non parlare dei falli che non si vedevano. Allora c’era una
sola telecamera e quello che accadeva in campo rimaneva
invisibile. attaccanti non erano minimamente tutelati. Infine
bisognerebbe conteggiare anche quelle che una volta erano
autoreti e oggi vengono date a chi tira in porta”.
Il record delle 35 reti che effetto le
fece allora? E che ne pensa oggi?
“Devo dire che me lo sono goduto per
quarant’anni, ma da sportivo credo che i record siano fatti per
essere battuti. Ai tempi l’avevo cercato con caparbietà, senza
però che diventasse un’ossessione. Rimane il rammarico per
l’incidente che mi ha impedito di giocare molte altre partite e
magari di segnare qualche gol in più”.
http://www.gqitalia.it/sport/calcio/mondiali-calcio/2014/06/10/gigi-riva-racconta-suo-mondiale/
“RICKY” ALBERTOSI,
IL FALCO GRIGIO DI MESSICO 1970
Di Nicola Puccin
Ai più il nome dello
scrittore austriaco Peter Handke non dirà niente. Altrettanto
quello del regista tedesco Wim Wenders. Il primo nel 1970
scrisse il romanzo “La paura del portiere prima del calcio di
rigore“, il secondo ne trasse un film. Ma proprio il ruolo del
portiere è un insieme di nervi, pazzia e arte allo stesso tempo.
Proprio nel 1970, in un
pomeriggio messicano allo Stadio Azteca di Città del Messico si
consuma la famosissima sfida che si gustarono anche gli Dei del
calcio. Passerà alla storia come la vera finale dei mondiali
messicani. In realtà fu “solo” una semifinale. Quel Germania
Ovest-Italia 3-4.
A difendere la porta azzurra
un falco grigio che impedì ai panzer tedeschi di segnare più di
tre gol. Era la Germania del Kaiser Beckenbauer e Muller. Il
portiere deve comandare e essere leader in difesa. Si racconta
che sul 2-3 per gli azzurri Muller sigla il momentaneo pareggio…
e il falco grigio si arrabbia con Gianni Rivera, reo di non
avergli impedito il tiro.
Tenta di strangolarlo per la
rabbia… si avete letto bene… per pochi secondi il Golden Boy ha
rischiato forte…
Il falco grigio non era
altri che Enrico Albertosi, per gli amici Ricky. Nato a
Pontremoli il 2 novembre 1939 da madre casalinga e padre maestro
di scuola, che giocava a calcio nella Pontremolese. Sin da
piccolo era affascinato dal ruolo del portiere, e già a 15 anni
esordì in prima squadra. L’anno successivo andò allo Spezia. Nel
1958 lo prende la Fiorentina.
Il suo esordio in serie A
avviene in un plumbeo pomeriggio di gennaio, esattamente a
Livorno, il 18 gennaio 1959. La partita: Roma-Fiorentina.
L’Olimpico era squalificato, finisce 0-0. E giocò la partita
come un veterano.
Così il principe dei
radiocronisti: Niccolò Carosio. “Niente scorpacciata viola
contro la Roma, ma un buon primo tempo, un secondo alquanto
opaco e zero al passivo soprattutto per merito del diciannovenne
portiere Albertosi debuttante. A partita conclusa l’ottimo
Albertosi, che in trasmissione ci aveva fatto provare emozioni,
vertigini,stupore… tanto arditi, tanto plastici e sicuri erano
stati molti suoi interventi. Appariva come uno qualunque al
termine di una comune giornata lavorativa. Per niente
emozioniato, per nulla commosso guardava stupito tutta quella
gente che si occupava di lui, che lo festeggiava, che gli faceva
gli auguri a non finire per una brillantissimo e proficua
carriera“.
I primi 5 anni gigliati li
vive come secondo portiere alle spalle del suo maestro Giuliano
Sarti. Nonostante questo gioca nel periodo 30 partite. Poi altre
5 stagioni, ma stavolta da titolare.
Con la Fiorentina vince due
Coppe Italia (1961-66), una Coppa delle Coppe (1961) una Mitropa
Cup (1966). Nel 1968 passa al Cagliari con cui vincerà lo
scudetto due anni dopo. Contemporaneamente stabilisce il record
di minor gol subiti in un campionato a 16 squadre. 11 i gol al
passivo di cui 2 portano la firma di due suoi compagni:
Domenghini e il re delle autoreti, Comunardo Niccolai.
Dopo 4 stagioni passa al
Milan dove conosce le stelle e il baratro. Vince la Coppa Italia
(1977), il campionato che permetterà ai rossoneri di cucire
sulle maglie la stella (1978/79). Nel 1980 la pagina più nera
della sua carriera: viene coinvolto nel calcio scommesse.
L’Italia del tifo ricevette
una botta tremenda. I calciatori coinvolti furono molti, ed
alcuni illustri. Da Giordano a Chinaglia, a Paolo Rossi ed altri
ancora.
Il 10 febbraio 1980 a San
Siro contro il Perugia disputa la sua ultima partita in serie A
e si ferma a 532 presenze. Viene squalificato per 2 anni e il
Milan quale società coinvolta retrocessa in B.
Nel 1982 scontata la
squalifica trova un ingaggio nella squadra marchigiana
dell’Elpidiense in C2 in cui rimase 2 anni sino al definitivo
ritiro nel 1984.
Ma non fu solo vita di club.
Giocò in Nazionale la prima volta il 15 giugno 1961 nella sua
Firenze in un Italia-Argentina (4-1).
Fate caso alla data. In quel
periodo Albertosi non era neppure titolare nella Fiorentina. Nel
1966 fece parte della spedizione azzurra ai mondiali
d’Inghilterra. Sì quelli della vergogna. Quella del “dentista”
Pak Doo Ik. Fu tra i pochi a “salvarsi” nella disfatta.
Nel 1968 alla vigilia
dell’Europeo di calcio, a causa di un infortunio, lascia la
porta azzurra a Dino Zoff. L’Italia quell’Europeo lo vinse.
Ma arriviamo al 1970. E quel
mondiale vissuto da uomo ragno. Perché quella nazionale avrebbe
potuto portare a casa la terza Coppa Rimet. Se non fosse che
davanti, in finale, trovò il miglior Brasile del secolo, in cui
giocavano: Tostao, Pelè, Carlos Alberto, Jairzinho, Rivelino…
insomma l’unico che non sapeva giocare era il portiere Felix.
Ultima partita in nazionale
il 21 giugno 1972, Bulgaria Italia 1-1. Dopo il ritiro fino al
2000 si occupò della supervisione e preparazione dei portieri
della piccola società Margine Coperta di Massa e Cozzille (PT).
Nel 2004, durante una gara
benefica di trotto, fu colpito da una tachicardia ventricolare
che lo portò ad essere tenuto in coma farmacologico. Si riprese
senza conseguenze.
Albertosi era un portiere
spericolato, e spettacolare nelle parate. Viveva fregandosene
del decalogo dell’atleta perfetto. Due grandi passioni:
sigarette e cavalli. Il suo più grande rivale in nazionale fu
Dino Zoff. In un’intervista disse: “Il più forte fra me e Dino?
Non scherziamo. Io naturalmente. Zoff era uno che se saltava un
allenamento o faceva l’amore venerdì, la domenica aveva le gambe
molli. Io invece lo facevo il sabato e la domenica mi esaltavo“.
Delle sigarette c’è un
aneddoto famoso. Scopigno, allora allenatore del Cagliari entrò
nello spogliatoio. Trovò una nube di fumo ed i giocatori che
giocavano a carte. Senza scomporsi li guardò e chiese loro: “Do
fastidio se fumo?“
– “Te presento Albertosi. El
ga tuto quel che mi no poso soportar: el Magna, el bevi, el va
in giro de notte, el xe’ carico de nave, el scometi sui cavai
come ti. Ma mi lo tegno perché el xe’ Meo portier del mondo….” –
Nereo Rocco
https://sport660.wordpress.com/2016/12/05/ricky-albertosi-il-falco-grigio-di-messico-1970/
(Roberto Boninsegna, da un'intervista di Aldo Pacor)
"Messico '70, il primo Mondiale del dopoguerra favorevole
all’Italia, non sarà mai dimenticato da chi lo ha masticato dal
primo all’ultimo giorno. Ma è un Mondiale del quale si può
parlare all’infinito; almeno per me, che vi sono stato
paracadutato quando sembrava lo dovessi vedere in tv. La mia
soddisfazione, anche se il Brasile ci ha puniti nella finale, è
stata doppia, perché io non c’entravo, erano già tutti in
Messico quando una notte sono stato buttato giù dal letto dal
ragionier Bianchi che mi ha detto: va domattina al consolato
messicano di Milano e poi prendi il primo aereo e fila ai
Mondiali. Al consolato sbatto contro Pierino Prati, anche tu
qui? Sì, ci hanno richiamati. Che cos’era successo? Anastasi era
stato ricoverato all’ospedale a Roma per un intervento
inguinale. Lui era il titolare. Così con Valcareggi erano
partiti in ventuno, mentre dovevano essere ventidue. Era mancato
un attaccante e Valcareggi si rese conto che due soli
attaccanti, Riva e Gori, per un Mondiale erano pochi, così
recuperarono Prati ed io, già scartati!
Ci ritrovammo in ventitré, e questa è stata una brutta e
deprimente faccenda. Arrivati al mattino, la sera si è scatenato
il toto-rientro anticipato. A chi tocca? A noi appena arrivati
no, agli inamovibili da sempre nemmeno, ma uno ci doveva essere.
E ci fu, il ragazzo più buono di tutti. Bisognava vederlo,
Giovanni Lodetti, uno dei milanisti. Uno straccio, quando gli
comunicarono che doveva ripartire per l’Italia, settemila
chilometri. È stato un atto crudele, inumano. Mandelli? Va bene
alla Confindustria. Sì, allora comandava lui.
(Mandelli fece capire a Rivera che non sarebbe partito titolare
e il milanista fu sul punto di fare fagotto e tornare a casa,
così raccontava Rocco, che arrivò di corsa per calmarlo. Poi,
dopo qualche partita, il compromesso e la staffetta) La mia
opinione è questa: Rivera e Mazzola erano due grandissimi
giocatori ai quali nessuna nazionale avrebbe rinunciato. Ma là
ci furono anche altri fattori che incisero nelle decisioni. La
stampa era divisa a metà sui due giocatori. E la stampa ha il
suo peso, perché non mi si venga a dire che è stato il gruppo
dell’Inter a far fuori Rivera. Questa è una bugia colossale. Né
io, né Bertini, né Facchetti, né Burgnich abbiamo aperto bocca,
anche perché non siamo mai stati interpellati. Io non vivevo in
clan; avevo i miei amici, Albertosi, Poletti, Gori, Prati.
Mazzola? Beh, il “baffo” forse, anche perché era parte
interessata. Il problema io lo vidi così: scelta politica.
Altrimenti la staffetta che si fece dopo non aveva ragione di
esistere. I due, grandi giocatori, non potevano scendere in
campo insieme, perché erano diversi in tutto, nel carattere, nel
senso di posizione, nella mentalità in campo, nel gioco.
Però, visto come erano andate le cose, Valcareggi ha commesso un
errore colossale a non far entrare in campo Rivera nel secondo
tempo di Italia-Brasile. Mi stava anche bene che lo lasciasse in
panchina per tutte le altre partite, ma quella no. Se c’era una
partita nella quale ci doveva essere Rivera era proprio quella
col Brasile.
Un incontro dei giocatori per decidere l'esclusione di Rivera?
Io non ho partecipato a riunioni, e poi, ripeto, non facevo
parte di nessun gruppo o di clan. Valcareggi a me non ha mai
chiesto niente. I miei rapporti con lui sono stati difficili. Ho
sempre sofferto per entrare in Nazionale. In Messico sono stato
classificato il secondo centravanti dopo Gerd Muller, però, non
appena la Nazionale si è ritrovata dopo i Mondiali, io ho avuto
posto solo in tribuna. Che tecnico era? Un brav’uomo.
Chi comandava? Franchi, era l’unico dirigente all’altezza.
Mandelli come capogruppo d’équipe è fallito in Messico, come
fallì poi Allodi in Germania. Perché la staffetta? Valcareggi al
principio aveva visto giusto, o Mazzola o Rivera. E fece giocare
Mazzola che aveva fatto un grande campionato con l’Inter,
aiutandomi anche a fare parecchi gol. Mazzola copriva di più,
con Rivera rischiava di più. Ma poi gli imposero la staffetta.
Non la decise lui. Fu una strana spedizione quella. Buoni
risultati, ma sempre polemica, caos, i giornali non ce li
facevano leggere, ma sapevamo lo stesso che infuriavano pareri
contrastanti.
Bilancio buono per l'Italia? Senz’altro. Io dico di più, avevamo
una squadra fortissima, la migliore che l’Italia abbia espresso
nel dopoguerra: Albertosi, Burgnich, Facchetti, Bertini, Rosato,
Cera, Domenghini, Mazzola o Rivera, Boninsegna, De Sisti, Riva.
Nell’82 abbiamo vinto i Mondiali in Spagna, ma li abbiamo vinti
in Europa. In Centro e Sud America non ha mai vinto una squadra
europea (fino alla Germania nel 2014, ndr), e noi ci siamo
andati vicini. Se potevamo vincere? Non so, ma si poteva fare di
più. Due sono i motivi che ci hanno impedito di batterci meglio
col Brasile nella finale: primo, i supplementari con la
Germania; secondo, la non utilizzazione di Rivera. Ripeto,
avevamo una grande Nazionale, però gestita male.
Certi di vincere la finale dopo il 4-3 ai tedeschi? No, questo
no. Però, rientrati in ritiro ci siamo messi a tavola molto
euforici, e adesso sotto col Brasile, urlavamo. Invece il giorno
dopo eravamo morti. Quei centoventi minuti di gioco erano stati
micidiali. Così, al Brasile, che aveva Pelé, noi abbiamo
regalato i supplementari e Rivera. Un vantaggio troppo grosso.
Abbiamo resistito un’ora. Loro hanno fatto il secondo gol con
Gerson al 66′. Albertosi era un po' in tilt sin dalla drammatica
partita con i tedeschi, quando s’era arrabbiato prima con
Poletti per il secondo gol e con Rivera per il terzo. Non era il
solito Ricky. Arrivò tardi su quel tiro di Gerson che si poteva
parare. I brasiliani erano freschi e non stressati come noi. In
semifinale con l’Uruguay avevano avuto vita facile. Noi siamo
stati stroncati dalla mezz’ora storica con la Germania. Dopo il
gol di Gerson ne abbiamo subito un altro balordo: Pelè era in
fuorigioco quando diede la palla a Jairzinho. Ad ogni modo
abbiamo fatto di più di quanto dovevamo fare.
Qualcuno parla della fatica fatta nelle prime tre partite,
quelle con Svezia, Uruguay e Israele, ma non è vero. Eravamo in
fase di carburazione, ma abbiamo giocato piuttosto tranquilli.
Con la Svezia abbiamo fatto subito gol con Domenghini, un gol
trovato, grazie al portiere Hellstrom, d’accordo, ma pur sempre
il gol che ci bastava. Con l’Uruguay lo zero a zero andava bene
sia a noi che a loro. Con Israele dovevamo vincere nettamente,
ma un segnalinee ci giocò brutti scherzetti, annullandoci due o
tre gol. Per più di un’ora giocammo senza preoccupazioni, ma nel
finale vivemmo attimi di autentica paura, perché gli israeliani
si erano fatti più intraprendenti. Bastava un loro gol e per noi
sarebbe stata finita. Insomma, difendemmo lo zero a zero. In
quella partita Rivera era entrato per la prima volta nel
Mondiale, sostituendo nel secondo tempo Domenghini, poi la
staffetta la fece con Mazzola.
Com’era il pubblico a Puebla e Toluca? Niente di particolare. In
pratica non lo abbiamo mai avuto con noi. Subito dopo giocammo
con il Messico, che noi eliminammo per 4 a 1 e perciò ci
ritrovammo il tifo contro all’Azteca quando affrontammo la
Germania. I messicani erano per i tedeschi, che tra l’altro
davano da lavorare a molta gente con la Volkswagen. Diciamo che
durante tutti i Mondiali il pubblico non ci è mai stato
esageratamente contro, ma nemmeno mai a favore. Gli ultimi sei
minuti di Rivera col Brasile? E chi li ha capiti?
I fischi al ritorno a Fiumicino? Devo dire che, tutto sommato,
il Mondiale è stato per noi felice e positivo. Vicecampioni del
mondo. Poi ha avuto riscontri incredibili, vicecampioni e
criticati. Ma a Fiumicino la gente non ce l’aveva con noi
giocatori. Cercava i dirigenti e forse qualche giornalista. La
stampa spaccandosi in due, Mazzola e Rivera, aveva complicato
molte cose. I tifosi cercavano Mandelli e Valcareggi. È stato un
epilogo amaro quando doveva essere trionfale per tutti“.
ELIMINATA AL PRIMO TURNO
Ferruccio
Valcareggi
1
Zoff ·
2
Spinosi ·
3
Facchetti ·
4
Benetti ·
5
Morini ·
6
Burgnich ·
7
Mazzola ·
8
Capello ·
9
Chinaglia ·
10
Rivera ·
11
Riva ·
12
Albertosi ·
13
Sabadini ·
14
Bellugi ·
15
Wilson ·
16
Juliano ·
17
Re Cecconi ·
18
Causio ·
19
Anastasi ·
20
Boninsegna ·
21
Pulici ·
22
Castellini
|
15-6-1974, Monaco (MO) Italia-Haiti 3-1 Reti: 46’
Sanon, 52’ Rivera, 64’ aut Auguste, 78’ Anastasi
Italia: Zoff, Spinosi, Facchetti, Benetti, F. Morini,
Burgnich, A. Mazzola, F. Capello, Chinaglia (69’
Anastasi), Rivera, Riva. Ct: F. Valcareggi. Haiti:
Francillon, Bayonne, Auguste, François, Nazaire,
Jean Joseph, Vorbe, Antoine, Sanon, Desir, G. Saint
Vil (46’ Barthelemy). Ct: A. Tassy. Arbitro:
Llobregat (Venezuela). |
|
19-6-1974, Stoccarda (MO) Italia-Argentina 1-1 Reti:
20’ Houseman, 35’ aut. Perfumo Italia: Zoff,
Spinosi, Facchetti, Benetti, F. Morini (66’ Wilson),
Burgnich, A. Mazzola, F. Capello, Anastasi, Rivera
(66’ Causio), Riva. Ct: F. Valcareggi. Argentina:
Carnevali, Wolff (64’ Glaria), Sa, Telch, Heredia,
Perfumo, Ayala, Babington, Yazalde (78’ Chazarreta),
Houseman, Kempes. Ct: V. Cap. Arbitro: Kasakov
(Urss). |
|
23-6-1974, Stoccarda (MO) Polonia-Italia 2-1 Reti:
38’ Szarmach, 44’ Deyna, 85’ F. Capello Polonia:
Tomaszewski, Szymanowski, Musial, Kasperczak, Zmuda,
Gorgon, Lato, Deyna, Szarmach (77’ Cmikiewicz),
Maszczyk, Gadocha. Ct: K. Gorski. Italia: Zoff,
Spinosi, Facchetti, Benetti, F. Morini, Burgnich
(31’ Wilson), Causio, F. Capello, Chinaglia (46’
Boninsegna), A. Mazzola, Anastasi. Ct: F. Valcareggi.
Arbitro: Weyland (Germania Ovest). |
Haiti
Giugno 1974: i caraibici erano in festa dopo il gol che fece
tremare l'Italia in Germania. Poi, sull'isola, mai più calcio.
Ma oggi c' è ancora chi lotta perché il pallone abbia un
futuro.Avevano previsto tutto, tranne la pioggia. Si erano
preparati alle sgroppate di Facchetti, ai tocchi di Rivera e
alle fucilate di Gigi Riva, li avevano studiati minuziosamente,
per ore, tappati nell'ostello gelido di Monaco di Baviera. Non
sapevano che un acquazzone li avrebbe messi in ginocchio. Ad
Haiti l'erba è un bene prezioso.
Philippe Vorbe, all'epoca
centrocampista, occhi, azzurri come il Caribe, spacca il
silenzio con la sua voce tuonante:"Per mesi ci siamo allenati
sulla terra battuta, con le scarpette dal fondo liscio. Degli
azzurri conoscevamo ogni dettaglio ma, credetemi, rimanere in
piedi o soltanto toccare il pallone sopra un prato fradicio era
qualcosa di impossibile per la maggior parte di noi".
Sono passati più di 30 anni
da quel pomeriggio di giugno. Fu il giorno in cui una
generazione di fenomeni chiamò mestamente il cambio. Facchetti,
Rivera, Mazzola, Riva, Chinaglia: i vice-campioni del Mondo del
Messico al loro capolinea. Perché ciò accadesse, si erano resi
necessari undici dilettanti haitiani con le scarpe sbagliate e
l'entusiasmo della prima volta.
Mondiale di Germania, gara d'
esordio: Italia Haiti. Alla fine del primo tempo il parziale è
di 0-0. Ecco: visto dalla prospettiva di Port au Prince, con il
vecchio porto inondato di sole e povertà, quel Mondiale sarebbe
dovuto finire lì. Italia Haiti 0-0. Sarebbe stato meraviglioso
e, chissà, forse la storia, non solo calcistica, avrebbe preso
un'altra piega. Invece si tornò in campo: giusto in tempo per
vedere Emmanuel "Manno" Sanon evadere con facilità dalla guardia
di Luciano Spinosi per segnare il
più celebrato dei gol
mondiali: quello che mise fine al record d'imbattibilità di
Zoff.
A Port au Prince vi furono feste istantanee, caroselli per
strada e anche un paio di morti, perché qui celebrazioni e
dispute hanno la stessa colonna sonora: i colpi di arma da
fuoco. Il caos durò sei minuti: il tempo necessario perché
Rivera pareggiasse. Poi
vennero l'autogol di Auguste e il gol di Anastasi. Italia Haiti
3-1. Avremmo dovuto farne almeno cinque. Ci eliminò l'Argentina
per differenza reti. Haiti ci aveva fregati.
Di quella formazione capace
di conquistare quell'unica qualificazione ai Mondiali, Philippe
Vorbe è l'unico che ancora vive in patria. Tutti gli altri sono
scappati all'estero. Negli uffici cadenti della federazione
locale, l'impresa di quegli uomini è ricordata con una fotocopia
color seppia, attaccata a una parete. Fine. Racconta Vorbe:
"Perdemmo con l'Italia, ma nel primo tempo avevamo giocato
meglio. Poi ce ne fecero sette i polacchi e quattro gli
argentini. Eravamo bravi, ma con zero esperienza per quel
livello. Di sicuro eravamo un gruppo forte che avrebbe potuto
riprovarci nel '78. Ma non ci fu data la possibilità".
Non solo. Per colpa di quella
spedizione, il calcio fu cancellato dall'isola. Quella nazionale
era stata voluta con forza e finanziata da Baby Doc in persona,
il sanguinario dittatore che dominò il Paese per 15 anni. Fu lui
a ottenere in modo sospetto di ospitare ad Haiti la fase finale
della qualificazione al Mondiale. Raggiunto l'obiettivo,
ottenuto anche grazie a qualche arbitraggio non proprio
irreprensibile, Baby Doc regalò a ogni calciatore una Fiat 147
di seconda mano. Ma non permise loro di usarla: li spedì anzi in
Germania con mesi di anticipo perché si preparassero alla grande
impresa. Il tam tam mediatico era stato tale che si sospetta
fosse servito a Baby Doc per sbarazzarsi dei suoi oppositori in
totale tranquillità. Quasi 40 mila dissidenti trucidati, col
Paese distratto dal grande evento.
Poi però il Mondiale, a parte
quei 45 minuti con l'Italia, fu una missione non all'altezza
delle aspettative. Baby Doc chiuse così ogni risorsa al calcio.
Racconta Vorbe: "Sapevamo che c'era la politica alle nostre
spalle, ma non ce ne siamo mai preoccupati. Ci volevamo bene,
credevamo nel nostro lavoro e quando battemmo Messico e Polonia
durante una serie di amichevoli in casa nostra acquistammo la
fiducia necessaria. Poi ci trasferimmo a Monaco e quello fu un
errore...".1 2 3 4 Antoine Tassy, il tecnico maniacale, aveva
abitudini bizzarre. Non permetteva ai suoi di uscire
dall'ostello, e impartiva allenamenti massacranti. Unica
licenza: la visita di gruppo allo zoo, dove Vorbe, Sanon e il
portiere Francillon firmarono estasiati i loro primi
autografi."Ci scaricammo sul piano nervoso. Troppo lunga
l'attesa, troppo forte la nostalgia di casa. Sapevamo che
l'Italia era nervosa e preoccupata a causa del dualismo
Mazzola-Rivera, però poi entrammo in campo già cotti".
Al ritorno in patria li
accolse l'ira di Baby Doc. In pochi anni, quasi tutti lasciarono
il Paese per paura delle conseguenze. Sanon, il giustiziere di
Zoff, trovò posto in Belgio, poi emigrò negli Usa. Il "gatto
nero" Francillon provò la sorte proprio in Baviera, nel Monaco
1860 a 500 mila lire lorde al mese, pagandone 100 mila di
affitto. Ma faceva troppo freddo e dopo due mesi il tecnico, di
nome Merker, lo cacciò perché non parlava una parola di tedesco.
Anche Francillon oggi vive negli Stati Uniti, vicino a Boston.
Vorbe, l'unico mulatto di
quella squadra, figlio di agiati imprenditori, non mollò. Giocò
anche negli Usa, agli albori del soccer, assieme a Luis Cesar
Menotti, poi tornò ad Haiti a farsi testimone di vent'anni di
orrori. "Sono in contatto solo con alcuni elementi di quella
squadra. Ci sentiamo ogni tanto, i ricordi di quell'Italia
vengono fuori. Non potrò mai dimenticare Capello in quel primo
tempo: gli azzurri erano incavolati, capivano che le cose non
andavano come volevano loro. Lui me ne diceva di tutti i colori.
Non capisco l'italiano, ma so che mi odiava perché quella non
era una passeggiata".Oggi Philippe allena i giovani della sua
squadra storica, il Violette AC. Era il tecnico della prima
squadra, ma ha dato le dimissioni dopo aver subito
un'aggressione in panchina da parte di indisturbati tifosi
avversari. Preferisce i ragazzi. Li raduna ogni mattina alle
sette in uno spiazzo spelacchiato poco distante dall'aeroporto,
e trasmette loro l'entusiasmo di sempre. "Ci vorranno forse
vent'anni per rivedere Haiti a un Mondiale. Purtroppo stiamo
perdendo generazioni di potenziali buoni giocatori. Ma qui le
priorità sono altre".
http://www.storiedicalcio.altervista.org/haiti_mondiali_1974.html
SANON, L’HAITIANO
CHE BEFFO’ ZOFF AI MONDIALI DEL 1974
Questa è una storia che sa di
polvere e romanticismo; che regala qualche minuto di gloria a
chi ha passato la vita in sotterranea; che si chiude anzitempo e
lascia a chi la legge un non so che di malinconico. Ma ha valore
umano come non molte altre.
21 febbraio 2008, Emmanuel
Sanon muore per un tumore al pancreas all’età di 56 anni. Ed un
paese intero si ferma per lutto.
Sanon, chi era costui?
Elevato al rango di comandante dal presidente haitiano René
Préval un anno prima della sua morte, è nientepopodimeno che un
eroe nelle Grandi Antille, status di icona che deve al suo
exploit nella Coppa del Mondo di calcio. Ai Mondiali di Germania
del 1974, infatti, l’attaccante che gioca per il Don Bosco – un
piccolo club a Petionville, non lontano da Port-au-Prince dove è
nato – segna entrambi i gol per la sua squadra e diventa, da
quel giorno, l’unico marcatore di Haiti in questa competizione.
Emmanuel Sanon ha il merito
di aver colto al balzo l’occasione per far parlare di lui. Già
nel match d’esordio con la blasonatissima Italia, vice-campione
del mondo e con non celate ambizioni di grandezza anche in terra
di Germania, inganna Dino Zoff all’inizio del secondo tempo,
facendo crollare inaspettatamente l’imbattibilità del portiere
azzurro dopo 1142 minuti di rete inviolata.
In Germania Sanon è forse
l’unico giocatore di Haiti capace di tener la testa fuori
dall’acqua, in una squadra in pieno naufragio collettivo che
colleziona tre sconfitte in altrettante partite contro l’Italia,
3-1, la Polonia, 7-0, e Argentina, 4-1. Movenze feline e
capacità di accelerazione, Sanon gioca sulle sue qualità
principali, che non mancano proprio di incuriosire gli
osservatori della squadra belga del Beerschot. Che lo assoldano
tempestivamente al termine della kermesse mondiale, catturati
dal bagaglio tecnico e dall’esuberanza atletica del ragazzo,
poco più che ventitreenne.
La storia con il club belga
dura sei anni (1974-1980). La recluta haitiana conquista la
simpatia e l’ammirazione di tutti, dal più accanito dei
sostenitori al presidente. Per la sua gentilezza dentro e fuori
dal campo, tanto da non aver mai ricevuto un’ammonizione durante
la sua permanenza in Belgio, e la sua abilità sotto porta (Sanon
mette a segno 43 gol in 142 partite ufficiali). “Manno” si
impone come il re del piede piatto e del gioco di testa
decisivo.
Un uomo di valore che se ne
va a testa alta al termine del suo contratto realizzando un
nuovo exploit, ovvero ponendo la sua firma in occasione di un
appuntamento importante. Nel 1979, durante la finale della Coppa
del Belgio, Sanon affonda sull’ala offrendo il gol della
vittoria al compagno di squadra Johan Conynx. Il Beerschot si
impone per 1-0 contro il Club Brugge, e il giocatore di Haiti
ottiene l’unico trofeo del suo palmares. Un grande
riconoscimento per un atleta non certo abituato a vincere
titoli, ad eccezione di alcune distinzioni personali: ingresso
tra i “100 eroi della Coppa del Mondo” (54°), una classifica
pubblicata dalla rivista France Football, e una quarantina di
reti (47 per l’esattezze) in 100 presenze tonde per Haiti.
Accessori di una carriera che gli sono valsi un funerale di
stato dopo la sua morte. Onore concesso fino a quel momento ad
un solo altro sportivo di Haiti, Silvio Cator, medaglia
d’argento nel salto in lungo alle Olimpiadi di Amsterdam (1928),
deceduto nel 1952.
Emmanuel Sanon lascia il
Belgio nel 1980 per stabilirsi in seguito negli Stati Uniti,
accasandosi prima ai Miami Americans, poi ai San Diego Sockers.
L’esperienza nel campionato NASL è positiva, dopodiché per un
breve periodo si esibisce in Messico a fianco di Hugo Sanchez,
fin quando un brutto infortunio al ginocchio costringe al ritiro
dall’attività questo globe-trotter del pallone.
Si trasferisce
definitivamente in Florida, ad Orlando; gli viene affidata la
guida della Nazionale di Haiti nel biennio 1999-2000 ma è nelle
opere caritative che l’uomo di distingue, creando una fondazione
a suo nome per la lotta alla povertà del suo paese.
Il giorno del suo funerale
più di diecimila persone danno l’estremo saluto ad Emmanuel
Sanon, omaggio all’altezza della dimensione umana di questo
internazionale dal cuore grande così.
In seguito, il Club Don
Bosco ha ritirato la maglia numero 10. Perché alcuni uomini, e
Sanon è stato uno di questi, sono insostituibili.
https://sport660.wordpress.com/2016/07/01/sanon-lhaitiano-che-beffo-zoff-ai-mondiali-del-1974/
ll mondiale del
vaffa di Chinaglia
di Alessandro Bernini
L’avventura dell’Italia dura
un battito di ciglia. Gli azzurri nella prima fase battono Haiti
3-1 ma al termine di una partita sofferta. Il pareggio 1-1 con
l’Argentina rimanda tutto all'ultima partita del gironcino,
contro la Polonia: Valcareggi lascia fuori Gigi Riva e Gianni
Rivera ma la nazionale è spenta, grigia, gli avversari hanno una
marcia in più, si portano subito sul 2-0, poi segna Fabio
Capello all’85’ ma è una rete inutile: finisce 2-1, siamo fuori.
La paura si insinua lungo il
perimetro dei 24 giorni del mondiale 1974 in Germania Ovest,
allora le Germanie erano ancora due. Troppo fresco e doloroso
il ricordo del massacro di Monaco, con 17 vittime durante le
Olimpiadi di due anni prima. Ecco perché si rivela il mondiale
delle più ferree misure di sicurezza: polizia schierata in massa
prima e dopo le partite, ritiri delle squadre presidiati,
nazionali scortate ogni attimo. L’Italia si presenta tra le
favorite con Brasile e Olanda, un gradino più sotto la Germania
Ovest. Ma ben dieci giocatori convocati dal Ct Ferruccio
Valcareggi hanno superato abbondanentemente i 30 anni, la
formazione è quasi la stessa di quattro anni prima, quella che
ha perso in finale con il Brasile. Si punta soprattutto su
Giorgio Chinaglia, capocannoniere e campione d’Italia con la
Lazio, ma di lui resteranno più veleni che gol. Soprattutto
l’immagine di una sua uscita dal campo, sostituito durante la
prima partita, con un plateale gesto di disprezzo verso la
panchina.
L’avventura dell’Italia dura
un battito di ciglia. Gli azzurri nella prima fase battono Haiti
3-1 ma al termine di una partita sofferta. Il pareggio 1-1 con
l’Argentina rimanda tutto all’ultima partita del gironcino,
contro la Polonia: Valcareggi lascia fuori Gigi Riva e Gianni
Rivera ma la nazionale è spenta, grigia, gli avversari hanno una
marcia in più, si portano subito sul 2-0, poi segna Fabio
Capello all’85’ ma è una rete inutile: finisce 2-1, siamo fuori.
Passano Polonia e Argentina, quest’ultima con tre punti come noi
ma con una migliore differenza reti.
Non ci resta che fare da
spettatori ai due gironcini che determineranno le finaliste. Nel
gruppo A l’Olanda del calcio totale (Johan Crujff ne è il
simbolo) vince sempre e va in finale lasciando al secondo posto
il Brasile, nel gruppo B invece la Germania Ovest precede la
Polonia. L’ultimo ritaglio tricolore ce lo regala l’arbitro
Aurelio Angonese che dirige la finale per il terzo posto, vinta
dalla Polonia 1-0 sul Brasile (gol di Grzegorz Lato). Nella
finalissima all’Olympiastadion di Monaco, una bolgia trascina la
Germania Ovest alla grande rimonta sull’Olanda: segna subito
Johan Neeskens su rigore, pareggia al 25’ Paul Breitner sempre
su rigore, poi al 43’ Gerd Muller firma il 2-1. Vent’anni dopo
la Germania Ovest torna sul tetto del mondo.
Facchetti, seguito da
Boninsegna, tenta invano di sfondare la difesa polacca.
Valvareggi,
l'uomo della staffetta
C’era il triestino Nereo e
c’era l’altro triestino, Uccio. Con il paron te la spassavi,
volendo avresti potuto comporre un romanzo. Con Valcareggi
rischiavi di non scrivere nemmeno una riga. Perché Ferruccio
Valcareggi non era spinto dalla bora a dire e divertire, era un
uomo probo e con qualche frase sgrammaticata («Rivera e Mazzola
hanno fatto la sua partita») sapeva di football che, nel
settore, sembra sempre di più merce rara. Per i contemporanei,
agitati dalle prove tv e dalla perdita di memoria, segnalo che
la nazionale italiana allenata da Valcareggi vinse un titolo
europeo nel 1968 contro la Jugoslavia e perse la finale mondiale
del 1970 contro il Brasile, il Brasile di Pelè e Jairzinho, non
di Dunga e Bebeto. Al rientro in Patria vennero presi a monetine
e pomodori, Uccio e gli altri azzurri con l’eccezione del
«pallido prence mandrogno» (copyright Gianni Brera), al secolo
Gianni Rivera, eroe di comodo per i 6 minuti concessigli dal
suddetto Uccio nella finale contro i brasiliani. Letto
l’almanacco, che comunque fa prima cronaca e poi storia,
Valcareggi fa di sicuro parte di coloro che hanno dato luce al
nostro calcio, anche per la rilettura tattica e caratteriale che
ne seppe fare, dopo le comiche del 66.
Ho detto apposta comiche.
Infatti all’epoca Valcareggi era tra i consulenti di Mondino
Fabbri e alla vigilia della partita contro la Corea andò a
osservare gli avversari e tornò con una relazione ridotta
all’osso: «Sembrano Ridolini» paragonandoli a Larry Semon,
protagonista americano del cinema muto, da noi tradotto appunto
in Ridolini. A ridere fu mezzo mondo, grazie al colpo di Pak Doo
Ik, l’Italia perse partita e faccia, Valcareggi restò dietro il
palcoscenico ma due anni dopo diventò, grazie alla reggenza
Franchi e all’opera astuta di Mandelli e Allodi, l’uomo della
provvidenza.
Non erano tempi tanto facili.
Valcareggi doveva gestire le mattane di Giorgio Chinaglia che lo
mandò a quel paese in mondovisione, dopo la staffetta con
Anastasi in un’altra celebre ridolinata contro Haiti; fece i
conti con la notte brava dello stesso Pietruzzu Anastasi alla
vigilia del mondiale messicano; poi nell’altura messicana
c’erano molte teste euforiche, Rivera voleva tornarsene a casa,
Nereo Rocco gli ordinò di
restare,
incominciarono le trasmissioni televisive intercontinentali e
Manlio Scopigno così descrisse l’impiego di Comunardo Niccolai:
«Tutto mi sarei aspettato nella vita ma non di vedere Niccolai
via satellite».Valcareggiil Ct che divise l'Italia con la
staffettaPortò gli azzurri al titolo europeo, fu secondo ai
mondiali del ’70 in Messico. Ma passò alla storia per il cambio
tra Mazzola e Rivera Lo svedese Kindvall mandò in frantumi
Comunardo e le battute di Scopigno, giocò Rosato con il
ginocchio valgo. Fu un mondiale allegro, Carosio per colpa di un
guardalinee etiope che segnalò un off side di Domenghini («cosa
sbandiera l’etiope!») venne sospeso (senza farsi eleggere al
parlamento europeo) e sostituito a vita da Nando Martellini,
battemmo il Messico 4 a 1, Valcareggi era uno zucchero, Beppe
Viola confezionò un memorabile servizio televisivo, l’autorete
di Peña, la doppietta di Riva, il gol di Rivera erano
accompagnati dalla voce di Jannacci che cantava Messico e
nuvole!.
Venne il 4 a 3 leggendario
con la Germania e poi la finale amarissima con il Brasile, tutto
firmato da Ferruccio Valcareggi e dalla sua orchestra. Così come
la vittoria di Wembley, sull’Inghilterra, il tiro di Chinaglia,
la respinta di Shilton e il carrello basso di Capello che mette
in rete nel tempio ammutolito, dopo che i tabloid avevano
presentato l’evento così: «Settantamila inglesi contro undici
camerieri».
Questo era il tempo di
Ferruccio Valcareggi che fu anche calciatore con Triestina e
Fiorentina, Bologna e Vicenza, Milan, Brescia, Piombino e
Lucchese, che in nazionale era chiuso da gente illustre, da
Mazzola Valentino in giù e che aveva preso dimora e quasi
accento toscano vivendo tra Coverciano, ormai un museo delle
cere azzurre, e il Franchi di Firenze.
Rivedendolo in alcune
fotografie dell’epoca, con quella tuta celeste, la scritta
cubitale ITALIA, divisa dalla zip, a gonfiare il petto, priva di
sponsor e di altri orpelli, sembra davvero di risentire il
profumo dell’olio canforato e di rivivere un giornalismo e un
football che ormai sono stati sepolti. Il minuto di silenzio è
doveroso, dopo quel lungo, miserabile silenzio che il nostro
calcio ha riservato a Ferruccio Valcareggi, mezzala e allenatore
di un tempo ormai perduto.
di Tony Damascelli
http://www.storiedicalcio.altervista.org/damascelli_valcareggi.html
L’Olanda del calcio totale
BaroneRosso
- 4 novembre 2014
Il calcio olandese, alla fine degli anni
60, coi successi di Ajax e Feyenoord, porta alla ribalta europea
un modo di giocare per l’epoca rivoluzionario, basato sulla
rinuncia alle specializzazioni e su un atletismo spinto,
concetti sino ad allora praticamente sconosciuti. Rinus Michels
sarà la guida di questo vero e proprio sconquasso tattico,
fedele al suo credo che prevedeva di allargare il campo in fase
di possesso palla (sarà più facile mantenerne il possesso) e
rimpicciolire il campo quando è la squadra avversaria ad avere
la palla, per rendere più difficoltoso il mantenimento di tale
possesso. Al giorno d’oggi possono apparire ovvietà ma per il
calcio di allora erano concetti assolutamente fuori dagli
schemi.
Si inizia a definire il calcio giocato
dalle squadre olandesi come ‘calcio totale’, uno stile di gioco
per cui ogni calciatore che si sposta dalla propria posizione è
subito sostituito da un compagno, permettendo così alla squadra
di mantenere inalterata la propria disposizione tattica. Secondo
questo schema di gioco nessun giocatore è ancorato al proprio
ruolo e nel corso della partita chiunque può operare
indifferentemente come attaccante, centrocampista o difensore.
Ad integrazione di questi atteggiamenti
individuali il calcio totale è stato anche il primo stile di
gioco ad applicare sistematicamente il pressing e la tattica del
fuorigioco.
Naturalmente ogni innovazione tattica
necessita anche di buoni giocatori per esprimersi al meglio ed
il gruppo di giocatori olandesi dei due club che dominavano in
Europa era composto da autentici fuoriclasse. Giocatori che poi
portarono in nazionale, sotto la guida di Rinus Michels, il loro
modo di giocare e nei mondiali del 1974 strabiliarono il mondo
col loro sistema rivoluzionario che disorientò completamente gli
avversari, incapaci di raccapezzarsi nel vortice di movimenti
messo in scena dagli ‘orange’.
Analizzando lo schema tattico cogli occhi
attuali potremmo definire il modulo applicato dagli olandesi
come una sorta di 1-3-3-3. La squadra attua un pressing
abbastanza sostenuto che la difesa segue in maniera regolare
portando perciò la linea difensiva ad attivare sistematicamente
la trappola del fuorigioco. Tale meccanismo era una novità
assoluta a livello mondiale e gli attaccanti avversari si
trovarono subito in grosse difficoltà, abituati com’erano a
stazionare nei pressi delle aree avversarie per essere pronti a
ricevere i passaggi dei compagni. Stessa sorte toccava ai
difensori avversari non abituati a vedersi attaccati in maniera
costante dagli avanti olandesi.
La difesa è schierata a zona coi due
centrali di difesa che hanno due ruoli ben distinti, con lo
‘stopper’ che si occupa esclusivamente di compiti difensivi
mentre il ‘libero’ è portato anche ad impostare l’azione; in
fase di possesso palla i terzini si sganciano continuamente
sulle fasce per dare alla squadra ulteriori sbocchi offensivi.
La famosa intercambiabilità dei ruoli inizia appunto dalle
coperture degli sganciamenti dei terzini, che porta spesso in
difesa i centrocampisti e qualche volta anche gli attaccanti.
La differenza del calcio totale rispetto
ai moduli a zona successivi è che i giocatori si muovono in
relazione alla posizione dei compagni invece che a quella della
palla, perché la copertura degli spazi è una condizione primaria
di questo stile di gioco, secondo cui la squadra in campo deve
sempre mantenere la stessa disposizione tattica.
Il pressing a tutto campo ha anche
l’effetto di mantenere la squadra corta, cosa che favorisce gli
inserimenti offensivi così come i ripiegamenti difensivi. Questo
influisce però anche sul gioco del portiere, che opera ora quasi
come un libero, controllando l’area di rigore sia nelle uscite
sia giocando il pallone con i piedi.
La creazione degli spazi quando la squadra
è in possesso di palla è un’altra condizione necessaria per
poter giocare il calcio totale, e solo la capacità di creare e
riempire gli spazi da parte dei giocatori rende possibile la
buona riuscita di questo stile di gioco. In caso contrario,
sarebbe impossibile imbastire azioni d’attacco efficaci perché
verrebbero a mancare tutti i corridoi di passaggio. Invece, i
movimenti continui e perfettamente sincronizzati dei giocatori
in campo, e le insistenti sovrapposizioni degli uomini senza
palla, mettono in difficoltà le difese bloccate nella marcatura
a uomo, mentre la circolazione del pallone per vie orizzontali
permette ai giocatori in attacco di avere il tempo di liberarsi
e rendersi pericolosi.
Il fatto veramente rivoluzionario era che
lo scambiarsi delle posizioni avveniva in senso longitudinale, e
non per vie orizzontali. Altre squadre, come la Dinamo Mosca di
Arkadiev, attuavano degli scambi di posizione tra i giocatori,
ma le tre linee di difesa, centrocampo ed attacco rimanevano
invariate. Tramite il pressing invece le squadre di Michels
furono le prime a promuovere gli scambi di posizione tra
giocatori di linee diverse.
In pratica, lo schema principale prevede
il possesso palla gestito da tutti i giocatori che, passandosi
il pallone in semicerchio, avanzano compatti accerchiando la
difesa nemica, per poi partire all’improvviso con triangolazioni
veloci che portano uno o due giocatori in area di rigore. Un
impegno offensivo costante caratterizza la squadra, aggredendo
costantemente il portatore di palla avversario che non sa più
cosa fare del pallone vedendosi accerchiato e assalito
contemporaneamente da tre o quattro olandesi.
L’obiettivo era quello di scardinare le
difese avversarie e Michels decide di coinvolgere nella manovra
d’attacco anche i centrocampisti ed i difensori, in una sorta di
attacco di massa, il che voleva dire ad esempio che dei
difensori dovevano avanzare da dietro per fornire alla squadra
delle ulteriori opzioni d’attacco.
La buona riuscita del calcio totale
dipende in larga parte dall’adattabilità di ogni membro della
squadra a ricoprire più ruoli. I giocatori devono avere una
grande capacità di analizzare le diverse situazioni tattiche per
potersi scambiare con efficacia la posizione in campo, e sono
necessarie una buona tecnica e un’ottima preparazione fisica.
La nazionale olandese del 1974, che portò
alla ribalta il ‘calcio totale’ , contava su giocatori di valore
assoluto e applicò in maniera totale l’intercambiabilità dei
ruoli. Già dal portiere, Jongbloed, che per gli schemi di allora
era una sorta di ‘marziano’; in pratica si comportava da
difensore , spesso costretto dalle evenienze tattiche a
disimpegnarsi ricorrendo a recuperi avventurosi e salvataggi coi
piedi. La difesa era composta da due difensori centrali
rigorosamente a zona, Haan, il ‘libero’ e Rijsbergen, lo
‘stopper’, mentre i terzini erano Suurbier e Krol. Questi ultimi
erano in realtà dei terzini-ali, costantemente portati
all’offensiva ed a scambiarsi di ruolo coi centrocampisti e
qualche volta anche cogli attaccanti.
A centrocampo agivano Jansen, Van Hanegem
ed il vero e proprio fuoriclasse Neeskens, dalla grande
intelligenza tattica, tecnica sopraffina e vero uomo ovunque
della formazione olandese, in pratica l’emblema del superamento
dei ruoli. Poteva giocare difensore, mediano, regista,
rifinitore e soprattutto attaccante, come suggerisce la sua
media gol. In attacco erano schierati Rep a destra, Resenbrink a
sinistra e Cruijff in mezzo, autentico fuoriclasse e primo,
grande, ‘finto-centravanti’ del calcio moderno. La sua forza
stava nella capacità di scivolare come un’anguilla tra le maglie
della difesa, partecipando al tourbillon offensivo per poi
proiettarsi a concludere, ora da punta, ora da interno in
avanscoperta, nei momenti meno prevedibili.
Tutto il resto è movimento,
sovrapposizioni, interscambi. I terzini sono sovente in avanti,
le ali spesso ripiegano o si accentrano alla ricerca di spazi, i
centrocampisti si spostano sincroni in attacco od in difesa a
seconda delle situazioni.
E’ un modulo altamente spettacolare che
però, con la nazionale di Michels, non porta a risultati
all’altezza: solo due secondi posti consecutivi ai mondiali del
1974 e 1978, anche se a parziale giustificazione c’è da dire che
entrambe le volte giocarono in finale contro la nazionale che
ospitava i mondiali.
Di ben altro spessore i successi a livello
di club; il Feyenoord vince nel 1969/70 una coppa Campioni
mentre nelle 3 stagioni successive, dal 1970/71 al 1972/73 è
l’Ajax a vincere ininterrottamente il massimo trofeo
continentale. Senza contare coppe Intercontinentali, coppe Uefa
e scudetti vari. In definitiva il calcio olandese pensionerà
definitivamente il catenaccio ed il dominio dei club italiani in
Europa degli anni 60 e farà da apripista alla concezione moderna
del calcio.
Rinus Michels porterà al Barcellona tale
filosofia di gioco e Cruijff come allenatore ne diverrà il degno
erede creando quella formidabile fucina di talenti e stile che è
l’attuale Cantera blaugrana.
Ma anche in Olanda l’Ajax resterà sempre
fedele ai metodi di questo grande allenatore perpetuando fino ai
giorni nostri la filosofia del ‘totaalvoetbal’.
Riportiamo infine ciò che scrisse il
grande maestro del giornalismo sportivo, Ganni Brera,
sull’Olanda di quei giorni.
«Gli olandesi sprizzavano energia e
divertimento da tutti i pori. Quando non dovevano rischiare le
gambe, Cruijff e Neeskens inscenavano giostre ineffabili. Il
loro genio si trasmetteva a un complesso non meno dotato che
esperto. Contro l’Olanda si sono scornati uruguagi e bulgari,
argentini e tedeschi orientali, non però gli svedesi e,
pensandoci nemmeno i brasiliani, che pure non avevano attacco.
Si spropositava per gli olandesi di calcio totale, diciamo pure
di panturbiglione, di girandola continua: non mi è accaduto di
vedere in attacco sull’estrema destra i due terzini d’ala? Ogni
schema difensivo andava a ramengo dietro all’ ispirazione e al
ritmo dell’azione offensiva. Era questo un difetto che secondo
logica gli olandesi avrebbero dovuto pagare. Già con il Brasile
nel turno semifinale, avevano lasciato tre comode palle gol ad
attaccanti che le sciuparono miserevolmente. Il povero Zagallo,
che giocava uno splendido calcio difensivo, non aveva
attaccanti che valessero non dico Pelé e Garrincha, ma neanche
i vecchi arrembati “italioti” Altafini e Clerici. Dopo aver
tanto sprecato, era fatale che il Brasile lasciasse via libera
agli olandesi. E questo precisamente avvenne: però chi aveva
occhi per vedere non poteva dimenticare le disinvolture
difensive, diciamo pure le cicalate che perpetravano Cruijff e
compagni. Nello stilare il pronostico della finale me ne sono
ricordato. I tedeschi hanno messo un duro come Vogts su Cruijff
e si sono asserragliati intorno a Beckenbauer. Il principe
Franceschino si è ben guardato, per l’occasione, di uscire a
bailar fùtbol come soleva nelle partite facili. E rimasto al
centro dell’area e sì è battuto con la modestia di un capitano
conscio di sé e degli avversari. Vogts è subito incappato in un
fallo da rigore ma poi ha convinto Cruijff che fosse meglio
girare al largo. Le caviglie dei miliardari sono preziose anche
in Olanda. Il presuntuoso calcio totale ha mostrato le sue
pecche e il calcio difensivista i suoi pregi di modestia e di
praticità. In Italia avevano tutti pronosticato Olanda e si
scagliarono contro di me, che avevo scritto come qualmente ì
tedeschi avessero vinto i mondiali giocando all’italiana. Lo
confermò papale papale anche Beckenbauer: ovviamente, ha
precisato, con il nostro impegno, la nostra rabbia».
https://www.fmita.it/1452-lolanda-del-calcio-totale
Arriva Bernardini. Al via la
coraggiosaricostruzione dopo lo svecchiamento.
Addio Mazzola, Rivera, Riva,
Burgnich, Albertosi, Rosato, De Sisti.
QUARTO POSTO
Enzo Bearzot
1
Zoff ·
2
Bellugi ·
3
Cabrini ·
4
Cuccureddu ·
5
Gentile ·
6
Maldera ·
7
Manfredonia ·
8
Scirea ·
9
Antognoni ·
10
Benetti ·
11
Pecci ·
12
Conti ·
13
P. Sala ·
14
Tardelli ·
15
Zaccarelli ·
16
Causio ·
17
C. Sala ·
18
Bettega ·
19
Graziani ·
20
Pulici ·
21
Rossi ·
22
Bordon ·
PRIMA FASE
|
2-6-1978, Mar del Plata (MO) Italia-Francia 2-1
Reti: 1’ Lacombe, 29’ P. Rossi, 54’ Zaccarelli
Italia: Zoff, Gentile, Cabrini, Benetti, Bellugi,
Scirea, Causio, Tardelli, P. Rossi, Antognoni (46’
Zaccarelli), Bettega. Ct: E.
Bearzot. Francia: Betrand-Demanes, Janvion, Bossis,
Michel, Rio, Tresor, Dalger, Guillou, Lacombe (75’
Berdoll), Platini, Six (76’ Rouyer). Ct: M.
Hidalgo. Arbitro: Rainea (Romania). |
|
6-6-1978, Mar del Plata (MO) Italia-Ungheria 3-1
Reti: 34’ P. Rossi, 35’ Bettega, 61’ Benetti, 81’ A.
Toth rig. Italia: Zoff, Gentile, Cabrini (79’
Cuccureddu), Benetti, Bellugi, Scirea, Causio,
Tardelli, P. Rossi, Antognoni, Bettega (83’
Graziani). Ct: E. Bearzot. Ungheria: Meszaros,
Martos, J. Toth, Zombori, Kereki, Kocsis, Pusztai,
Csapo, Fazekas (46’ Halasz), Pinter, Nagy (46’ A.
Toth). Ct: L. Baroti. Arbitro: Barreto Ruiz
(Uruguay). |
|
10-6-1978, Buenos Aires (MO) Italia-Argentina 1-0
Rete: 67’ Bettega Italia: Zoff, Gentile, Cabrini,
Benetti, Bellugi (6’ Cuccureddu), Scirea, Causio,
Tardelli, P. Rossi, Antognoni (73’ Zaccarelli),
Bettega. Ct: E. Bearzot. Argentina: Fillol, Olguin,
Tarantini, Gallego, Luis Galvan, Passarella,
Bertoni, Ardiles, Kempes, Valencia, Ortiz (72’
Houseman). Ct: L.C. Menotti. Arbitro: Klein
(Israele). |
SECONDA FASE
|
14-6-1978, Buenos Aires (MO) Italia-Germania Ovest
0-0 Italia: Zoff, Gentile, Cabrini, Benetti, Bellugi,
Scirea, Causio, Tardelli, P. Rossi, Antognoni (46’
Zaccarelli), Bettega. Ct: E. Bearzot. Germania
Ovest: Maier, Vogts, Dietz, Bonhof, Rüssmann, Kaltz,
Rummenigge, Zimmermann (53’ Konopka), Fischer, Flohe
(68’ Beer), Hölzenbein. Ct: H. Schön. Arbitro:
Maksimovic (Jugoslavia). |
|
18-6-1978, Buenos
Aires (MO) Italia-Austria 1-0 Rete: 13’ P. Rossi
Italia: Zoff, Gentile, Cabrini, Benetti, Bellugi
(46’ Cuccureddu), Scirea, Causio, Tardelli, P.
Rossi, Zaccarelli, Bettega (71’ Graziani). Ct: E.
Bearzot. Austria: Koncilia, Sara, Strasser, Krieger,
Pezzey, Obermayer, Hickersberger, Prohaska, Krankl,
Kreuz, Schachner (63’ Pirkner). Ct: H. Senekowitsch.
Arbitro: Rion (Belgio). |
|
21-6-1978, Buenos
Aires (MO) Olanda-Italia 2-1 Reti: 19’ aut.
Brandts, 50’ Brandts, 76’ Haan
Olanda: Schrijvers (21’ Jongbloed), Brandts,
Poortvliet, Jansen, Neeskens, Krol, R. Van de
Kerkhof, W. Van de Kerkhof, Rep (65’ Van Kraay),
Haan, Rensenbrink. Ct: E. Happel. Italia:
Zoff, Cuccureddu, Cabrini, Benetti (77’ Graziani),
Gentile, Scirea, Causio (46’ C. Sala), Tardelli, P.
Rossi, Zaccarelli, Bettega. Ct: E. Bearzot. Arbitro:
Martinez (Spagna). |
FINALE 3° E 4°
POSTO
|
24-6-1978, Buenos
Aires (MO) Brasile-Italia 2-1 Reti: 38’ Causio, 64’
Nelinho, 71’ Dirceu Brasile: Leão, Nelinho,
Rodrigues Neto, Toninho Cerezo (64’ Rivelino),
Oscar, Amaral, Gil (46’ Reinaldo), Jorge Mendoça,
Roberto, Batista, Dirceu. Ct: C. Coutinho. Italia:
Zoff, Cuccureddu, Cabrini, P. Sala, Gentile, Scirea,
Causio, Maldera III, P. Rossi, Antognoni (78’ C.
Sala), Bettega. Ct: E. Bearzot. Arbitro: Klein
(Israele). |
Grazie a Rossi,
ma soprattutto al grande cuore, questa Nazionale è per ora la
più ammirata
L'Italia è arrivata alle
semifinali del Mundial. Le più ardite speranze si sono
realizzate. Non mi vergogno a confessare che scrivo con un
groppo alla gola. Ho provato una delle più grandi emozioni della
mia vita di cronista sportivo. Perché ho assistito al trionfo di
una squadra che finalmente ha giocato col cuore, rigettando
tutte le meschinità che fan parte del bagaglio che i «ragazzi
d'oro» del nostro sballatissimo pallone si portano appresso.
Un'Italia che ha voluto farsi onore davanti a un'altra Italia,
quella trapiantata in ..questo amaro e amato Paese. Ho veduto
gente piangere, intorno a me, come il giorno che sono arrivato a
Buenos Aires e ho messo piede nella «cancha» del Boca: ma
queste, amici, erano lacrime diverse, come quelle che mi sento
scoppiare negli occhi e che respingo dicendomi ma via, che fai,
sciocco: in fondo è una partita di calcio.
GIA', in fondo è una partita
di calcio, in fondo abbiamo soltanto sconfitto l'Ungheria, cosi
come abbiamo sconfitto la Francia. Ma se è vero che in Perù il
presidente della repubblica s'è salvato il posto per i gol di
Cubillas; se è vero che in Italia sappiamo che si sono
verificate manifestazioni di giubilo somiglianti a quelle delle
notti «messicane», è altrettanto giusto che il vostro povero
cronista raggelato dall'inverno platense e riscaldato dai gol di
Rossi e compagni provi oggi un senso di grande felicità e cerchi
di trasmettervelo. Oggi a Mar del Plata, dopo che abbiamo
sconfitto anche l'Ungheria, non è stata festa per tutti: certo,
a chi è partito dall'Italia con la penna-mitra nel taschino
questo trionfo azzurro non va giù. Diomio, ripenso a quella
notte di Italia-Jugoslavia, a Roma, e mi vergogno. Per i
colleghi, naturalmente, che hanno tentato di imbastardire la
Nazionale figlia de campionato suggerendo chissà quali
rivoluzioni, vomitando sugli azzurri critiche che meritavano
forse d'esser proposte, ma civilmente, senza la libidine di
distruzione ch'è abituale ai nostri mamma-santissima. Oh,
sapeste quanto sono orgoglioso del poco o niente che conto, del
fatto che certe mie critiche abbiano voluto aiutare a costruire
una Nazionale migliore e mai a demolire quel che si stava
faticosamente costruendo: di questo mi è stato dato atto, e ne
sono pago. Così come ho dato atto a Franco Causio di essermi
sbagliato sul suo conto, quando ho pensato che fosse meglio
sostituirlo: loro, i giocatori, sono, stati leali con noi,
dandoci la più grande delle soddisfazioni; e allora cerchiamo di
ricambiarli.
NON E' MAI troppo tardi per
riconquistare la fiducia e la stima della gente del calcio,
quella che lo fa e quello che lo chiacchiera. Ora sono
pienamente soddisfatto della scelta che feci alla vigilia del
Mundial, quando volli incamminarmi sulla via della serenità e
dell'ottimismo, una via sulla quale fui indirizzato dalle parole
di Bearzot, dalle confidenze serene dei giocatori, dal livore
idiota di certa critica. Una scelta difficile, che ha motivato
in parte (è una spiegazione che devo ai lettori, perché il
nostro rapporto continui ad essere chiaro e onesto) il «divorzio
mondiale» fra noi del «Guerino» e Helenio Herrera, giunto a
Baires con la convinzione di dover assistere al funerale del
calcio italiano, forse frastornato dal clamore delle Cassandre,
lui che aveva tanta esperienza per evitare un così grave errore
di valutazione.
L'AVVENTURA ARGENTINA
continua grazie soprattutto alla solidarietà di gruppo esplosa
improvvisamente nel clan azzurro, laddove da sempre erano
esistiti padrini, mafie, gruppuscoli di scontenti e di
contestatori; in Nazionale abbiamo veduto per la prima volta
ragazzi come Graziani accettare senza batter ciglio le scelte
del tecnico; abbiamo registrato per la prima volta l'assenso di
uno Zaccarelli all'ordine di ritornare in panchina, dopo che
proprio lui, il modesto ma generosissimo «Zac», era stato
l'artefice della prima, importante vittoria sulla Francia.
Abbiamo poi veduto gli juventini stringersi intorno al «fratello
mancato», quel Paolino Rossi che è stato il deus-ex-machina
della meravigliosa rappresentazione azzurra in Mar del Plata.
Bearzot me l'aveva detto a Budapest, dopo che s'era vista
all'opera un'Ungheria giustamente valutata per quel che poi si è
mostrata, una squadra dotata di buona tecnica e di gran
carattere: stava pensando a Rossi, al ruolo che avrebbe potuto
ricoprire al Mundial. Ci ha pensato, con molta calma,
respingendo le chiamate del popolo romano che voleva Paolino in
campo contro la Jugoslavia solo per esasperare l'umiliazione di
Graziani, e trovandogli il giusto ruolo.
OGGI SAPPIAMO che l'Italia ha
trovato un vero grande campione. Oggi forse Giampiero Boniperti
sta pensando che forse quei due miliardi e passa non erano poi
tanti, se rapportati al valore del ragazzo. E Farina se lo
stringe al petto contento: vada come vada, il tesoro del calcio
italiano lo conserva gelosamente lui, a Vicenza. E' facile oggi
parlar bene di Paolo Rossi impressionati dai suoi gol che hanno
sbloccato i trionfi azzurri. Ma il suo apporto non va valutato
singolarmente, ma per il peso che ha avuto sull'intero gioco di
squadra. Se avete seguito bene le due partite degli azzurri,
avrete notato che per la prima volta l'Italia ha scelto la via
dell'offensiva ragionata, quel progetto in apparenza assurdo che
prima Bernardini (l'inventore dei «piedi buoni») eppoi Bearzot
avevano studiato di realizzare, imbattendosi in più d'un
ostacolo. Il primo incentivo a questa nuova e importante scelta
tecnico-tattica è venuto dal destino, vale a dire dal gol-lampo
realizzato da Lacombe al trentaduesimo secondo di Francia-Italia
(stando ai testi sacri, solo un altro francese, Nicolas, segnò
un gol più rapido ai Mondiali, al trentesimo secondo di Francia-Belgio
del '38, l'anno in cui l'Italia vinse il suo secondo Mondiale...
che sia di buon augurio? facciamo corna, come Leone, e tiremm
innanz): quell'incidente (chiamiamolo così, anche se sappiamo
che la nostra difesa, di questi incidenti,
potrebbe riservarcene
altri...) ha costretto l'Italia a svelare le sue naturali
qualità forzatamente celate dalla modestia del nostro tecnico;
la seconda spinta a battersi da uomini e non da pecore è venuta
dal cuore ritrovato; la terza spinta (ma forse la più
importante) dalle caratteristiche tecniche di Paolo Rossi, che
ha riportato la prima linea azzurra ai livelli di rendimento che
aveva conosciuto soltanto davanti alla Finlandia, tenendo conto
- ovviamente - del diverso livello tecnico fra finlandesi,
francesi e ungheresi; vale a dire che Rossi ci ha fatto fare un
grande passo avanti realizzando con Causio e Bettega
quell'intesa ideale che potrebbe aver trasformato il nostro
attacco in una macchina da gol. PAOLO è giocatore di discreta
classe, di media resistenza fisica, ma soprattutto di
incredibile intelligenza tattica: il suo «movimento» è senza
dubbio la realizzazione delle chimere heribertiane, perché non
accenna a sprechi, non ha radici in teorie da ginnasiarchi, è
pura espressione calcistica, continua minaccia ai difensori
avversari, ininterrotta presenza per la collaborazione con i
compagni del centrocampo e dell'attacco.
Si deve ancora stabilire se sia stata miracolosa la facilità con
cui Rossi si è inserito nel tessuto di una Nazionale già
schematizzata diversamente, in un attacco che s'era dato al ben
diverso rapporto intercorrente fra Graziani e Bettega, o se
invece il miracolo l'abbia compiuto la squadra, «adottando» con
tanta disinvoltura il ragazzino dalla «cara limpia» (faccia
pulita, come dicono qui) e dal cervello fino, quando aveva
rifiutato altri importanti trapianti. Cosa volete che dica, che
Bearzot s'è rivelato un Barnard? No: molto semplicemente che
forse Paolo Rossi era quel cuore che ci mancava, l'unico capace
di resistere alla crisi di rigetto. Ma il ragazzo - che non è
stupido - s'è affrettato a dire chi l'ha aiutato a trovare così
rapida intesa con la squadra: Bettega. Già, Bettega: qualcuno
l'ha definito padrino, ma di allocchi è pieno il mondo. Bettega,
amici miei, non ha nulla a che spartire con gli abusati
«padrini» e «Richelieu» del nostro povero calcio: se amate
leggermi (o appena mi sopportate) avrete appreso da tempo quel
che penso di lui: che è grande calciatore, grande uomo. E non ho
bisogno di aggiungere altro, se non che ha fatto coppia con un
grande calciatore e un grande ragazzo che ormai da queste parti
chiamano così, con dolce e delicata enfasi: Paolino.
QUESTO MUNDIAL, lasciatemelo
dire, non è un gran Mundial: la sua «cifra tecnica» (come dicono
i sapienti) è assai modesta: più ricca la sua parte romanzesca,
dove figurano un incredibile Perù (che ha umiliato la mia
Scozia), una dignitosissima Tunisia, una lodevole Svezia, un
amaro Brasile, una quadratissima Austria, una spenta Spagna e
un'incertissima Germania. E se ci fate caso - non da tifosi, ma
da gente che capisce calcio - il meglio è venuto proprio dal
nostro girone; da un'Ungheria che solo le trappole argentine
potevano ridurre a miti consigli; da una Francia che solo le
astuzie argentine (leggi arbitri) potevano rispedire a Parigi
con un fardello di sogni infranti; ma soprattutto da un'Italia
che invece si è fatta avanti onorando il gioco e la lealtà
sportiva, superando la Francia che già l'aveva messa in
ginocchio, godendo soltanto (e certo non è poco) dell'assenza di
quei due fantastici e sciocchi ragazzi che sono Torocksik e
Nyilasy, vittime della scatenata Argentina e della sua hinchada
(tifoseria) che vuole a tutti i costi la squadra di Menotti
finalista dell'undicesimo Mundial.
MAGARI CON L'ITALIA, anche se
dopo le «rappresentazioni azzurre» di Mar del Plata questo
desiderio s'è un po' raffreddato: adesso l'Italia fa paura,
ragazzi miei, perché ha chiaramente dimostrato d'essere, fin
qui, la migliore squadra del Mundial, perché la più forte del
«girone di ferro» e penso che sabato al River Plate si avrà un
saggio di questo incontro fra amiche-rivali. Come stanno le cose
ora, l'Argentina non può più sperare di giocare con l'Italia una
partita-camomilla, truccata insomma, come quella organizzata in
apertura da Germania e Polonia; non può, perché se non vince
rischia di dover lasciare l'adorata sede di Buenos Aires, e
spostarsi a Rosario, dove certamente si troverà davanti
l'interrogativa Germania. E d'altra parte l'Italia non può
regalare a Menotti la partita, rinunciando alle comodità
logistiche e quasi certamente tecniche di Baires. Sarà dunque un
altro capitolo avvincente - me lo auguro - quello che si
scriverà sabato al River Plate. Già c'è chi pensa ad una sorta
di bis di Italia-Germania del 70, in Messico 70. Dite che
potrebbe costarci caro per le partite successive? Dite quel che
vi pare: io credo al proverbio che dice: l'appetito vien
mangiando, e la voglia di vincere viene vincendo. Così, coraggio
Bearzot, affrontiamo decisi anche questa battaglia che si voleva
fosse platonica; ormai la qualificazione ce la siamo guadagnata,
rischi non ne corriamo, e addirittura ci può essere fornita
l'occasione di sperimentare una difesa più solida, che i nostri
problemi son tutti qui, e riusciremo a risolverli fino a che
l'attacco girerà a pieno regime come in questi giorni, i
bellissimi giorni azzurri che hanno presentato al mondo Paolo
Rossi, el angel da la cara limpia, l'angelo dalla faccia pulita.
Italo Cucci, giugno 1978
http://www.storiedicalcio.altervista.org/italia_78_cucci_3.html
... e Paolo
divenne Pablito
Capocannoniere del nostro
campionato e protagonista indiscusso solo all'ultimo convince
Bearzot che lo schiera titolare per un mondiale storico.
La favola di Paolo Rossi
incomincia al termine di una fantastica stagione con il LR.
Vicenza,; il giovane talento di Prato, già esploso in serie B,
aveva portato la sua squadra ad un soffio da un leggendario
scudetto ed aveva vinto la classifica dei cannonieri con ben
ventiquattro reti.
Paolo Rossi era l’uomo-nuovo
del calcio italiano, un giocatore dal fisico esile, ma dal
grande senso del gol. Le sue reti non erano frutto della potenza
di un bomber, ma solo dell’abilità dell’ultimo tocco decisivo
nella rete avversaria. Era lì sui calci d’angolo, sulle respinte
del portiere, sull’errore del difensore, pronto con la sua
furbizia a metterla dentro. Semplicità e genio insieme.
Aveva debuttato in
nazionale, due sole presenze dove non aveva brillato come in
campionato; una vittoria in Belgio con rete di Antognoni, ed una
sconfitta in Spagna per 2 a 1. Nessuna rete e Bearzot non vedeva
in lui il titolare per gli imminenti mondiali argentini. Davanti
quel Ciccio Graziani che era da anni protagonista dei cannonieri
del nostro torneo, bomber di razza e fisicamente l’opposto del
nostro Paolo.
Paolo è protagonista della
scena; dopo lo scudetto sfiorato, eccolo pronto alla sfida del
calcio mercato con l’offerta alle buste considerato che è in
comproprietà con la Juventus. Farina, presidente del Vicenza,
offre la cifra esorbitante di due miliardi che sbaraglia l’esile
proposta della Juventus, stranamente non molto interessata;
Boniperti si era fermato a soli 800 milioni.
Si arriva alla partenza per
l’Argentina e Bearzot ha chiara la formazione degli azzurri; i
nostri primi avversari sono i francesi di quel Michel Platini
che aveva già messo in difficoltà la nostra difesa in un’
amichevole a Napoli giocata a febbraio. Dopo giocheremo con
l’Ungheria, squadra ostica dell’est e infine con i padroni di
casa dell’Argentina.
La stampa italiana preme per
Rossi, considerando anche un opaco fine campionato di Graziani
ma
Bearzot vuol il granata
titolare, e la notizia di Rossi in panchina viene vista dai
giornalisti francesi come un “grande regalo”. Alla fine il
tecnico friulano non farà questo presente ai cugini transalpini
e come un vero “colpo di scena” Paolo gioca si dal primo minuto
del mondiale. Tutto sembra la trama di un giallo; dopo pochi
secondi la Francia passa in vantaggio, ma l’Italia con Causio e
Bettega non demorde e si arriva al pareggio. E Paolo il
“salvatore della patria” segnando un gol proprio alla Rossi,
dopo una serie di rimpalli che tolgono il fiato.
Si vince e giochiamo contro
l’Ungheria; Paolo diventa sempre più padrone del gioco e
realizza la rete del vantaggio contro i magiari, riprendo una
stentata parata del portiere avversario ed infilando in rete.
Il temuto girone dell’Italia
in pochi giorni è “domato” e gli azzurri vengono visti già come
una delle formazioni candite al titolo finale. La partita con
l’Argentina, che qualche mese prima era la nostra ultima chance,
diventa quasi una formalità, addirittura una sfida per
dimostrare la grandezza della nostra squadra. Così avviene e
Rossi e protagonista della rete realizzata da Bettega,
inventandosi una triangolazione attivata da un suo colpo di
tacco. Le prodezze di Paolo aumentano sempre di più.
Le speranze di rivedere
l’Italia in finale dopo otto anni ormai sono diventate quasi una
certezza. L’Argentina è stato sconfitta e la Germania, il
Brasile e l’Olanda non sono più le formazioni zeppe di campioni
di quattro anni prima. La stanchezza comincia a farsi sentire
con i tedeschi, dove in una giornata nebbiosa Rossi e compagni
sbagliano gol quasi fatti. L’Italia perde i colpi ma con
l’Austria ecco che lo spirito di Paolo ritorno ad essere
decisivo.
Viene superato da un
difensore ma lui insiste nel suo duello e infila una zampata che
beffa anche il portiere in uscita. La sia prodezza è sufficiente
a superare gli austriaci! Le speranze si sono riaccese ma per la
finale bisogna solo battere l’Olanda, e non è poco. Rossi si
perde nella sfortuna di una partita segnata e cade nella
trappole storiche del fuorigioco olandese. Il gigante delle
partite precedenti diventa un giovane ragazzo sperduto nei campi
di tulipani fatte dalle maglie arancioni.
L’amarezza della sconfitta e
tanta , ma ci giochiamo il terzo posto con il Brasile, un
risultato insperato per una squadra che un anno prima vedeva la
qualificazione per la fase finale quasi come una utopia.
L’Italia e a pazzi; stanca, con infortunati e squalificati,
Bearzot si inventa una squadra che mai avrebbe pensato. Rossi
capisce che il suo talento può fare a ancora la differenza e
gioca a tutto campo trasformandosi anche in ala; suo il cross
per la testa di Causio ed ecco una rete che offende il grande
Brasile.
Poi ancora tiri da lontano e
fine del mondiale. L’Italia e solo quarta, l’Italia è grande
quarta e Rossi torna in Italia da vincitore, gioia e amaro in
bocca ma la favola di Pablito è veramente cominciata.
http://www.golcalcio.it/Rossi%20mondial.htm
CAMPIONE DEL MONDO
Enzo Bearzot
1
Zoff ·
2
Baresi ·
3
Bergomi ·
4
Cabrini ·
5
Collovati ·
6
Gentile ·
7
Scirea ·
8
Vierchowod ·
9
Antognoni ·
10
Dossena ·
11
Marini ·
12
Bordon ·
13
Oriali ·
14
Tardelli ·
15
Causio ·
16
Conti ·
17
Massaro ·
18
Altobelli ·
19
Graziani ·
20
Rossi ·
21
Selvaggi ·
22
Galli ·
PRIMO TURNO
|
14-6-1982, Vigo (MO)
Italia-Polonia 0-0 Italia: Zoff, Gentile, Cabrini,
Marini, Collovati, Scirea, B.Conti, Tardelli, Rossi,
Antognoni, Graziani. Ct: Bearzot. Polonia:
Mlynarczyk, Majewski, Jalocha, Matysik, Janas, Zmuda,
Lato, Buncol, Iwan (72’ Kusto), Boniek, Smolarek. Ct:
Piechniczek. Arbitro: Vautrot (Francia). |
|
18-6-1982, Vigo (MO)
Italia-Perù 1-1 Reti: 19’ Conti, 85’ aut. Collovati.
Italia: Zoff, Gentile, Cabrini, Marini, Collovati,
Scirea, B.Conti, Tardelli, Rossi (46’ Causio),
Antognoni, Graziani. Ct: Bearzot. Perù: Quiroga,
Duarte, Olaechea, Velasquez, Salguero, Diaz,
Barbadillo (65’ Leguia), Cueto, Uribe (65’ La Rosa),
Cubillas, Oblitas. Ct: Tim. Arbitro: Eschweiler
(Germania Ovest). |
|
23-6-1982, Vigo (MO)
Italia-Camerun 1-1 Reti: 61’ Graziani, 62’ M’Bida.
Italia: Zoff, Gentile, Cabrini, Oriali, Collovati,
Scirea, B.Conti, Tardelli, Rossi, Antognoni,
Graziani. Ct: Bearzot. Camerun: N’Kono, Kaham, M’Bom,
Aoudou, N’Djeya, Onana, M’Bida, Kunde, Milla, Abega,
Tokoto. Ct: Vincent. Arbitro: Dotchev (Bulgaria).
OTTAVI DI
FINALE |
|
29-6-1982, Barcellona
(MO) Italia-Argentina 2-1 Reti: 57’ Tardelli, 67’
Cabrini, 83’ Passarella. Italia: Zoff, Gentile,
Cabrini, Oriali (75’ Marini), Collovati, Scirea, B.
Conti, Tardelli, Rossi (80’ Altobelli), Antognoni,
Graziani. Ct: Bearzot. Argentina: Fillol, Olguin,
Tarantini, Gallego, Luis Galvan, Passarella,
Bertoni, Ardiles, Diaz (58’ Calderon), Maradona,
Kempes (58’ Valencia). Ct: Menotti. Arbitro: Rainea
(Romania).
QUARTI DI FINALE |
|
5-7-1982, Barcellona
(MO) Italia-Brasile 3-2 Reti: 5’ Rossi, 12’ Socrates,
25’ Rossi, 68’ Falcão, 74’ Rossi. Italia: Zoff,
Gentile, Cabrini, Oriali, Collovati (34’ Bergomi),
Scirea, B.Conti, Tardelli (75’ Marini), Rossi,
Antognoni, Graziani. Ct: Bearzot. Brasile: Valdir
Peres, Leandro, Junior, Cerezo, Oscar, Luisinho,
Socrates, Falcão, Serginho (69’ Paulo Isidoro),
Zico, Eder. Ct: Telé Santana. Arbitro: Klein
(Israele).
SEMIFINALE |
|
8-7-1982, Barcellona
(MO) Italia-Polonia 2-0 Reti: 22’ e 73’ Rossi.
Italia: Zoff, Bergomi, Cabrini, Oriali, Collovati,
Scirea, B.Conti, Tardelli, Rossi, Antognoni (28’
Marini), Graziani (70’ Altobelli). Ct: Bearzot.
Polonia: Mlynarczyk; Dziuba, Majewski; Matysik,
Janas, Zmuda; Lato, Kupcewicz, Ciolek (46’ Palasz),
Buncol, Smolarek (77’ Kusto). Ct: Piechniczek.
Arbitro: Cardellino (Uruguay). |
Quell’11 luglio 1982: “Campioni
del Mondo!” Il miracolo dell’Italia di Bearzot
Finì così:
«Palla al centro per Muller, ferma Scirea, Bergomi, Gentile,
evviva è finita! Campioni del mondo, Campioni del mondo,
Campioni del mondo», Nando Martellini, mitico telecronista Rai
diede il via libera. L’Italia esplose di gioia. Da Nord a Sud,
11 luglio 1982, 30 anni fa, la vittoria sulla Germania – allora
ancora Ovest – per 3-1 ci laureava campioni del mondo per la
terza volta. Stadio Santiago Bernabeu, Madrid. Ma, in campo,
alcuni minuti prima, era finta con Alessandro Altobelli che
infilava la terza stoccata dell’Italia nella porta difesa dal
tedesco Schumacher ed in tribuna era finita con il volto amico
del Presidente partigiano Sandro Pertini che sorrideva in piedi
davanti al re Juan Carlos: «Non ci prendono più, non ci prendono
più».
Mercoledì saranno trent’anni da quel batticuore. Da quel
capolavoro di calcio firmato dal ct Enzo Bearzot, il «vecio», il
friulano che seppe indovinarne tante e far esplodere Paolo Rossi
– capocannoniere del torneo – e gli altri moschettieri. Negli
occhi dei tifosi il trionfo con l’altro friulano Dino Zoff in
divisa grigia e fascia da capitano che sollevava la coppa.
L’urlo spaccacuore di Marco Tardelli che aveva segnato il
raddoppio.
Sì, quel Mundial è nei cuori. Era un’Italia che combatteva con
la fine del terrorismo, che si affacciava agli anni ’80 e si
appassionò via via a un cammino della nostra Nazionale che fu
impervio nel Mondiale. L’ambiente del calcio – due anni prima –
era stato investito dalla prima bufera del calcio scommesse che
vide – tra gli altri – il coinvolgimento di Paolo Rossi. Ma
Bearzot sapeva parlare a quel gruppo, sapeva dirigerlo.
La sua
Italia, superate le qualificazioni a Vigo con tre pareggi con
Polonia, Perù e Camerun, per la sola differenza gol, eliminò
prima l’Argentina di Maradona e Passarella con la famosa
maglietta strappata di Diego nel duello contro Gentile, poi il
Brasile superstar di Zico, Falcao, Socrates, e poi mise a sedere
la Polonia di Boniek (che non giocò in semifinale) e infine la
Germania di Rummenigge e Breitner.
Un altro calcio, certo. Senza replica virtuale. Con l’Italia i
silenzio stampa dopo le tante polemiche. Ma proprio Tardelli
recentemente ha ricordato: «Non ci ha aiutato il silenzio
stampa, ci siamo aiutati da soli». Zoff fu scelto come
portavoce. L’Italia ingranò la quarta. Indimenticabile il
successo sul Brasile con la tripletta di Pablito Rossi, ai
verdeoro bastava il pari, lo raggiunsero due volte e persero
3-2. «Solo una grandissima squadra poteva reagire così alla
mazzata del loro doppio pareggio», ha detto Tardelli. Poi la
Polonia per la semifinale e ancora doppietta di Rossi.
Italia in finale contro i tedeschi. 11 luglio 1982. Bearzot
chiamato ad un altro miracolo. Antonioni è infortunato. Graziani
si fa male ed esce. Cabrini sbaglia un rigore nel primo tempo.
Niente nubi sugli azzurri, però. Il disegno tattico di Bearzot è
perfetto. Ed è sempre Pablito Rossi che la mette dentro all’11’
della ripresa. Al 23’ la fiondata di Tardelli dalla distanza:
2-0, la rete più rivista del calcio italiano, la corsa con
l’urlo liberatorio. E al 36’ Altobelli piazza il terzo. Paul
Breitner al 38’ segna per i tedeschi. È fatta. E l’ultimo colpo
di teatro è dell’arbitro brasiliano
Coelho che afferra la palla e la solleva.
Comincia il trionfo. La gente è nelle strade. Gli Azzurri
ritornano. Tra le immagini che resteranno per sempre la partita
a scopone, sull’aereo presidenziale. Il Presidente Pertini e
Zoff contro Bearzot e Causio, che poi vinceranno. La Coppa era
sistemata accanto a loro. L’Italia li aspettava. Emozionata.
Fonte: Il
Mattino - La Redazione - M.V.
"Chiedete a Zico e a Maradona
se ero cattivo "
Milano, 22 settembre 2013
Nel giorno del suo 60° compleanno il
grande ex si racconta: Juve, Nazionale, Under. "Parlo con i
risultati. Vycpalek, TRap, Bearzot sono i miei maestri"
"C’è il gruppo con Argentina e Brasile, la
gente è tutta contro di noi, Maradona e Zico all’orizzonte.
Bearzot ci prende da parte: “Ragazzi, è il momento di prendere
una decisione”. È il patto di ferro, ma non immaginiamo come
finirà". Claudio Gentile ha 29 anni, baffi scaramantici e
Tardelli che in camera sta sveglio la notte e non lo fa dormire.
Annulla Maradona e Zico e l’Italia vince il Mondiale spagnolo.
Gentile compie 60 anni venerdì, vive a Como, ha il fisico di un
trentenne e quasi ogni mattina fa cento chilometri in bici.
OMISSIS
L’altro grande allenatore è Bearzot .
"Simile a Trap: il dialogo per risolvere
tutto. Tiene la squadra fuori dalle polemiche e si assume tutte
le responsabilità".
Poi arrivano Maradona e Zico...
"Il suo problema è: chi marca Diego? Ha
diverse idee, poi mi prende da parte e fa: “Te la senti?”. Io,
per fare lo spiritoso: “Qual è il problema?”. E lui,
felicissimo: “Bravo!”. Non può immaginare quante volte mi do del
cretino appena capisco: quello è Maradona! Prendo due cassette e
lo studio. È andata".
Superato Diego, ecco Zico .
"Il piano è: Oriali per lui, io per Eder.
Nel tunnel degli spogliatoi Bearzot mi fa: “Ho cambiato idea, su
Zico vai tu”. L’ha deciso prima, credo, ma non vuole caricarmi
di responsabilità".
Nasce la storia di Gentile "cattivo"...
"Che mi manda in bestia. In carriera, una
sola espulsione, per fallo di mano, Bruges-Juve di Coppa
Campioni. Mai fatto male a nessuno. Zico lo dice. E Schumacher
su Battiston? E De Jong? E Goicoechea? Io cattivo? No, ignorante
chi lo dice".
Altra storia che non le va giù: il
soprannome Gheddafi.
"Quel che ha fatto agli italiani... Ma me
lo affibbia l’Avvocato".
Fabio Licari
http://www.gazzetta.it/Calcio/22-09-2013/calcio-gentile-chiedete-zico-maradona-se-ero-cattivo-201210350224.shtml
TORINO, 28 giugno - «Dopo quello che ha
detto ieri sera devo aderire al parere di Pelè e Platini:
Maradona è più un ciarlatano che un allenatore». Claudio
Gentile, in diretta telefonica con Mondiale Sera su Raidue,
risponde a denti stretti alle affermazioni di Diego Armando
Maradona che, domenica sera, dopo la partita vinta
dall'Argentina contro il Messico, infastidito dalle domande sul
gol in fuorigioco convalidato a Tevez, rispondeva che forse il
Messico si doveva preoccupare della mancata espulsione di un suo
difensore per un fallo su Messi, affermando «non siamo mica
tornati ai tempi dei difensori killer come Gentile».
LA RABBIA - Il campione del mondo 1982, a
questo punto rincara la dose affermando che l'ex pibe de oro è
lui sì un calciatore violento: «È stato espulso in quel mondiale
per un calcio nello stomaco ad un giocatore del Brasile - dice
-. Io, invece, non sono mai stato espulso per gioco violento. Ho
preso solo un cartellino rosso per un fallo di mano in Champions
League e basta». «È un ciarlatano. Quello è il suo parere, ma io
non lo rispetto e non sono d'accordo, lo ripeto è lui quello che
è stato espulso per gioco violento». Claudio Gentile, poi,
afferma di non voler avere contatti con il tecnico della
Seleccion: «Non voglio chiarire niente. A differenza di Zico -
che ho incontrato qualche tempo fa in una trasmissione sportiva
e di cui sono molto amico - che non si è mai permesso di
offendere, di dire quanto ha detto Maradona, ammettendo la
superiorità dell'Italia, che il merito c'è stato, lui non sa
perdere» rimarca l'ex terzino della Juventus. «Quando parla con
questi termini e dà del killer a me che non sono mai stati
espulso per gioco violento, fa sì che qualcuno possa farsi
un'idea sbagliatissima. Io non ho fatto altro che giocare e
marcare come i suoi connazionali Passarella e Gallego. Prima di
dare certi giudizi si deve guardare la carriera di un giocatore.
Ci sono stati difensori che per delle espulsioni sono stati
fuori dal campo per sei sette giornate. Io ribadisco, invece,
non sono mai stato espulso per gioco violento e quindi mi fa
rabbia sentir dire da Maradona delle cose non vere».
http://www.tuttosport.com/calcio/mondiali_2010/girona_b/argentina/2010/06/28-74580/Gentile+risponde+a+Maradona%3A+%C2%ABIo+killer%3F+Lui+%C3%A8+un+ciarlatano%C2%BB
L’Italia Mundial
e quell’urlo tra storia e mito.
di Alessio Pediglieri
1982: l'Italia diventa
Campione del Mondo per la terza volta. E' il segnale del
'risveglio' di una Nazione che si rivede dietro l'urlo di
Tardelli, urlo di rabbia, di gioia. Di rinascita.
L’esultanza del Presidente
Sandro Pertini in tribuna, il capitano Dino Zoff con la Coppa
del Mondo rivolta al cielo, il CT Enzo Bearzot portato in
trionfo in mezzo al campo dai propri giocatori, il bomber Paolo
Rossi capocannoniere dei Mondiali, il primo storico “silenzio
stampa” della nazionale, le partite a carte durante il ritiro,
il calcioscommesse degli anni ’80, la diffidenza e la
contestazione verso una Nazionale mai amata fino in fondo. Ma
soprattutto l’urlo di Marco Tardelli, nella finalissima contro
la Germania, un urlo di liberazione collettiva, di un’intera
nazione che tornava a sognare. Questi sono alcuni dei fermo
immagini più significativi di una vittoria storica, epocale per
l’Italia, non solo dal punto di vista calcistico che vi
raccontiamo in altre storie di Noi italiani
I Mondiali di Spagna
arrivarono in un momento socioculturale molto particolare sia
per l’Italia che per l’Europa. Il clima politico in cui si
svolse questo campionato era abbastanza disteso, nonostante un
tentativo di colpo di stato del colonnello Tejero circa un anno
prima proprio nella penisola iberica. L’evento dell’anno fu
sicuramente la guerra delle Falkland (o delle Malvine, nome
argentino di quelle isole) tra Argentina e Regno Unito, ma anche
l’Italia visse una stagione difficile: si era reduci da tragedie
come la strage di Bologna e il disastro aereo di Ustica,
dall’assassinio di Aldo Moro, da anni di difficoltà economiche
crescenti, dagli “anni di piombo”. Venne assassinato dalla mafia
il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, prefetto di Palermo, con
la moglie Emanuela Setti Carraro e la morte di Roberto Calvi,
responsabile del crack del Banco Ambrosiano, aprì uno dei grandi
misteri italiani del dopoguerra.
Dal punto di vista
calcistico, il Mundial di Spagna fu anche il primo mondiale
dell’”era moderna”, con l’incremento del numero delle formazioni
partecipanti: da 16 a 24 squadre. Ciò permise a ben 14 Paesi
europei di prender parte alla competizione e per la prima volta
scesero in campo le rappresentanti di tutti i 5 Continenti e
delle 6 Confederazioni. L’incremento del numero delle formazioni
partecipanti comportò anche uno stravolgimento
nell’organizzazione del torneo. La prima fase dei gironi,
infatti, prevedeva 6 gironi composti di quattro squadre
ciascuno. Le prime due squadre classificate di ciascun girone
venivano inserite in ulteriori quattro gironi, composti, a loro
volta, di 3 squadre ciascuno. Le vincitrici di questa seconda
fase, avrebbero dato vita alla due seminifinali che definivano
le partecipanti alla finalissima.
In tutto questo “fermento”
calcistico, si era presentata anche la Nazionale italiana. Una
Nazionale contestata dal proprio Paese, figlia del
calcioscommesse con la presenza di Paolo Rossi, reduce da due
anni di squalifica. Un CT, Enzo Bearzot, mai amato fino in
fondo, fedele al “blocco Juventus“ in quegli anni indiscussa
Signora del calcio italiano. Alcuni mesi prima era scoppiata la
bufera del calcio scommesse, nel 1980, che coinvolse moltissimi
giocatori di serie A, tra cui colui che sarebbe stato il
“fenomeno” di Espana 82, “Pablito” Rossi, insieme agli altri
giocatori del Perugia in cui al tempo militava. Rossi si
dichiarò sempre estraneo ai fatti, venne squalificato per due
anni, nel 1981, la Juventus gli diede fiducia ingaggiandolo
nonostante l’inattività, una fiducia da lui ripagata giocando le
ultime tre giornate del campionato e trascinado la squadra allo
Scudetto.
L’atmosfera del nostro
calcio era anche minata da altri eventi poco positivi: gli
incidenti negli stadi erano cresciuti per gravità e frequenza, e
nel 1979 ci fu la morte assurda di un tifoso della Lazio,
Vincenzo Paparelli, a causa di un razzo sparato dalla curva
opposta nello stadio Olimpico.
Il disamore verso una
Nazionale “indigesta” al grande pubblico venne avvalorato dalle
prime tre gare della prima fase, con il pareggio a reti
inviolate contro la Polonia, e il doppio 1-1 con Perù e Camerun.
Due partite che misero in evidenza le difficoltà di un gruppo
che si fece largo con il minimo sforzo alla seconda fase grazie
alle reti di Bruno Conti e Ciccio Graziani.
Poco gioco, risultati vicini allo ‘zero’ e critiche feroci
dall’Italia portarono anche alla decisione storica del primo
“silenzio stampa” in una competizione così importante: Enzo
Bearzot, recentemente scomparso, colui che poi venne immortalato
come il “Grande Vecio“, era semplicemente un incapace
selezionatore marmorizzato ad un gioco oramai superato, radicato
in una visione che risaliva ancora al 1978, anno in cui aveva
iniziato la sua ‘avventura’ mondiale come Ct della Nazionale
italiana. Dal quel giorno fino a fine competizione con la stampa
parlò solamente il capitano, Dino Zoff. Tutti gli altri
restarono lontano dai microfoni della nostrani e internazionali.
Fu però proprio quella
decisione impopolare a far sì che nel gruppo Italia scattasse la
scintilla dell’orgoglio e del sentimento nazionale: contro
l’Argentina prima e il Brasile poi, avvenne una trasformazione
nel gioco e nella mentalità tanto da far scrivere sulle prime
pagine dei giornali “miracolo Italia“, osannando quali eroi
nazionali coloro che solamente una settimana prima erano stati
definiti giocatori sulle soglie della pensione calcistica.
Tardelli e Cabrini misero in ginocchio l’Argentina del primo
Maradona (che colpì un palo) all’esordio Mondiale. Poi con il
fenomenale Brasile di Socrates e Falcao scoppiò il mito di
“Pablito” Rossi, che siglò tutte le tre reti di quel 3-2 rimasto
negli annali della storia e che è ancor oggi viene ricordato
come la “tragedia del Sarrià”, un’autentica disfatta per i
giocatori verdeoro, che fino a quel momento erano così sicuri di
passare il turno al punto di aver già prenotato l’albergo a
Madrid.
Da quel momento anche in
Italia si cambiò atteggiamento verso gli Azzurri e verso quel
ragazzo, Paolo Rossi, riabilitato dal pallone mondiale, che
riuscì nel miracolo di depurarlo dallo scandalo del totonero.
Tre reti al Brasile, due gol alla Polonia in semifinale e infine
la rete dell’inizio della goleada nella finalissima dell’11
luglio 1982 al Bernabeu contro la Germania: 3-1 perentorio con
le altre reti di Marco Tardelli e “Spillo” Altobelli.
Una partita che è rimasta
ancor oggi nella memoria collettiva di tutti gli sportivi, con
l’urlo mondiale di Tardelli al momento del gol del momentaneo
2-0: un urlo di gioia per lo spendido gol segnato che divenne
poi l’icona di quei Campionati del Mondo e delle successive
avventure della nazionale italiana.
Un urlo che fu il segnale
della rinascita e della ripresa dell’Italia intesa come Nazione,
prima ancora che come Nazionale calcistica, facendo capire che
era possibile “vincere”, uscire dal buio. L’immagine dell’Italia
nel mondo ebbe una scossa positiva straordinaria. Il Paese si
svegliò “vincente” nella vita sociale di tutti i giorni e anche
nello sport, perchè nel 1982 vincemmo 45 titoli mondiali in
discipline diversissime tra loro. Da Uncini nel motociclismo a
Saronni nel ciclismo, dai fratelli Abbagnale nel canottaggio a
Masala nel Pentathlon Moderno, l’Italia maturò una
consapevolezza sepolta da troppi anni. Il 1982 e quella vittoria
Mondiale iniziò una nuova era calcistica: incominciarono i
“Processi” sportivi televisivi, si diede spazio alle moviole e
alle polemiche nei salotti del calcio parlato, aumentò il
pubblico negli stadi e il campionato italiano divenne il più
ambito dai campioni stranieri.
Ma soprattutto quella
vittoria e quell’urlo di Marco Tardelli ci insegnarano la
lezione più importante: quella di non rinunciare mai ai sogni.
http://calcio.fanpage.it/litalia-mundial-e-quellurlo-tra-storia-e-mito-i-campioni-del-1982/
ELIMINATA AI QUARTI DI FINALE
Enzo Bearzot
1
Galli ·
2
Bergomi ·
3
Cabrini ·
4
Collovati ·
5
Nela ·
6
Scirea ·
7
Tricella ·
8
Vierchowod ·
9
Ancelotti ·
10
Bagni ·
11
Baresi ·
12
Tancredi ·
13
De Napoli ·
14
Di Gennaro ·
15
Tardelli ·
16
Conti ·
17
Vialli ·
18
Altobelli ·
19
Galderisi ·
20
Rossi ·
21
Serena ·
22
Zenga
|
31-5-1986, Città del Messico (MO) Italia-Bulgaria
1-1 Reti: 43’ Altobelli, 85’ Sirakov Italia: G.
Galli, Bergomi, Cabrini, De Napoli, Vierchowod,
Scirea, B. Conti (65’ Vialli), Bagni, Galderisi, Di
Gennaro, Altobelli. Ct: Bearzot. Bulgaria: Michailov,
Zdravkov, A. Markov, Sadkov, Dimitrov, Arabov,
Iskrenov (65’ Kostadinov), Sirakov, Getov,
Gospodinov (74’ Jeliazkov), Mladenov. Ct: I. Vutzov.
Arbitro: Fredriksson (Svezia). |
|
5-6-1986, Puebla (MO)
Italia-Argentina 1-1 Reti: 6’ Altobelli rig., 34’
Maradona Italia: G. Galli, Bergomi, Cabrini, De
Napoli (87’ G. Baresi), Vierchowod, Scirea, B. Conti
(64’ Vialli), Bagni, Galderisi, Di Gennaro,
Altobelli. Ct: Bearzot. Argentina: Pumpido, Ruggeri,
Garré, Batista (59’ Olarticoichea), Cuciuffo, Brown,
Burruchaga, Giusti, Borghi (76’ Enrique), Maradona,
Valdano. Ct: C. Bilardo. Arbitro: Keizer (Olanda). |
|
10-6-1986, Puebla
(MO) Italia-Corea del Sud 3-2 Reti: 18’ Altobelli,
62’ Choi Soon Ho, 73’ Altobelli, 82’ aut. Cho Kwang
Rae, 89’ Huh Jung Moo Italia: G. Galli, Vierchowod,
Cabrini, De Napoli, Collovati, Scirea, B. Conti,
Bagni (68’ G. Baresi), Galderisi (88’ Vialli), Di
Gennaro, Altobelli. Ct: Bearzot. Corea del Sud: Oh
Yun Kyo, Cho Kwang Rae, Park Kyung Hoon, Huh Jung
Moo, Yung Yong Hwan, Cho Young Jeung, Kim Joo Sung,
Park Chang Sun, Cha Bum Kun, Byun Byung Yoo (75’ Kim
Jong Boo), Choi Soon Ho. Ct: Kim Jung Nam. Arbitro:
Socha (Stati Uniti). |
|
17-6-1986, Città del
Messico (MO) Italia-Francia 0-2 Reti: 14’ Platini,
57’ Stopyra Italia: G. Galli, Bergomi, Cabrini, G.
Baresi (46’ Di Gennaro), Vierchowod, Scirea, B.
Conti, De Napoli, Galderisi (57’ Vialli), Bagni,
Altobelli. Ct: Bearzot. Francia: Bats, Ayache,
Amoros, Fernandez (73’ Tusseau), Bossis, Battiston,
Tigana, Giresse, Rochetau, Platini (85’ Ferreri),
Stopyra. Ct: H. Michel. Arbitro: Esposito
(Argentina). |
Tutta colpa di
Platini
(Paolo Valenti)
– 14 Maggio 1986. Primo pomeriggio. Cammino lungo il viale
delle Olimpiadi per raggiungere il Centrale del tennis.
Nelle cuffie del lettore musicale “Every Little Thing She
Does Is Magic”, dei Police. Per caso o per destino è la
canzone da sentire in questo momento: la primavera scende
dalle pendici di Monte Mario inondando di luce e di calore
tutto il complesso del Foro Italico. Ho il biglietto per
assistere al match pomeridiano dei quarti di finale degli
Internazionali d’Italia tra Wilander e
Pimek. Non è l’incontro clou della giornata
ma non mi importa. Ho appuntamento con Guido, un compagno di
classe, direttamente ai posti a noi assegnati. Quando entro,
lo trovo già seduto: Rayban scuri, Lacoste bianca a maniche
corte e un primo accenno di abbronzatura. A scuola le
ragazze stravedono per lui. Mi accomodo al mio posto:
“Ciao Guido, che aria
tira qui?”
“Hanno iniziato da due minuti il riscaldamento. Non credo
che sarà una gran partita. In compenso il panorama promette
bene…”.
Colgo senza difficoltà il
riferimento alle ragazze che vanno a sedersi nei posti più
assolati per preparare le prime escursioni al mare.
Il primo game del secondo set è appena iniziato. Come da
previsioni, il match non ha storia: conduce Wilander senza
fatica. All’improvviso, durante uno scambio più lungo del
solito, il pubblico comincia a rumoreggiare. Inizialmente è
un brusio ma, in pochi secondi, diventa un’acclamazione che
costringe il giudice a fermare lo scambio tra gli increduli
tennisti.
ARRIVANO GRAZIANI
E ANCELOTTI. Il Centrale si scioglie in uno
scroscio di applausi: poche file sotto di noi sono appena
arrivati Francesco Graziani e Carlo
Ancelotti, alfieri di una Roma che nella stagione
appena conclusa ha sfiorato lo scudetto dopo una rincorsa
alla Juventus fermatasi proprio al traguardo. Alla fine del
mese inizieranno i mondiali in Messico e in questo momento
Graziani e Ancelotti rappresentano il passato e il presente
della nazionale. Nonostante un ottimo campionato, Graziani
non è stato inserito da Bearzot nella lista
dei ventidue per ragioni anagrafiche mentre Ancelotti
partirà come prima alternativa a Bagni e De Napoli, titolari
a centrocampo.
Non vedevo così da vicino
Graziani da quattro anni, da quel famoso luglio del 1982
quando, appena due giorni dopo la vittoria di Madrid, Ciccio
si presentò dal barbiere presso il quale ero solito andare
durante le vacanze. Tra un autografo e una foto, venni così
a scoprire che Graziani aveva una casa al mare proprio nello
stesso posto dove la mia famiglia trascorreva il periodo
estivo. Fu proprio quel giorno che capii che anche i
campioni del mondo sono persone come tutti quando, finito
già da qualche minuto il taglio, all’ennesima richiesta di
posare davanti alla macchina fotografica di una tifosa
accalcata davanti al barbiere, Ciccio esclamò, con le mani
giunte a mo’ di preghiera: ”A signo’, ma io devo anda’ a
magna’!”.
I MONDIALI DEL POST-TERREMOTO MESSICANO. Lo
svolgimento in Messico di quell’edizione dei mondiali era
stata a lungo in forse a causa del devastante terremoto che
aveva colpito il paese l’anno precedente. Venne profuso un
grande sforzo per poter garantire comunque la regolare
tenuta della manifestazione, anche perché l’evento era
necessario al Paese per potersi risollevare economicamente.
L’Italia, sempre nelle
mani di Bearzot, si affaccia all’appuntamento tra luci e
ombre: bisogna capire se funzionerà il mix tra i campioni
dell’82 ancora in squadra (Cabrini,
Scirea, Conti, Altobelli)
e i nuovi innesti. Tardelli e Rossi
sono nei ventidue ma, per esplicita dichiarazione dello
stesso commissario tecnico, vengono aggregati più per fare
gruppo e creare un buon clima nello spogliatoio che per
esigenze di campo. In generale, per esperienza
internazionale e valori tecnici, la nazionale dell’86 sembra
comunque non all’altezza del titolo che deve difendere.
QUI COMINCIA
L’AVVENTURA. L’avventura comincia il 31 maggio.
Come campioni in carica spetta a noi la partita di apertura
del mondiale. L’avversario, la Bulgaria, è abbordabile. La
formazione, annunciata in tv per la prima volta in un
mondiale da Bruno Pizzul, prevede: Galli; Bergomi, Cabrini;
Bagni, Vierchowod, Scirea; Conti, De Napoli, Galderisi; Di
Gennaro, Altobelli. Attendo molto questo esordio, sospeso
tra la speranza, improbabile, di rivivere le gioie spagnole
e i dubbi legati all’effettivo valore della squadra. Il
salone di casa è pronto: pizza al taglio sul tavolo e Coca
Cola. Giambattista, il mio compagno di banco a scuola, mi ha
avvertito un’ora prima che non riesce a raggiungermi. Il mio
terzo mondiale sta per cominciare proprio come il primo:
cena nel salone di casa davanti alla tv in collegamento con
un paese latino americano.
Il giorno dopo, in
classe, si parla della partita: gli ultimi giorni dell’anno,
se non ci sono materie da rimediare, diventano dei piacevoli
incontri tra amici che si accordano su dove vedersi nel
pomeriggio e si raccontano i programmi per le vacanze
estive. L’esordio della nazionale è stato sfortunato: buone
trame di gioco, molte conclusioni verso la porta avversaria
ma alla fine solo uno striminzito pareggio per 1-1 firmato
da Altobelli, che risulterà il migliore
degli azzurri a fine torneo, e Sirakov. Con
Giambattista argomentiamo sul passaggio del turno, diventato
improvvisamente più arduo del previsto perché bisogna
incontrare l’Argentina di Maradona senza aver ottenuto la
vittoria il giorno precedente.
LA FRANCIA DI
MICHEL PLATINI. Un po’ a fatica le cose vanno come
devono andare: un pareggio combattuto contro l’albiceleste
(terzo incontro di fila nella fase finale dei mondiali) e
una vittoria di misura sulla Corea del Sud garantiscono
all’Italia il secondo posto nel girone e la qualificazione
agli ottavi di finale, dove incontreremo la Francia di
Michel Platini.
Il 17 giugno tutta la
classe è invitata a casa di Luca per vedere la partita. Gli
auspici non sono dei migliori: l’Italia sembra lontana
parente della squadra che ha vinto il titolo quattro anni
prima mentre i francesi, campioni d’Europa in carica,
giocano un calcio effervescente, organizzato in mezzo al
campo da Giresse e Tigana, inarrestabile nelle giocate di
Platini. Bearzot, conscio della situazione, decide di
marcare a uomo l’asso transalpino, togliendo dal nostro
centrocampo l’unico uomo capace di costruire, Di
Gennaro, per inserire Beppe Baresi.
L’incontro è una disfatta nel risultato, due a zero per i
francesi, e nel gioco: l’Italia non è mai realmente in grado
di osteggiare gli avversari che, ad ogni affondo, ci fanno
tremare. Si chiude amaramente un ciclo storico per gli
azzurri: da settembre bisognerà ricostruire la nazionale
dalle fondamenta, facendo leva sul gruppo dell’under 21 che
sta mettendo in mostra tanti giovani talenti. Ma alle dieci
di sera del 17 giugno 1986 non è solo questa sconfitta che
mi pesa sostenere.
http://www.storie.it/mundial/messico-86-tutta-colpa-di-platini/
TERZO
POSTO
Azeglio
Vicini
1
Zenga ·
2
Baresi ·
3
Bergomi ·
4
De Agostini ·
5
Ferrara ·
6
Ferri ·
7
Maldini ·
8
Vierchowod ·
9
Ancelotti ·
10
Berti ·
11
De Napoli ·
12
Tacconi ·
13
Giannini ·
14
Marocchi ·
15
Baggio ·
16
Carnevale ·
17
Donadoni ·
18
Mancini ·
19
Schillaci ·
20
Serena ·
21
Vialli ·
22
Pagliuca
|
9-6-1990, Roma (MO)
Italia-Austria 1-0 Reti: 79’ Schillaci Italia:
Zenga, Bergomi, P. Maldini, F. Baresi, R. Ferri,
Ancelotti (46’ De Agostini), Donadoni, De Napoli,
Vialli, Giannini, A. Carnevale (75’ Schillaci). Ct:
A. Vicini. Austria: Lindenberger, Russ, Streiter,
Aigner, Pecl, Schöttel, Artner (62’ Szak), Linzmaier
(77’ Hörtnagl), Ogris, Herzog, Polster. Ct: J.
Hickersberger. Arbitro: Wright (Brasile). |
|
14-6-1990, Roma (MO)
Italia-Stati Uniti 1-0 Reti: 11’ Giannini Italia:
Zenga, Bergomi, P. Maldini, F. Baresi, R. Ferri,
Berti, Donadoni, De Napoli, Vialli, Giannini, A.
Carnevale (52’ Schillaci). Ct: A. Vicini. Stati
Uniti: Meola, Doyle, Banks (82’ Stollmeyer),
Windischmann, Armstrong, Balboa, Caligiuri, Ramos,
Vermes, Harkes, Murray (84’ Sullivan). Ct: B.
Gansler. Arbitro: Codesal (Messico). |
|
19-6-1990, Roma (MO)
Italia-Cecoslovacchia 2-0 Reti: 9’ Schillaci, 78’ R.
Baggio Italia: Zenga, Bergomi, P. Maldini, F.
Baresi, R. Ferri, Berti, Donadoni (51’ De Agostini),
De Napoli (66’ Vierchowod), Schillaci, Giannini, R.
Baggio. Ct: A. Vicini. Cecoslovacchia: Stejskal,
Nemecek, (46’ Bielik), Bilek, Kadlec, Kinier, Hasek,
Moravcik, Chovanec, Skhuravy, Weiss (59’ Griga),
Knoflicek. Ct: J. Venglos. Arbitro: Quiniou
(Francia). |
|
25-6-1990, Roma (MO)
Italia-Uruguay 2-0 Reti: 65’ Schillaci, 83’ A.
Serena Italia: Zenga, Bergomi, P. Maldini, F.
Baresi, R. Ferri, De Agostini, Berti (52’ A.
Serena), De Napoli, Schillaci, Giannini, R. Baggio
(79’ Vierchowod). Ct: A. Vicini. Uruguay: Alvez,
Pintos Saldaña, Dominguez, Gutierrez, De Leon,
Perdomo, Aguilera (55’ Sosa), Ostolaza (79’
Alzamendi), Francescoli, R. Pereira, Fonseca. Ct: O.
W. Tabarez. Arbitro: Courtney (Inghilterra). |
|
30-6-1990, Roma (MO)
Italia-Irlanda 1-0 Reti: 38’ Schillaci Italia:
Zenga, Bergomi, P. Maldini, F. Baresi, R. Ferri, De
Agostini, Donadoni, De Napoli, Schillaci, Giannini
(64’ Ancelotti), R. Baggio (71’ A. Serena). Ct: A.
Vicini. Irlanda: Bonner, Morris, Staunton, Moran,
McCarthy, Townsend, McGrath, Houghton, Aldridge (78’
Sheridan), Sheedy, Quinn (53’ Cascarino). Ct: J.
Charlton. Arbitro: Silva Valente (Portogallo). |
|
3-7-1990, Napoli (MO)
Italia-Argentina 3-4 rig. (1-1 d.t.s.) Reti: 17’
Schillaci, 68’ Caniggia Rigori: F. Baresi (t),
Serrizuela (t), R. Baggio (t), Burruchaga (t), De
Agostini (t), Olarticoechea (t), Donadoni (p),
Maradona (t), A. Serena (p) Italia: Zenga, Bergomi,
P. Maldini, F. Baresi, R. Ferri, De Agostini,
Donadoni, De Napoli, Schillaci, Giannini (75’ R.
Baggio), Vialli (70’ A. Serena). Ct: A. Vicini.
Argentina: Goycochea, Ruggeri, Olarticoechea, Simon,
Serrizuela, Basualdo (95’ Batista), Burruchaga,
Giusti, Caniggia, Maradona, Calderon (46’ Troglio).
Ct: C. Bilardo. Arbitro: Vautrot (Francia). |
FINALE 3° E 4°
POSTO
TOTO’ SCHILLACI E
QUEGLI OCCHI SPIRITATI
CHE ILLUMINARONO LE NOTTI MAGICHE DEL
MONDIALE 1990.
DI FRANCO ROSSI
L’eroe delle notti magiche
ha gli occhi invasati di chi viene da una vita povera e dal
ghetto del Cep, il quartiere palermitano dove il calcio, con il
suo cocktail di forza, tecnica e agonismo, rappresenta l’unico
passaporto per uscirne.
Non è facile spiegare perchè
Salvatore Schillaci diventa il simbolo di tutta l’Italia durante
i Mondiali del 1990. Gli occhi grandi, stupiti e sorpresi,
attraversati da lampi di aggressività animale, non bastano a
spiegarlo, nè tanto meno i gol.
Otto anni prima quelli di
Paolo Rossi erano stati decisivi per far vincere agli azzurri il
titolo mondiale, quelli di Schillaci nel 1990 sono soltanto
sufficienti per arrivare terzi.
E allora perchè sotto il
cognome di un siciliano, che parla sgrammaticato e usa i
congiuntivi in maniera personalissima, tutti gli italiani,
d’incanto, si sentono riuniti?
Quando arrivò alla Juve,
acquistato dal Messina, tutti pensarono che mai e poi mai
avrebbe giocato in bianconero, C’era la convinzione che fosse
girato al Torino per avere il brasiliano Muller. E invece con la
Juve è diventato campione, con la nazionale un idolo.
Difficile capire per chi è
nato mille chilometri lontano dal Centro elementare pericolosi,
traduzione poliziesca del quartiere palermitano Cep da dove
proviene.
Un tempo, lì sotto il Monte
Pellegrino, nelle loro straordinarie ville, passavano le ferie
gli aristocratici, e in una di queste Luchino Visconti giro
molte scene de “Il Gattopardo”.
Successivamente gli
aristocratici se ne andarono e al posto delle eleganti dimore fu
costruito, nel delirio urbanistico-mafioso della città, un
orrendo quartiere periferico, dove violenza, emarginazione,
ignoranza trovano terreno fertile per crescere.
Uscire onesti dal Cep non è
facile e ancor più difficile è uscirne con un lavoro.
Eppure a tredici anni Totò
Schillaci un lavoro l’aveva: da Nino Barone a cambiar gomme.
In casa le cose andavano male
e le centomila al mese del ragazzino – che sarebbero diventate
281mila nel 1981 – servivano eccome. Anzi erano indispensabili.
Mimmo,il padre, un po’ faceva
in carpentiere, un po’ faceva il disoccupato. Rosalia, Giuseppe
e Giovanni eran troppo piccoli per cercare quattrini e la madre,
Giovanna, faticava assai nel mettere assieme il pranzo con la
cena.
Totò non teneva animo per lo
studio, avrebbe stentato a superare le elementari alla Crispi e
le medie alla Cucchiara, ma nel calcio, si che se la cavava.
Diventare calciatori è da
quelle parti, un mezzo per uscire dal ghetto, come il basket, il
baseball e l’atletica in quelli americani. Così ecco lo
Schillaci bambino giocare tra gli “Aquilotti Amat” e Angelo
Chianello, carroziere al Cep con patentino da allenatore di
terza categoria, dire ancor oggi con voce piena d’orgoglio:
“Totò Schillaci l’ho scoperto io….”
Era un ragazzo gracile che
correva, però, senza soste, non possedeva alcuna base tecnica,
ma cosa importava?
L’Angelo Chianello lo volle
subito con sè. “Tutto ciò che Totò sa di calcio l’ha imparato da
me”.
Ad essere onesti c’è da dire
che forse di calcio Totò non ha imparato granchè. Nè avrebbe
potuto. Nel calcio, come nella vita,
Totò ha sempre seguito l’istinto, piuttosto che le regole.
D’istinto aveva capito, da adolescente, che
soltanto con il calcio sarebbe evaso dal Cep, e d’istinto andava
avanti, facendosi strada tra i giovani calciatori palermitani,
finchè Salvatore Massimino, presidente del Messina, fiutò nel
ragazzo il campione.
Se lo portò in squadra per
venticinque milioni. A Totò duecentocinquantamila al mese, più
naturalmente il costo della pensione: da Celeste. Era il 1982 e
l’Italia tutta invadeva le piazze per inneggiare agli azzurri
campioni del mondo in Spagna.
Schillaci è preso in cura da
Francesco Curro e dal dottor Filippo Ricciardi, medico sociale.
Inizia la sua carriera di
professionista con determinazione e feroce volontà di riuscire.
Viene acquistato dalla Juventus e finisce in nazionale.
E proprio con la maglia
azzurra incendia le notti magiche di Italia ’90.
Negli occhi di Totò, nei
gesti furenti, nell’espressioni che farebbero la felicità di
qualsiasi psichiatra, c’è tutta la classe di un grande campione,
anche se al livello dei Mondiali, ha vissuto (e ballato) una
sola estate.
Per un istintivo come
Schillaci, che significato ha la parola classe?
Il significato di chi usa
ogni fibra muscolare, anche la più profonda per raggiungere,
prima del difensore avversario la palla da scaraventare in rete
e di chi rivolge ogni pensiero e animo allo scopo di raggiungere
lo scopo che si è prefissi.
E’ la trance agonistica.
Quella che permette a Totò di segnare sei gol al Mondiale.
Dopo i fasti di Italia ’90
comincia per Totò la lenta via del tramonto. Non si ripeterà
più, lo scrittore o il regista che nella loro Opera prima dicono
tutto: il “dopo” non sarà più lo stesso. Anzi, non avrà più
senso.
Finisce la sua carriera in
Giappone, notti non più magiche ma d’Oriente. Firma il contratto
nell’aprile del 1994 e quello stesso dicembre vado a trovarlo,
una visita di cortesia, sono a Tokio per la Toyota Cup tra Milan
e Velez Sarsfield e rivederlo più che un dovere, è un piacere.
I ragazzini giapponesi vanno
matti per Schillaci, uno così lontano dal loro mondo. Un
siciliano nella terra dell’ikebana, dell’origami e del “Teatro
No”: cosa potrebbe essrci di più contrastante?
“Nulla sapevo, tutto mi
incuriosiva. Mi trovo bene? Certo, qui ho trovato l’America. Per
guadagnare quello che guadagno in un anno in Giappone, in Italia
dovrei giocare almeno tre campionati. Niente è più lontano da
me, dalla mia Sicilia, di questo Paese dove quando una persona
ti sorride non sai se è triste o allegro, e se ha la testa bassa
non sai se è allegro o triste. Non ho imparato una parola di
giapponese, ma se dico qualcosa in siciliano, magari mettendoci
dentro qualche espressione siciliana, tipo minchia, ho
l’impressione che mi capiscano. Non ho nostalgia dell’Italia,
sono felice di essere qui, nessuno mi obbligò…All’Italia ho dato
tutto, vero, vorrà dire che la mia rabbia, la mia grinta, questo
mio istinto che mai mi fa tirare indietro il piede, continuerò a
darlo a questa squadra giapponese che ha creduto in me. Noialtri
siciliani da sempre siamo abituati ad emigrare e io mi considero
un emigrante fortunato. Oh, guarda che nelle partite dell’Jwata
ci sono 38 mila spettatori fissi, mica pochi. E qui mi
considerano un idolo, la mia maglietta viene venduta a 150
dollari nei negozi di Tokio e le ordinazioni finiscono subito.
Entro breve tempo voglio imparare almeno una cosa: a firmare gli
autografi con gli ideogrammi. Sarei il primo calciatore italiano
a farlo¯.
Una stretta di mano e se va.
Firmando decine d’autografi con la grafia di casa nostra. Ma
ancora per poco.
FRANCO ROSSI
http://www.francorossi.com/2011/01/toto-schillaci-e-quegli-occhi-che-illuminarono-le-notti-magiche-del-mondiale-del-1990/
ZENGA CONTRO
TUTTI
MARINO Sembra quasi
divertirsi, forse un gusto masochistico nel sentirsi in croce,
chissà. Walter Zenga è pronto a sfidare tutti. A viso aperto,
come sempre. D' altronde, il portiere dev' essere così, no?
Coraggioso e presuntuoso, sfrontato e folle nella vita come
nelle uscite. E quell' uscita infelice su Caniggia ci è costata
la finale, inutile girarci intorno: primo gol mondiale sul
groppone degli azzurri e tutti a casa, anzi, tutti a Bari per
una finalina che nessuno sente sua, quasi qualcosa di posticcio
e sgradevole. Ha dormito male e soprattutto poco (come al
solito) e già all' alba si era segnato in testa nomi e cognomi
di chi gli aveva imputato l' eliminazione, o almeno una grossa
fetta di responsabilità. Mi chiedete se ho colpa sul gol ? Mi
spiace tanto deludervi, ragazzi. Ne ho lette di tutti i colori
stamane, ma ormai ho le spalle larghe: solo Maradona, che
capisce di calcio, ha centrato il problema.
Diego
ha detto che è stato bravo Caniggia. Non mi sembra proprio il
caso di dare la colpa a Zenga. Non tutti la pensano così,
ovviamente. E anche qualche suo compagno azzurro avrebbe forse
qualcosina da dirgli. Ma tace: l' ambiente è già
sufficientemente giù, che serve sparare sul portiere? Ma chissà
se Walter in cuor suo si sente un pochino colpevole, certe sue
frasi lasciano dubbi profondi.
Che dire, ad esempio, di questa?
E' stato bravo Caniggia ad anticipare una mia idea di anticipare
lui. Leggetela come volete: anche che Walter ha sbagliato il
tempo dell' uscita.
E i rigori? Chi sostiene che non ci ha
nemmeno provato perché mai si è sentito un portiere pararigori è
servito così: Io ci ho sempre provato ma non hanno tirato mai
dove mi buttavo: sfido chiunque a mettersi in porta. C' è chi è
bravo come il portiere loro e c' é chi non l' azzecca. In cinque
minuti potevo diventare l' eroe della Nazionale.... Non lo é
diventato: ora è lì, le spalle al muro, occhialoni scuri, parla
di forza di gravità, di Maradona che contro la Jugoslavia aveva
tirato (sbagliando) sulla destra e stavolta ha tirato
(centrando) sulla sinistra. No, Zenga nei panni del difensore ci
sta proprio stretto. Preferisce attaccare. Tutti. E' la tattica
del giorno dopo. Gli argentini? Le provocazioni fanno parte del
gioco. Bisogna saper perdere ma anche vincere. Loro davano degli
ignoranti alla gente che fischiava l' inno argentino, ma si sono
comportati peggio, si sono dimostrati la peggior specie... Non è
vero che li abbiamo sottovalutati, storie: ma l' arbitro ha sin
troppo favorito gli argentini, loro facevano judo, non calcio.
E' livido di rabbia. L' unico che non c' entra niente è
Maradona. Gli altri adesso non dovranno più lamentarsi se le
gente in futuro fischierà il loro inno o li tratterà male. Dalla
loro panchina hanno cercato di distrarmi per un' ora e mezzo, ma
se c' é un dio... Il mondo è piccolo, ci si ritrova sempre,
prima o poi. Si covano già brutte rivincite, fra quelli che si
sono distinti al tiro allo Zenga (insulti e sfottò); si
segnalano soprattutto tre argentini d' Italia: Caniggia, Troglio
e Lorenzo.
E Walter non dimentica. Che hanno fatto loro più di
noi? Ci bastava solo un pizzico di fortuna in più ed era fatta:
loro hanno segnato quando ormai non se l' aspettavano più. Ha
già dimenticato i record battuti e soprattutti quelli falliti:
517' senza beccare un gol al Mondiale, superato Banks. Ma solo
980' di imbattibilità azzurra (compresi 45' di Tacconi, non
dimentichiamolo): ha resistito il primato di Zoff (1.143' nel '
74). Non me ne frega niente, assolutamente niente adesso. Forse
si ricorderanno di me fra dieci anni quando avrò smesso di
giocare. E' sconvolto. Ma non cambia niente, io non mi nascondo,
non si può mollare: l' esempio é Zoff. In 41 partite azzurre ho
preso solo 14 gol, qui al Mondiale solo uno. Ma che conta?. Si
attacca a tutto, ormai: accuse agli argentini, a Vautrot, agli
arbitri mondiali (l' unico vantaggio per noi azzurri quel gol
regolare annullato alla Cecoslovacchia), c' é anche un pizzico
di risentimento perché il Mondiale si è giocato in Italia
(abbiamo speso un sacco di energie in più per dimostrare tante
cose): ma che si voleva, giocare in Papuasia?
E adesso si va a
Bari, per cosa? Giocheremo con rabbia, 50.000 tifosi saranno con
noi, per fortuna non c' è un giocatore avversario che gioca nel
Bari. Noi vogliamo chiudere imbattuti. La gente è contenta di
noi. Abbiamo la coscienza pulita, questo conta. Tornando a
Marino, nella notte triste, ha trovato un telegramma. Dell'
Inter. Un incoraggiamento? Macché, la convocazione per il ritiro
del precampionato. Appuntamento il 2 agosto. Ma io ci vado
soltanto il 6, dice stizzito. Ci voleva anche questa. Povero
Zenga.
FULVIO BIANCHI
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1990/07/05/zenga-contro-tutti.html
VICE
CAMPIONE DEL MONDO
Arrigo Sacchi
1
Pagliuca ·
2
Apolloni ·
3
Benarrivo ·
4
Costacurta ·
5
Maldini ·
6
Baresi ·
7
Minotti ·
8
Mussi ·
9
Tassotti ·
10
R. Baggio ·
11
Albertini ·
12
Marchegiani ·
13
D. Baggio ·
14
Berti ·
15
Conte ·
16
Donadoni ·
17
Evani ·
18
Casiraghi ·
19
Massaro ·
20
Signori ·
21
Zola ·
22
Bucci ·
PRIMO TURNO
|
18-6-1994, New York (MO) Irlanda-Italia 1-0 Rete:
11’ Houghton Irlanda: Bonner, Irwin, Phelan, Keane,
McGrath, Babb, Houghton (68’ McAteer), Sheridan,
Coyne (89’ Aldridge), Townsend, Staunton. Ct:
J. Charlton. Italia: Pagliuca, Tassotti, P. Maldini,
Albertini, Costacurta, F. Baresi, Donadoni, D.
Baggio, Signori (84’ Berti), R. Baggio, Evani (46’
Massaro). Ct: A. Sacchi. Arbitro: Van der Ende
(Olanda). |
|
23-6-1994, New York
(MO) Italia-Norvegia 1-0 Rete: 69’ D. Baggio Italia:
Pagliuca, Benarrivo, P. Maldini, Albertini,
Costacurta, F. Baresi (49’ Apolloni), Berti, D.
Baggio, Casiraghi (68’ Massaro), R. Baggio (21’
Marchegiani), Signori. Ct: A. Sacchi. Norvegia:
Thorstvedt, Håland, Björnebye, Mykland (81’ Rekdal),
Berg, Bratseth, Flo, Leonhardsen, Fjörtoft, Bohinen,
Rushfeldt (46’ Jakobsen). Ct: E. Olsen. Arbitro:
Krug (Germania). |
|
28-6-1994, Washington
(MO) Italia-Messico 1-1 Reti: 48’ Massaro, 58’
Bernal Italia: Marchegiani, Benarrivo, P. Maldini,
Albertini, Apolloni, Costacurta, Berti, D. Baggio
(65’ Donadoni), Casiraghi (46’ Massaro), R. Baggio,
Signori. Ct: A. Sacchi. Messico: Campos, Rodriguez,
Del Olmo, Ambriz, Suarez, Ramirez Perales, Garcia
Aspe, Bernal, L. Garcia (83’ J. Chavez), Hermosillo,
Alves. Ct: M. Mejia Baron. Arbitro: Lamolina
(Argentina). |
OTTAVI
DI FINALE
|
5-7-1994, Boston (MO)
Italia-Nigeria 2-1 d.t.s. Reti: 26’ Amunike, 88’ e
102’ rig. R. Baggio Italia: Marchegiani, Mussi,
Benarrivo, Albertini, P. Maldini, Costacurta, Berti
(46’ D. Baggio), Donadoni, Massaro, R. Baggio,
Signori (63’ Zola). Ct: A. Sacchi. Nigeria: Rufai,
Eguavoen, Emenalo, Oliseh, Okechukwu, Nwanu, Finidi,
Okocha, Yekini, Amunike (57’ Oliha), Amokachi (35’
Adepoju). Ct: C. Westerhof. Arbitro: Brizio Carter
(Messico). |
QUARTI DI FINALE
|
9-7-1994, Boston (MO)
Italia-Spagna 2-1 Reti: 25’ D. Baggio, 58’ aut.
Benarrivo, 88’ R. Baggio Italia: Pagliuca, Tassotti,
Benarrivo, Albertini (46’ Signori), P. Maldini,
Costacurta, Conte (66’ Berti), D. Baggio, Massaro,
R. Baggio, Donadoni. Ct: A. Sacchi. Spagna:
Zubizarreta, Alcorta, Otero, Baquero (64’ Hierro),
Abelardo, Nadal, Ferrer, Goicoechea, Luis Enrique,
Caminero, Sergi (60’ Salinas). Ct: J. Clemente.
Arbitro: Puhl (Ungheria). |
SEMIFINALE
|
13-7-1994, New York (MO) Italia-Bulgaria 2-1 Reti:
21’ e 25’ R. Baggio, 44’ Stoichkov rig. Italia:
Pagliuca, Mussi, Benarrivo, Albertini, P. Maldini,
Costacurta, Berti, D. Baggio (55’ Conte), Casiraghi,
R. Baggio (71’ Signori), Donadoni. Ct: A. Sacchi.
Bulgaria: Mihailov, Kiriakov, Zvetanov, Yankov,
Ivanov, Hubchev, Kostadinov (71’ Yordanov), Lechkov,
Sirakov, Stoichkov (78’ Guenchev), Balakov. Ct: D.
Penev. Arbitro: Quiniou (Francia). |
Quel
pianto di Baresi
Non
c' e' stato lieto fine, ma il pianto dirotto, straziante di
Franco Baresi, il capitano di ghiaccio, il duro fra i duri, un
tipo cosi' tosto da giocare come un gigante . venti giorni dopo
l' operazione al menisco . la prima e ultima finalissima
mondiale della vita. Cosi' desiderata, cosi' vicina. Anche a
Napoli, quattro anni fa, era stato il primo ad avviarsi al
dischetto: un capo branco non tradisce mai il proprio ruolo.
Allora aveva fatto centro. Piangeva come un bambino, sommerso
dall' infelicita' , da quell' errore di cui si sentiva colpevole
e ti veniva voglia di consolarlo ma sapevi che nessuna parola
sarebbe servita; c' era tutta la desolazione di chi aveva
combattuto innumerevoli guerre per vincere quest' ultima
battaglia e sentirsi, finalmente, appagato. In tanti anni non
aveva mai perso il controllo, la sua marmorea impassibilita' ,
il suo orgoglio virile: aveva giocato con un braccio rotto,
aveva resistito . gli occhi asciutti . a dolori lancinanti. Era
come veder piangere Rambo ed eri indifeso davanti a tanto
dolore. Cosa vuoi dire a questi giocatori se non ringraziarli?
Cosa puoi rimproverare a Roberto Baggio se, stringendo i denti,
ha voluto scendere in campo, sperando di compiere un altro
miracolo e, invece, ha fallito due gol e un rigore? Non l'
avevano accusato di scarso carattere? Cosa vuoi dire a Massaro
se, inciucchito dalla fatica, ha tirato nelle braccia di
Taffarel? Nessuno s' e' tirato indietro; il traguardo raggiunto
e' di grande prestigio; il loro rimpianto e' maggiore del
nostro. Potevamo vincere questo mondiale, come potevamo vincere
quello del ' 90. Li abbiamo persi entrambi ai rigori, ma ne'
quell' Argentina ne' questo Brasile valevano gli azzurri. Unici
ad esser finiti fra i primi quattro in entrambe le edizioni, a
conferma della nostra supremazia, di quanto valga il movimento
calcistico italiano. Sia Vicini sia Sacchi hanno commesso l'
identico errore: schierare un attaccante (allora Vialli, adesso
Baggio) in non buone condizioni fisiche. Cio' ha pesato sulla
squadra, sui cambi, sullo sviluppo della partita. Sacchi ha un
po' tradito le proprie idee: anziche' puntare sul collettivo e
utilizzare i giocatori piu' tonici, s' e' affidato al colpo di
magia, sperando che Roberto gli risolvesse anche questo
problema, come con Nigeria, Spagna e Bulgaria.
Un comportamento
da Trapattoni qualsiasi... Pretendeva troppo dal suo leopardo
azzoppato; l'ha tenuto in campo fino all' ultimo secondo,
mentre Signori e Zola ammuffivano
in panchina, pieni di energie e di rabbia. Ci sarebbe stato
bisogno di un centrocampista veloce come il laziale, visto che
l' Italia (stanca e ferita) si difendeva con un catenaccio da
tempi antichi. Sacchi mandava in campo persino Evani, altro
reduce da un lungo infortunio: un inno a Enrico Toti.
Lo faceva
per rimpiazzare Dino Baggio e rafforzare un centrocampo esausto.
Ma si era nei supplementari: poteva arretrare Massaro e
schierare Signori, poteva far entrare Zola piu' incisivo di
Evani? Inutile recriminare, direte: ormai e' fatta. Ma questo
Brasile non vale molto se un' Italia formato Crocerossa e
provata dall' attraversamento degli USA (ricordate il crollo
della Bulgaria) l' ha inchiodato sullo 0 0, ha avuto tre
occasioni per infilarlo. Romario e' bravissimo ma Filippo Galli
ad Atene e Apolloni al Rose Bowl l' han ben neutralizzato. Lo
stopper del Parma meritava maggior fiducia; invece Sacchi non se
l' e' sentita di schierarlo subito con Baresi e ha mandato in
campo il fragile Mussi, tante volte tormentato quest' anno
(anche nel Toro) da guai muscolari. Cosi' l' ha perso dopo mezz'
ora e s' e' giocato un cambio. I nodi vengono al pettine. Alcune
riserve non erano all' altezza del compito o son state
utilizzate fuori ruolo: lo stesso c.t. ha dimostrato di non
essere convinto. Giusto rimpiangere Rossi, Panucci, Vierchowod,
Lombardo o . comunque . un altro uomo di fascia; tranne Donadoni
non ne abbiamo avuti. Abbiamo giocato due buoni primi tempi
(Spagna e Bulgaria), rischiato troppe volte di uscire,
utilizzato non nel modo migliore le grandi potenzialita' del
nostro calcio, praticato un gioco troppo logorante.
E' il mondiale dei
paradossi, quello al termine del quale per l'Italia l'orgoglio
per essere arrivata in finale senza venirvi battuta è
sopraffatto dall'amarezza perché il trofeo sfugge ancora una
volta ai calci di rigore.Gli azzurri si presentano a Usa 94 tra
i favoriti, guidati da un tecnico che ha vinto tutto, Arrigo
Sacchi, e da molti giocatori del "suo" Milan: Baresi, Maldini,
Tassotti, Costacurta, Donadoni e Massaro a cui devono
aggiungersi il capocannoniere del campionato Beppe Signori e il
giocatore più amato e invidiato dal mondo intero: Roberto Baggio.
Parte male, l'Italia,
perdendo contro l'Irlanda, ma nelle partite successive, in
circostanze spesso difficili per il gran caldo e a volte
complicatissime per gli eventi che si verificano sul campo,
riesce comunque ad avanzare nel torneo.Negli ottavi contro la
Nigeria, per esempio, gli azzurri ridotti in 10 devono ribaltare
nei supplementari un risultato che fino all'88' li vedeva
soccombere. Protagonista a suon di gol è Roberto Baggio, che poi
sarà l'artefice principale anche dei successi nei quarti sulla
Spagna e in semifinale sulla Bulgaria.In finale c'è il temibile
Brasile, a caccia del suo quarto titolo iridato.
La partita si disputa
domenica 17 luglio alle 12.30 al Rose Bowl di Pasadena sotto un
sole cocente e di fronte a centomila spettatori. Sacchi, che
deve fare i conti con infortuni, acciacchi e squalifiche, fa
miracoli per mettere in campo una squadra competitiva. Recupera
Franco Baresi 24 giorni dopo l'asportazione del menisco e manda
in campo un dolorante Baggio.Contro le incursioni brasiliane la
difesa azzurra è perfetta, ma finiscono zero a zero sia i tempi
regolamentari che quelli supplementari. Si riaffaccia così lo
spettro dei rigori che già nel 1990 costarono il mondiale agli
azzurri.L'infausto destino purtroppo si ripete. Dal dischetto
sbagliano i più rappresentativi: Massaro, Baresi e, proprio lui,
Baggio, che manda alto il pallone decisivo. Finisce 3 a 2. Mai
un titolo mondiale era stato aggiudicato ai rigori
http://www.figc.it/it/3195/3250/Storia.shtml
ELIMINATA IN SEMIFINALE
Cesare
Maldini
1
Toldo ·
2
Bergomi ·
3
P. Maldini ·
4
Cannavaro ·
5
Costacurta ·
6
Nesta ·
7
Pessotto ·
8
Torricelli ·
9
Albertini ·
10
Del Piero ·
11
D. Baggio ·
12
Pagliuca ·
13
Cois ·
14
Di Biagio ·
15
Di Livio ·
16
Di Matteo ·
17
Moriero ·
18
R. Baggio ·
19
Inzaghi ·
20
Chiesa ·
21
Vieri ·
22
Buffon ·
PRIMO TURNO
|
11-6-1998, Bordeaux
(MO) Italia-Cile 2-2 Reti: 10' Vieri, 45' e 49'
Salas, 85' R. Baggio rig. Italia: Pagliuca, Nesta,
P. Maldini, Albertini, Cannavaro, Costacurta, Di
Livio (62’ Chiesa), D. Baggio, Vieri (71' Inzaghi),
Di Matteo (57’ Di Biagio), R. Baggio. Ct: C.
Maldini. Cile: Tapia, Villaroel, Reyes, Fuentes,
Margas (64' Miguel Ramirez), Rojas, Acuna (82'
Cornejo), Parraguez, Estay (81' Sierra), Zamorano,
Salas. Ct: Acosta. Arbitro: Bouchardeau (Niger). |
|
17-6-1998,
Montpellier (MO) Italia-Camerun 3-0 Reti: 7' Di
Biagio, 75' e 89' Vieri Italia: Pagliuca, Nesta, P.
Maldini, Albertini (62’ Di Matteo), Cannavaro,
Costacurta, Moriero (84’ Di Livio), D. Baggio,
Vieri, Di Biagio, R. Baggio (65'' Del Piero). Ct: C.
Maldini. Camerun: Songo'o, Ndo, Njanka, Kalla, Song,
Wome, Angibeaud, Mboma (66' Tchami), Olembe, Ipoua
(46' Job), Omam Biyik (66' Eto'o). Ct: Leroy.
Arbitro: Lennie (Australia). |
|
24-6-1998,
Montpellier (MO) Italia-Austria 2-1 Reti: 48' Vieri,
89' R. Baggio, 90' Herzog rig. Italia: Pagliuca,
Nesta (4' Bergomi), P. Maldini, D. Baggio,
Cannavaro, Costacurta, Moriero, Pessotto, Vieri (60'
Inzaghi), Di Biagio, Del Piero (73'' R. Baggio).
Ct: C. Maldini. Austria: Konsel,
Mahlich, Schottel, Feiersinger, Pfeffer, Wetl,
Pfeifenberger (79' Herzog), Reinmayr, Kuhbauer (74'
Stoger), Polster (62' Haas), Vastic.. Ct:
Prohaska. Arbitro: Durkin (Inghilterra).
QUARTI DI FINALE
|
|
27-6-1998, Marsiglia
(MO) Italia-Norvegia 1-0 Rete: 18' Vieri Italia:
Pagliuca, Costacurta, P. Maldini, Albertini (72'
Pessotto), Cannavaro, Bergomi, Moriero (62' Di
Livio), Di Biagio, Vieri, D. Baggio, Del Piero (77''
Chiesa). Ct: C. Maldini. Norvegia:
Grodas, Berg, Eggen, Johnsen, Byornebye, H. Flo (73'
Solskjaer), Mykland, Rekdal, Leonhardsen (12'
Strand, 39' Solbakken), Riseth, T. A. Flo. Ct:
Olsen. Arbitro: Heynemann (Germania).
SEMIFINALE |
|
3-7-1998, Parigi (MO)
Francia-Italia 4-3 (ai rigori) Sequenza rigori:
Zidane gol, R. Baggio gol, Lizarazu parato,
Albertini parato, Trezeguet gol, Costacurta gol,
Henry gol, Vieri gol, Blanc gol, Di Biagio traversa.
Francia: Barthez, Thuram, Blanc, Desailly, Lizarazu,
Karembeu (Henry dal 65'), Deschamps, Zidane, Petit,
Guivarc'h (65' Trezeguet), Djorkaeff. Ct: Jacquet.
Italia: Pagliuca, Cannavaro, P. Maldini, D. Baggio
(52' Albertini), Costacurta, Bergomi, Moriero, Di
Biagio, Vieri, Pessotto (Di Livio dal 90'), Del
Piero (67'' R. Baggio). Ct: C. Maldini. Arbitro:
Dallas (Scozia). |
1998: SERIE NERA
DEI RIGORI, ULTIMO ATTO
La nazionale italiana perde
ai rigori per la terza volta consecutiva. Le reti di vieri e
baggio, convocato per volonta’ popolare ma impiegato a mezzo
servizio per far spazio a del piero, trascinarono la squadra ai
quarti di finale, dove si perse ai rigori contro i padroni di
casa francesi, dopo che Baggio sfioro’ il colpaccio nei tempi
supplementari.
Arrigo Sacchi lasciò la
nazionale nel dicembre 1996 per tornare a guidare il Milan in
difficoltà; in quell’anno la squadra disputò un pessimo
campionato europeo perché la squadra titolare, che aveva vinto
la prima partita, non venne confermata successivamente. Approdò
alla guida della nazionale il vincente allenatore della
nazionale giovanile dell’Under 21 Cesare Maldini, forte di 3
campionati continentali vinti.
Dopo le innovazioni tattiche
sacchiane la nazionale tornò al vecchio gioco di Maldini, troppo
antico per alcuni. Le prime partite dell’Italia nel Gruppo 2
europeo di qualificazione al mondiale di Francia 98 erano state
giocate con Sacchi C.T., a Maldini toccò l’arduo compito di
presentarsi subito a Wembley per scontrarsi con l’Inghilterra e
fece centro con una rete di Zola. Comunque quel girone lo vinse
l’Inghilterra, l’Italia si classificò al secondo posto e dovette
sfidare la Russia in un doppio confronto di spareggio per andare
ai mondiali: passò l’Italia (1-1 e 1-0 i risultati). Il portiere
Peruzzi doveva essere il titolare in quei mondiali ma si fece
male, così Pagliuca si ritrovò nuovamente titolare.
Il giocatore del
momento era Del Piero ma nell’ultimo scorcio di quella stagione
accusò dei problemi fisici, i tifosi chiesero a gran voce il
ritorno di Roberto Baggio in nazionale, perché aveva vissuto una
straordinaria stagione a Bologna e vennero accontentati, visti i
problemi di Del Piero. Vieri quell’anno aveva fatto meraviglie
con l’Atletico Madrid e tutti speravano che potesse continuare
il suo momento magico. La difesa era composta dai veterani Paolo
Maldini (figlio di Cesare), Costacurta e dagli esordienti Nesta,
Cannavaro, Pessotto. A centrocampo c’erano Albertini, Di Livio,
Di Biagio, Dino Baggio, Moriero e Di Matteo. L’Italia giocò la
prima partita del Gruppo B l’11 giugno contro il Cile a Bordeaux
(Stadio Parc Lescure): fu un sofferto 2-2, Vieri portò in
vantaggio la squadra, poi si subì l’uno/due con Salas e
all’ultimo minuto Baggio si procurò un rigore che trasformò.
Tutto facile alla seconda
partita il 17 giugno contro il Camerun a Montpellier (Stadio De
la Mosson): 3-0 con reti di Di Biagio e Vieri (2). Alla terza
partita a Saint Denis (periferia di Parigi), allo Stade de
France, il 23 giugno contro l’Austria si vinse 2-1 con reti di
Vieri e Baggio, che era partito dalla panchina facendo
ristabilire le gerarchie di Del Piero titolare perché guarito.
Nesta si infortunò e subentrò Bergomi, l’ultimo degli eroi di
Spagna 82, che era tornato in nazionale. L’Italia passata agli
ottavi di finale affrontò la Norvegia a Marsiglia (Stadio
Velodrome) il 27 giugno: vinse 1-0 con rete del solito Vieri,
che fallì anche altre occasioni, mentre la Norvegia andò vicina
al pari con Flo T.A., considerato alla vigilia lo spauracchio
azzurro, e altri giocatori.
Ai quarti di finale a Saint
Denis il 3 luglio c’era la Francia ad attenderci. Uno poteva
pensare alle coincidenze con l’altro mondiale francese di 60
anni prima: ottavi Norvegia a Marsiglia, quarti Francia a Parigi
e quindi doveva finire in gloria per gli azzurri. La Francia
fino a quel momento non aveva brillato e aveva sofferto contro
il Paraguay, rischiando l’eliminazione; contro l’Italia continuò
a non brillare anche se ebbe alcune occasioni per segnare.
L’Italia si difese ma quando uscì allo scoperto mise in seria
difficoltà la Francia: nei tempi supplementari Baggio, che
sostituì Del Piero durante la partita, ebbe tra i piedi il
pallone della vittoria (golden gol) che calciò al volo e finì
fuori di pochissimo. Ai rigori si riascoltò la stessa sinfonia
dei 2 precedenti mondiali: Francia avanti e Italia a casa, il
rigore decisivo fu sbagliato da Di Biagio che colpì la traversa.
Cesare Maldini, sommerso
dalle critiche per via di uno spento Del Piero preferito a
Baggio, fu esonerato. Ma egli nel suo periodo di cittì della
nazionale era stato sempre visto come un traghettatore che
doveva guidare la nazionale italiana per pochi mesi.
ELIMINATA AI QUARTI DI FINALE
Giovanni Trapattoni
1
Buffon ·
2
Panucci ·
3
Maldini ·
4
Coco ·
5
Cannavaro ·
6
Zanetti ·
7
Del Piero ·
8
Gattuso ·
9
Inzaghi ·
10
Totti ·
11
Doni ·
12
Abbiati ·
13
Nesta ·
14
Di Biagio ·
15
Iuliano ·
16
Di Livio ·
17
Tommasi ·
18
Delvecchio ·
19
Zambrotta ·
20
Montella ·
21
Vieri ·
22
Toldo ·
23
Materazzi
|
3-6-2002, Sapporo
(MO) Italia-Ecuador 2-0 Reti: 7’ e 27’ Vieri Italia:
Buffon, Panucci, Nesta, Cannavaro, Maldini,
Zambrotta, Di Biagio (69’ Gattuso), Tommasi, Doni
(63’ Di Livio), Totti (74’ Del Piero), Vieri. Ct:
Trapattoni. Ecuador: Cevallos, De La Cruz, Hurtado,
Porozo, Guerron, Mendez, Obregon, E. Tenorio (59’ M.
Ayovi), Chala (85’ Asencio), Aguinaga (46' C.
Tenorio), Delgado. Ct: Gomez. Arbitro: Hall (Stati
Uniti). |
|
8-6-2002 Ibaraki (MO)
Italia-Croazia 1-2 Reti: 55¹ Vieri, 73¹ Olic, 76¹
Rapaic Italia: Buffon, Panucci, Nesta (24¹ Materazzi),
Cannavaro, Maldini, Zambrotta, Tommasi, Zanetti,
Doni (79¹ Inzaghi), Totti, Vieri. Ct: Trapattoni.
Croazia: Pletikosa, Tomas, R. Kovac, Simunic, Saric,
Soldo (62¹ Vranjes), Vugrinec (57¹ Olic), N. Kovac,
Jarni, Boksic, Rapaic (79¹ Simic). Ct: Jozic.
Arbitro: Poll (Inghilterra). |
|
13-6-2002 Oita (MO)
Messico-Italia 1-1 Reti: 34¹ Borgetti, 84¹ Del
Piero. Messico: Perez, Vidrio, Marquez, Carmona,
Arellano, J. Rodriguez (77¹ Caballero), Torrado,
Luna, Morales (75¹ R. Garcia), Blanco, Borgetti (80¹
Palencia). Ct: Aguirre. Italia: Buffon, Cannavaro,
Nesta, Maldini, Zambrotta, Tommasi, Totti (78¹ Del
Piero), Zanetti, Panucci (63¹ Coco), Inzaghi (56¹
Montella), Vieri. Ct: Trapattoni. Arbitro: Simon
(Brasile). |
QUARTI
DI FINALE
|
18-6-2002 Taejon (MO)
Corea del Sud-Italia 2-1 golden gol Reti: 18¹ Vieri,
88¹ Seol, 117¹ Ahn. Corea del Sud: W.J. Lee, J.C.
Choi, Hong (82¹ Cha), T.Y. Kim (63¹ Hwang), Song,
N.I. Kim (68¹ C.S. Lee), Yoo, Y.P. Lee, Park, Ahn,
Seol. Ct: Hiddink. Italia: Buffon, Panucci, Iuliano,
Maldini, Coco, Zambrotta (72¹ Di Livio), Tommasi,
Totti, Zanetti, Del Piero (61¹ Gattuso), Vieri. Ct:
Trapattoni. Arbitro: Moreno (Ecuador). |
Esattamente quel venerdì di 11 anni fa, la Coppa del Mondo,
organizzata per la prima volta in Asia e da due nazioni
congiunte (si ripeteva l’esperimento del biennio precedente
dell’Europeo), partiva con l’incontro inaugurale tra i campioni
in carica della Francia e i debuttanti del Senegal. L’incontro
terminò a sorpresa con la vittoria degli africani (decisa da un
gol di Bouba Diop) e non fu minimamente l’unica sorpresa di quel
torneo, ricordato alla storia come il più pazzo tra i Mondiali
disputati. La Francia non superò la prima fase, il
Portogallo super favorito nel proprio girone, viene
eliminato all’ultima giornata da una certa Corea del Sud, salutò
poi l’Argentina, buttata fuori dalla Svezia del giovanissimo
Ibrahimovic che vinse quel raggruppamento.
Il
primo dei due padroni di casa, il Giappone, interruppe la
propria corsa agli ottavi di finale, eliminata dalla Turchia
che poi arrivò incredibilmente in semifinale, incredibile come
fu il cammino del Senegal, arrivato tra le prime otto
formazioni mondiali superando il record del
Camerun come migliore squadra del continente africano (battuto
poi qualche anno più tardi dal Ghana). Vinse il Brasile
in finale contro la Germania, ma a stupire più di tutti
fu il cammino dei secondi padroni di casa, la Corea del Sud,
che eliminò dalla manifestazione la bellezza di tre tra le più
forti squadre europee, anche se…
L’INTRIGO IN COREA –
Di certo i coreani non erano la squadra più forte, ma si
sapeva che, giocando in casa, i giocatori potevano
avvantaggiarsi della forte spinta del proprio pubblico,
fondamentale per il morale della squadra. Dopo il successo nella
partita iniziale contro la Polonia per 2-0, e il pareggio
per 1-1 contro gli USA, gli asiatici si presentano
all’ultimo incontro contro un Portogallo che deve vincere a
tutti i costi se vuole passare il turno. La partita è molto
aspra già dalle prime fasi iniziali di gioco, ma l’arbitro
argentino Sanchez diventa a suo malgrado il protagonista
principale del match, espellendo due giocatori lusitani e
non
fischiando invece l’irruento gioco dei padroni di casa. Quel
match venne vinto dalla Corea grazie ad un
gol di Park Ji
Sung, che la proiettò in prima posizione nel girone e la
vedeva dunque nel turno successivo, affrontare l’Italia a
Daejon. La nostra Nazionale non era esattamente quella che vinse
in Germania nel 2006, ma comunque era ben più forte della
nazionale coreana. Nell’aria però, si avvertiva qualcosa di
sospetto. Come riportato poi dal film ufficiale della
manifestazione, il tecnico italiano Giovanni Trapattoni
disse di aver notato che l’arbitro dell’incontro, Byron
Moreno, non strinse intenzionalmente ad inizio match la mano
ai calciatori azzurri. I tifosi di casa ci accolsero con
striscioni poco amichevoli (Benvenuti nella tomba degli
Azzurri), mentre la partita si aprì con il vantaggio di
Christian Vieri, una serie evidenti di episodi (il
fallaccio su Zambrotta, il calcio in testa a Maldini, la
gomitata a Del Piero) fece comprendere che la partita stava
diventando ad un unico senso arbitrale. Fatto che si
concretizzò dopo il pareggio della Corea e i successivi tempi
supplementari: Francesco Totti venne espulso per simulazione
(solo l’arbitro non vide l’evidente rigore) e Damiano Tommasi,
sempre sull’1-1, venne fermato in posizione regolare mentre era
lanciatissimo a rete. Tutto questo scatenò l’arrabbiatura di
Trapattoni, arrabbiatura giustificata poi dal gol vittoria del
perugino Ahn e i successivi festeggiamenti coreani. Ai
quarti di finale l’inedito Spagna-Corea del Sud, con i
primi già sicuri del passaggio in semifinale e irridendo sui
giornali l’Italia per aver perso contro gli asiatici. La
cronaca fu impietosa, due gol annullati agli spagnoli regolari,
falli duri sulle “furie rosse” non fischiati (epico il labiale
di Joaquin all’arbitro egiziano) e fuorigioco completamente
errati.
La Spagna perse ai rigori, e il giornale AS intitolava con “Furto – L’Italia aveva ragione”.
Il cammino degli organizzatori si fermò poi in semifinale contro
la Germania, ma furono tanti i casi in cui tutto faceva pensare
ad arbitri corrotti, per far arrivare la Corea del Sud tra le
prime quattro.
Interessante fu poi che uno di quei tre direttori di gara, Byron
Moreno, fu accusato per aver falsato una partita nel campionato
ecuadoregno, ed ora è in carcere per esser stato scoperto nel
2010 a possedere droga all’aeroporto JFK di New York. Quando
si perde e non si ottengono i risultati sperati, è più facile
dar la colpa al prossimo dei propri insuccessi. La Uefa fece un
controllo ma non risultò nulla di anomalo (esattamente come in
quel Dinamo Zagabria-Lione del 2011), ma se Portogallo, Italia e
Spagna persero in quel modo, sarebbe anche lecito pensare che
tre indizi spesso fanno una prova.
A cura di Mirko Di Natale
CAMPIONE DEL
MONDO
Marcello Lippi
1
Buffon ·
2
Zaccardo ·
3
Grosso ·
4
De Rossi ·
5
Cannavaro ·
6
Barzagli ·
7
Del Piero ·
8
Gattuso ·
9
Toni ·
10
Totti ·
11
Gilardino ·
12
Peruzzi ·
13
Nesta ·
14
Amelia ·
15
Iaquinta ·
16
Camoranesi ·
17
Barone ·
18
Inzaghi ·
19
Zambrotta ·
20
Perrotta ·
21
Pirlo ·
22
Oddo ·
23
Materazzi
PRIMO TURNO
|
ITALIA: Buffon; Zaccardo, Nesta, Cannavaro, Grosso;
Perrotta, Pirlo, De Rossi; Totti; Toni, Gilardino.
All. Lippi. GHANA: Kingston;
Paintsil, Kuffour, Pappoe, Mensah; Essien, Appiah,
Muntari, Addo; Amoah, G.Asamoah. All.
Dujkovic. Arbitra il brasiliano Simon. |
|
Italia (4-4-2):
Buffon; Zaccardo (54' Del Piero), Nesta, Cannavaro,
Zambrotta; Perrotta, Pirlo, De Rossi; Totti (34'
Gattuso); Gilardino, Toni (62' Iaquinta). All.
Lippi. Stati Uniti (4-5-1): Keller; Cherundolo,
Pope, Onyewu, Bocanegra; Dempsey (62' Beasley),
Mastroeni, Reyna, Convey (52' Conrad); Donovan,
McBride. All. Arena
Arbitro: Larrionda
(Uruguay) |
|
Rep. Ceca: Petr Cech, Zdenek Grygera, Radoslav Kovac
(Marek Heinz, 78'), David Rozehnal, Marek
Jankulovski, Karel Poborsky (Jiri Stajner, 46'),
Tomas Rosicky, Jan Polak, Pavel Nedved, Jaroslav
Plasil, Milan Baros (David Jarolim, 64') Ct: Karel
Bruckner Italia: Gianluigi Buffon, Gianluca
Zambrotta, Alessandro Nesta (Marco Materazzi, 17'),
Fabio Cannavaro, Fabio Grosso, Gennaro Gattuso,
Andrea Pirlo, Simone Perrotta, Mauro Camoranesi
(Simone Barone, 74'), Francesco Totti, Alberto
Gilardino (Filippo Inzaghi, 61'). Ct: Marcello Lippi
arbitro: B. Archundia (Messico) |
OTTAVI DI FINALE
|
ITALIA (4-3-1-2):
Buffon; Zambrotta, Materazzi, Cannavaro, Grosso;
Perrotta, Pirlo, Gattuso; Del Piero (30’ st Totti);
Toni (11’ st Barzagli), Gilardino (1’ st Iaquinta).
A disposizione: Peruzzi, Amelia, Zaccardo, Oddo,
Barone, Camoranesi,Inzaghi. All: Lippi. AUSTRALIA
(3-5-1-1): Schwarzer; Moore, Neill, Chipperfield;
Sterjovski (37’ st Aloisi), Culina, Grella, Cahill,
Bresciano; Wilkshire; Viduka. A disposizione: Kalac,
Covic, Popovic, Skoko, Lazaridis, Beauchamp,
Thompson, Kennedy, Kewell, Milligan. All: Hiddink.
ARBITRO: Medina Cantalejo (Spa) |
QUARTI
DI FINALE
|
Italia: Gianluigi Buffon, Gianluca Zambrotta, Andrea
Barzagli, Fabio Cannavaro, Fabio Grosso, Simone
Perrotta, Andrea Pirlo (Simone Barone, 68'), Gennaro
Gattuso (Cristian Zaccardo, 77'), Mauro Camoranesi
(Massimo Oddo, 68'), Francesco Totti, Luca Toni; Ct:
Marcello Lippi Ucraina: Oleksander Shovkovsky,
Andriy Rusol (Vladislav Vashchyuk, 45'), Vyacheslav
Svidersky (Andri Vorobei, 20'), Andriy Nesmachny,
Oleg Gusev, Anatoly Tymoshchyuk, Oleg Shelayev,
Maxim Kalinichenko, Andriy Husin, Andriy Shevchenko,
Artem Milevsky (Olexiy Belik, 72'); Ct: Oleg Blokhin
arbitro: Frank De Bleeckere (Belgio) |
SEMIFINALE
|
Germania (4-4-2):
Lehmann; Friedrich, Mertesacker, Metzelder, Lahm;
Schneider (83' Odonkor), Kehl, Ballack, Borowski
(73' Schweinsteiger); Klose (111' Neuville),
Podolski. C.T.: Klinsmann. Italia (4-4-1-1): Buffon;
Zambrotta, Cannavaro, Materazzi, Grosso; Camoranesi
(91' Iaquinta), Gattuso, Pirlo, Perrotta (104' Del
Piero); Totti; Toni (74' Gilardino). C.T.: Lippi.
Arbitro: Archundia (Messico) |
Arrivati in Germania
sull'onda dello scandalo calciopoli gli azzurri tirano fuori
l'orgoglio e conquistano la coppa. All'inizio non giocano bene,
ma non cadono mai. L'inviato di
di MAURIZIO CROSETTI
Dopo sette anni, che nel
calcio valgono sette generazioni, sette volte sette come
nell'Antico Testamento, resta di Berlino 2006 una sensazione
precisa: da un certo punto del mondiale in avanti, si ebbe la
certezza che gli azzurri non avrebbero perso mai. Era qualcosa
di difficile da definire, e solo in parte di razionale. Di
fatto, l'Italia non prendeva mai gol. E passava il turno anche
quando avrebbe meritato di perdere, come nella sciagurata sfida
all'Australia: esserne usciti indenni grazie a un rigore,
regalato dall'arbitro e segnato da Totti, rappresentò lo
spartiacque. Come Italia-Camerun dell'82. Perché la storia del
nostro calcio passa anche attraverso snodi strani, in bilico tra
il ridicolo e la gloria.
Tutti ricordano come la
nazionale arrivò in Germania, sull'onda di uno scandalo che ne
avrebbe cambiato profondamente la natura, spazzando via la
società padrona di quegli anni foschi, la Juve di Moggi e
Giraudo. I bianconeri, come spesso
accade nella storia azzurra,
rappresentavano l'ossatura della formazione ed erano allenati da
Marcello Lippi, altro bianconero storico. Il loro portiere, Gigi
Buffon, era appena stato coinvolto in una faccenda di scommesse
on-line, nulla di penale ma nemmeno di elegantissimo: un
calciatore che scommette, seppure legalmente, su competizioni
sportive, suvvìa. E c'erano dubbi anche su Fabio Cannavaro, il
capitano, colui che sarebbe diventato il miglior giocatore dei
mondiali nonché Pallone d'Oro.
Si cominciò dunque il
mondiale nel modo peggiore, che poi per il calcio italiano
diventa spesso il migliore: assediati dentro Fort Apache. La
sindrome dell'accerchiamento, che già aveva dato frutti
memorabili nell'82, fece il solito effetto taumaturgico. Gli
azzurri non giocavano bene ma vincevano, e soprattutto non
cadevano mai. Il loro portiere non prendeva gol: cosa che
peraltro accadde una volta sola su azione, autorete di Zaccardo.
Questo, alla lunga, spiegò la forza dell'Italia, squadra
blindata e orgogliosa, capace dei guizzi giusti nei momenti più
neri.
Dopo l'avvio navigando a
vista (2-0 al Ghana), le scintille contro gli Stati Uniti (1-1),
con De Rossi espulso e squalificato per una gomitata in faccia a
un avversario, e la vittoria per 2-0 contro la Repubblica Ceca,
la squadra di Lippi rischiò seriamente l'eliminazione contro
l'Australia negli ottavi, prima gara a eliminazione diretta.
Come detto, la buona sorte intervenne e non smise più di
sfiorarci con la sua salvifica ala (non servì però contro
l'Ucraina nei quarti, 3-0 liscio come l'olio).
Anche se quel
mondiale lo vincemmo soprattutto in semifinale, mandando fuori
la Germania in casa sua con due gol nei supplementari: il
vecchio fuoriclasse Del Piero e il giovane Fabio Grosso
diventarono la chiave di volta. E nella notte di Berlino
accostammo la Francia non certo da favoriti, ma sicuri che nulla
ci avrebbe preoccupato, neppure Zidane e Trezeguet (la Juventus,
come si vede, ritorna sempre, anche se sotto forme diverse).
Il resto della storia è un
epilogo mandato a memoria da chiunque ami il calcio. La finale
fu una brutta partita, nella quale rischiammo di non entrare
mai. Andammo sotto su rigore (segnò Zidane, fortunosamente) e
pareggiammo grazie a un colpo di testa di Marco Materazzi, vero
eroe spurio di una squadra che sapeva improvvisare protagonisti
inattesi. Il roccioso stopper avrebbe risolto la partita in
altro modo, non solo segnando ma facendo cacciare Zinedine
Zidane, il quale venne provocato da Materazzi che lo ferì negli
affetti più cari (madre e sorella: con un francese/algerino non
si fa) e ne causò l'espulsione, dopo avere rimediato la testata
più famosa nella storia del calcio. Meraviglioso contro il
Brasile, che aveva eliminato quasi da solo, Zizou lasciò la
Coppa del mondo e, di fatto, il calcio, con un raptus, lui che
avrebbe meritato ben altro epilogo.
Da quel momento, l'Italia
andò verso i rigori e se li mangiò come un bimbo una merendina,
infallibile perché senza nulla da perdere. Nessuno, dal
dischetto, tremò. E l'ultimo tiro, quello destinato a
racchiudere il senso di tutta una storia e di ogni gesto
precedente, appartenne di nuovo a Fabio Grosso, il terzino
sbucato dal nulla, l'uomo del destino. Fece gol, il ragazzo, con
l'incoscienza di chi non ha mai avuto niente. E sa che quel
niente non lo può sprecare, dal momento che non esiste.
http://www.repubblica.it/la-repubblica-delle-idee/quel-giorno/2013/07/09/news/2006_italia_campione_del_mondo-62662130/
LA VIGILIA DELLA FINALE DI CAMORANESI
CON MARADONA.
"Non è che si dorma proprio bene la sera
prima di giocare una finale del Mondiale.Le ore scorrono
lentamente alla vigilia di Italia-Francia.A un certo punto non
saprei neanche bene dire perchè mi sono messo a camminare su e
giù per il ritiro e mi sono ritrovato di fronte alla porta di
stanza di Ciro Ferrara,il vice di Lippi.L'ho aperta.La scena che
mi si è presentata davanti era orribile.Ciro vagava per la
camera a petto nudo,coperto solo da un asciugamano proprio là
sotto e intanto parlava al telefono.
'Mauro perchè sei qui?'
'Scusa Ciro non sapevo stessi
parlando.Vuoi che torni dopo?'
'No.Non ti preoccupare.Sto parlando con
Maradona'
Ciro è sempre stato cosi.Un
giocherellone.Ovviamente non credevo a ciò che mi aveva appena
detto.
'Stai scherzando vero?Stai parlando
veramente con Diego Maradona?
'L'originale'.Rispose lui.
Per un attimo si rivolse direttamente
all'interlocutore:
'Diego ti devo passare una persona'
Poi mi ha allungato il telefono.Ero ancora
convinto che Ciro stesse bluffando però dopo un pò la mia voce
ha cominciato a incrinarsi.
'Ciao,Camo,come stai?'
Parlata inconfondibile:era davvero
Maradona.Non sono svenuto solo perchè spesso recitavo la parte
del cattivo e un cattivo al massimo ringhia,di sicuro non può
perdere conoscenza.
'Allora.Camo,come stai?'
'Insomma sono agitato'.A quel punto lo ero
più per la telefonata che per la finale in campo.
Stavo parlando con il calciatore che
quando eravamo bambini,durante le nostre partite per le strade
di Tandil,moltiplicavamo per ciascuno di noi.Tutti ci sentivamo
lui.Tutti volevamo essere lui.Mi mancava il fiato quindi è stato
Diego a riprendere il discorso.
'Sono molto felici che siete arrivati in
finale,posso darti un consiglio?'
'Per me sarebbe un onore ascoltarlo'
'E allora ti dico di dormire tranquillo
stanotte che domani diventerai Campione del Mondo'
'Grazie Diego'
'Questa finale non ti scappa.Stai
tranquillo se te lo dico io fidati.Ora ti mando un bacione
enorme.E ci vediamo domani allo stadio lavoro per una TV'.
Credo di essere diventato pallido durante
quella telefonata,sicuramente ho tremato,tanto che Ciro nel
frattempo si era sdraiato sul letto quasi piangeva per il troppo
ridere. Il duro Camoranesi si era sciolto:roba da lacrime agli
occhi.In realtà era vero il contrario.Avrei voluto giocare
subito la finale sentivo una carica pazzesca.
La sera dopo c'era troppa gente non
riuscii a rincontrarlo.Per stringerci finalmente la mano avrei
dovuto aspettare altri otto anni,ci siamo ritrovati nel 2014
quando commentavo il Mondiale per una TV americana.Addirittura
in quell'occasione mi ha invitato ospite alla sua
trasmissione.Abbiamo chiacchierato tanto e a lungo.Di Italia e
Argentina.Di sogni e speranze.Di Mondiali e medaglie.Di Ciro
mezzo nudo per fortuna con l'asciugamano."Mauro German
Camoranesi
ITALIA GERMANIA,
SEMPRE LEI.
Non è la data, l'anno, il
paese, lo stadio che rende ogni volta incredibile questa
partita, ma è la nomenclatura che la fa diventare mitica: Italia-Germania.
Due parole che unite da un
trattino e messe dovunque, o in una partita al calcio balilla o
sulla spiaggia di un villaggio turistico fra un'amichevole di
turisti tedeschi e italiani, innescano una magia che scatena
quanto di più incantato si possa pensare per una partita di
calcio. C'è qualcosa di stregato in queste due parole, è come se
il Dio Palla volesse chiedere la parola d'ordine a chi vorrebbe
conferire con lui per iniziare a parlare di pallone.
Questa partita è diventata
lunghissima, non finirà mai. Da oggi ancora di più, ma per
quanto tempo ancora? Il 90' è finito da parecchio, i minuti di
recupero pure, ma i supplementari si stanno ancora giocando e
forse si giocheranno ancora. Da una fantastica panchina le
riserve sostituiscono da quarant'anni i titolari: esce
Boninsegna ed entra Totti; Gigi Riva ha i crampi ma Paolo Rossi
si sta già scaldando; il sudato Tardelli ha problemi alle corde
vocali per quanto ha urlato e Gattuso gli va incontro per farlo
riposare. Chissà quando lo sentiremo davvero il triplice fischio
finale! E' un match che è diventato ormai una leggenda, una
sfida interminabile fra la scuola dei panzer tedeschi, tutta
muscoli, perfezione e geometria e quella italiana, tuttta estro,
contropiede e genialità. Quando quel rettangolo verde si riempie
di 22 puntini bianchi e azzurri una polverina magica scende sul
capo di quegli uomini che per sortilegio, anche se sfiniti,
ritrovano nuove forze, nuovi stimoli, corrono come pazzi alla
ricerca del gol della vita.
C'è da dire che in queste
epiche battaglie i tedeschi hanno sempre incassato cocenti
sconfitte sulle quali, però, non hanno mai potuto recriminare
nulla o accampare scuse. E questo li ha fatti inviperire ancor
di più, perché sono state sconfitte sempre limpide, pulite e
meritate e che hanno fatto sempre male al loro stomaco e al loro
orgoglio nazionale. Ma più perdono e più ritornano ad essere i
soliti crucchi, fino ai miserabili articoli della loro stampa o
alle puntuali e puerili minacce di boicattaggio delle pizzerie
italiane in Germania. Non mangiano più la nostra pizza? E
cchisenefrega!! Chiedete al pizzaiolo coi baffi neri di Berlino
se sono meglio duemila Margherite invendute o due gol a nostro
favore! Forse non vi può rispondere perché è ancora ubriaco di
birra ed euforia. Però… sotto sotto, anche se dicono che siamo
cafoni, furbetti e disonesti, alla fine ci ammirano e ci
invidiano e - a modo loro - ci rispettano. Perché per loro noi
siamo, da sempre, IL NEMICO.
Chi ha più di sessant’anni
avrà certamente passato una notte in bianco in quel 17 giugno
del 1970.
Italia-Germania, in qualsiasi
torneo, è ormai diventato un simbolo, una metafora per
significare che in ogni occasione della vita tutto è il
contrario di tutto, che puoi scendere dalle stelle alle stalle
in un minuto, che mentre stai a difendere la tua area di rigore
piena di problemi ti ritrovi - per spontanea reazione -
proiettato ad attaccare l'altra area di rigore; che niente in
ogni nostra Italia-Germania è predisposto, preparato, dettato e
organizzato ma, illogicamente, in quella confusione di ormoni
impazziti tutto va al suo posto come se ogni lancio o rimessa
laterale fosse già stata scritta su un libro.
Italia-Germania significa che
può succedere qualsiasi cosa, avere la licenza di essere te
stesso, vuole dire dimenticarsi subito degli schemi imposti
dall'allenatore, entrare in campo e perdersi… perdersi fra
quelle immense praterie di prato verde che si spalancano davanti
perché la tattica non esiste più, le marcature nemmeno
(figuriamoci la zona) e i capovolgimenti di fronte fanno
diventare il campo di calcio come un flipper col Tilt acceso.
Ognuno va per conto suo, e si
ritrova da solo con la sua sorte in quel suo piccolo fazzoletto
verde personale, smarrito, come su un campo di battaglia della
Grande Guerra in attesa che il nemico si affacci da dietro la
nebbia. Fra l'odore di erba fresca appena tagliata, il
calciatore, bianco o azzurro che sia, ormai non sente più
nemmeno il boato del pubblico, non vede neanche gli spalti ma
soltanto il verde e quella nebbia surreale. Attorno a lui
soltanto un fatato silenzio. Ogni tanto avverte ai suoi lati
soltanto una locomotiva che passa, bianca o azzurra non importa,
è un compagno di squadra o un avversario che in preda ai cinque
minuti di straordinaria follia che gli ha assegnato il fato
corre in cerca di una gloria che vede davvero, di un gol che
percepisce in anticipo, di appiccicosi e fraterni abbracci che
già avverte sulle spalle, di una prima pagina di giornale che
sta già leggendo mentre corre come un dannato, con 120 minuti
nelle gambe, alla ricerca di quelle tanto ambite linee bianche:
i pali e la traversa. In quei suoi cinque minuti il pallone che
ha davanti ai piedi è pazzo, ha voglia di infilarsi in quella
rete come uno spermatozoo che tenta di entrare nell'utero di una
donna. E non importa se per strada ha perso i parastinchi e gli
sgambetti gli fanno tanto male, lui deve macinare a tutti i
costi quei trenta metri che lo separano dal sogno.
Non c'è più niente di
patriottico in quel che fanno questi 22 uomini quando
s'incontrano; lo fanno perché accade qualcosa di strano, quasi
miracoloso. Non lo sanno nemmeno loro perché.
Questa è divenuta
Italia-Germania. Come ci ricorda una famosa foto di Tardelli, è
una folle e infinta corsa segnata dal destino, un urlo lungo
centodieci metri di prato colorato di bianco e azzurro.
(Mimmo Rapisarda)
ELIMINATA AL PRIMO TURNO
Marcello Lippi
1
Buffon ·
2
Maggio ·
3
Criscito ·
4
Chiellini ·
5
Cannavaro ·
6
De Rossi ·
7
Pepe ·
8
Gattuso ·
9
Iaquinta ·
10
Di Natale ·
11
Gilardino ·
12
Marchetti ·
13
Bocchetti ·
14
De Sanctis ·
15
Marchisio ·
16
Camoranesi ·
17
Palombo ·
18
Quagliarella ·
19
Zambrotta ·
20
Pazzini ·
21
Pirlo ·
22
Montolivo ·
23
Bonucci
|
Italia:
Buffon (1' st Marchetti), Zambrotta, Cannavaro,
Chiellini, Criscito, De Rossi, Montolivo, Pepe,
Marchisio (13' st Camoranesi), Iaquinta, Gilardino
(27' st Di Natale). All. Lippi. Paraguay: Villa,
Bonet, Alcaraz, Da Silva, Morel, Vera, Riveros, V.
Caceres, Aureliano Torres (14' Santana), Barrios
(30' st Cardozo), Valdez (23' st Santacruz). All.
Martino Arbitro: Archundia (Messico) |
|
ITALIA
(4-4-2): Marchetti; Zambrotta, Cannavaro, Chiellini,
Criscito; Pepe (dal 1’ s.t. Camoranesi), De Rossi,
Montolivo, Marchisio (dal 16’ s.t. Pazzini);
Gilardino (dal 1’ s.t. Di Natale), Iaquinta. (De
Santis, Bonucci, Bocchetti, Maggio, Gattuso,
Palombo, Quagliarella). All.
Lippi. NUOVA ZELANDA (3-4-3): Paston; Reid, Nelsen,
Smith; Bertos, Elliott, Vicelich (dal 35’ s.t.
Christie), Lochhead; Smeltz, Killen (dal 47’ s.t.
Barron), Fallon (dal 18’ s.t. Wood). (Moss, Sigmund,
Boyens, Brown, McGlinchey, Clapham, Mulligan,
Brockie). All. Herbert. ARBITRO: Batres (Gua). |
|
SLOVACCHIA: Mucha; Pekarik, Skrtel, Durica, Zabavnik,
Strba (87' Kopunek), Stoch, Hamsik, Vittek, Kucka,
Jendrisek. Ct. Weiss ITALIA: Marchetti; Zambrotta,
Cannavaro, Chiellini, Criscito (46' Maggio),
Montolivo (56' Pirlo), De Rossi, Gattuso (46'
Quagliarella), Iaquinta, Pepe, Di Natale. Ct. Lippi.
ARBITRO: Howard Webb (Inghilterra) |
Vergogna Italia.
E' fuori dal Mondiale
Azzurri battuti 3-2 dalla
Slovacchia ed eliminati. Squadra senza idee e gioco, un po'
meglio nella ripresa ma non bastano i gol di Di Natale e
dall'inviato MAURIZIO CROSETTI
JOHANNESBURG - La peggiore
Italia degli ultimi cinquant'anni o forse di sempre, esce
meritatamente dal mondiale: fine di una generazione e di
un'illusione. La tremenda sconfitta per 3-2 contro la Slovacchia
ci riporta alla famosa Corea del 1966, solo che questa volta i
Ridolini siamo noi. E non basta un po' di cuore nel finale ad
alleggerire il peso e le colpe. Azzurri inesistenti, sempre
dominati dall'avversario, sfortunati solo sul tiro di
Quagliarella respinto sulla linea (o forse oltre, ma fa
differenza?) da uno slovacco: però, la nostra eventuale
qualificazione sarebbe stata un furto. Lippi ha portato in
Sudafrica una squadra senza talento e senza fantasia, anche se
purtroppo il nostro calcio oggi non offre molto di più. Qualcosa
magari sì, ma non molto. Torniamo a casa dopo tre gare pessime,
una più brutta dell'altra. In 270 minuti avremo tirato in porta
sette o otto volte. Non ci sono attenuanti, neppure gli
infortuni. In difesa, Cannavaro è un ex giocatore e quasi tutti
gli altri sono bolliti. Eravamo campioni del mondo e abbiamo
fatto ridere il mondo.
La prima impressione, e pure
la seconda e la terza, e magari la quarta e la quinta, è stata
subito di una squadra a pezzi, debole di cuore e sbilenca di
piede. I primi piani sul povero portiere Marchetti rivelano
espressioni da film di Dario Argento. Gli azzurri arrivano
sempre in ritardo sul pallone, quando ci arrivano, ma il più
delle volte no. Oppure sbagliano clamorosamente la misura dei
passaggi, una specialità del modesto Pepe, difetto che diventa
fatale quando lo sbaglio è di De Rossi: pallone regalato alla
Slovacchia, azione ribaltata, inserimento di Vittek e gol dopo
25 minuti. Elementare e disarmante.
La nuova formazione (con
modulo annesso, il terzo in tre partite) è pure peggio delle
altre due: nessuno si propone, nessuno ha il coraggio
dell'iniziativa. L'unico che potrebbe ragionare calcio a
centrocampo è Montolivo, assai involuto rispetto alle prime due
gare mondiali, e poi è sempre troppo timido: se è in forma è
elegante, altrimenti è una specie di ectoplasma. Presi uno per
uno, i nostri sono tutti fantasmi. In particolare, l'attacco
rimesso a nuovo è scarso come quello vecchio, forse persino di
più: Iaquinta, che è una sponda e un gregario, non certo un
rapinatore d'area, impiega un quarto d'ora ogni volta che deve
girarsi e comunque la porta non la vede mai. Neppure il
capocannoniere Di Natale la vede: gira al largo e pure piano,
come se avesse i sassi in tasca. Di Pepe, che dovrebbe dare
imprevedibilità, si è detto, anche se nella ripresa mette in
area qualche cross. Senza offesa, l'Italia gioca il primo tempo
con due terzi dell'attacco dell'Udinese, quindicesima in serie
A. Forse il convento passava qualcosa di meglio.
Siccome niente funziona, nel
secondo tempo Lippi ne cambia due: Maggio per Criscito e
Quagliarella per Gattuso, dunque una punta in più anche se il
vecchio Ringhio, pur con mille limiti, era l'unico che provava a
contrastare gli slovacchi. Forse, però, Gattuso non aveva più
fiato di così. E al 56' arriva la mossa della disperazione:
fuori l'inguardabile Montolivo, dentro il convalescente Pirlo,
unico azzurro con fosforo portato da Lippi in Sudafrica. Il
guaio è che l'Italia continua a patire e poi gioca al
rallentatore, come se stesse vincendo 3-0. Una partita così
sconcertante non si ricorda, davvero. Neppure la fortuna aiuta
gli azzurri, vista la respinta sulla linea (o magari oltre, il
replay non chiarisce) di Skrtel sul tiro di Quagliarella, almeno
lui vivace. Poi arrivano la seconda mazzata slovacca, l'inutile
golletto di Di Natale, quello annullato a Quagliarella per
fuorigioco, la botta finale di Kopunek (fa quasi rima con Pak
Doo Ik) e il raddoppio di Quagliarella all'incrocio: l'unica
cosa bella del mondiale azzurro. Giusto che la piccola, quasi
comica Italia se ne torni a casa. E tanti auguri a Prandelli che
ora dovrà gestire una ricostruzione totale.
(24 giugno 2010)
http://www.repubblica.it/speciali/mondiali/sudafrica2010/squadre/italia/2010/06/24/news/slovacchia_italia_diretta-5119745/
ELIMINATA AL PRIMO TURNO
Cesare
Prandelli
1Buffon,
2 De Sciglio, 3 Chiellini, 4 Darmian, 5 Motta, 6 Candreva, 7
Abate, 8 Marchisio, 9 Balotelli, 10 Cassano, 11 Cerci, 12 Sirigu,
13 Perin, 14 Aquilani, 15 Barzagli, 16 De Rossi, 17 Immobile, 18
Parolo, 19 Bonucci, 20 Paletta, 21 Pirlo, 22 Insigne, 23
Verratti
|
INGHILTERRA
(4-2-3-1): Hart; Johnson, Cahill, Jagielka, Baines;
Henderson (dal 28’ s.t. Wilshere), Gerrard; Welbeck
(dal 16’ s.t. Barkley), Sterling, Rooney; Sturridge
(dal 34’ s.t. Lallana). (Foster, Forster, Smalling,
Jones, Shaw, Milner, Oxlade-Chamberlain, Lampard,
Lambert). All.: Hodgson.
ITALIA (4-1-3-1-1): Sirigu; Darmian, Barzagli,
Paletta, Chiellini; De Rossi; Verratti (dal 12’ s.t.
Motta), Pirlo, Marchisio; Candreva (dal 34’ s.t.
Parolo); Balotelli (dal 28’ s.t. Immobile). (Perin,
Abate, Bonucci, Aquilani, Cerci, Cassano, Insigne).
All.: Prandelli. ARBITRO: Kuipers (Ola) |
|
ITALIA:
Buffon; Abate, Barzagli, Chiellini, Darmian; De
Rossi; Candreva (57' Insigne), Thiago Motta (46'
Cassano), Pirlo, Marchisio (70' Cerci); Balotelli.
CT Prandelli. COSTA RICA: Navas; Gamboa, Duarte,
Gonzalez, Umana, Diaz; Ruiz (81' Brenes), Borges,
Tejeda (68' Cubero), Bolanos; Campbell (74' Urena).
CT Pinto. Arbitro: Osses (Cile). |
|
ITALIA
(3-5-2): Buffon; Barzagli, Bonucci, Chiellini;
Darmian, Verratti (dal 30’ s.t. Motta), Pirlo,
Marchisio, De Sciglio; Balotelli (dal 1’ s.t. Parolo),
Immobile (dal 26’ s.t. Cassano). (Sirigu, Perin,
Paletta, Abate, Aquilani, De Rossi, Candreva, Cerci,
Insigne). All.: Prandelli. URUGUAY (3-4-1-2):
Muslera; Gimenez, Godin, Caceres; Gonzalez, Arevalo
Rios, Rodriguez (dal 33’ s.t. Ramirez), A. Pereira
(dal 18’ s.t. Stuani); Lodeiro (dal 1’ s.t. M.
Pereira); Suarez, Cavani. (Munoz, Silva, Lugano,
Coates, Fucile, Gargano, Perez, Forlan, Hernandez).
All.: Tabarez. ARBITRO: Rodriguez (Messico). |
Yes, con
SuperMario si vince
Inghilterra battuta
nell'esordio mondiale: l'Italia si prende i tre punti con un
colpo di testa di Balotelli dopo il botta e risposta
Marchisio-Sturridge. Buone le risposte di Sirigu e Darmian
MANAUS - Due lampi, uno di
Marchisio e l'altro di Balotelli, illuminano la notte amazzonica
rendendo brillante l'avvio dell'avventura mondiale per l'Italia.
Gli azzurri di Prandelli dunque battono ancora una volta
l'Inghilterra di Hodgson, che pure è stata capace nel primo
tempo di creare molte occasioni, anche al di là del gol del
momentaneo pareggio realizzato da Sturridge. Ma la sostanza è
tutta nel 2-1 finale; e nella consapevolezza che il successo a
sorpresa ottenuto dalla Costa Rica sull'Uruguay cambia, oltre
che le gerarchie del girone, le prospettive: ora il 20 giugno a
Recife gli azzurri non sono chiamati a tutti i costi alla
vittoria, e questo psicologicamente aiuta.
In una serata in cui le
condizioni climatiche hanno inciso meno del previsto, positivo
comunque il responso sulle condizioni atletiche dell'Italia,
sicuramente migliori di quelle degli avversari che hanno chiuso
la gara con crampi e lingua di fuori. E positive anche le
considerazioni sulla prestazione di alcuni dei protagonisti:
oltre all'acclamato Balotelli, Darmian, Candreva, Marchisio e
Sirigu, che non ha fatto sentire la mancanza di Buffon.
Gli infortuni che hanno
costretto Prandelli a modificare in avvicinamento l'impianto
della squadra azzurra si erano susseguitI fino all'immediata
vigilia, con una distorsione alla caviglia sinistra per Buffon:
Prandelli l'ha sostituito con Sirigu, all'esordio mondiale come
pure Paletta chiamato a fare il centrale con slittamento sulla
sinistra di Chiellini. Il modulo è rimasto il 4-1-4-1 con i due
registi Pirlo e Verratti.
Hodgson ha risposto con la
consueta formazione votata alla propulsione e Sturridge punta
avanzata. La propensione all'accelerazione degli inglesi trovava
immediata dimostrazione al 3' in una ripartenza di Sterling
seguita da tiro sull'esterno delle rete. Due minuti dopo era
Welbeck a dare il battesimo dei brividi a Sirigu: destro potente
e ottima risposta in tuffo del portiere del Psg. All'8'
finalmente l'Italia si faceva vedere dalle parti di Hart, ma un
fraseggio Pirlo-Verratti veniva interrotto in area col braccio
da Johnson: inutili le proteste italiane.
In una gara bloccata, con
spazi ristrettissimi, a fare la differenza poteva essere il tiro
da lontano: saggiamente ci provava al 19' Candreva, impegnando
per la prima volta Hart che parava in due tempi. E al 23'
toccava a Balotelli, finalmente vivo: gran destro alto. Ma al
24' arrivava una enorme opportunità per gli inglesi. Welbeck
metteva in croce sulla destra Paletta e appoggiava al centro,
dove miracolosamente Barzagli anticipava Sterling, pronto
calciare a colpo sicuro. La prima vera occasione azzurra
arrivava quando a De Rossi riusciva la verticalizzazione per
Darmian, pronto a rimettere al volo al centro: Balotelli colpiva
fiacco di testa.
Poi, al 35' l'Italia
passava: angolo di Candreva dalla destra, velo di Pirlo e gran
rasoterra di Marchisio a filo del palo. Neanche il tempo di
esultare e l'Inghilterra pareggiava: fuga di Rooney sulla
sinistra e cross: difesa azzurra tagliata fuori e Sturridge con
gran controllo metteva dentro. Il recupero regalava due emozioni
azzurre con un pallonetto di Balotelli che impegnava Cahill al
salvataggio sulla linea e soprattutto una gran botta di Candreva
che colpiva il palo a portiere battuto.
Nella ripresa ancora
Sturridge impegnava Sirigu in avvio, ma Candreva trovava la
giocata illuminante e decisiva: dribbling e crss dalla destra,
colpo di testa vincente di Balotelli per il 2-1. Tornava ad
alzarsi il Popoporopo, simbolo di ben altri successi ma comunque
beneaugurante. Una botta di Rooney non sortiva effetti, il
solito Johnson sulla destra imperversava, ma ci pensava De Rossi
a mettere una pezza.
Prandelli immetteva
l'esperienza di Thiago Motta (fuori Verratti), Sturridge
continuava a creare problemi a Paletta senza trovare il ko. Che
sfuggiva anche a Rooney al 17', poco abile nel calciare da
ottima posizione. L'Inghilterra andava in difficoltà fisica e il
suo tentativo di recupero diventava sempre più flebile, ma
Prandelli inseriva energia verde con Immobile al post di
Balotelli e Parolo per Candreva. Una punizione di Baines veniva
neutralizzata con casse da Sirigu, un'altra di Gerrard finiva
alta. Piuttosto Pirlo colpiva una traversa, sempre su calcio
piazzata: ma era comunque festa per l'Italia.
http://sport.lasiciliaweb.it/index.php?id=118313/calcio/yes-con-super-mario-si-vince&template=sport#sthash.TyJSN69k.dpuf
RECIFE (BRASILE)
-
Niente bacio dalla Regina. Piuttosto uno schiaffo
che fa male. Il bacio lo aveva annunciato Balotelli su
twitter in caso di vittoria contro la Costa Rica, lo
schiaffo lo dà capitan Ruiz che al 44', con un perfetto
colpo di testa, rende il pomeriggio azzurro
amarissimo. L'Italia, dunque, rimedia la prima sconfitta del
Mondiale in Brasile non riuscendo a rimontare nella ripresa
il gol subito in chiusura di primo tempo dall'imprevedibile
Ruiz. Prandelli le prova tutte per evitare il ko, ma gli
ingressi di Cassano, Insigne e Cerci, tutti all'esordio
Mondiale, non cambiano il risultato finale che mortifica
l'Italia e manda agli ottavi la Costa Rica. Chi lo avrebbe
mai detto? Per l'Italia, invece, sarà decisiva la partita
con l'Uruguay nella quale basterà un pareggio per superare
il turno come secondi (quasi impossibile arrivare primi). È
già fuori dal Mondiale, invece, l'Inghilterra che dopo il ko
con l'Uruguay poteva sperare solo con un successo azzurro.
LE FORMAZIONI - Prandelli in avvio ritrova
Buffon con Abate (all'esordio) e Darmian esterni in difesa.
Motta invece prende il posto di Verratti a centrocampo.
Dunque, rispetto all'Inghilterra fuori Sirigu, Verratti e
Paletta. Confermati tutti gli altri. Per il ct Jorge Luis
Pinto nessuna novità e undici annunciato alla vigilia che
non presenta sorprese: 5-4-1 con Campbell pericolo numero 1
in attacco.
COSTA RICA AVANTI - Nei primi minuti le
squadre sono molto chiuse con la Costa Rica pronta a
ripartire in contropiede e Italia che cerca di fare, senza
riuscirci, la partita. Bisogna aspettare 7' per vedere la
prima occasione da gol ed è la nazionale centro-americana a
finire sul tabellino: gli azzurri perdono il pallone a
centrocampo, Bolanos imbecca perfettamente Tejeda in
profondità che però viene chiuso ottimamente da Barzagli in
corner. Sugli sviluppi è Borges ad impattare di testa ma la
conclusione finisce alta sopra la traversa. Il problema
dell'Italia in questo avvio è la costruzione del gioco,
lento e prevedibile, anche complicato dall'asfissiante
pressing della Costa Rica che non lascia spazio agli azzurri
di manovrare in serenità. Al 16' poi, sugli sviluppi di un
corner, Buffon deve liberare con i pugni l'area di rigore.
Non è una vera e propria palla gol per la Costa Rica ma è
comunque il segnale che conferma le grandi difficoltà
italiane in questo primo quarto d'ora. Problemi che si
protraggono per altri 10' quando, finalmente, al 27' si
materializza la prima occasione per l'Italia: lancio di
Pirlo per Balotelli che fa la sponda per Thiago Motta che
dai 20 metri prova la conclusione di destro verso la porta
di Navas ma il tiro è sbilenco e la palla finisce mestamente
sul fondo. Al 31' opportunità d'oro per l'Italia: ancora
Pirlo lancia di prima Balotelli che si invola verso la porta
avversaria ma arrivato da solo davanti a Navas tocca
malamente con l'interno destro spedendo la palla sul fondo.
Mani in faccia per Mario, disperazione sulla panchina
azzurra. Al 33' nuova occasione per l'Italia: sempre Pirlo
lancia per Balo, Thiago Motta fa la torre di testa e serve
il centravanti del Milan che dal limite dell'area prova la
conclusione di prima intenzione ma Navas blocca in due
tempi.
Due minuti, due
opportunità incredibili per l'Italia. La Costa Rica però non
ci sta e con Bolanos dai 30 metri va vicina al vantaggio, ma
Buffon è attento e respinge a lato con i pugni. Al 42' nuova
occasione per i centroamericani: Ruiz mette un pallone d'oro
al centro dell'area di rigore, Duarte impatta a colpo sicuro
ma l'incornata è sbilenca e finisce sopra la traversa. Passa
solo un minuto e gli azzurri rischiano ancora: Chiellini
perde il pallone a centrocampo, Campbell si invola verso
l'area contrastato da Barzagli, poi da dietro ritorna
l'altro centrale della Juve che stende il centravanti
avversario. L'arbitro Osses non fischia il rigore facendo
esplodere la protesta dei centro-americani. È solo il
preludio al gol però che arriva al 44': Diaz, lasciato
troppo solo sulla fascia, crossa perfettamente al centro
dell'area per Ruiz che anticipa Chiellini e beffa Buffon con
l'aiuto della traversa. La "goal line tecnology" conferma
solo quanto visto dal vivo: 1-0 e Italia alle corde.
SECONDO TEMPO SENZA EMOZIONI - Nella
ripresa Prandelli corre subito ai ripari: fuori Thiago Motta
e dentro Cassano per il debutto Mondiale a 32 anni. L'Italia
ha bisogno di imprevedibilità e l'arma "Fantantonio" va
proprio in questa direzione. Al 47', sugli sviluppi di un
corner, Balotelli viene steso in area di rigore ma l'arbitro
fa proseguire. Al 51' Italia di nuovo pericolosa: Darmian
prende palla sulla sinistra, si accentra e prova la grande
conclusione di Destro ma Navas salva deviando in angolo. Gli
azzurri sono più vivi, giocano più in velocità e sono più
imprevedibili sulla trequarti. Al 53' è Pirlo a tentare la
conclusione su punizione ma il tiro è troppo lento e Navas
può respingere a lato scongiurando il pericolo. Al 56' nuova
mossa di Prandelli: fuori Candreva e dentro Insigne, anche
lui al debutto Mondiale. L'Italia, almeno in questo avvio di
secondo tempo, si muove meglio sul campo ma la Costa Rica
non concede spazi alzando tantissimo la linea di difesa e
mettendo in fuorigioco gli azzurri in più di un'occasione.
FINALE
SENZA EMOZIONI - Purtroppo per l'Italia però
l'imprecisione è il minimo comune denominatore della partita
che con il passare dei minuti, complice la fretta di
recuperare, aumenta in maniera esponenziale. Al 67' primo
cambio anche per la Costa Rica che leva Tejeda per inserie
Cubero. Al 69' ultima sostituzione per Prandelli che getta
nella mischia Cerci (anche per lui prima volta al Mondiale)
al posto di un confuso Marchisio. L'Italia si ridisegna con
il 4-2-4 con Insigne e Cerci sulle fasce con Cassano
leggermente dietro rispetto a Balotelli. I cambi del ct
azzurro però restano senza seguito: non c'è inventiva, non
c'è velocità, non c'è intensità e quindi la Costa Rica
controlla in scioltezza. Al 74' il ct Luis Pinto ha gioco
facile e leva Campbell, ormai con il fiato corto, per
inserire Urena per dare maggiore freschezza all'attacco
centroamericano. L'Italia è stanchissima e non riesce più a
costruire palle gol degne di nota. All'81' ultimo cambio per
la Costa Rica, Ruiz per Brenes che serve solamente per
concedere la standing ovation al match winner, futuro eroe
nazionale. La Costa Rica poi, nei minuti finali, gestisce
bene il vantaggio e porta a casa tre punti che valgono la
qualificazione agli ottavi. Per l'Italia, invece, ci sarà
ancora da soffrire. Decisiva la sfida con l'Uruguay (basta
un pareggio). Ma questa volta non saranno ammessi cali di
concentrazione e soprattutto servirà un approccio alla
partita completamente diverso.
C’è una brezza leggera, non ci saranno più
di 25 gradi, giusto un pochino di umidità per ricordarci che
siamo in Brasile, ma a Natal, a differenza di Manaus e Recife,
le condizioni sono ideali per giocare a calcio. A parità di
tifoserie, gli uruguaiani prevalgono, ma, alla conta finale, il
volume è più alto per l’Italia, perché i brasiliani (sarà per il
Maracanazo? Per la vicinanza?Chissà…) tifano per noi. In campo,
le squadre sono quelle previste: Prandelli opta per il 3-5-2
modello Juve, con la difesa titolare bianconera, Pirlo direttore
d’orchestra e l’inedito Balotelli-Immobile. Che si specchiano
nei terribili Cavani-Suarez, supportati dal talentuoso Lodeiro e
da una rocciosa mediana a tre (Rodriguez-Arevalo-il laziale
Gonzalez). Si comincia subito. E Balotelli, dopo un contrasto
con il «bodyguard» Rios, sembra farsi male, falso allarme.
Ma
quando Verratti atterra Cavani e Barzagli butta giù Suarez, si
capisce immediatamente che non sarà partita di fioretto, come le
altre due precedenti, quasi senza ammoniti: in mezzo a tanti
falli ed entrate non oxfordiane, all’8’ Suarez impegna per la
prima volta Buffon, su punizione. Pirlo, che al momento sembra
godere di una buona libertà, ci prova alla stessa maniera poco
dopo, due volte. La prima invano, sulla seconda l’ex laziale
Muslera manda alto.
Ci sono comunque molti errori, da una
parte e dall’altra, passaggi fuori misura e inserimenti
sbagliati (l’ex interista Pereira sembra quello scarsino visto
ai tempi di San Siro). Insomma match molto contratto, sarà la
posta in palio. Per ora lo spettacolo infatti è più sugli
spalti, gli uruguaiani saltano come dei disperati e ogni tanto
si eleva per contro il grido «I-ta-lia, i-ta-lia». I
sudamericani giocano come se dovessero puntare al pari, tutti in
attesa dietro la linea di centrocampo, gli azzurri provano a
costruire, ma la manovra non ha esito. Balotelli lo percepisce,
viene a prendere la palla in mediana, prova a tirare appena può
ed è purtroppo molto nervoso: si fa ammonire infatti per
un’entrata alta (sulla nuca...) di Pereira. Sarebbe stato
squalificato, se l’Italia fosse passata. Attore protagonista in
negativo dunque, mentre alla mezz’ora Immobile perviene per la
prima volta sul tabellino, con una svirgolata alle stelle.
L’unico azzurro invece che sembra esserci
è Verratti che gioca, letteralmente, a tutto campo (pure
eccedendo in sicurezza con un tacco nella nostra tre quarti). A
rompere il noioso equilibrio, al 33’, Buffon: il portiere
azzurro ricorda di essere ancora uno dei migliori al mondo, a 36
anni, con due respinte da vicinissimo su Suarez e Lodeiro. Non
succede praticamente più niente, la palla scorre soprattutto
sulla nostra fascia
destra
dove Darmian incrocia prima Pereira e poi Suarez. Una sfida
nella sfida, dove, nella prima parte, non vince nessuno. Per il
resto, si annovera giusto un lampo del 9 uruguaiano, verso la
fine della prima parte. Poi basta, per una delle partite più
brutte viste fin qui in questo Mondiale altrimenti spettacolare.
Uno scarno 0-0 che premierebbe gli azzurri però.
Si riparte: Prandelli sostituisce
Balotelli con Parolo, mentre Tabarez tira fuori Lodeiro, un po’
inconsistente, e butta dentro l’altro Pereira, Maxi. La mediana
azzurra diventa più folta e il buon Verratti di oggi avanza a
fare la seconda punta (anche se in realtà continua a correre per
tutto il campo, come nel primo tempo). Lo spartito è quello
dell’inizio: di nuovo falli a go-go e gioco spezzettato, zero
occasioni da rete per il primo quarto d’ora. Con una situazione
dubbia, ma neanche tanto, di Bonucci su Cavani al 51’. Se
davanti si produce poco, la nuova difesa a tre finora convince.
Primo strepito al 59’: il mediano dell’Atletico Madrid «Cebolla»
Rodriguez si esercita in una percussione che finisce di poco a
lato.Poi, l’inaudito: Marchisio tocca involontariamente coi
tacchetti sul ginocchio Arevalo, chissà cosa vede l’arbitro e il
bianconero viene espulso con un rosso diretto.
Via l’amarezza, bisogna cambiare tutto.
Ora Verratti ritorna sulla linea dei centrocampisti, Immobile
rimane solo, l’Italia si chiude in difesa e l’Uruguay deve
iniziare a fare la partita. Dopo aver aspettato tanto, Tabarez
butta infatti dentro un’altra punta, Stuani, al posto di
Pereira. Sì, bisogna stringere i denti: infatti il cobra Suarez
si sveglia, al 65’, e Buffon fa un altro miracolo, deviando in
angolo il suo tocco d’esterno. Il pubblico di
casa empatizza con
le ingiustizie azzurre e riprende a sostenere l’Italia. Immobile
lo sente e al 70’ manda i primi squilli nell’area altrui. Ma la
sua partita dura ancora poco: in quest’Italia costretta
all’antica arte del catenaccio, Prandelli lo sostituisce con
Cassano, abbassando ancor più il baricentro. Figuriamoci quando
poi Verratti prende un pestone da Cavani ed entra Thiago Motta:
ci aspettano quindici minuti di assoluto coltello tra i denti.
Suarez il «cannibale» e quel morso a
Chiellini
Tabarez risponde buttando dentro un’altra
punta ancora, l’ex bolognese Gaston Ramirez per Rodriguez. E sì,
si gioca all’antica, quando una combinazione in contropiede
Pirlo-Cassano, mette quasi Parolo davanti alla porta. Poi
l’episodio più assurdo: Suarez morde Chiellini sulla spalla, ma
l’arbitro in questo caso non vede assolutamente nulla. Un attimo
dopo, l’Uruguay, senza aver fatto neanche poi troppa fatica,
segna.All’83’ Godin salta più in alto di tutti su angolo ed è
vantaggio Celeste. Pirlo prova a reagire su punizione poco dopo.
È fuori. Cassano tenta una combinazione con Thiago Motta, ma
finisce in out. Gli uruguaiani ora urlano come degli ossessi,
dagli spalti. Recupero: cinque, lunghissimi, minuti. Non succede
nulla, il Mondiale azzurro finisce qui. E pesa come un macigno
quell’espulsione ingiusta.
http://www.corriere.it/mondiali/2014/italia/notizie/marchisio-espulso-gol-godin-passa-l-uruguay-italia-furiosa-ba287e48-fbca-11e3-9def-b77a0fc0e6da.shtml
Terremoto ai vertici del calcio italiano.
Si dimettono sia il ct Cesare Prandelli sia il presidente della
Federcalcio, Giancarlo Abete. L’eliminazione della Nazionale al
primo turno dei Mondiali brasiliani provoca un’assunzione di
responsabilità da parte di entrambi.
Prandelli scandisce in conferenza stampa:
"Il progetto tecnico è di mia responsabilità, rassegno le mie
dimissioni. Quando un progetto tecnico
fallisce,
è giusto prendersi le responsabilità". Poi il ct si toglie un
sassolino dalla scarpa: "Ci siamo sentiti aggrediti, non ho mai
rubato i soldi. Non voglio sentirmi dire che rubo i soldi ai
contribuenti", dice Prandelli riferendosi al clima che avrebbe
accompagnato la Nazionale verso i Mondiali. Il ct ha firmato il
nuovo contratto, valido fino al 2016, prima della spedizione in
Brasile.
Abete convoca consiglio federale tra
venerdì e lunedì prossimi
Accanto a lui, Abete prende atto della
decisione del commissario tecnico: "Il ct Prandelli ha
rassegnato le dimissioni, io convocherò un Consiglio federale
tra venerdì e lunedì. Spero che Cesare ritiri le dimissioni,
penso che al di là del risultato che amareggia tutti, sia stato
fatto il possibile all'interno dei livelli di competitività del
nostro calcio. Il secondo posto agli Europei e alla Confederations, le brillanti qualificazioni non vanno
sottovalutate alla luce del risultato di oggi", dice il numero
uno del calcio italiano, prima di soffermarsi sulla propria
posizione. "Io andrò in consiglio federale presentando le mie
dimissioni irrevocabili. Avevo già preso questa decisione prima
dei Mondiali, a prescindere dal risultato. Lo faccio con grande
serenità, continuerò a fare politica sportiva”. -
di Nicola Iannello 25 giugno 2014
http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Terremoto-ai-vertici-del-calcio-italiano-Dimissioni-irrevocabili-per-Prandelli-e-Abete-2b646228-ff50-4e16-9465-55d68b44dcbc.html#sthash.cnDadyor.dpuf
“Tuo padre è tuo. Mia madre è tua. I miei
genitori sono tuoi… è mai possibile che è tutto tuo?!?!”. Una
sorta di ‘il sette e l’otto’ (involontario) in chiave Mondiale
in Brasile. Com’è possibile? La somiglianza tra Marcelo (esterno
del Real Madrid e della Seleçao) e Ficarra (attore e conduttore
di Striscia la Notizia) ha fatto il giro del Web e fatto
impazzire la Rete che s’è sbizzarrita a ironizzare sull’affinità
tra il calciatore e il popolare comico. Lui, Ficarra (alter ego
di Picone sul palcoscenico) sta allo scherzo e, ai microfoni di
Rai Radio2 ‘Un Giorno da Pecora Mundiao’, si cala nei panni del
difensore sudamericano protagonista dell’autogol che ha regalato
il momentaneo vantaggio alla Croazia.
“Diciamo che ultimamente circa un
milione e mezzo mi hanno detto che gli somiglio – ha ammesso -.
Ci hanno mandato foto e mail e anche a Striscia hanno mandato un
filmato a mia insaputa”. In effetti, la somiglianza è notevole…
“Non so perché, mio padre girava molto ma il motivo di questa
somiglianza lo ignoro”. Ma come si giustifica il Ficarra/Marcelo
per la clamorosa autorete? “Può capitare, non buttatemi la croce
addosso!”.
http://calcio.fanpage.it/mondiale-ficarra-sono-il-sosia-di-marcelo-del-brasile-video/#ixzz35dCm5coG
|