1930 1934 1938 1950 1954 1958 1962 1966 1970 1974
URUGUAY ITALIA ITALIA URUGUAY GERMANIA BRASILE BRASILE INGHILTERRA BRASILE GERMANIA

1978 1982 1986 1990 1994 1998 2002 2006 2010 2014
ARGENTINA ITALIA ARGENTINA GERMANIA BRASILE FRANCIA BRASILE ITALIA SPAGNA GERMANIA

 

 

 

 

 

 

 

 

NON QUALIFICATA ALLA FASE FINALE

 

ALCUNE PARTITE: 9-2-1930, Roma (AM) Italia-Svizzera 4-2 Reti: 17’ e 19’ A. Poretti, 22’ Magnozzi, 26’ Orsi, 37’ e 39’ Meazza Italia: Combi, V. Rosetta, Caligaris, Pitto, Ferraris IV, Castellazzi, Costantino, Giovanni Ferrari, Meazza, Magnozzi, Orsi. Ct: V. Pozzo. Svizzera: Pasche, Wernli, Ramseyer, Fässler, Spiller, De Lavallaz, Stelzer, Sturzenegger, A. Poretti, Grassi, E. Fink. Ct: commissione tecnica della Federazione. Arbitro: Gray (Inghilterra).

 

2-3-1930, Francoforte sul Meno (AM) Germania-Italia 0-2 Reti: 53’ Baloncieri, 75’ Meazza Germania: Stuhlfauth, Hagen, H. Weber, Knöpfle (Mantel), Leinberger, Heidkamp, E. Albrecht, Szepan, Pöttinger, Frank, L. Hoffman. Ct: O. Nerz. Italia: Combi, V. Rosetta, Caligaris, Barbieri, Ferraris IV, Pitto, Costantino, Baloncieri, Meazza, Magnozzi, Orsi. Ct: V. Pozzo. Arbitro: Ruoff (Svizzera).

 

6-4-1930, Amsterdam (AM) Olanda-Italia 1-1 Reti: 24’ Baloncieri, 63’ Van den Broek Olanda: Van den Meulen, Denis, Van Kol, Kools, De Wildt, Breitner, Landaal, W. Tap, De Kreek, Van den Broek, Van den Heijden. Ct: Glendenning. Italia: Combi, V. Rosetta, Caligaris, Colombari, Ferraris IV, Pitto, Costantino, Baloncieri, Meazza, Magnozzi, Orsi. Ct: V. Pozzo. Arbitro: Bauwens (Germania).

 

Le prima edizione della Coppa del Mondo colloca già nel ruolo delle protagoniste le squadre sudamericane che dimostrano di essere la scuola calcistica più evoluta del momento. La finale fra argentini e uruguagi non è che l'esatta ripetizione del duello olimpico di Amsterdam 1928Montevideo, circa 600.000 abitan­ti all'epoca, aveva preso il nome da una vicina collinetta battez­zata così da Magellano nel 1520. La città era nata due secoli più tardi come cittadella fortificata atta, ad evitare le infiltrazioni portoghesi dal Brasile. Capitale di una nazione di quasi due mi­lioni di abitanti, Montevideo raccoglieva quasi un terzo della popolazione ed era centro com­merciale di notevole importanza continentale dotata com'era di strutture portuali moderne per le industrie che in essa si tro­vavano.

La situazione politica, Jean Campisteguy presidente, era quella di un paese in crisi, dall'economia in larga parte con­dizionata dal «martedì nero» del­la borsa di New York dell'otto­bre del '29 e con il «socialismo di stato» imposto dal «Caudillo» Battle Ordonez nel 1911 che aveva meritato all'Uruguay l'ap­pellativo di «Svizzera del Sudamerica», incamminato verso il tramonto per la reazione della parte conservatrice del partito «Colorado».

 

Il «Campeonato Mundial de Futbol» impose una tregua al procedere della crisi e tutto il popolo della «Banda Oriental» diede mano ai preparativi, per dare la migliore imma­gine possibile della propria orga­nizzazione civile. Montevideo disponeva allora di due soli stadi presentabili e li­vello internazionale, ma certa­mente non adeguati ad accoglie­re le decine di migliaia di ap­passionati che avrebbero voluto assistere alle imprese della «ce­leste».

«Prociros» e «Parque Central» erano le canchas di Penarol e Nacional, due fra le massime esponenti societarie di Montevideo e proprio dalla in­sufficienza di questi impianti nac­que l'idea di quello che divenne poi l'Estadio Centenario costrui­to in cinque mesi a ritmo serra­to, con tre turni nelle 24 ore gra­zie a potenti riflettori che rende­vano possibile il lavoro notturno. Sarà pronto solamente il 18 lu­glio, giorno dell'inaugurazione e del debutto dell'Uruguay, le ul­time rifiniture messe in opera durante la notte precedente, in alcuni punti il cemento ancor fresco era stato graffiato con le più strane scritte: «El Tito ama a la Chonga»... «El Placo es loco» ...o interessati vaticini «Uruguay campeon»...

http://www.storiedicalcio.altervista.org/1930-1_Prologo.html

 

 

 https://www.mimmorapisarda.it/2024/261.jpg

 

 

 

 

CAMPIONE DEL MONDO

 

 

CTPozzo

 

P Cavanna · P Combi · P Masetti · D Allemandi · D Caligaris · D Monzeglio · D Rosetta · C Bertolini · C Castellazzi · C Ferrari · C Ferraris IV · C Meazza · C Monti · C Pizziolo · C Varglien I · A Arcari · A Borel · A Demaría · A Guaita · A Guarisi · A Orsi · A Schiavio ·

 

(colorata da Daniele Romano)

 

 

27-5-1934, Roma (MO) Italia-Stati Uniti 7-1 Reti: 18’ Schiavio, 20’ Orsi, 29’ Schiavio, 57’ Donelli, 63’ Giovanni Ferrari, 64’ Schiavio, 69’ Orsi, 90’ Meazza Italia: Combi, V. Rosetta, Allemandi, Pizziolo, L. Monti, Bertolini, Guarisi, Meazza, Schiavio, Giovanni Ferrari, Orsi. Ct: V. Pozzo. Stati Uniti: Hjulian, Czerkiewicz, Moorehouse, Pietras, Gonsalves, Florie, Ryan, Nilson, Donelli, Dick, McLean. Ct: Gadsby. Arbitro: Mercet (Svizzera).

31-5-1934, Firenze (MO) Italia-Spagna 1-1 d.t.s. Reti: 31’ L. Regueiro, 45’ Giovanni Ferrari Italia: Combi, Monzeglio, Allemandi, Pizziolo, L. Monti, Castellazzi, Guaita, Meazza, Schiavio, Giovanni Ferrari, Orsi. Ct: V. Pozzo. Spagna: Zamora, Ciriaco, Quincoces, Cilaurren, Muguerza, Fede, Lafuente, Iraragorri, Langara, L. Regueiro, Gorostiza. Ct: D.A. Garcia Salazar. Arbitro: Baert (Belgio).

1-6-1934, Firenze (MO) Italia-Spagna 1-0 Rete: 12’ Meazza Italia: Combi, Monzeglio, Allemandi, Ferraris IV, L. Monti, Bertolini, Guaita, Meazza, Borel II, Demaria, Orsi. Ct: V. Pozzo. Spagna: Nogues, Zabalo, Quincoces, Cilaurren, Muguerza, Lecue, Ventolra, L. Regueiro, Campanal, Chacho, Bosch. Ct: D.A. Garcia Salazar. Arbitro: Mercet (Svizzera).

3-6-1934, Milano (MO) Italia-Austria 1-0 Rete: 19’ Guaita Italia: Combi, Monzeglio, Allemandi, Ferraris IV, L. Monti, Bertolini, Guaita, Meazza, Schiavio, Giovanni Ferrari, Orsi. Ct: V. Pozzo. Austria: Platzer, Cisar, Sesta, Wagner, Smistik, Urbanek, Zischek, Bican, Sindelar, Schall, Viertl. Ct: H. Meisl. Arbitro: Eklind (Svezia).

 

Pubblico ora il primo di tre articoli a firma Matteo Bodei riguardanti le vittorie italiane ai Mondiali di calcio. Il primo appuntamento è con il Mondiale del 1934, diisputato nell'Italia fascista e vinto non senza polemiche arbitrali dagli azzurri di Vittorio Pozzo. Prima dell'inizio di Sudafrica 2010 le altre due puntate (1938 e 1982, mentre per il 2006 il ricordo è ancora troppo vivo per essere raccontato in un post). Ringrazio Matteo Bodei, come sempre documentato e bravissimo nell'intrecciare la parte sportiva e quella storico-politica.

La seconda edizione dei Mondiali di calcio, la manifestazione voluta e creata dal francese Jules Rimet, presidente della Fifa dal 1921 al 1955, verrà ricordata ai posteri per almeno tre motivi: fu la prima edizione svoltasi in Europa (dopo Uruguay 1930), fu la prima vittoria di una formazione europea e fu il trionfo assoluto del fascismo.

Benito Mussolini infatti aveva voluto fortemente ottenere un evento di risonanza planetaria come il Mondiale di calcio e l’ aveva fatto esclusivamente per due ragioni: dimostrare al resto del mondo la forza e la potenza organizzativa di una nazione come l’ Italia e aggregare le masse sotto un’ unica bandiera, ritenendo il football un utile strumento per favorire l’ unità nazionale.

Alla fase finale, svoltasi dal 27 maggio al 10 giugno, parteciparono 16 nazioni. 12 europee (Italia, Austria, Belgio, Cecoslovacchia, Francia, Germania, Olanda, Spagna, Romania, Svizzera, Svezia e Ungheria), 3 americane (Usa, Argentina e Brasile, l’ Uruguay campione in carica si rifiutò di partecipare per protesta) e una africana (l’ Egitto). Le otto città prescelte per ospitare le gare furono: Roma, Torino, Bologna, Firenze, Genova, Napoli, Milano e Trieste)

Il cammino degli azzurri, all’ inizio sfavillanti con il 7 a 1 rifilato ai malcapitati Usa (3 reti del bolognese Schiavio), però non fu così facile e venne accompagnato da un feroce alone di polemiche sugli arbitraggi favorevoli.

La squadra di Vittorio Pozzo comunque era una formazione composta da autentici fuoriclasse (come dimostreranno in seguito la vittoria alle Olimpiadi del ’36  e ai mondiali del ’38) in cui spiccava il blocco juventino (Combi, Monti, Bertolini, Orsi, Borel e Giovanni Ferrari), che aveva dominato il campionato nazionale per ben 5 anni consecutivi (record tuttora imbattuto e solo eguagliato dall’ Inter post calciopoli), e dove trovavano posto campioni del calibro del “biondino di Borgo Pio” cioè il mediano romano Attillio Ferraris, del “Balilla” Giuseppe Meazza, leggenda dell’ Inter a cui è stato addirittura intitolato lo stadio della cittadina lombarda, e del bolognese Angelo Schiavio (capocannoniere degli azzurri con quattro reti).

Dopo il facile successo sui malcapitati Stati Uniti, ben più arduo fu eliminare la Spagna nei quarti di finale. Gli iberici, che avevano sconfitto nel turno precedente il Brasile del grande Leonidas, il giocatore che aveva inventato il gesto tecnico della “bicicleta”, potevano vantarsi di schierare tra i pali uno dei portieri più famosi di tutti i tempi, quel Ricardo Zamora che nel 1929, in occasione di una partita tra le Furie Rosse e i maestri inglesi, giocò e contribuì indiscutibilmente alla vittoria, nonostante si fosse rotto lo sterno dopo pochi minuti. Il derby del Mediterraneo terminò sull’ 1 a 1 con gol del madridista Regueiro e pareggio irregolare (per un evidente carica su Zamora) del sabaudo Giovanni Ferrari (il giocatore con il record di scudetti vinti in carriera: 5 con la Juve, 2 con l’ Ambrosiana Inter e 1 col Bologna). Siccome non vigeva ancora la regola dei rigori l’ incontro si dovette ripetere e nel replay, giocato allo stadio comunale di Firenze, fu un gol di “Pepin” Meazza a regalare ai padroni di casa il pass per le semifinali.

Nel penultimo atto della manifestazione disputatosi a San Siro contro l’ Austria, e condito da aspre polemiche sull’ arbitraggio del fischietto svizzero Mercet da parte dell’ allenatore asburgico, fu un gol (irregolare) dell’ oriundo Enrique Guaita (che nel 1936 fuggi, dopo un viaggio-odissea, in Argentina per evitare una sua eventuale partecipazione alla Guerra di Eritrea) a portare gli azzurri alla tanto agognata finalissima contro la temibile Cecoslovacchia della Scarpa d’ Oro Oldrich Nejedly.

Nell’ atto conclusivo ,disputatosi allo stadio del Partito Nazionale Fascista di Roma davanti a cinquanta mila spettatori e alle più alte autorità del mondo politico italiano, la formazione del torinese Vittorio Pozzo  faticò tremendamente per avere ragione della temibile squadra dell’ est. Furono infatti i cecoslovacchi a passare in vantaggio per primi con un gol del giocatore dello Sparta Praga Antonin Puc e solo a nove minuti dal termine Raimundo Bibian Orsi (l’ oriundo con più presenze e reti con la maglia azzurra) detto “Mumo” regalò un pareggio ormai inaspettato. Nei tempi supplementari poi ci pensò Schiavio (alla sua ultima presenza con la Nazionale) che realizzò il gol che valse uno storico trionfo. Il primo di una lunga serie che speriamo non si interrompa a Sudafrica 2010.

Matteo Bodei

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GIAMPIERO COMBI. Nato a Torino, il 20 novembre 1902, milita esclusivamente nelle file della Juventus. Portiere di grande classe, Combi è una delle colonne della squadra che domina per tanti anni in Italia. Con i bianconeri vince cinque volte il Campionato d’Italia: nel 1926, nel 1931, nel 1932, nel 1933 e nel 1934, totalizzando 367 presenze. Forma con Rosetta e Caligaris il più famoso terzetto di difesa che sia mai esistito. Di media statura per quell’epoca (171 centimetri), muscolato in modo meraviglioso, ha una struttura fisica robustissima. È detto fusetta, che in dialetto piemontese significa lampo, petardo.

Al termine della stagione 1924-25: «Voleva quasi lasciare – racconta il fratello Maurizio – lui rappresentava la parte commerciale della nostra distilleria di liquori e doveva partire per l’America. Ne parlò alla Juventus e così diventò professionista. Ha avuto la prima macchina ed è diventato grandissimo. Io mi ero dato al canottaggio.

Mi attirava quella disciplina seria, e ho vinto due titoli italiani; ma mio fratello è stato un vero campionissimo. Ha giocato con tre costole incrinate, dopo una partita con il Modena; con la Cremonese ha giocato con la vertebra coccigea incrinata, stava appoggiato al palo e interveniva quando era necessario. Non voleva perdere il posto, si preoccupava sempre di perderlo.

Forse più si è bravi meno si è sicuri di esserlo. Ha giocato anche con l’itterizia, tutto fasciato, nel gran freddo; ha giocato con i polsi e le dita e la faccia scassati; ha giocato».

In un Juventus-Bologna, fa una parata incredibile: Angelo Schiavio, che è un fuoriclasse, un grandissimo campione e un gentiluomo, si presenta da solo davanti a lui. Lo stadio piomba in un silenzio angoscioso, allucinante; i due grandi campioni si guardano negli occhi e Schiavio, con una finta, indirizza la palla nell’angolo, alla sinistra di Combi, il quale intuisce il tiro e, con un gran balzo, respinge a pugni chiusi.

L’attaccante felsineo è di nuovo sul pallone e, senza aspettare un istante, tira ancora, esattamente nello stesso angolo di prima, dove Giampiero è rimasto ad aspettare la palla, per bloccarla comodamente. Combi, giocatore di rara intelligenza, aveva capito che Schiavio, vedendolo a terra nell’angolino sinistro, avrebbe creduto che si sarebbe buttato dall’altra parte, dove ogni altro giocatore al mondo, all’infuori di Schiavio, avrebbe indirizzato il pallone. E, contrapponendo l’astuzia all’astuzia, era rimasto fermo, sicuro della mossa dell’attaccante bolognese, il quale, non appena Combi si alzò da terra, corse subito a stringergli la mano.

 

(colorata da Daniele Romano)

 

Giocatore dotato di grande serietà e dirittura morale, è senza alcun dubbio uno dei migliori portieri che abbia prodotto il calcio italiano. Conclusa la sua vita di calciatore, Combi diventa dirigente. Il suo giudizio è competente e ponderato, fatto di tanto buon senso e tanta esperienza. Mai un apprezzamento azzardato, mai una valutazione che non fosse ben pensata. Nel consiglio direttivo della Juventus porta la sua saggezza, la sua onestà. Viene anche chiamato alla direzione della squadra nazionale con Busini e Beretta in un periodo agitato della vita calcistica.

La morte lo coglie nel 1956 mentre coopera con Umberto Agnelli a risollevare i destini della Juventus: anche grazie a lui e ai suoi preziosi servigi, la squadra bianconera rivedrà, in poco tempo, le stelle.

http://ilpalloneracconta.blogspot.it/2007/11/giampiero-combi.html

 

(colorata da Daniele Romano)

 

 

 

 

CAMPIONE DEL MONDO

 

CTPozzo

 

P Ceresoli · P Masetti · P Olivieri · D Foni · D Monzeglio · D Rava · C Andreolo · C Chizzo · C Donati · C Ferrari · C Genta · C Locatelli · C Meazza · C Olmi · C Perazzolo · C Serantoni · A Bertoni · A Biavati · A Colaussi · A Ferraris II · A Pasinati · A Piola 

 

 

5-6-1938, Marsiglia (MO) Italia-Norvegia 2-1 d.t.s Reti: 2’ Ferraris II, 83’ Brustad, 94’ Piola Italia: A. Olivieri, Monzeglio, Rava, Serantoni, Andreolo, Locatelli, Pasinati, Meazza, Piola, Giovanni Ferrari, Ferraris II. Ct: V. Pozzo. Norvegia: H. Johansen, Johannessen, Holmsen, Henriksen, Eriksen, Holmberg, Frantzen, Kvammen, Brynhildsen, Isaksen, Brustad. Ct: Halvorsen. Arbitro: Beranek (Germania).

12-6-1938, Parigi (MO) Italia-Francia 3-1 Reti: 9’ Colaussi, 10’ Heisserer, 52’ e 72’ Piola Italia: A. Olivieri, Foni, Rava, Serantoni, Andreolo, Locatelli, Biavati, Meazza, Piola, Ferrari G., Colaussi. Ct: V. Pozzo. Francia: Di Lorto, Cazenave, Mattler, Bastien, Jordan, Diagne, Aston, Heisserer, J. Nicolas, Delfour, Veinante. Ct: G. Barreau. Arbitro: Baert (Belgio).

16-6-1938, Marsiglia (MO) Italia-Brasile 2-1 Reti: 5’ Colaussi, 60’ Meazza rig., 87’ Romeu Pelliciari Italia: A. Olivieri, Foni, Rava, Serantoni, Andreolo, Locatelli, Biavati, Meazza, Piola, Giovanni Ferrari, Colaussi. Ct: V. Pozzo. Brasile: Walter, Domingos da Guia, Machado, Zezé Procopio, Martim Silveira, Alfonsinho, Lopes, Luisinho, Romeu Pelliciari, Peracio, Patesko. Ct: A. Pimenta. Arbitro: Baert (Belgio).

 

1938: la finale Premiata ditta del gol Biavati-Piola

I tre giorni di riposo nel sobborgo parigino di Saint Germain hanno giovato agli azzurri, che vanno in campo con grande concentrazione, assumendo subito il controllo del gioco. Si gioca di nuovo nel sobborgo parigino di Colombes, davanti a 50 mila persone.

Tra gli ungheresi manca il centromediano Turay, infortunatosi contro la Svezia, mentre Toldi è stato sostituito per motivi tattici con Vincze.

Colaussi porta sollecitamente in vantaggio l’Italia, su cross dal fondo di Biavati trasformato in assist da Piola. L’Ungheria pareggia nel giro di due minuti, su bellissima azione di Sarosi e conclusione di Titkos.

La bilancia del gioco, tuttavia, è assolutamente pendente dalla parte dell’Italia. Splendido il raddoppio di Piola: Biavati sfonda a sinistra, il suo cross rasoterra viene intercettato da Piola che tocca a Ferrari, allungo sulla destra per l’accorrente Andreolo, doppio dribbling e palla al centro per Piola che stoppa e infila all’incrocio dei pali.

Una ventina di minuti dopo un magnifico tiro a effetto di Colaussi, lanciato da Meazza, pare chiudere il conto. Nella ripresa, invece, dopo un palo di Biavati, Sarosi dal limite accorcia le distanze.

La Nazionale azzurra, però, è troppo superiore e Piola dopo dieci minuti trasforma l’ennesimo traversone del formidabile Biavati in un tiro nell’angolo che inchioda il portiere Szabo. E’ l’apoteosi: per la seconda volta consecutiva la Coppa del Mondo va all’Italia, applauditissima dal pubblico locale, conquistato dalla qualità del suo calcio.

 

 

 

 

 

Francia 1938: l’Italia in camicia nera vince il suo secondo mondiale

Valerio Benedetti - 13 giugno 2014.

Roma, 13 giu – Come abbiamo già potuto constatare qui sul Primato, l’80° anniversario della vittoria degli azzurri ai Mondiali di calcio del 1934 è purtroppo passato sotto silenzio. Eppure la materia si presentava assai interessante, sia perché in quell’occasione si consacrò definitivamente una delle nazionali più forti di tutti i tempi, sia perché allora si manifestò tutto lo spirito combattivo, generoso e audace dei calciatori italiani. Pensiamo solo alla finale contro la Cecoslovacchia, vinta dai padroni di casa all’ultimo respiro, giocando buona parte della partita praticamente in 10 a causa dell’infortunio di Angelo Schiavio (al tempo le sostituzioni non esistevano). Eppure, nonostante il dolore, il centravanti del Bologna restò stoicamente in campo, segnando addirittura la rete decisiva nel primo tempo supplementare, quella che passò alla storia come il «gol dello zoppo». Insomma, di cose da raccontare e da ricordare ce n’erano, ce n’erano eccome. Ma la presenza ingombrante di Mussolini sugli spalti deve aver frenato la penna e raffreddato gli animi anche dei più fervidi appassionati di calcio.

E se già il trionfo azzurro del ’34 si presenta come «politicamente scorretto», possiamo appena immaginare che cosa si avrebbe da dire o pensare del bis ai Mondiali francesi del ’38. Tanto più che la situazione politica del tempo si presentava ancor più incandescente: l’Italia, malgrado le sanzioni della Gran Bretagna e proprio della Francia, si era da poco conquistata il suo impero africano, il Wunderteam austriaco era stato assorbito dalla compagine tedesca così come l’Austria era stata annessa alla Germania nazionalsocialista, mentre la nazionale spagnola doveva dare forfait a causa dell’infuriare della sanguinosa guerra civile in cui, peraltro, italiani e francesi si affrontavano su opposte barricate. Quest’atmosfera politica particolarmente tesa, quindi, non poteva che avere ripercussioni anche sulla più importante kermesse calcistica del globo.

 

 

Partiamo per Marsiglia – racconterà in seguito l’allenatore –, dove ci attende la Norvegia. E qui piombiamo subito in piena tempesta. La partita viene avvolta immediatamente in uno sfondo polemico-politico. Nello stadio sono stati portati circa diecimila fuorusciti italiani, coll’intenzione e l’ordine di avversare al massimo la squadra azzurra. Il momento critico è quello del saluto: quando i giuocatori nostri alzeranno la mano per salutare alla moda fascista, deve scoppiare il finimondo. Io vengo avvisato di quanto ci attende. È una sfida diretta al nostro temperamento, al nostro carattere.

Come comandante so con precisione quale sia il mio, il nostro dovere.  Vado in campo colla squadra, ordinata alla militare, e mi pongo sulla destra. Al saluto, ci accoglie come previsto una bordata solenne ed assordante di fischi, di insulti e di improperi. Pare di essere in Italia tanto le espressioni a noi rivolte echeggiano nell’idioma e nei dialetti nostri. Ad un dato punto il gran fracasso accennò a diminuire, poi cessò. Ordinai l’attenti. Avevamo appena messo giù la mano, che la dimostrazione riprese violenta. Subito: «Squadra, attenti! Saluto». E tornammo ad alzare la mano, come per confermare che non avevamo paura.

La partita, nonostante le previsioni, non fu agevole e ci vollero i tempi supplementari per aver ragione degli scandinavi. In ogni caso l’Italia si qualifica ai quarti di finale, proprio contro i padroni di casa. A Parigi l’accoglienza è fredda e ostile, come c’era da aspettarsi, tanto che Pozzo dovette caricare i suoi col motto «contro tutto e contro tutti». A ulteriore dimostrazione della totale mancanza di timore, l’Italia si presenta contro i Bleus in maglia nera, alla fascista (l’azzurro invece fu in principio il colore di omaggio ai Savoia). La stampa francese, dal canto suo, non faceva che ripetere che l’Italia aveva trionfato nel ’34 grazie a favori arbitrali, perché quelli dovevano essere i «Mondiali di Mussolini». Insomma, stava ora ai transalpini ribaltare i ruoli e dar lezioni di calcio alla squadra campione del mondo, delle Olimpiadi (1936) e delle due ultime edizioni della Coppa Internazionale (1930 e 1935), antenata degli Europei. La partita, però, si sviluppa a senso unico: se la Francia tiene testa ai ragazzi di Pozzo nei primi minuti, soprattutto nella ripresa l’Italia si impossessa del gioco e schiaccia la retroguardia avversaria. Poi sale in cattedra Silvio Piola: doppietta e pratica archiviata. Finisce 3-1.

 In semifinale ci aspetta il Brasile, che viene dato per favorito. I verde-oro si erano addirittura permessi il lusso e l’arroganza di acquistare in anticipo i biglietti aerei per Parigi, dove si sarebbe disputata la finale. Il tecnico carioca inoltre, certissimo del successo, lascia riposare in panchina il fuoriclasse Leonidas, soprannominato il «diamante nero» nonché capocannoniere del torneo. Ma le cose non vanno per il verso giusto: la tattica «metodista» di Pozzo imbriglia i funamboli brasiliani, che non riescono a impensierire più di tanto la difesa italiana. Poi Colaussi porta in vantaggio gli azzurri, che poco dopo possono beneficiare di un calcio di rigore. Si appresta a battere Meazza, la stella della squadra. Ma, proprio al momento del tiro, gli si rompe l’elastico dei pantaloncini, e il capitano della nazionale rischia così di rimanere in mutande. Nonostante tutto, tenendosi con una mano i malconci calzoncini, il «Balilla» realizza il tiro dagli 11 metri. La rincorsa è goffa ma il risultato non cambia: 2-0. I verde-oro si riversano quindi in attacco, riuscendo nel finale ad accorciare le distanze, ma la vittoria arride all’Italia. Non manca neanche la «rosicata» finale dei brasiliani: pregati da Pozzo di cedere i biglietti aerei ai suoi giocatori, i carioca rifiutano stizziti, sicché gli azzurri dovranno raggiungere Parigi in un treno affollatissimo e con carenza di cuccette.

Era una squadra devastante, quella italiana del ’38, una vera corazzata. Guidata dal «tenente» Pozzo, l’alpino che allenava la squadra con stile militaresco (inventò lui i «ritiri»), illuminata dal genio e dalla tecnica sopraffina di Meazza, micidiale nelle ripartenze di Amedeo Biavati, ala destra famosa per il suo «doppio passo», e inesorabile nel centravanti Piola, l’attaccante più prolifico nella storia del calcio italiano. Proprio Piola e Meazza descrivono al meglio le due anime della nazionale. Se il piemontese Piola si distingueva infatti per rigore, frugalità e riservatezza, il milanese Meazza era invece un vero viveur, Don Giovanni di chiara fama e festaiolo impenitente. La bellezza di quell’Italia sta anche qui, in questi uomini dai caratteri così diversi che però, una volta in campo, combattevano e vincevano insieme, come un sol corpo. La creazione di un forte spirito di squadra, non a caso, fu la costante preoccupazione di Pozzo e, quindi, anche il suo successo. Il più grande ciclo del calcio italiano si fondava pertanto su questi irrinunciabili princìpi sportivi: agonismo, coralità, tenacia, generosità, disciplina e aiuto reciproco.

 Non può quindi sorprendere che la «squadra di Mussolini» abbia poi vinto anche la finale. A Parigi infatti, contro l’Ungheria, finisce 4-2. Ma il risultato non rende adeguato conto dello sviluppo della partita, che vide invece un predominio quasi assoluto degli azzurri. Il palleggio elegante della compagine magiara, antenato del tiqui-taca, viene infatti presto sopraffatto dalla mediana italiana. Il gol del 2-1 poi, che si può ancora ammirare in filmati d’epoca che girano su youtube, fu un vero capolavoro: fitta rete di passaggi nell’area avversaria e bordata conclusiva di Piola. E alla fine della partita, nonostante i pregiudizi politici, fu tutto lo stadio ad applaudire in piedi i campioni del mondo. Che vinsero contro tutto e contro tutti.

 Valerio Benedetti

 

 

 

 

 

 

 

 

Valentino Mazzola esordisce in nazionale quando milita ancora nel Venezia. Il 5 aprile 1942, a Marassi, contro la Croazia - stato fantoccio emerso dopo la dissoluzione del Regno -, che in realtà schiera l'XI del Građanski di Zagabria. Il match è di palese valore propagandistico. In ritiro a Chiavari, gli azzurri "si sono recati a visitare i feriti di guerra degenti in un ospedale della cittadina intrattenendosi a lungo amichevolmente con essi"; il loro spirito "è, come al solito, elevato" (Monsù Poss). Sul campo non hanno problemi, anche se si gioca tra vento e acquazzoni. "Mazzola ha stentato a trovare l'equilibrio in corsa sul terreno e, più ancora, a svincolarsi dalla guardia di cui era fatto oggetto. Alla distanza però è venuto fuori", e il suo ultimo quarto d'ora è stato "a spron battuto" (Eugenio Danese). Valentino è un campione, quando finirà la guerra diventerà il capitano, e giocherà in nazionale per tanti e tanti anni, pensano tutti coloro che hanno il tempo di pensare al football.

 http://eupallog-calendario.blogspot.it/2014/04/5-aprile.html

 

 

L'ITALIA DEL GRANDE TORINO

Un record. Mai prima di al­lora e mai più dopo alcuna altra rappresen­tativa azzurra si era e si sarebbe identifica­ta in una sola squadra. Nel 1933, ancora Ungheria-Italia, ma a Budapest, lo stesso commissario tecnico Pozzo era arrivato a schierare 9 juventini.

 Nel 1913 era stata la Pro Vercelli a fornire 9 uomini alla Nazio­nale. Altrettanti della Juventus sarebbero poi stati messi in campo da Bearzot nel Mondiale 1978; e avrebbero giocato 9 della Fiorentina nel 1957 e 9 dell’Inter nel 1966. Fu un primato inedito, quello del Toro-azzurro 1947, che contribuì a dare fama continentale ai ragazzi di Ferruccio Novo: sintetizzava la superiorità schiacciante di una squadra nel Paese che deteneva da 13 anni (1934) il titolo di campione del Mon­do. Ed è per questa prerogativa che oggi, anche all’estero, si ricorda la scomparsa del Grande Torino. Ma come si giunse a questo straordinario record? Per puro caso, si po­trebbe dire. E dunque vale la pena ricorda­re nei dettagli l’intera storia.

 Il Torino, lo sapete, è la squadra che do­mina il campionato italiano negli anni a ca­vallo della grande guerra. Sicché il vecchio CT Pozzo non trova di meglio, alla ripresa dell’attività internazionale, che ricostruire la Nazionale attorno al blocco granata: ne schiera sette (più Sentimenti IV, Parola, Biavati e Piola) contro la Svizzera nel 1945. Cercando altre soluzioni, nel 1946 a Mila­no contro l’Austria ne manda in campo “soltanto” cinque, accanto a cinque juventi­ni e a Biavati del Bologna (l’inventore del “passo doppio” che oggi pratica Ronaldo). Poiché la stampa critica lo scarso amalgama di quella Italia, nel 1947 Pozzo rompe gli indugi e in aprile contro la Svizzera sceglie 9 del Torino più gli juventini Sentimenti IV e Parola, lasciando a casa Rava, Biavati e Piola. Questa volta l’amalgama c’è, tant’è vero che gli elvetici vengono travolti per 5-2, con tripletta del debuttante Menti II.

 La critica però si fa ancora sentire, e questa volta per ragioni geopolitiche. Scrive il Guerino: “Diciannove squadre che pure partecipano alla vita del campionato han­no il diritto di sentirsi offese da un ‘esclu­sione aprioristica. E oltretutto la situazione diventa gravosa per il Torino che lavora nella domenica in cui gli altri riposano”. Due settimane dopo c’è il match con l’Ungheria, a Torino, un test decisivo per valutare l’effettiva consistenza dell’Italia. L’equivoco rimane. Per Pozzo l’Italia è la squadra granata: ci potranno essere alcune individualità migliori di alcuni torinisti ma per il vecchio alpino è il gruppo che conta. Altri sostengono che per valutare le risorse dell’Italia sarebbe bene presentare una Na­zionale a mosaico. Pozzo non sente ragione ed è intenzionato a far giocare i 9 torinisti più i soliti Sentimenti IV e Parola. E qui il caso ci mette lo zampino per far diventare “storica” quella partita con l’Ungheria.

 Carlo Parola, mediano centrale della Juve, è convocato per sabato 10 maggio a Glasgow, unico italiano del Resto del Con­tinente contro la Gran Bretagna. Parola è indeciso: in maglia azzurra non ha mai gio­cato a Torino, dove la domenica 11 è in pro­gramma la partita dell’Italia con l’Unghe­ria. E d’altra parte non può rinunciare a una convocazione europea. Con Pozzo si accor­da per un exploit inedito: il sabato gioca a Glasgow e la domenica a Torino. Parola parte per la Scozia assieme a Barassi, presi­dente della Federcalcio. L’accordo è che Pozzo li raggiungerà il sabato con un aereo militare, un S-74 a sei posti, preso a nolo per 400 mila lire, assisterà alla partita e su­bito dopo riporterà il giocatore juventino nel ritiro azzurro di Cuneo. Il cittì tiene molto a farsi vedere a Glasgow: la Fifa ha incaricato un gruppo di tecnici europei di costruire la formazione continentale, lui che ha vinto gli ultimi due Mondiali e un’Olimpiade e che inoltre è poliglotta non è nemmeno stato interpellato né invitato. Dunque vuole imporre la propria immagine a quelli della Fifa.

 Non se ne farà niente però, di quel viaggio: la Francia non conce­de alla nostra aeronautica militare l’autoriz­zazione a sorvolare il suo territorio per ri­torsione al fatto che pochi mesi prima a un aereo transalpino atterrato in emergenza in Basilicata era stato negato il rifornimento. Parola dunque gioca a Glasgow, perde 6-1 (ma sarà premiato quale protagonista del­l’incontro) e resterà lì ad aspettare invano Pozzo. Il quale, costretto a rinunciare al centrosostegno juventino, decide di far de­buttare in azzurro un altro torinista: Mario Rigamonti, 24 anni.

 Ed ecco l’Italia con 10 granata, il record assoluto: l’estraneo è Sen­timenti IV, lo juventino di Bomporto capa­ce di parare e tirare i rigori; gli altri sono, in rigoroso ordine numerico e divisi per repar­ti dal tradizionale punto e virgola: Ballarin, Maroso; Grezar, Rigamonti, Castigliano; Menti II, Loik, Gabetto, Mazzola, Ferraris II. Italia-Ungheria dell’11 maggio 1947 sarà in pratica Torino-Ujpest, in quanto an­che l’Ungheria ricorre a un “blocco”: schie­ra 9 giocatori della squadra campione na­zionale, uno dei due estranei è il giovane e promettente Puskas della Honved. Non sarà una bella partita: il “sistema” torinista e di Pozzo, vecchia maniera, stenta contro il “metodo” dei magiari che mettono in crisi i nostri con l’applicazione sistematica del fuorigioco. In più i granata-azzurri paiono avere le gambe pesanti e il cervello anneb­biato.

 Va in vantaggio l’Italia con Gabetto che, lanciato da Mazzola, scarta il portiere Toth e trascina la palla in rete andando poi a sbattere la testa contro un palo. Pareggia nella ripresa Szusza ma è ancora il “baro­ne” granata a portare in vantaggio l’Italia: fuga sulla destra di Castigliano, tiro sul palo, riprende Gabet­to, gol. Sei minuti dopo però Ballarin devia con una mano un pallone prove­niente dal corner: ri­gore per l’Ungheria, che Puskas trasfor­ma per il 2-2. Ci si avvia alla fine stan­camente, la gente sfolla già, quando c’è il gol della vitto­ria azzurra: da Maz­zola a Castigliano e a Loik libero sulla destra: tiro, la palla sbat­te alla base del palo di sinistra, rimbalza sul palo di destra, entra in rete, gol. È l’89’: gol della vittoria in “zona Cesarini”. Tu guarda le coincidenze! Questa espressione, Zona Cesarini, era stata coniata il 13 dicembre 1931, a Torino, di fronte Italia e Ungheria, stessa sequenza di gol e rete vincente all’89’ di Renato Cesarini, numero 8 come Loik. Che alla fine piange di gioia mentre la gente impreca alla brutta esibizione della Nazionale-Torino.

 Non saranno teneri con Pozzo, i giornali del giorno dopo. “Non bisogna insistere nel mettere il Torino in Nazionale, questo espe­rimento ha esaurito la sua funzione. Era sta­to preso il Torino perché squadra ma sono mancati i collegamenti e la precisione, il ri­sultato è frutto di prodezze individuali e non del collettivo“. Pozzo, che è anche gior­nalista, replica stizzito e ne fa solo una que­stione di condizione fisica. Scrive in un edi­toriale sul Calcio Illustrato: “L’undici az­zurro è stato l’ombra di quello che era sta­to 15 giorni fa a Firenze. Squadra nervosa, imprecisa, incapace di giocare con calma e serenità. Parecchi fra gli uomini che la compongono sì stanno avvicinando al limi­te delle loro possibilità fisiche”.

 Però Pozzo vorrà assecondare i critici. Contro l’Austria, in novembre chiamerà so­lo tre del Torino e l’Italia beccherà un me­morabile 5-1. Un mese dopo, avuta la sua soddisfazione, ne tornerà a chiamare 8 (fra questi, il debuttante portiere Bacigalupo) contro la Cecoslovacchia e vincerà per 3-1. E si continuerà a utilizzare il blocco grana­ta anche dopo l’allontanamento di Pozzo, avvenuto in seguito al 3-5 inflittoci dalla Danimarca alle Olimpiadi londinesi del 1948. Fino a Superga.

http://storiedicalcio.altervista.org/blog/italia_torino.html

 

1949 - LA NUOVA NAZIONALE DOPO LA SCOMPARSA DEL GRANDE TORINO A SUPERGA

 

 

 

 

ELIMINATA AL PRIMO TURNO

 

Ferruccio Novo

 

P Casari · P Moro · P Sentimenti IV · D Annovazzi · D Blason · D Fattori · D Furiassi · D Giovannini · C Magli · C Mari · C Parola · C Remondini · C Tognon · A Amadei · A Boniperti · A Campatelli · A Cappello · A Caprile · A Carapellese · A Lorenzi · A Muccinelli · A Pandolfini ·

 

25-6-1950, San Paolo (MO) Italia-Svezia 2-3 Reti: 7’ Carapellese, 25’ H. Jeppson, 33’ S. Andersson, 68’ H. Jeppson, 75’ Muccinelli. Italia: Sentimenti IV, A. Giovannini, Furiassi, Annovazzi, Parola, Magli, Muccinelli, Boniperti, Cappello IV, Campatelli, Carapellese. Ct: Commissione tecnica della Federazione. Svezia: K. Svensson, L. Sameulsson, E. Nilsson, S. Andersson, K. Nordahl, Gaerd, Sundqvist, Palmer, H. Jeppson, L. Skoglund, S. Nilsson. Ct: Kock; allenatore: Raynor. Arbitro: Lutz (Svizzera).

2-7-1950, San Paolo (MO) Italia-Paraguay 2-0 Reti: 12’ Carapellese, 62’ Pandolfini. Italia: G. Moro, Blason I, Furiassi, Fattori, Remondini, Mari, Muccinelli, Pandolfini, Amadei, Cappello IV, Carapellese. Ct: Commissione tecnica delle Federazione. Paraguay: Vargas, Gonzalito, Cespedes, Gavilan, Leguizamon, Cantero, Avalos, Lopez, Saguier, Flutas, Loepz, Unzaim. Ct: Solich. Arbitro: Ellis (Inghilterra).

 

 

LA TRAGEDIA DI UN POPOLO

Il Brasile che perde il titolo mondiale in casa nel 1950 è un esempio di psicodramma collettivo, che commuove addirittura il capitano dei vincitori, l'uruguaiano Obdulio Varela. NUNCA MAISIl 16 luglio 1950 più di duecentomila persone andarono a piedi verso lo stadio Maracanà convinti di assistere a una festa e si trovarono invece in mezzo alla tragedia. Ambulanze che facevano suonare le sirene nel caos generale, gente che si buttava dai palazzi impazzita di dolore, e un uomo, uno solo, che camminava per la strada, e aveva le lacrime agli occhi e che per annegare il dispiacere si prese una sbronza e cercò di dimenticare che era stato lui l'autore di tutto quel disastro, il motore della storia.

Quell'uomo si chiamava Obdulio Varela, era il capitano dell'Uruguay che aveva appena battuto il Brasile e conquistato a Rio de Janeiro, in casa del nemico, il titolo di campione del mondo di calcio. Per tutta la vita si portò dentro il rimorso: un popolo disperato per colpa sua. E non gl'importava che a Montevideo lo avessero eletto eroe nazionale, non gl'importava di essere il simbolo di un indimenticabile trionfo: lui, Varela, vedeva i bambini piangere e capì allora che cosa è la sconfitta.

Nunca mais, mai più, titolarono i giornali brasiliani il giorno dopo. Mai più un dolore simile, mai più una beffa tanto atroce. Loro che avevano appena inaugurato il Maracanà, il tempio del calcio, loro che avevano già organizzato le feste di celebrazione, loro che si credevano campioni del mondo per diritto divino, loro che con la tipica presunzione brasiliana non badavano agli avversari, loro che aspettavano il fischio finale dell' arbitro per urlare di gioia e mettere in scena un Carnevale fuori stagione, carri e ballerine già pronti, fiato alla musica, samba e caipirinha a volontà. Ma la storia che noi vorremmo scrivere diventa spesso prigioniera del destino, finisce imbrigliata in una tela da cui è impossibile uscire e non resta che piangere. Di rabbia e di delusione. Di disperazione, anche. Successe questo: il Brasile, favoritissimo alla vigilia, andò in vantaggio all'inizio del secondo tempo con Friaca, l'ala destra, e il Maracanà esplose. Sembrava l'inizio della disfatta per l'Uruguay: basti pensare che giocatori e tecnici della Celeste, prima di scendere in campo, avevano dichiarato che sarebbe stato un successo perdere con due gol di scarto. Vittime designate e rassegnate: almeno pareva così. D'altronde la nazionale brasiliana era da tutti considerata più forte, con un attacco atomico formato da Friaca, Zizinho, Ademir, Jair e Chico.

Lo stadio, dunque, ballava di passione al gol di Friaca. E in quel momento avvenne qualcosa di strano, qualcosa di cui nessuno si rese conto immediatamente. Anni dopo fu lo stesso protagonista, il capitano Varela, a raccontare la scena.«Presi il pallone dalla rete e camminai lentamente verso il centro del campo. Ci misi più di due minuti, sempre tenendo in mano il pallone, con i brasiliani che mi urlavano di tutto e volevano che facessi in fretta a ricominciare il gioco perché volevano seppellirci di gol. Quando arrivai a centrocampo protestai con l'arbitro per un presunto fuorigioco, chiamai un interprete per parlare con il direttore di gara che naturalmente convalidò la rete di Friaca, ma io intanto avevo guadagnato un altro po' di tempo, il furore dei brasiliani si era placato e in quell'istante capii che avremmo potuto vincere».

Varela guidò l'assalto. Pareggio di Schiaffino, Maracanà ammutolito. E poi, a dieci minuti dalla fine, il gol decisivo di Ghiggia, da posizione quasi impossibile. La tragedia si era consumata. Quando Obdulio Varela alzò al cielo la coppa Rimet, i brasiliani in lacrime uscivano dal campo. Lutto nazionale. A Montevideo pubblico e tifosi in delirio. Ma Varela era a Rio, non sentiva la vittoria, vedeva soltanto la sconfitta dei suoi avversari.Con il massaggiatore andò a fare un giro per i locali, lo riconobbero, ma non lo toccarono. Fu lui ad avvicinarsi a un tifoso brasiliano per consolarlo e per tutta risposta ricevette una birra e gli venne offerto di bere alla memoria della coppa del mondo che fu. Obdulio accettò, e quella notte si sentì con il cuore a pezzi.Anni dopo disse: «Se dovessi giocare di nuovo quella partita, mi segnerei un gol contro. L'unica cosa che abbiamo ottenuto vincendo il titolo è stato di far felici i dirigenti della Federazione uruguaiana che si fecero consegnare le medaglie d'oro e a noi giocatori ne diedero altre d'argento. Questo è stato il riconoscimento».

L'Uruguay si gloriò per il secondo mondiale conquistato (il primo fu quello del 1930), il Brasile dovette aspettare ancora otto anni per gioire, quando il bambino Pelè portò a casa dalla Svezia il trofeo (era il 1958). Da allora la Seleçao ha vinto cinque mondiali (nel 1958 in Svezia, nel 1962 in Cile, nel 1970 in Messico, nel 1994 negli Stati Uniti e nel 2002 in Corea/Giappone), ma la gioia per ogni conquista è sempre stata attenuata dal dolore per il successo mancato.Il 16 luglio 1950 resterà per sempre una data storica: quella della morte dell'illusione. Come disse Varela, «chi non c'era non potrà mai capire...».

Testo di Andrea Schianchi

http://www.storiedicalcio.altervista.org/brasile_1950_nunca_mais.html

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ELIMINATA AL PRIMO TURNO

 

 

Czeizler

 

1 Ghezzi · 2 Vincenzi · 3 Giacomazzi · 4 Neri · 5 Tognon · 6 Nesti · 7 Muccinelli · 8 Pandolfini · 9 Galli · 10 Cappello · 11 Lorenzi · 12 Viola · 13 Magnini · 14 Cervato · 15 Mari · 16 Ferrario · 17 Segato · 18 Pivatelli · 19 Boniperti · 20 Gratton · 21 Frignani · 22 Costagliola ·

 

17-6-1954, Losanna (MO) Svizzera-Italia 2-1 Reti: 18’ R. Ballaman, 44’ Boniperti, 78’ Hügi II Svizzera: Parlier, Neury, Bocquet, Kernen, Flückiger, Casali I, R. Ballaman, Vonlanthen II, Hügi II, E. Meier, Fatton. Ct: K. Rappan. Italia: Ghezzi, Vincenzi, Giacomazzi, M. Neri, Tognon, Nesti, Muccinelli, Boniperti, C. Galli, Pandolfini, Lorenzi. Ct: Commissione tecnica della Federazione. Arbitro: Viana (Brasile).

20-6-1954, Lugano (MO) Italia-Belgio 4-1 Reti: 41’ Pandolfini rig., 48’ C. Galli, 58’ Frignani, 78’ Lorenzi, 81’ Anoul Italia: Ghezzi, Magnini, Giacomazzi, M. Neri, Tognon, Nesti, Lorenzi, Pandolfini, C. Galli, Cappello IV, Frignani. Ct: Commissione tecnica della Federazione. Belgio: Gernaey, Dries, Van Brandt, Huysmans, Carré, Mees, Mermans, Anoul, Coppens, H. Van den Bosch, P. Van den Bosch. Ct: Comitato di selezione. Arbitro: Steiner (Austria).

23-6-1954, Basilea (MO) Svizzera-Italia 4-1 Reti: 14’ Hügi II, 48’ R. Ballaman, 67’ Nesti, 85’ Hügi II, 90’ Fatton Svizzera: Parlier, Neury, Bocquet, Kernen, Eggiman, Casali I, Antenen, Vonlanthen II, Hügi II, R. Ballaman, Fatton. Ct: K. Rappan. Italia: G. Viola, Magnini, Giacomazzi, Mari, Tognon, Nesti, Muccinelli, Pandolfini, Lorenzi, Segato, Frignani. Ct: Commissione tecnica della Federazione. Arbitro: Griffiths (Galles).

 

 

I mondiali del 1954 segnano l'avvento della televisione: per la prima volta milioni di persone possono seguire il torneo di calcio più prestigioso dalle proprie case. Inoltre l'evoluzione del calcio fa sì che in questa manifestazione si possano ammirare la classe e la tecnica degli ungheresi e la possanza fisica dei tedeschi. Sono queste le due linee guida del torneo: il calcio tecnico, che si rifà alla tradizione, contro il nuovo modo di intendere questo sport, portando in primo piano l'aspetto atletico su quello tecnico.

Ma è soprattutto il mezzo televisivo che rivoluzionerà il calcio: milioni di persone si innamoreranno, nel corso del torneo, di grandi campioni come Julinho, Schiaffino, Puskas e molti altri mostri sacri del pallone. Per quanto riguarda le squadre partecipanti, partiamo con la nostra nazionale: l'esperienza degli azzurri è delle più infelici, in quanto escono mestamente al primo turno dopo una doppia sconfitta con la Svizzera padrona di casa. Nel nostro girone si qualificano dunque Inghilterra e Svizzera, che vanno ad aggiungersi a Uruguay, Austria, Ungheria, Germania, Jugoslavia e Brasile. I grandi favoriti per la conquista della coppa Rimet sono proprio i maestri magiari: l'Ungheria guidata dal genio di Ferenc Puskas ha infatti strapazzato tutte le concorrenti del suo girone (Germania compresa). Ancora prima delle semifinali, l'Italia rientra in patria e viene accolta all'aeroporto da un fitto lancio di pomodori e verdure: la contestazione è aspra ma non violenta. Il torneo intanto procede, apparentemente senza grandi sorprese: l'Austria si sbarazza della Svizzera in una partita spettacolare (7-5), l'Uruguay batte l'Inghilterra (4-2), la Germania elimina la Jugoslavia (2-0) e l'Ungheria supera brillantemente l'esame Brasile (4-2). Le semifinali propongono due sfide particolari per motivi diversi: da una parte c'è lo scontro fra due squadre di cultura teutonica che praticano un calcio molto fisico, agonistico e ruvido. L'altra semifinale, invece, mette una contro l'altra la squadra campione del mondo uscente e la pretendente più accreditata: Ungheria-Uruguay.

Mentre la Germania infliggeva un secco 6-1 agli austriaci, le altre due semifinaliste davano vita a una partita intensa e spettacolare, che vedeva, alla fine, trionfare i magiari per 4 a 2. Il 4 luglio del 1954 a Berna si gioca la finale: il pubblico è per la stragrande maggioranza composto da tedeschi giunti dalla vicinissima Germania. Nel giro di otto minuti gli Ungheresi gelano il pubblico sugli spalti realizzando due reti (Puskas e Czibor, due dei migliori), ma i giocatori della Germania non si perdono d'animo: spostano Liebrich in marcatura asfissiante su Puskas, serrano i ranghi e macinano gioco. Dopo qualche minuto accorciano le distanze (Morlock), rianimando le speranze dei supporters sugli spalti. Al 18' la sfida è di nuovo in parità, grazie alla rete del tedesco Rahn. Nella ripresa la Germania ricomincia ad attaccare a testa bassa: Puskas viene azzoppato dai marcatori e, con il loro uomo migliore praticamente fermo in mezzo al campo, l'Ungheria perde morale e partita. E' ancora Rahn, a sei minuti dalla fine, a realizzare il goal decisivo. La partita termina sul punteggio di 3-2 e la coppa del mondo prende per la prima volta la via per la Germania. La formazione dell'Ungheria, pur non avendo conquistato il titolo, rimane quella più forte degli anni '50: solo l'invasione sovietica potè annientare questo team favoloso, che ha prodotto il miglior calcio del mondo e i calciatori più talentuosi.

 www.laziowiki.org

 

 

 

 

 

Un incontro Italia - Svizzera a Palermo negli anni Cinquanta

 

 

 

 

NON QUALIFICATA ALLA FASE FINALE

 

Dopo esser stata eliminata al primo turno sia in Brasile nel 1950 che in Svizzera quattro anni dopo, l'Italia fa ancora peggio venendo addirittura eliminata in sede di qualificazione mancando così l'appuntamento con i Mondiali svedesi del 1958.

L'impoverimento dei vivai e l'ossessiva fedeltà ad un modulo tattico poco propositivo come il "catenaccio", portano l'Italia sulla strada, da un punto di vista calcistico, di una profonda fase di transizione, acuita anche dall'audace e pure qui fallimentare utilizzo di un numero congruo di oriundi che invece di elevare il tasso tecnico della Nazionale ne ridimensionano il ruolo internazionale.

Inserita, come detto, nel Gruppo 8 di qualificazione con Portogallo e Irlanda del Nord, l'Italia, affidata ad Alfredo Foni, debutta il 25 aprile 1957 allo Stadio Olimpico di Roma, battendo con il minimo scarto proprio l'Irlanda del Nord, 1-0 con rete di Cervato dopo soli 3' di gioco che infila con un potente calcio di punizione. L'inizio è promettente solo dal punto di vista del risultato, perchè la qualità del gioco è scadente, se è vero che nel secondo tempo gli irlandesi colgono ben tre pali, e il limite tecnico viene confermato un mese dopo quando a Lisbona il Portogallo travolge gli azzurri con un pesante 3-0 firmato da Vasques, Teixeira e Matateu.

La riscossa degli azzurri non si lascia attendere e nel mese di dicembre, nella nebbia di Milano, l'Italia rende ai lusitani il 3-0, stavolta con Gratton sugli scudi con una doppietta e Pivatelli a chiudere il tabellino nei minuti finali. In virtù di questo successo l'Italia guida la classifica con quattro punti, contro i tre dello stesso Portogallo ormai eliminato, e i tre dell'Irlanda del Nord a cui la formazione di Foni deve rendere visita nell'ultima sfida del 15 gennaio 1958.

E qui succede il patatrac. All'Italia basterebbe un pari per garantirsi la qualificazione ai Mondiali di Svezia, come già accaduto nel match già andato in scena il 4 dicembre al Windsor Park di Belfast, chiuso sul 2-2 ma non omologato perchè a causa della nebbia non è giunto in tempo l'arbitro ungherese Istvan Zsolt e la gara è stato quindi diretta da un arbitro locale, un certo Tommy Mitchell. Ma nel "remake" le cose non funzionano, Foni (influenzato dalla stampa che lo etichetta come catenacciaro) schiera una squadra votata all'attacco pur essendo necessario solo un pareggio, con ben quattro oriundi, Ghiggia e Schiaffino campioni del mondo nel 1950 con l'Uruguay, l'argentino Montuori, stella della Fiorentina, ed il brasiliano Da Costa (alla sua unica presenza in maglia azzurra), ed il solo Pivatelli di nascita italiana. E così, dopo soli 28' l'Irlanda è avanti di due reti, segnate da McIlroy e Cush, gli azzurri accorciano le distanze con Da Costa che al 56' sfrutta un errore del mediocre portiere Uprichard ma il serrate finale produce solo una traversa scheggiata da Montuori, mentre Ghiggia, preso di mira dai difensori, viene cacciato dal campo per un fallo di reazione. Finisce 2-1 e l'Italia, per la prima volta perchè nel 1930 non aveva raccolto l'invito per il Mondiale in Uruguay, e come solo nel 2018 sotto la guida tecnica di Ventura, manca la kermesse iridata

 

 

ALCUNE PARTITE DELL'ANNO: 15-1-1958, Belfast (QM) Irlanda del Nord-Italia 2-1 Reti: 13’ McIlroy, 28’ Cush, 56’ Da Costa Irlanda del Nord: Uprichard, Cunningham, McMichael, D.

Blanchflower, J. Blanchflower, Peacock, Bingham, Cush, Simpson, McIlroy, McParland. Ct: P.D. Doherty. Italia: Bugatti, Vincenzi, Corradi, Invernizzi, R. Ferrario, Segato, Ghiggia, Schiaffino, Pivatelli, Montuori, Da Costa. Ct: Commissione tecnica della Federazione. Arbitro: Zsolt (Ungheria).

 

23-3-1958, Vienna (CI) Austria-Italia 3-2 Reti: 41’ Kozlicek II, 47’ Petris, 61’ Firmani, 79 Körner II, 82’ Buzek Austria: Schmied, Kollmann, Stotz, Swoboda, Hanappi, Koller, Kozlicek II, Hof, Buzek, Körner II, Hamerl. Ct: J. Argauer. Italia: Bugatti, Corradi, Garzena, Emoli, R. Ferrario, S. Moro, Montuori, Boniperti, Firmani, David, Petris. Ct: Commissione tecnica della Federazione. Arbitro: Versyp (Belgio).

 

9-11-1958, Parigi (AM) Francia-Italia 2-2 Reti: 15’ Vincent, 57’ e 65’ Nicolè, 84’ Fontaine Francia: Colonna, Kaelbel, Marche, Penverne, Jonquet, Lerond, Wisnieski, Douis, Fontaine, Deladérière, Vincent. Ct: P. Nicolas. Italia: L. Buffon, Corradi, B. Sarti, M. Bergamaschi, Cervato, Segato, Bean, Boniperti, Nicolè, C. Galli, Pascutti. Ct: Commissione tecnica della Federazione. Arbitro: Gardeazabal (Spagna).

 

 

Nasce la leggenda di Pelè

di MARIO GRASSO

Nel pieno dei mondiali svizzeri del 1954 venne scelta la Svezia quale paese ospitante per l’edizione del 1958. Due soli continenti rappresentati: l’Europa e l’America (sia meridionale che centro-settentrionale). Assenze pesanti furono quelle dell’Italia e dell’Uruguay, che non riuscirono a centrare la qualificazione. Esentate dalle qualificazioni la Svezia, paese ospitante, e la Germania Ovest, campione in carica. Grandi favorite per la vittoria finale erano: la Germania, forte del suo titolo da difendere; l’Inghilterra, che dopo due mondiali non proprio esaltanti cercava di dimostrare la sua forza; il Brasile, che vantava tra le sue file il temibilissimo bomber Altafini e una schiera di giovani campioni emergenti come Garrincha e Pelè; e la Svezia padrona di casa dei vari Liedholm, Hamrin, Gren e Skoglund. Tra le outsiders si segnalarono la Francia del goleador Fontaine e del genio Kopa e l’URSS, al suo primo mondiale ma che stava dando alla luce una generazione di calciatori molto promettenti. Notevolmente indebolita era invece l’Ungheria, ormai priva di molti campioni che sfiorarono l’impresa quattro anni prima.

Gli stadi della competizione furono molti: il Raasunda di Stoccolma; l’Ullevi di Goteborg; il Malmo Stadion di Malmo; l’Orjans Vall di Halmstad; l’Olympia di Helsingborg; l’Idrottsparken di Norrkoping; l’Arosvallen di Vasteras; l’Eyravallen di Orebro; il Tunavallen di Eskilstuna; lo Jerrnvallen di Sandviken; il Rimmersvallen di Uddevalla; e il Ryavallen di Boras.

 La formula era grossomodo la stessa di quattro anni prima, con la variante dell’eliminazione del divieto di scontro tra teste di serie. Le avversarie dello stesso girone si sarebbero tutte regolarmente affrontate tra loro. Confermata anche l’ipotesi di spareggio in caso di parità di punti. La gara inaugurale fu quella del Raasunda di Stoccolma tra Svezia e Messico, vinta 3-0 dagli svedesi padroni di casa.

 La Germania Ovest campione in carica vinse il suo girone, ma con un cammino tutt’altro che semplice. Vinta agevolmente la prima gara contro l’Argentina per 3-1, le due successive sfide riservarono qualche delusione ai tedeschi, costretti al pareggio in rimonta per 2-2 sia contro la Cecoslovacchia (da 0-2) sia contro l’Irlanda del Nord (da 1-2). Fortunatamente per i tedeschi, le avversarie si tolsero punti a vicenda, facendo sì che Irlanda del Nord e Cecoslovacchia giungessero a pari punti al secondo posto, per giocarsi la qualificazione allo spareggio, vinto nei supplementari per 2-1 dai nordirlandesi. – Nel Gruppo 2 andò bene la Francia, trascinata subito dalle reti di Fontaine, che in tre gare ne realizzò ben sei. Ad insidiare i francesi ci fu la Jugoslavia, che chiuse a pari punti con i “galletti”. – Sul velluto la Svezia padrona di casa, vincente 3-0 sul Messico e 2-1 sull’Ungheria. Proprio l’Ungheria per accedere ai quarti dovette vedersela col Galles nello spareggio. Spareggio a sorpresa vinto proprio dai gallesi per 2-1. – Il girone più equilibrato e interessante era il quarto con il Brasile, l’Inghilterra e l’URSS. La prima giornata fu tutta di marca brasiliana, con i verdeoro che annientarono l’Austria con un 3-0 grazie alla doppietta di Altafini; l’Inghilterra, invece, pareggiò in rimonta contro l’URSS per 2-2. L’Austria, squadra “materasso”, fu battuta poi anche dall’URSS per 2-0, mentre Brasile e Inghilterra non andarono oltre lo 0-0. Si arrivò all’ultimo turno con Brasile e URSS avanti di un punto sugli inglesi. Proprio l’Inghilterra non riuscì, però, a battere l’Austria, pareggiando 2-2. Fortunatamente per gli inglesi, il Brasile contro l’URSS si decise a schierare i suoi giovani talenti e vinse 2-0 con doppietta di Vavà, costringendo i sovietici allo spareggio contro l’Inghilterra. Spareggio comunque vinto per 1-0.

  Nei quarti chi ebbe vita più facile fu la Francia, che liquidò l’Irlanda del Nord con un 4-0 e con la solita doppietta di Fontaine. – Vittoria soffertissima, invece, per la Germania, che batté la Jugoslavia 1-0, capitalizzando al massimo il vantaggio maturato ad inizio gara con una rete di Rahn. – Molto equilibrata la sfida tra Svezia e URSS. L’equilibrio fu rotto nella ripresa, dove emerse la maggior voglia di vincere dei padroni di casa, che vinsero 2-0 con reti di Hamrin e Simonsson. – Il Galles provò a resistere al Brasile e le difese ressero per un’ora. Poi una perla del diciottenne Pelè permise al Brasile di passare in vantaggio e vincere 1-0.

 La semifinale tra la Svezia e la Germania fu tiratissima. Tedeschi in vantaggio con Schafer, pareggio quasi immediato di Skoglund. Poi crebbe la Svezia che, però, nonostante l’uomo in più non riuscì a segnare. Almeno fino all’81’, quando Gren finalmente riuscì a “scardinare il fortino”. Hamrin allo scadere fissò sul 3-1 il punteggio. Svezia in finale. – Grande attesa era anche per il Brasile di Pelè, Vavà, Didi e Garrincha, che doveva vedersela con la Francia di Fontaine e Kopa. Inizio-razzo del Brasile, avanti subito con Vavà. La Francia rispose quasi subito con Fontaine al 9’. Al 39’ il Brasile raccolse i frutti della sua elevata qualità di gioco, realizzando con Didi il nuovo vantaggio. Nella ripresa il genio Pelè stese da solo i francesi con una devastante tripletta, che rese inutile il gol di Piantoni. 5-2 finale per il Brasile, che otto anni dopo la “tragedia del Maracanà ” tornava a giocarsi il titolo mondiale.

 Teatro della finale fu lo stadio Raasunda di Stoccolma il giorno 29 giugno 1958. Il Brasile, decisamente la squadra migliore vista in tutto il torneo, se la vedeva contro una Svezia carica e decisa a tentare l’impresa davanti al proprio pubblico. E l’inizio fu decisamente più favorevole ai padroni di casa, che dopo soli 4’ passarono con un tiro dal limite dell’area di Liedholm. Il Brasile allora iniziò a macinare gioco come al solito e scatenò Garrincha. La terribile ala fece impazzire la difesa svedese e collezionò per Vavà due assist “fotocopia”. In entrambi i casi azione travolgente di Garrincha sulla fascia destra e cross in mezzo per la spaccata di Vavà. 2-1 per il Brasile a fine primo tempo. Nella ripresa le intenzioni svedesi vennero drasticamente ridimensionate da una grandissima rete di Pelè. Al 68’ la rete di Zagallo chiuse definitivamente i giochi. Solo per la cronaca si segnalarono la rete “della bandiera” di Simonsson all’80’ e un altro splendido pallonetto di testa di Pelè all’ultimo minuto, per il 5-2 finale in favore dei brasiliani. Dopo una lunga attesa anche il popolo brasiliano poté festeggiare la vittoria di un mondiale, vinto in modo strameritato e con una squadra tra le più forti della storia del calcio.

http://www.frickfoot.it/2014/01/mundial-story-svezia-1958-nasce-la-leggenda-di-pele/

 

 

 

 

 

 

 

 

ELIMINATA AL PRIMO TURNO

 

 

Ferrari - Mazza

 

1 Buffon · 2 Losi · 3 Radice · 4 Salvadore · 5 Maldini · 6 Trapattoni · 7 Mora · 8 Maschio · 9 Altafini · 10 Sívori · 11 Menichelli · 12 Mattrel · 13 Albertosi · 14 Rivera · 15 Sormani · 16 Robotti · 17 Pascutti · 18 David · 19 Janich · 20 Tumburus · 21 Ferrini · 22 Bulgarelli ·

 

31-5-1962, Santiago del Cile (MO) Italia-Germania-Ovest 0-0 Italia: L. Buffon, Losi, Robotti, Salvadore, C. Maldini, Radice, Ferrini, Rivera, Altafini, Sivori, Menichelli. Ct: P. Mazza-G. Ferrari. Germania Ovest: Fahrian, Novak, Scnellinger, Schulz, Erhardt, Szymaniak, Sturm, Haller, Seeler, H. Schäfer, Brülls. Ct: S. Herberger. Arbitro: Davidson (Scozia).

2-6-1962, Santiago del Cile (MO) Cile-Italia 2-0 Reti: 74’ Ramirez, 88’ Toro Cile: Escuti, Eizaguirre, Navarro, Contreras, R. Sanchez, Rojas, Ramirez, Toro, Landa, Fouilleux, L. Sanchez. Ct: Riera. Italia: Mattrel, David, Robotti, Tumburus, Janich, Salvadore, Mora, Maschio, Altafini, Ferrini, Menichelli. Ct: P. Mazza-G. Ferrari. Arbitro: Aston (Inghilterra).

7-6-1962, Santiago del Cile (MO) Italia-Svizzera 3-0 Reti: 2’ Mora, 65’ e 67’ Bulgarelli Italia: L. Buffon, Losi, Robotti, Salvadore, C. Maldini, Radice, Mora, Bulgarelli, Sormani, Sivori, Pascutti. Ct: P. Mazza-G. Ferrari. Svizzera: Elsener, Tacchella, H. Schneiter, Grobéty, E. Meier, H. Weber, Antenen, Vonlanthen II, Wütrich, A. Allemann, Dürr. Ct: K. Rappan. Arbitro: Latiscev (Urss).

 

 

La battaglia di Santiago.

 

 Un libro di Facchinetti ricostruisce Italia-Cile dei mondiali 1962 ospitati dal Paese sudamericano. Una rissa di 90 minuti malissimo gestiti dall'arbitro inglese Aston

Andrea Cuomo - Dom, 03/06/2012 - 17:38

Cinquant'anni fa l'Italia del calcio aveva già perso la sua innocenza. Lo aveva fatto nel corso di una partita giocata agli antipodi, una partita sconvolgente per la violenza e l'intensità, che mise fine a un Mondiale maledetto, che riassume tutti dei vizi del pallone italico di allora e qualcuno di oggi (nel frattempo ce ne siamo assicurati tanti altri).

È il 2 giugno 1962. L'Italia allenata dal duo Giovanni Ferrari-Paolo Mazza, affronta la seconda partita del girone eliminatorio dei Mondiali di Cile, dopo aver pareggiato 0-0 la prima contro la Germania Ovest. È un'Italia ambiziosa ma isterica quella giunta in Sudamerica. Femmina, direbbe Gianni Brera, che in questa vicenda avrà parte non secondaria. Secondo alcuni tecnici una squadra che potrebbe vedersela con il Brasile di Pelè. Una squadra con quattro oriundi, sudamericani naturalizzati spesso in modo disinvolto per arricchire la scuderia azzurra, anche se a molti questo escamotage fa storcere gli occhi: dei 22 convocati fanno infatti parte Omar Sivori, Humberto Maschio, Angel Benedicto Sormani e José Altafini, campione del mondo in carica per aver vinto il titolo con il Brasile nel 1958. A questi talenti capricciosi si aggiungono gli italiani: un giovane Gianni Rivera, e poi Mora, Salvadore, Bulgarelli, una schiera di futuri grandi allenatori (Trapattoni, Radice, Maldini senior), un portiere (di riserva) di nome Buffon - Lorenzo, prozio di Gianluigi.

Quel 2 giugno allo stadio Nacional, solo due giorni dopo aver giocato la dispendiosa partita contro i tedeschi, l'Italia affronta i padroni di casa. Ed è una partita maledettamente difficile. Non solo perché non è mai semplice affrontare chi gioca in casa. Ma anche perché i cileni ce l'hanno a morte con noi. Colpa di due giornalisti che nei giorni che hanno preceduto l'inizio del Mundial hanno mandato dal Cile in Italia delle corrispondenze ritenute offensive per il Paese sudamericano.

Articoli in cui l'assegnazione del mondiale di calcio al Cile viene raccontata come un'assurdità. «Un campionato del mondo a tredicimila chilometri di distanza è pura follia. Il Cile è piccolo, è povero, è fiero: ha accettato di organizzare questa edizione della Coppa Rimet, come Mussolini accettò di mandare la nostra aviazione a bombardare Londra. La capitale dispone di settecento posti letto. Il telefono non funziona. I tassì sono rari come i mariti fedeli. Un cablogramma per l'Europa costa un occhio della testa. Una lettera impiega cinque giorni», scrive il grande Antonio Ghirelli per il Corriere della Sera. «Denutrizione, prostituzione, analfabetismo, alcolismo, miseria, sotto questi aspetti il Cile è terribile e Santiago dolorosamente viva, e tanto viva da perdere persino le sue caratteristiche di città anonima», va oltre per La Nazione Corrado Pizzinelli, che ha anche l'aggravante di non essere un giornalista sportivo, ma un reporter indifferente al calcio che una volta scritti i suoi pezzi intinti nel veleno riparte per l'Italia prima del calcio d'inizio.

L'onta viene lavata sul campo. La partita è un'interminabile rissa considerata vergognosa dalla stampa internazionale. I cileni sono bravissimi ad approfittare dell'incapacità dell'arbitro inglese Kenneth Aston, grande innovatore - anni dopo inventerà i cartellini giallo e rosso - ma disabituato a simili scene. Lèonel Sanchez, talentuosa ala sinistra, distribuisce in egual misura dribbling ubriacanti e pugni devastanti. Uno colpisce Humberto Maschio nella rissa che segue all'espulsione di Giorgio Ferrini, punito per uno sciocco fallo di reazione su Landa dopo soli sette minuti di gioco. L'altro prende in pieno Mario David, difensore italiano, in uno scontro di gioco che l'arbitro ignora e che fa da preludio all'espulsione dell'italiano nel secondo round del match con Sanchez. Così alla fine del primo tempo l'Italia si ritrova con due uomini in meno, due pugni presi e tanta rabbia in corpo. Eppure gli azzurri reggono fino alla mezz'ora del secondo tempo, quando un'uscita sbagliata del portiere Mattrel provoca il gol di Jaime Ramirez. Poi Jorge Toro - che avrebbe giocato nella Sampdoria e nel Modena - con una fiondata realizza il 2-0 che chiude una delle pagine più vergognose del calcio mondiale.

L'Italia è eliminata. A nulla servirà il 3-0 successivo alla Svizzera. Il Cile arriverà fino alle semifinali, dove sarà sconfitto dal grande Brasile (4-2), ma si aggiudicherà il terzo posto sconfiggendo la Jugoslavia 1-0 nella «finalina».

Gli azzurri torneranno a casa squassati dalle polemiche. Contro l'arbitro Aston. Contro i giocatori espulsi, fragili emotivamente e non solo: di Ferrini Brera scrive che «sciocco, sicuramente drogato oltre il lecito (...) esce piangendo: insisto, in anormali condizioni psichiche. Anzi psicoaminiche». Contro l'improbabile duo che conduce la nazionale (Mazza presidente della Spal e notorio talent-scout; Ferrari onesto tecnico federale asservito al carisma del primo), che secondo molti si faceva fare la formazione da un paio di influenti giornalisti (tra questi ancora Brera) e che aveva lasciato in tribuna nella partita decisiva Rivera, Bulgarelli, Losi e Sormani. Il quale avrebbe dovuto giocare, ma era stato scartato per la scenata di Altafini, che nel pranzo prima della partita si era messo a fare dei saltelli spavaldi per mostrare quanto fosse in forma, impressionando Mazza e Ferrari.

L'unica consolazione: gli italiani non vedono in diretta tanto scandalo. Le partite di quel mondiale antipodico e presatellitare vengono infatti trasmesse due giorni dopo, al termine di viaggio interminabile delle pizze. Quindi quella sera - in uno strano fenomeno di anacronismo catodico - il primo canale trasmette Italia-Germania e la radio Italia-Cile. E quando il 4 giugno andranno in onda le immagini dello scempio calcistico tutti conoscono già la trama e il nome dell'assassino.

http://www.ilgiornale.it/news/sport/battaglia-santiagoprima-vergogna-dellitalcalcio.html

 

 

David, espulso, esce dal campo accompagnato dalla Polizia cilena.

 

 

 

La Nazionale nel 1966, prima di partire per i Mondiali

 

ELIMINATA AL PRIMO TURNO

 

 

Edmondo Fabbri

 

1 Albertosi · 2 Anzolin · 3 Barison · 4 Bulgarelli · 5 Burgnich · 6 Facchetti · 7 Fogli · 8 Guarneri · 9 Janich · 10 Juliano · 11 Landini · 12 Leoncini · 13 Lodetti · 14 Mazzola · 15 Meroni · 16 Pascutti · 17 Perani · 18 Pizzaballa · 19 Rivera · 20 Rizzo · 21 Rosato · 22 Salvadore ·

 

13-7-1966, Sunderland (MO) Italia-Cile 2-0 Reti: 9’ A. Mazzola, 88’ Barison Italia: Albertosi, Burgnich, Facchetti, Rosato, Salvadore, Lodetti, Perani, Bulgarelli, A. Mazzola, Rivera, Barison. Ct: E. Fabbri. Cile: Olivares, Eyzaguirre, Villanueva, Cruz, Figueroa, Marcos, Araya, Prieto, Tobar, Fouilloux, L. Sanchez. Ct: L. Alamos. Arbitro: Dienst (Svizzera).

16-7-1966, Sunderland (MO) Urss-Italia 1-0 Rete: 57’ Cislenko Urss: Jascin, Ponomarev, Danilov, Khurtsilava, Scesternev, Voronin, Cislenko, Sabo, Baniscevski, Malofeev, Husainov. Ct: N. Morozov. Italia: Albertosi, Burgnich, Facchetti, Rosato, Salvadore, Leoncini, Meroni, Lodetti, A. Mazzola, Bulgarelli, Pascutti. Ct: E. Fabbri. Arbitro: Kreitlein (Germania Ovest).

19-7-1966, Middlesbrough (MO) Corea del Nord-Italia 1-0 Rete: 42’ Pak Doo Ik Corea del Nord: Li Chan Myung, Lim Zoong Sun, Sin Yung Kyoo, Ha Jung Won, Oh Yoon Kyung, Im Seung Hwi, Han Bong Zin, Pak Doo Ik, Pak Seung Zin, Kim Bong Hwan, Yang Sung Kook. Ct: Myung Rye Hyun. Italia: Albertosi, Landini I, Facchetti, Guarneri, Janich, Fogli, Perani, Bulgarelli, A. Mazzola, Rivera, Barison. Ct: E. Fabbri. Arbitro: Schwinte (Francia).

 

 

QUELL'ITALIA NON POTEVA ANDARE LONTANO (Gigi Riva)

Aggregato al gruppo degli azzurri nella sfortunata edizione inglese del 1966, Gigi Riva ricorda i fragili equilibri di quell'Italia di Fabbri che si sbriciolò contro la CoreaMondiali 1966RIVA: "quella nazionale non sarebbe andata lontano"«I coreani arrivavano in quattro, in cinque sul pallone: i nostri compagni erano inebetiti, impotenti, sgomenti. Finì come tutti sanno, col pubblico inglese pazzo di gioia e dì crudeltà. Io rimasi per qualche minuto incredulo sui gradoni: passò uno dei pochi tifosi italiani, un immigrato: era talmente arrabbiato che mi diede una bandierata sulla testa, come se fosse stata colpa mia. Ma la mia unica colpa era quella di non aver giocato: e non ero stato certo io a volerlo. Andai negli spogliatoi. Nel dramma, la farsa: si stavano già facendo ì piani di fuga per rientrare in Italia. Edmondo Fabbri voleva tornare da solo, di nascosto: ma non gli venne concesso».

E a Genova, la notte dopo, furono pomodori per tutti. Riva non aveva ancora compiuto 22 anni. Aveva già esordito in Nazionale, si capiva benissimo di che pasta fosse fatto: il Cagliari, grazie soprattutto ai suoi gol, era stato promosso dalla B un paio d'anni prima e stava per diventare una delle protagoniste del campionato italiano: come la Juventus, come l'Inter, come il Milan, le grandi e ricche squadre metropolitane. Il giovane campioncino di Leggiuno era ormai stabilmente nel giro azzurro, ma Fabbri - il Commissario Unico - non aveva avuto il coraggio di investire fino in fondo su di lui. «Era molto "innamorato" di Pascutti» ricorda Riva: «i maligni dicevano che lo preferisse anche perché aveva già in tasca un contratto col Bologna. Comunque sia, non mi convocò: ma mi propose, assieme a Bertini della Fiorentina, di andare ai Mondiali come "aggregato", al di fuori della lista ufficiale dei ventidue. In un primo tempo, deluso, rifiutai: mi sembrava un'esperienza frustrante che non mi avrebbe dato nulla. Poi mi si fece capire che non avevo possibilità di scelta: che in caso di rifiuto sarei stato squalificato».

Strano e assurdo Mondiale, quello del futuro mito azzurro. La Nazionale era in ritiro nella scuola di agricoltura di Durham: un grande edificio a due ali che si prestava benissimo alle divisioni "politiche" esplose in seno al gruppo. «In una delle ali dormivano i "potenti", quelli che facevano il bello e il cattivo tempo (Mazzola, Rivera, Bulgarelli, Albertosi, Pascutti...), quelli che Fabbri "subiva". Dall'altra parte c'erano, oltre a me e a Bertini, coloro che contavano poco o nulla. L'unica maniera che avevamo di sfogarci era quella di umiliare i nostri "rivali" in allenamento: le partitelle le vincevamo sempre noi della "seconda" Nazionale. E io segnavo, segnavo, segnavo: ero tanto informa, quanto imbestialito».

Edmondo Fabbri aveva iniziato bene la sua carriera azzurra: determinato, coerente, fortunato. Qualcuno aveva visto in lui il nuovo Vittorio Pozzo. Ma, nell'imminenza del Mondiale, fra pressioni giornalistiche e fissazioni personali (come l'antipatia verso Herrera e di conseguenza verso molti giocatori dell'Inter campione d'Italia) aveva perso la sua lucidità: aveva cominciato a vedere nemici dappertutto. Per l'Inghilterra c'eravamo comunque qualificati alla grande: le ultime amichevoli prima della trasferta erano state trionfali (in rapida sequenza: 6-1 con la Bulgaria, 1-0 con l'Austria, 3-0 con l'Argentina, 5-0 col Messico).

Molti, col Brasile ormai in declino, vedevano in noi e nei padroni di casa i favoriti. Assolutamente ininfluente nei pronostici era invece la presenza della Corea del Nord che si era qualificata per puro caso, approfittando nel magmatico girone austral-asiatico-africano, del ritiro di tutte le squadre di quest'ultimo Continente per protesta contro la mancata espulsione del Sudafrica razzista. I coreani conquistarono il loro primo Mondiale, fra il sarcasmo generale, battendo in campo neutro - nientemeno che a Phnom Penh in Cambogia! - la frastornata Nazionale australiana.

L'Italia aveva vinto senza entusiasmare la prima partita col Cile e perduto senza troppi demeriti quella successiva contro l'Unione Sovietica di Jashin e Cislenko (allegri dirimpettai del nostro tetro e militaresco ritiro: Jashin faceva addirittura abitualmente colazione con la moglie giornalista). Con la Corea sarebbe bastato un pareggio. E invece... Fabbri era talmente sicuro di fare un sol boccone di quelli che il suo osservatore Valcareggi aveva definito dei "Ridolini" che cambiò sette undicesimi della formazione precedente, intestardendosi però a confermare il suo pupillo Bulgarelli - giovane e purtroppo acciaccato capitano di quell'infelice partita - che dopo pochi minuti, colpito al ginocchio già infortunato, lasciò la squadra in dieci. Il resto fu storia: e non solo del calcio. «Nella tribuna dell'Ayresome Park di Middlesbrough ero seduto vicino a Burgnich. Eravamo spostati verso destra, quasi di fronte alla nostra area di rigore: avevamo un palo davanti, tipico dei vecchi stadi inglesi, ma il tiro di Pak Doo Ik lo vedemmo benissimo. Lo vedemmo partire e, purtroppo, lo vedemmo anche arrivare. Albertosi si protese inutilmente verso la sua destra. Pak Doo lk aveva aggirato Landini e aveva indovinato una sciabolata micidiale: Landini, curiosamente, aveva il numero 11. Il "mio" numero 11».

Erano le nove e venti di sera del 19 luglio 1966: c'era ancora luce, stava maturando il più famoso disastro della storia calcistica italiana. Da quel momento in poi la parola "Corea" non sarebbe più stata una definizione geografica, ma la maniera moderna per dire "Caporetto". Gigi Riva continuò ad assistere impotente al resto della partita: una partita stregata. «Al contrario di Mazzola e di Rivera che da lui vennero coccolati moltissimo» dice oggi Riva «non ho mai ritenuto Fabbri un grande Commissario Tecnico: tutt'al più un buon preparatore. Ma con me si comportò da galantuomo: il giorno dopo, benché distrutto, mi prese in disparte e mi chiese scusa. "Se avessi avuto il coraggio di farti giocare, ora non saremmo qui". E le stesse scuse me le ripeté qualche anno dopo quando, per uno strano caso della vita, diventò il mio allenatore al Cagliari. Ma ormai, a quel punto, i nostri rapporti di "forza" erano diventati molto, molto diversi».

Che cosa ti resta, Gigi, di quel Mondiale a distanza di tutti questi anni? «L'amarezza dì una grande occasione personale perduta. Ma "quella" Nazionale, credimi, non sarebbe andata comunque lontano: se avessimo passato il turno ci saremmo scontrati col Portogallo di Eusebio e credo proprio che il nostro Mondiale, viste le premesse, sarebbe finito li. Troppe divisioni, troppe incomprensioni, troppe inimicizie. Pensa che Corso e Bedin, praticamente, rifiutarono la convocazione pur di evitare convivenze sgradevoli».

E perché, visto quello che a te era stato imposto, non vennero squalificati per questo rifiuto? «Perché io ero del Cagliari, amico mio: mentre loro erano dell'Inter! Il mondo, credimi, non è mai cambiato».

 

http://www.storiedicalcio.altervista.org/mondiali_66_riva.html

 

 

 

 

«Io non sentii quella frase, ma so che venne detta. Alla vigilia immaginavamo lo schema, Barison era un metro e novanta, “ti mettiamo la palla sulla testa Paolo e poi ci pensi tu…”».

Beh, non andò proprio così…

«Convinto che fosse una passeggiata, Fabbri cambiò mezza squadra: lasciò fuori me, Burgnich, Rosato, Salvadore, Leoncini, Pascutti e mandò in campo Bulgarelli infortunato. Che si fece male subito, non c’erano le sostituzioni e restammo in dieci. Sbagliammo anche un paio di occasioni con Perani».

I coreani?

«Correvano come dei matti. Alla fine Rosato, Burgnich ed io non volevano nemmeno scendere negli spogliatoi. Nessuno dei dirigenti voleva tornare con noi, era come l’8 settembre.

Decisero di atterrare a Genova, sperando di evitare gli insulti, ma i tifosi lo seppero. Prendemmo fischi e pomodori».

E Fabbri?

«“Non credevo finisse così”. Fu l’unica cosa che disse. Ma vedeva complotti ovunque, così scrisse un memoriale affermando di essere stato boicottato, parlava di sostanze somministrateci per indebolirci. Con Salvadore, Rivera, Bulgarelli e Rosato ci trovammo a Milano Marittima, firmammo quel documento.

Ci faceva comodo: ma capimmo subito di aver fatto una scemenza».

Nel ’66 trionfò il calcio fisico.

«Solo in parte perché l’Inghilterra propose qualcosa di nuovo con due terzini, Wilson e Cohen, molto bravi ad attaccare».

Chi fu il miglior giocatore?

«L’inglese Bobby Charlton: dava sicurezza e personalità. Un incrocio tra Gullit e Rijkaard».

Eusebio: un aggettivo per lui?

«Felino. Un tipo alla Eto’o».

Che cosa guadagnò da quel mondiale?

«Una bicicletta dalla Valsport per aver usato le loro scarpe».

Chi si salvò di quella spedizione?

«Quelli che due anni dopo vinsero l’Europeo facendo dimenticare la Corea.

Perse solo Fabbri».

https://storiedicalcio.altervista.org/blog/1966-lodetti-la-corea-del-66-fu-tutta-colpa-di-fabbri.html

 

Russia Italia

 

L’onta del calcio italiano

Fu un Mondiale di incroci di destino quello del 1966 in Inghilterra, in casa degli inventori del calcio moderno e dei Beatles che spopolavano. Quegli anni Sessanta erano un germogliare continuo di novità, di ribellioni, di evoluzioni, dall’imposizione della cultura beat alle manifestazioni anti Vietnam. Segnavano anche la voglia di mondo dei Maestri inglesi del calcio che, dopo anni d’isolamento dovuti al loro superiority complex, avevano capito di non poter più restare arroccati al di qua della Manica: dovevano adeguarsi ai tempi ed aprirsi agli altri, se non volevano diventare solo un ricordo. Il calcio tornava a casa, il Brasile di Pelè dettava legge già da due edizioni mondiali, al riscatto era attesa l’Italia.

Reduci dal mondiale cileno che aveva avuto, per gli Azzurri, un epilogo pugilistico (Cile-Italia fu una delle partite più violente della storia), la squadra fu affidata alla guida tecnica di Edmondo Fabbri. La scelta sembrò felice e azzeccata per i tempi: il romagnolo aveva portato una ventata di novità con il Mantova, che aveva guidato addirittura dalla Serie D alla Serie A in cinque stagioni. Soprattutto il suo gioco sembrava avere, agli occhi del presidente della Federcalcio Giuseppe Pasquale, il giusto respiro europeo, in contrapposizione con quello catenacciaro, ma vincente, dell’Inter di Helenio Herrera e di un po’ tutto il movimento calcistico italiano. I risultati iniziali dettero ragione al nuovo corso. Solo l’Unione Sovietica diede un dispiacere eliminando gli Azzurri dalla seconda edizione del Campionato Europeo (1964 in Spagna), ma non contava: l’obiettivo erano i Campionati del Mondo in Terra d’Albione.

Ottenuta la qualificazione, il girone era tra i più abbordabili: per la squadra di Fabbri si presentava subito l’occasione di vendicarsi del Cile; c’era l’Urss di Lev Jašin, pronosticata per il superamento del turno insieme all’Italia; c’era la sconosciuta e misteriosa Corea del Nord. L’approccio a quel luglio inglese non fu tranquillo, a partire da quell’ «Adesso siamo in guerra!» pronunciato dal CT appena messo piede sul suolo inglese. Molto influirono negativamente pure le polemiche con i sostenitori del gioco “all’italiana” (tra cui anche Gianni Brera), ostracizzato, come detto, da Fabbri. Neanche la sede del ritiro, la Scuola dell’Agricoltura di Durham, con la sua tetraggine e quasi desolazione, aiutò a sciogliere le nubi che si andavano addensando sulle teste degli Azzurri.

Nel primo match (Sunderland, 13 luglio) l’Italia doveva vedersela proprio con il Cile, la squadra che l’aveva eliminata nel Mondiale precedente. Stavolta il tutto fu meno traumatico, la scontata vittoria italiana pervenne grazie alle reti di Sandro Mazzola e Paolo Barison, ma più di un dubbio sollevò la prestazione: il gioco espresso fu in realtà un “non gioco”, le già poche certezze di Fabbri si dispersero nella nebbia inglese.

La gara successiva, il 16 luglio, il CT rinnegò un po’ le sue idee: contro la tetragona, monocorde ma potente URSS decise di giocare una partita di attesa invece che di aggressione, con il risultato di perdere per una rete di Igor Čislenko al 57’. Nulla era perduto, tranne le convinzioni di Fabbri, che andò in totale confusione. L’ultimo avversario sulla strada di una “sicura” qualificazione erano gli “improponibili” giocatori della Corea del Nord, dai nomi a filastrocca e dalle fattezze di “Ridolini”, come ebbe a descriverli Ferruccio Valcareggi, allora assistente del CT. Un grave errore di sottovalutazione.

La Corea del Nord rappresentava una nazione che non c’era, un Paese non riconosciuto dall’Occidente, che ancora non si era ripreso dalla guerra civile che lo aveva devastato durante gli anni Cinquanta, lasciando un lungo, triste, elenco di quattro milioni di morti. Proprio questo era un punto di forza di quella squadra, l’orgoglio, lo stesso su cui aveva fatto leva il presidente coreano, Kim Il-sung, richiedendo almeno una vittoria. Soprattutto di questo non tenne conto lo staff azzurro, facendosi fuorviare dalla tecnica approssimativa e dalla tattica elementare degli avversari. Quel 19 luglio, a Middlesborough, “Mondino” cambiò ancora, ma l’errore più grave che fece fu quello di schierare Giacomo Bulgarelli con un ginocchio malandato, in un’epoca in cui non esistevano sostituzioni.

Pure, la partita non presentava difficoltà apparenti: quando alle 19,30 l’arbitro francese Pierre Schwinte fischiò l’inizio del match, subito Marino Perani ebbe una, due, tre occasioni, sprecandole per bravura del portiere Lee Chan-Myung o per errori di mira. Ogni occasione sembrava scandire l’avvicinamento a quel vantaggio che avrebbe liberato molti cuori oppressi. I minuti, però, passavano, e i coreani, che sembravano in balia degli Azzurri, iniziarono a dispiegare sul prato la loro velocità e una tecnica non certo da analfabeti della pelota. Con il lievitare del livello di prestazione degli asiatici, lentamente, inesorabilmente, l’Ayresome Park si trasformava in un catino di scherno per gli Azzurri, il prato in una palude mortale che ne avvinghiava le gambe, impedendone i movimenti.

Gli avversari, i coreani, i “Ridolini”, ingigantivano sovrastando per velocità, e anche gioco, gli spaesati uomini di Fabbri. Il vero crack avvenne al trentacinquesimo minuto, ed aveva il rumore del ginocchio di Bulgarelli che cedeva nel contrasto con un avversario, lasciando la sua squadra in dieci. Trascorsero altri sette minuti e al 42’, nel tramonto dei mari del Nord, tramontò anche l’Italia: la palla giunse a Pak Doo-Ik, che dal limite dell’area, leggermente decentrato a destra, incrociò un tiro verso la porta azzurra. Enrico Albertosi si protese verso il radente, ma più la sua mano sembrava avvicinarsi al pallone, più questo sembrava allontanarsi, fino a chiudere la sua corsa in fondo alla rete. Incredibile: un dentista (non lo era, fu una leggenda metropolitana a dargli quella qualifica) aveva segnato alla grande Italia!

La partita finì qui, l’impensabile si materializzò, il restante periodo di gara vide solo tanta confusione azzurra e tentativi frustrati da piccoli giocatori che erano diventati giganti. Il postpartita fu tipicamente italiano, tra accuse reciproche, risibili ipotesi di complotto, pomodori e ortaggi vari che accolsero la comitiva italiana al ritorno sul suolo patrio.

 Da quel 19 luglio inglese, nell’immaginario collettivo “Corea” divenne, ed è ancora, sinonimo di vergogna sportiva. Ma è anche vero che fu, forse, proprio in conseguenza di questa sconfitta che l’Italia calcistica poté finalmente rinnovarsi nel suo movimento, diventando, ci piace immaginarlo, il primo mattone su cui costruire le basi per successi immediati (Campione d’Europa 1968, Vice Campione del Mondo 1970) e futuri.

Raffaele Ciccarelli http://www.storiedisport.it/?p=3602

 

LA COREA DEL NORD. UNA VERGOGNA CHE ANCORA NON ABBIAMO DIGERITO.

 

 

 

1966 – Lodetti: «La Corea fu tutta colpa di Fabbri»

Davanti all’albergo di Middlesbrough i coreani avevano riprodotto esattamente le misure dell’Ayresome Park, il campo sul quale avrebbero giocato il girone di qualificazione. Contavano i passi, li mandavano a memoria. Saggezza orientale o lucida follia, fatto sta che ebbero ragione loro quando il 19 luglio 1966 ci spinsero in quella che, insieme con la Corea trapattoniana del 2002, rimane la tomba del calcio azzurro.

È il mondiale di Inghilterra. Oltre che per la nostra magra passerà alla storia per: il furto della coppa Rimet alla vigilia (fu ritrovata in un parco di Londra); l’ultima apparizione di Garrincha (marcato a uomo dalla ballerina di samba Elsa Soares); la comparsa di Eusebio, africano del Mozambico, lo chiamavano Ninguem da bambino (niente, nessuno), trascinò il Portogallo in semifinale; il «gol non gol» di Hurst in finale contro la Germania che spianò la strada all’Inghilterra campione del mondo: 4-2 per i Maestri. Pelè prese un sacco di botte dai bulgari, lui e il Brasile fuori al primo turno.

In tutto questo l’Italia fece da comparsa. Costruita con blocchi (quello del Bologna: Janich, Bulgarelli, Perani, Pascutti) e blocchetti (Inter e Milan), era allenata da Edmondo Fabbri, detto Topolino per la bassa statura, ala destra di Atalanta e Inter. Produceva Sangiovese, Fabbri. «Pareva un pretino arguto», scrisse Brera. L’ultimo mese premondiale fu una stella filante: 3-0 all’Argentina, 5-0 al Messico, 6-1 alla Bulgaria. Risultato: «Arrivammo svuotati». Lo dice Giovanni Lodetti, che in quella nazionale pedalava in mezzo al campo.

«Una volta in Inghilterra il giocattolo si era già rotto. Forse ci sentivamo troppo sicuri e sbagliammo la preparazione».

Era una nazionale divisa in clan?

«No, anche se quelli del Bologna erano i più legati a Fabbri. Prima di partire il ct fece fuori Picchi, “è troppo statico, tiene la difesa troppo arretrata” diceva del libero dell’Inter. Decise lui, ma Rivera ci mise una buona parola, Picchi non gli piaceva. E lì cominciò a rompersi qualcosa…».

In che senso?

«Il ct stava con Rivera, si alienò le simpatie degli interisti».

Fabbri: parliamone.

«Non era un uomo molto tenero, chiedeva disciplina. Più offensivo di Herrera, ricordava Trapattoni per le scaramanzie. Dopo una sconfitta, cambiava la strada per andare allo stadio».

Dove sbagliò?

«In Inghilterra perse la testa. La critica era feroce nei suoi confronti: Zanetti e Brera gli facevano arrivare la formazione, lui buttava i foglietti, ma andò in confusione».

In quella squadra c’era Gigi Meroni: l’ala granata sarebbe morta un anno dopo. Era così naïf anche in nazionale?

«Con la nazionale B era il Gigi di sempre, occhiali scuri e capelli lunghi. Con Fabbri modificò l’atteggiamento, il ct lo mise in riga. Vede, in quel gruppo mancava l’allegria».

Nemmeno il ritiro vi salvò?

«La federazione sbagliò la scelta: un college isolato a Durham. Ragazze? Ma se non venivano nemmeno i ragazzi…».

Chi era il leader di quella squadra?

«Il più ascoltato da Fabbri era Bulgarelli. Ma anche Salvadore aveva grande personalità».

L’esordio con il Cile: 2-0, gol di Mazzola e Barison. Vendicata la mattanza di Santiago del ’62

«Non giocammo benissimo, la pressione era esagerata e volevamo dimostrare che Fabbri aveva ragione».

L’Urss ci batté 1-0, c’era Jascin in porta.

«Eravamo già in fase calante. Jascin era massiccio, faceva paura. Assomigliava a Cudicini, ma fisicamente era più forte».

E siamo all’epilogo. Valcareggi, mandato da Fabbri a spiarli, definì i coreani, «una squadra di Ridolini». Fini 1-0, rete di Pak Doo Ik, presunto dentista.

 

 

 

Sull'orlo di una crisi di nervi.

Il ricordo della drammatica sconfìtta con la Corea nelle parole di Sandro Mazzola.

Davvero un dramma per l'Italia calcistica: uno choc per Edmondo Fabbri e gli azzurri. Cosa è successo veramente in quella sfortunata spedizione, quali sono stati i retroscena di un'avventura sicuramente irripetibile?

Mazzola, come si usa dire, vuota veramente il sacco, dice tutta la verità in proposito.

Dove cominciamo?

«Dal fatto che eravamo caricatissimi avendo stracciato in amichevole i bulgari, battuto l'Austria quindi Argentina e Messico. Però, tutto fu o quasi vanificato da una decisione di Fabbri: nel momento di ridurre da 26 a 22 gli azzurri, cancellò quelli della vecchia guardia interista, come Corso, Picchi, Bedin, Domenghini, creando una vera e propria frattura. Fu una sorpresa per molti di noi anche perché Corso e Domenghini sembravano punti fissi della squadra.

Ma non per Fabbri che cambiò le carte in tavola senza dare spiegazioni. Da quel momento iniziarono le ostilità con la stampa: veri e propri assalti al ct al punto che per la prima volta vennero indette le conferenze stampa ad ore ben precise. Non più libero accesso al nostro ritiro come avveniva in passato. A mezzogiorno, se non sbaglio, Fabbri parlava coi giornalisti ed erano discussioni a non finire. La nostra squadra era piuttosto giovane, anche abbastanza brava, ma tutte queste cose contribuivano a creare un clima nervoso, la tensione invece di aumentare si allentava e questo doveva suonare come un campanello d'allarme. Secondo i nostri programmi dovevamo battere il Cile, e infatti ci riuscimmo, poi potevamo anche perdere con la Russia e così avvenne... Tanto c'era la Corea».

 Ecco nascere i problemi per gli azzurri...

«Proprio così, perché gli orientali erano partiti molto male, incassando 3 gol con la Russia ma poi inaspettatamente avevano bloccato il Cile. Ci erano sembrati in netto progresso, non degli sprovveduti come affermavano i rapporti dei vari osservatori. Noi vivevamo in un posto molto isolato, finimmo per trovarci in un clima di paura, proprio perché eravamo giovani ed il rapporto Fabbri-giornalisti era in crescendo ma in senso negativo. Avevamo visto i nostri rivali in tv, scoprivamo improvvisamente che avremmo dovuto faticare per batterli. E poi ci fu quella strana sorpresa pre-partita quando vedemmo i coreani allenarsi».

 Cosa c'era di tanto sorprendente?

«Semplicemente cose da matti. Non ci crederete ma l'allenatore coreano aveva radunato tutti i suoi 22 giocatori in un gran gruppo, come quando nel rugby si getta il pallone per una mischia. Ebbene, quando la sfera finiva in mezzo ai coreani tutti e 22 si alzavano in una gran rovesciata, cercando di arrivare coi piedi a colpire il pallone. Ricadevano a terra sulla schiena e si rialzavano come se fossero fatti di gomma. Così per una decina di minuti poi il tecnico cambiò sistema: lanciava in alto un pallone e un giocatore cercava di colpirlo di testa mentre i suoi compagni si arrampicavano letteralmente su di lui per arrivare alla sfera. Ricordo che c'è una foto di Facchetti ritratto appunto mentre cerca di colpire di testa un pallone con a fianco una specie di piramide dei coreani. Tutti uguali, precisi e identici. Non riuscivo mai a capire quale fosse il mio avversario in campo, credevo che si alternassero, probabilmente era sempe lo stesso...».

Però l'Italia avrebbe potuto imporsi abbastanza tranquillamente: si crearono forse dei problemi che non esistevano?

«Effettivamente nel giro di pochi minuti ci trovammo con tre palle-gol, una più bella dell'altra e le sbagliammo tutte. I guai cominciarono quando si infortunò Bulgarelli: uscito lui, rimanemmo in dieci. Non si poteva sostituire un giocatore, e gli undici comuni si trasformarono in ventidue "robotini", correvano per il campo come matti, quando uno di noi aveva la palla si trovava puntualmente circondato da tre-quattro di loro. Altro che il pressing attuale, altro che l'Olanda di Cruyff o il... Milan di Sacchi! Perdemmo, non c'era scampo ma se dovessimo rigiocare cento volte quella partita, sicuramente ne vinceremmo novanta, pareggiandone 9 e perdendone una soltanto. Sono i casi della vita, a volte sembra impossibile che possa succedere una certa cosa, però succede».

Le cronache raccontano che Fabbri abbia sbagliato molte cose mandando in campo contro i russi una formazione molto tecnica, quando occorrevano i gladiatori, e viceversa coi coreani: troppa gente pesante, pochi i pesi leggeri da contrapporre agli orientali.

«Non sono d'accordo anche perché contro la Corea l'unico "pesante" era Barison. Certo, ci fosse stato Mariolino Corso, sarebbe stata un'altra cosa, ad ogni modo non era una formazione di gladiatori, avremmo potuto farcela benissimo in cinque minuti. Mettendo dentro due o tre gol avremmo liquidato i coreani, non avremmo creato la leggenda di Pak Doo Ik».

 Il dentista fasullo così celebrato per tanti anni quando non era affatto un dentista...

«Già, anche questo l'abbiamo scoperto poi, chissà com'è venuta fuori questa storia. Comunque il bello doveva ancora venire. Fabbri aveva talmente perso la testa che in pieno ritiro, disse: Qui si scioglie la Nazionale! Ma come, dovevamo tornare a casa per conto nostro? Le nostre proteste e quelle dei dirigenti federali servirono a fare cambiare idea al commissario tecnico: arrivammo assieme a Genova dove eravamo attesi da cinquecento tifosi infuriati. O così almeno lessi poi sui giornali. Io, Leoncini e Salvadore eravamo usciti da una porta secondaria sulla vecchia "Millecento" del padre di Salvadore: e non vedemmo praticamente nulla. La "Balilla " di Gigi Meroni, al quale i tifosi genovesi volevano bene, venne usata per distogliere l'attenzione della massa: buona parte delle persone presenti la seguirono da un'altra uscita e così Fabbri, Valcareggi e gli altri azzurri trovarono soltanto i "resti" del comitato di accoglienza...».


http://www.storiedicalcio.altervista.org/mondiali_1966_mazzola.html

 

 

 

Franco Janich - Corea marchio indelebile.

Franco Janich ha legato il suo nome alle due pagine più brutte del calcio italiano. Esordì in Nazionale ai mondiali del '62, nella drammatica partita contro il Cile; vestì la sua ultima maglia azzurra in Inghilterra nel 1966 contro la Corea. Era il pilastro della difesa del Bologna di Bernardini, campione d'Italia. Sfogliamo l'album dei ricordi...

- Cosa ha rappresentato per te la Corea del Nord? Un incubo?«Diciamo un trauma. Certe sconfitte sono traumatizzanti per tutti, non solo per l'allenatore. Edmondo Fabbri ce ne mise per rimettersi!».

- Tornando scioccato da Middlesbrough, si convinse di essere vittima di una congiura. Fece il giro d'Italia per ottenere le testimonianze di voi giocatori contro il dottor Fino Fini. Parlò di droga alla rovescia che faceva venire le gambe molli. Ci scappò anche la solita querela, finita poi all'italiana.- Si è parlato di un Fabbri suicida perché portò Gigi Riva in Inghilterra solo come turista.«Adesso si può dire tutto quello che si vuole. Ma dopo lo zero a zero di Parigi, tutti avevano consigliato a Fabbri di togliere Riva e di insistere su Pascutti. Il Riva che venne come turista in Inghilterra, non era ancora il Riva che fece il mattatore in Messico. Forse bisognava avere l'occhio lungo. Ma ricorderai che Herrera, che di calcio se ne intende, a Moratti per l'Inter aveva chiesto Pascutti, mentre aveva rifiutato Riva. Pascutti era un grosso giocatore, aveva spunti irresistibili, te lo posso assicurare io che ho avuto la fortuna di giocargli accanto».

- Per paura dei tifosi inferociti vi fecero rientrare in Italia di notte e, invece che a Milano, atterraste a Genova. Eppure all'aeroporto e' era tanta gente a lanciarvi pomodori. Cosa ricordi di quell'accoglienza?«Rammento che qualcosa in testa ci tirarono e non era certo frutta fresca. Ma io ero in trance anche perché ho una fifa maledetta dell'aereo, e così, un po' per la Corea un po' per l'aereo, mi ero scolato qualche cognac di troppo per farmi coraggio».

- Due quotidiani sportivi, il «Corriere dello Sport» e «Stadio» uscirono con lo stesso titolo a caratteri cubitali: «Vergogna!». Cosa provasti leggendo quel titolo?

«Ti devo confessare che scappai subito a Lignano e non lessi i giornali, non mi sembrava il caso... perché sapevo già tutto.  Ad ogni modo, se anche l'avessi letto, non  non sarei arrossito. Se si deve provare vergogna per una sconfitta,  allora poteva andar bene anche quel quel titolo. Ma secondo me uno deve provare vergogna solo se ha qualcosa da rimproverarsi. E noi tutti eravamo coscienti di aver fatto il nostro dovere. Quindi risultato a parte, non avevamo proprio nulla di cui rimproverarci. Ripeto: se non si fosse fatto male Bulgarelli avremmo vinto. Prima del suo infortunio avevamo già avuto tre quattro palle gol. Non c'erano dubbi sul risultato finale».

- Dopo la Corea, se ne andò Fabbri e Janich non venne più convocato.«Valcareggi mi aveva fatto sapere che mi teneva sempre in considerazione, ma io non mi ero fatto illusioni. Sapevo che, per la sconfitta con la Corea, a pagare sarebbero stati i meno dotati. Non mi sono mai ritenuto un giocatore eccezionale, anche se la mia carriera l'ho fatta (fu Bernardini a trasformarmi in libero, io mi sentivo più tagliato per fare lo stopper, per stare attaccato all'uomo, a morderlo, la mia arma migliore era la grinta). Era logico che fossi la prima vittima della Corea».

http://www.storiedicalcio.altervista.org/mondiali_66_janich.html

 

 

 

 

 

 

 

 

VICE CAMPIONE DEL MONDO

 

 

Ferruccio Valcareggi

 

1 Albertosi · 2 Burgnich · 3 Facchetti · 4 Poletti · 5 Cera · 6 Ferrante · 7 Niccolai · 8 Rosato · 9 Puia · 10 Bertini · 11 Riva · 12 Zoff · 13 Domenghini · 14 Rivera · 15 Mazzola · 16 De Sisti · 17 Vieri · 18 Juliano · 19 Gori · 20 Boninsegna · 21 Furino · 22 Prati ·

 

 

Dopo l’ultima amichevole premondiale, vinta contro il Portogallo a Lisbona per 2-1, il centravanti titolare Piero Anastasi si infortunò. Per sostituirlo Valcareggi ne chiamò due: Roberto Boninsegna e dell’Inter e Pierino Prati del Milan, il che stava a significare che uno dei 21 giocatori in ritiro era di troppo (all’epoca infatti si andava in 22). A saltare alla fine fu il milanista Giovanni Lodetti, al quale la Federazione propose di rimanere in Messico ed invitare la famiglia per una vacanza ad Acapulco. Lodetti, senza tanti giri di parole, li mandò a quel paese, fece le valige e se tornò a Milano. Rivera, di cui Lodetti era fedele scudiero in rossonero, prese il siluro del compagno come un affronto personale, e sparò a zero sui dirigenti federali minacciando di andarsene. Ci volle l’intervento di Roccò, salito sul primo aero per Città del Messico, per mediare col ‘Golden Boy‘ e convincerlo a rimanere trovando un compresso con Valcareggi: Mazzola il primo tempo, Rivera il secondo.

Pietro Anastasi, cosa ricorda di quel 1970 quando fu costretto a saltare il mondiale messicano?

«Ancora una grande rabbia. E poi rammarico e delu- sione. Perché il forfait arrivò a causa di una stupidità».

Ci racconta cosa successe?

«Eravamo ancora a Roma in attesa di partire per Città del Messico. Io stavo scherzando con il massaggiatore Spialtini ed ero seduto su un divano dietro a lui. Lo scherzo diventò pesante, Spialtini si stancò e fece per colpirmi. Mi prese al basso ventre. All'inizio non sembrò nulla, poi alle 22 ebbi dolori fortissimi e chiesi a Furino di chiamare il dottor Fini. Il responso fu da brivido: un versamento di sangue in un testicolo. Mi portarono in ospedale e alla mattina alle 8,30 venni operato. Addio al Mondiale».

Cosa provò?

«Lo può immaginare anche lei».

Valcareggi chiamò Boninsegna e Prati.

«Sì, ma oltre al sottoscritto ci andò di mezzo Lodetti che il ct lasciò a casa. Ancora oggi non me lo perdona. Comunque quell'anno successero cose strane: in Messico Boninsegna giocò, Prati fece il turista».

Nel 1970 lei aveva 22 anni, aveva vinto nel 1968 l'Europeo e aveva tempo per dimenticare la delusione. Cannavaro di anni ne ha 35...

«La sua carriera in Nazionale è sicuramente compro- messa, ma essendo un duro, un giocatore grintoso penso che riuscirà a prendere parte anche al Mondiale del 2010».

http://ricerca.gelocal.it/ilpiccolo/archivio/ilpiccolo/2008/06/04/MF_29_COMM.html

 

 

 

L'avventura messicana degli azzurri comincia il pomeriggio del 3 giugno 1970, in altura. Anzi, nell'abbaino del mondo, a Toluca, 2.700 metri sul livello del mare (per dare il senso della cosa: il comune più alto d'Italia è il Sestriere, a soli 2.000 metri; Livigno sta a valle, a 1.800 metri). A fronteggiarli sono gli ancor più spaesati svedesoni. La fatica è enorme e i giocatori in evidente difficoltà sotto il sole zenitale. La partita finisce con l'esser poca cosa.

 Giggirriva, reduce dall'epopea dello scudetto del Cagliari, appare "dissolto in altura" a  Brera, che era sugli spalti anche lui e che lo vide, attonito, mangiarsi tre-quattro gol fatti. L'allenatore svedese Bergmark, che aveva giocato nella Roma e imparato i dettami del calcio all'italiana, "gli mise addosso un pisquano che non faceva altro che spingerlo e provocarlo: Riva andava dall'arbitro scozzese parlandogli una lingua che lo induceva a sorridere divertito. Riuscì a non dar fuori da matto e a non farsi espellere, ma fu dura".

 Omar Sivori era seduto accanto a Brera in tribuna e si disse "schifato della nostra povertà di gioco". Se Pierluigi Cera impiegato da libero si rivelò una bella intuizione di Valcareggi, non altrettanto poté dirsi di Comunardo Niccolai, che randellò a lungo il centravanti gialloblu Kindvall. Pare che proprio in quella occasione il suo mentore cagliaritano, Manlio Scopigno, ebbe a esclamare sulfureo: "Tutto mi sarei aspettato in vita mia, ma non di vedere Niccolai via satellite".

 Alla fine, per fortuna, "scappa a Domenghini una ciabattata delle sue e il portiere Hellstroem se ne lascia uccellare". Gol che si rivelerà pesantissimo alla fine del girone.

 http://eupallog-cineteca.blogspot.com/2012/07/italia-suecia-1970.html

 

 

 

PRIMO TURNO

3-6-1970, Toluca (MO) Italia-Svezia 1-0 Rete: 10’ Domenghini Italia: Albertosi, Burgnich, Facchetti, M. Bertini, Niccolai (37’ Rosato), Cera, Domenghini, A. Mazzola, Boninsegna, De Sisti, Riva. Ct: F. Valcareggi. Svezia: Hellström, J. Olsson, K. Axelsson, Nordqvist, Grip, Bo Larsson (77’ Nicklasson), T. Svensson, O. Grahn, Kindvall, Cronqvist, L. Eriksson (57’ Ejderstedt). Ct: O. Bergmark. Arbitro: Taylor (Inghilterra).

6-6-1970, Puebla (MO) Italia-Uruguay 0-0 Italia: Albertosi, Burgnich, Facchetti, M. Bertini, Rosato, Cera, Domenghini (46’ Furino), A. Mazzola, Boninsegna, De Sisti, Riva. Ct: F. Valcareggi. Uruguay: Mazurkiewicz, Ubiña, Mujica, Montero-Castillo, Ancheta, Matosas, Cubilla, Cortes, Esparrago, Maneiro, Bareño (70’ Zubia). Ct: E. Hohberg. Arbitro: Glöckner (Germania Est).

11-6-1970, Toluca (MO) Italia-Israele 0-0 Italia: Albertosi, Burgnich, Facchetti, M. Bertini, Rosato, Cera, Domenghini (46’ Rivera), A. Mazzola, Boninsegna, De Sisti, Riva. Ct: F. Valcareggi. Israele: Vissocer, Schwager, Primo, Rosen, Bello, Rosental, Shum, Shpigel, Feigenbaum (46’ Rom), Spiegler, Bar. Ct: E. Sheffer. Arbitro: Vieira de Moraes (Brasile).

QUARTI DI FINALE

14-6-1970, Toluca (MO) Italia-Messico 4-1 Reti: 13’ Gonzalez, 25’ aut. Peña, 63’ Riva, 70’ Rivera, 76’ Riva Italia: Albertosi, Burgnich, Facchetti, M. Bertini, Rosato, Cera, Domenghini (84’ S. Gori), A. Mazzola (46’ Rivera), Boninsegna, De Sisti, Riva. Ct: F. Valcareggi. Messico: Calderon, Vantolra, Perez, Munguia, Peña, Guzman, Padilla, Gonzalez (68’ Borja), Fragoso, Pulido, Valdivia (60’ Velarde). Ct: R. Cardenas. Arbitro: Scheurer (Svizzera).

SEMIFINALE

17-6-1970, Città del Messico (MO) Italia-Germania Ovest 4-3 d.t.s. Reti: 8’ Boninsegna, 90’ Schnellinger, 94’ G. Müller, 98’ Burgnich, 104’ Riva, 110’ G. Müller, 111’ Rivera Italia: Albertosi, Burgnich, Facchetti, M. Bertini, Rosato (91’ Poletti), Cera, Domenghini, A. Mazzola (46’ Rivera), Boninsegna, De Sisti, Riva. Ct: F. Valcareggi. Germania Ovest: Maier, Vogts, Patzke (65’ Held), Beckenbauer, Schnellinger, Schulz, Grabowski, Seeler, G. Müller, Overath, Löhr (51’ Libuda). Ct: H. Schön. Arbitro: Yamasaki (Messico).

 

 

 

 

 

 

 

Italia Svezia

 

Israele - Italia

 

Italia - Uruguay

 

Mexico 1970 - la squadra italiana scesa in campo contro l'Uruguay

Messico - Italia

 

Italia-Germania 4-3

di Gianni Brera - Il Giorno, 18 giugno 1970

 

"Il vero calcio rientra nell'epica... la corsa, i salti, i tiri, i voli della palla secondo geometria o labile o costante..."
Non fossi sfinito per l' emozione, le troppe note prese e poi svolte in frenesia, le seriazioni statistiche e le molte cartelle dettate quasi in trance, giuro candidamente che attaccherei questo pezzo secondo ritmi e le iperboli di un autentico epinicio. Oppure mi affiderei subito al ditirambo, che è più mosso di schemi, più astruso, più matto, dunque più idoneo a esprimere sentimenti, gesti atletici, fatti e misfatti della partita di semifinale giocata all' Azteca dalle nazionali d'Italia e di Germania.

Un giorno dovrò pur tentare. Il vero calcio rientra nell' epica: la sonorità dell' esametro classico si ritrova intatta nel novenario italiano, i cui accenti si prestano ad esaltare la corsa, i salti, i tiri, i voli della palla secondo geometria e labile o costante...Trattandosi di un tentativo nuovissimo, non dovrei neanche temere di passare per presuntuoso. "Se tutti dovessero fare quello che sanno", ha sentenziato Petrolini, "nulla o quasi verrebbe fatto su questa terra".

 

È vero. Prima di costruire il ponte di Brooklyn, l' architetto che lo progetta non è affatto sicuro di esserne capace. Io stesso, disponendomi a cantare una partita di calcio, non saprei di poterne cavare qualcosa di valido. Però la tentazione è grande: ed io rinuncio adesso perché sono stremato, non perché non senta granire dentro la voglia di poetare. Italia-Germania è giusto di quelle partite che si ha pudore di considerare criticamente. La tecnica e la tattica sono astrazioni crudeli.

Il gioco vi si svolge secondo meno vigili istinti. Il cuore pompa sangue ossigenato dai polmoni con sofferenze atroci. La fatica si accumula nei muscoli male irrorati. La squadra, a stento nata traverso la applicazione assidua di molti, si disperde letteralmente. Campeggia su diversi toni l' individuo grande o fasullo, coraggioso o perfido, leale o carogna, lucido o intronato. Se assisti con sufficiente freddezza, annoti secondo coscienza. Non ti lasci trasportare, non credi ai facili sentimenti, non credi al cuore (anche se romba nelle orecchie e salta in gola). Ho sempre in mente di aver cercato invano di capire come siano andate realmente le cose nella finale mondiale 1934. Nessun cronista italiano aveva visto: tutti avevano unicamente sentito.

Ora mi terrorizza l' idea che qualcuno debba scorrere un giorno questo articolo senza capire né poco né punto come si sia svolta la memorabile semifinale Italia-Germania dei mondiali 1970. Retorica ne ho fatta solo a rovescio, giustificando la mia umana impotenza a poetare. Ho dato un. idea di quanto avrebbe meritato lo spettacolo dal punto di vista sentimentale? Bene, non intendo abbandonarmi a iperboli di sorta.

Fuori dunque le cifre: e vediamo di interpretarle secondo onestà critica e competenza. Soffoco i miei sentimenti di tifoso con fredda determinazione. Parliamo allora di calcio, non di bubbole isteroidi. I bravi messicani sono impazziti a vedere italiani e tedeschi incornarsi con tanto furore. Adesso fanno i loro ditirambi. Pensano di apporre una lapide all' Azteca. Sarei curioso di leggere: e magari di veder fallire in altri la voglia di poetare ore rotundo.

I nostri ospiti hanno gaiamente bruciato adrenalina ad ogni sconquasso, e Dio sa quanti ne siano stati perpetrati in campo. Ma domenica c'è Italia-Brasile, e sarà, garantito, anche peggio. Basterà una lapide un po' più grande per ricordare tutto. Non anticipiamo, please. In finale sono due "equipos bicampeones": dunque è sicuro ( a meno di eventi imponderabili ) che la Coppa Rimet avrà finalmente un padrone definitivo. Questo conta!

 

 

La squadra azzurra, benchè gloriosissima finalista, non va troppo lodata per ora. Guardiamola freddamente. L' Italia è finalista, con il Brasile, della Coppa Rimet: questo può bastare alla nostra gioia di tifosi, anche se sul partitone di ieri, che ci ha portato a battere i tedeschi, è meglio ragionare, di modo che non si gonfino equivoci pericolosi. La prima doverosa constatazione è questa: gli italiani si sono battuti, quasi tutti, con slancio virile, molto ammirevole e, in certo modo, sorprendente. È difficile non dirsi fieri di questi guaglioni, dopo quanto si è visto e sofferto.

Se l' altura non è un' opinione, vinceremo per la terza volta i mondiali: questo ho detto e ripeto. Ma bisognerà che non giochiamo come s'è fatto ieri, proprio no. La memorabile partita è stata avvincente sotto l'aspetto agonistico e spettacolare: si è conclusa bene per noi, e questo è il suo maggiore pregio, ai miei occhi disincantati. Sotto l' aspetto tecnico-tattico, è da ricordare con vero sgomento. Sia gli italiani sia i tedeschi hanno fatto l'impossibile per perderla. Vi sono riusciti i tedeschi.

Evviva noi! Errori ne sono stati commessi millanta, che tutta notte canta. I tedeschi ne hanno forse commessi meno di noi, ma uno solo, madornale, è costato loro la sconfitta. Enumero gli errori italiani. Si parte con Mazzola, buon difensore, si segna e si regge benino. Marcature discutibili (su Seeler andava messo d'urgenza Burgnich): ma all' avvio tutto fila. Boninsegna tenta di servire Riva, stolidamente soffocato in mischia, riceve un rimpallo di Vogts e cannoneggia a rete: sinistro imperdonabile: gol. È il 7' . I tedeschi arrancano grevi. Giocano con tre punte e mezzo, come con gli inglesi: le ali, Muller e Seeler. Acuiscono via via il forcing ma non cavano più di due tiri-gol di Grabowski: li sventano Rosato e Albertosi. Muller conclude fuori una volta. Seeler non riesce a tirare affatto: rifinisce soltanto.

Gli italiani concludono spesso con Riva, tuttavia mal situato. Mazzola tiene Beckembauer e potrebbe segnare al 40' se l'arbitro gli concedesse la regola del vantaggio. Facchetti inciampa nei piedi di Beckembauer, lanciato a rete, e lo fa ruzzolare. Un arbitro meno onesto darebbe rigore (17' ). Riva spreca di testa una palla-gol (40') e un' altra ne sbuccia a metà (parata in angolo di Maier:42').

Secondo tempo. Mazzola e Boninsegna sono stati avvertiti il mattino che uno di loro verrà sostituito da Rivera. Nell'intervallo si sostituisce Mazzola, il migliore in campo. Un collega tedesco, Rolf Guenther, sospira: "L' ultima nostra speranza è riposta in Rivera". Maledetto. Come sostituire Bonimba, pure molto bravo, e autore del gol? Dunque, fuori Mazzola. Entra Rivera e assiste smarrito al forcing tedesco, sempre più acre. Domenghini è chiamato su Beckembauer ma, ben presto, Schoen manda in campo Libuda, a destra, sul più sciagurato Facchetti dell' anno, e poi addirittura espelle Patzke e getta in mischia Held, un grintoso biondone dal piglio da ss. Domenghini deve dividersi, a soccorso di tutti.

Il forcing tedesco è così fiducioso che Riva al 5' e Rivera al 12' possono battere a rete autentiche palle-gol. Purtroppo sono sciape, e Maier le para entrambe. Sotto Albertosi, continue gragnuole. Seeler giganteggia, sgomitando Bertini e venendone sgomitato. Mischie furenti nella nostra area. Due falli da rigore rilevati per onestà (e dàlli): Rosato su Beckembauer e Bertini su Seeler. Una rimbombante traversa di Overath (19' ). Una respinta di Rosato sulla linea. Un gol sbagliato da Muller. Due o tre parate gol di Albertosi.

I tedeschi ci assediano. Rivera guarda. Domenghini affoga. Dal'area, continui richiami. Nessuno torna, dalle posizioni di punta (eppure Riva è meglio in difesa che all' attacco, di questi tempi: sissignori). Il predominio tedesco è avvilente. Il pubblico ruggisce all' ingiustizia del punteggio. I tedeschi attaccano con Libuda, Seeler, Muller, Held e Grabowski di punta, e dietro loro premono Beckembauer e Overath. Un vero disastro. Una sproporzione di forze impressionante. Valcareggi prende atto. Io arrivo ad augurarmi che segnino alla svelta i tedeschi perchè mi vergogno (e ne soffro).

Sono difensivista convinto ma questo non è calcio: è una miseria pedatoria. E anche stupidità. Non abbiamo vigore sufficiente al facile contropiede. I tedeschi schiumano rabbia. Infine pareggia Schnellinger, al 47' 30". E meno male che è lui, der italiener. Non l' abbiamo corrotto: Carletto è onesto Segna. È la sesta punta. Schoen gioca senza libero, ormai. Vogts su Riva e Schultz su Bonimba. Gli altri, tutti avanti (per nostra fortuna).

Tempi supplementari. Si fa male Rosato, entra Poletti. A parte una lecca a Held, che se la merita, gioca di punta per i tedeschi, e segna al 5' . Cross di Libuda (che inciucchisce Facchetti), testa a rifinire di Seeler: palla morta in area, Poletti non stanga via, accompagna di petto verso porta: Muler si frappone: Poletti e Albertosi fanno la magra: 1-2. Sciagura. Pubblico osannante. Meritiamo, meritiamo, come no?

Ma qui incominciano gli errori tedeschi. Pur imitando Ramsey, Herr Schoen ci ha preso per degli inglesi. E insiste a WM. Vogts commette fallo su Riva. Rivera tenta il pallonetto perché incorni qualcuno: chi c'è in area tedesca? Il furentissimo Held. Il quale di petto mette graziosamente palla sul sinistro di Burgnich, l'immenso: 2-2. Dice che il pubblico si diverte, a questi scempi. Il critico prende atto: ma rabbrividisce pure.

I tedeschi sono proprio tonti: ecco perché li abbiamo quasi sempre battuti. Nel calcio vale anche l' astuzia tattica non solo la truculenza, l' impegno, il fondo atletico e la bravura tecnica. I tedeschi seguitano a pencolare avanti in massa. Così segna anche Riva. Domenghini si ritrova all' ala sinistra (dove non è il mio grande grandissimo sbirolentissimo Bergheim?): crossa basso: trova Riva. Riva tocca a lato di esterno sinistro, secco, breve: scarta di netto Vogts ed esplode la rituale mancinata di collo. Gol strepitoso.

É il 14' del primo tempo supplementare. I tedeschi sono anche eroici (e quante botte pigliano e danno). Sono stanchi morti, ma quando Seeler suona il tamburo (con il gomito in faccia a Bertini) tutti ritrovano la forza per tornar sotto e pareggiare. É angolo a destra. Batte Libuda. Seeler stacca da sinistra e rispedisce a destra: Muller dà una incornatina che Albertosi segue tranquillo: sul palo è Rivera (ma sì, ma sì): il quale sembra si scansi. Albertosi lo strozzerebbe. Rivera china il capino zazzeruto e la fortuna sua e nostra gli offre subito il destro di salvare sé e la squadra. É il 6' : lanciato sulla sinistra: Boninsegna ingaggia l' ennesimo duello con il cottissimo Schultz: riesce a crossare basso indietro: i pochi tedeschi in zona sono su Riva. Rivera in comodo allungo si trova la palla sul piatto destro e freddamente infila Maier, già squilibrato prima del tiro.

Adesso è proprio finita. I tedeschi sono battuti. Beckenbauer con braccio al collo fa tenerezza ai sentimenti (a mi, nanca un po' ). Ben sette gol sono stati segnati. Tre soli su azione degna di questo nome: Schnellinger, Riva, Rivera. Tutti gli altri, rimediati. Due autogol italiani (pensa te!). Un autogol tedesco (Burgnich). Una saetta di Bonimba ispirata da un rimpallo fortunato.

Come dico, la gente si è tanto commossa e divertita. Noi abbiamo rischiato l' infarto, non per ischerzo, non per posa. Il calcio giocato è stato quasi tutto confuso e scadente, se dobbiamo giudicarlo sotto l'aspetto tecnico-tattico. Sotto l'aspetto agonistico, quindi anche sentimentale, una vera squisitezza, tanto è vero che i messicani non la finiscono di laudare (in quanto di calcio poco ne san masticare, pori nan).

I tedeschi meritano l' onore delle armi. Hanno sbagliato meno di noi ma il loro prolungato errore tattico è stato fondamentale. Noi ne abbiamo commesse più di Ravetta, famoso scavezzacollo lombardo.

Ci è andata bene. Siamo stati anche bravi a tentare sempre, dopo il grazioso regalo fatto a Burgnich (2-2). L' idea di impiegare i dioscuri Mazzola e Rivera è stata un po' meno allegra che nell' amichevole con il Messico. Effettivamente Rivera va tolto dalla difesa. Io non ce l' ho affatto con il biondo e gentile Rivera, maledetti: io non posso vedere il calcio a rovescio: sono pagato per fare questo mestiere. Vi siete accorti o no del disastro che Rivera ha propiziato nel secondo tempo?

Tutto all'aria, tutto sconnesso. Se non vedete e amate, almeno rispettate chi vede, e proprio perché vede si raccomanda che Rivera sia punta o mezza punta, non centrocampista, mai! Da punta è andato benissimo, sia nell' amichevole con il messico, sia con gli stessi tedeschi, sebbene di palle ne abbia lavorate assai poche. I sentimentali, immagino, avranno cantato sonori peana per tutti. Preferisco attenermi alla realtà non senza ringraziare i tedeschi per la loro cieca dabbenaggine tattica e l'arbitro Yamasaki per la sua vigile comprensione...

Ora siamo in finale, e si può vincere. Ma bisogna condurre veramente la squadra, non guardarla atterriti dalla panchina. Valcareggi e Mandelli, guidati da Franchi (ma sì) hanno molta fortuna: Napoleone gradiva moltissimo i generali fortunati. Sono graditi anche da noi, benché siamo tifosi e non imperatori. Però la fortuna - alla lunga - meritata. Mercoledì è stata meritata, onestamente: e fortuna è stata anche quella di non vincere 1-0 in 90' rubando la partita da pitocchi, dopo la rabbiosa e squassante offensiva tedesca.

Il 4-3, a pensarci, legittima tutto: anche le nostre fondate ambizioni a vincere definitivamente la rimet. Ma se commettiamo gli sfondoni di mercoledì con il fiero e disinvolto Brasile, poco poco ne prendiamo de goleada. Attenti, allora. Da domani studiamo la partita, ci ragioniamo su e vediamo com è possibile farla nostra, se davvero sarà possibile.

 

 

 Le geniali pagelle di Brera

ALBERTOSI 7 - Va perdonato, come la Maddalena, perché molto ha parato: però tre o quattro volte è salito in pallone: 7 merita, con qualche sospetto.

BURGNICH 9+  Eroe della giornata: non per il gol, e neanche per avere scoraggiato Löhr e poi Grabowski, ma per aver tenuto l'area su Müller da grandissimo gladiatore: 9 più, come minimo.

FACCHETTI 5 -  Diciamo disastroso, intronato, preoccupante (Dio, che dispiacere parlarne male: ma debbo: e non meno doveroso mi sembra rendere noto che, se gioca su Jairzinho, possiamo tranquillamente salutare la Rimet. Va in Brasile garantito).

BERTINI 6-  Un muscolare tosto ma stolido: quando è in area, tremo. Lascia a Seeler almeno cinque incornate da gol (o da rifiniture per il gol). Su Seeler, in partenza, bisognava mandare Burgnich, che è buonissimo di testa. Gli diamo 6 meno, al Bertini, per le stoiche botte che ha preso e che ha dato.

ROSATO 6,5 Pare un tavolino scancosciato, a volte, però duro, diligente, maligno.Mùller, con lui, non segna.

CERA 7-  Quando c'è mischia in area, la sua fragile sagoma scompare. Bravo, attento, però gracile. E dobbiamo stare zitti perché fa già miracoli. In fondo non è quello del libero il suo mestiere: mercoledì sarebbe andato bene il Ferrante: ma chissà in che stato psicofisico si trova, adesso? A Cera: 7 meno meno.

DOMENGHINI 8  A volte lo rincorrerei con un bastone, tanto è gnocco e stordito; più spesso lo rincorrerei per abbracciarlo. Ha fatto poco poco cinquanta chilometri: il terzino, il mediano, l'interno, l'ala! Valutato il suo apporto compulsando le note, dopo la partita, penso che meriti 8, non meno.

MAZZOLA 7,5  Ottima partita su Beckenbauer, al quale ha restituito pure una bella lecca. Sta imparando a fare il vero interno. Mi piace anche si lagni di poter giocare solo 45'. Merita 7,5.

RIVERA 6-  Come sarebbe bello se potessimo farne giocare dodici. Lui ci vuole, certe cose le fa meglio di tutti: ma quanto può costare a volte, impiegarlo. Merita 6 meno.

BONINSEGNA 7,5  Dai quarti, un vero fenomeno: e come dicevo, ricordando la legge dei grandi numeri, doveva segnare proprio mercoledì. Poi ha sprecato anche, ma quante buone cose! 7,5.

DE SISTI 6+  Con Mazzola aveva un valido appoggio. Con Rivera, niente o quasi. Si è salvato perché naviga sempre alla meglio nel mare magno del centrocampo: 6+

RIVA 6,5  Ha giocato meglio che con il Messico. Ha avuto sfortuna in due ottime incornate volanti. Ha segnato un gol da grande campione. Poi, le cose migliori le ha fatte a sostegno: 6,5.

POLETTI 5  Ha esordito nel fuoco, povera anima. Autogol e lecche rabbiose. Un bel cross-gol mancato al balzo da Boninsegna ormai esausto:

 

 

 

LA PARTITA LUNGA TRENT'ANNI  (Alessandro Baricco)

 

QUANDO Schnellinger insaccò, un minuto e quaranta secondi dopo lo scadere del tempo regolamentare, io avevo dodici anni. In una famiglia come la mia ciò significava che ero a letto, a dormire, già da un bel po'. Allo stadio Azteca stavano facendo la storia, e io dormivo. Era giugno, il mese in cui ti spedivano dai nonni, al mare, a farti di biglie e di focaccia. Mi immagino mio nonno, solo, davanti alla tivu, fulminato, come Albertosi, dalla palettata di Schnellinger. Dovette succedergli qualcosa dentro, in quell'istante: forse il complesso di colpa per avermi negato per sempre quell'emozione; forse, più semplicemente, pensò che era troppo solo per sopportare tutto quello. Insomma: si alzò e venne a svegliarmi. L' unica altra volta in cui qualcuno era venuto a svegliarmi nel pieno della notte per portarmi davanti a un televisore era poi successo che un uomo aveva messo un piede sulla luna.

QUINDI, quando mi sedetti sul divano, sapevo esattamente che non avrei più dimenticato. Messico, giugno 1970, semifinale dei mondiali, Italia - Germania. Per la mia generazione, quella è LA partita: è per la gran parte di noi è una emozione in piagiama e vestaglia, piedi freddi in cerca di pantofole, gusto di sonno in bocca e occhi stropicciati. Quel che di più simile c'è a un sogno.

Lì per lì, la prima cosa che mi rapì fu una stupidata: c'era in campo Poletti. Poletti era l'unico giocatore del Toro che riuscisse a mettere la maglia della nazionale, giusto ogni tanto, quando qualcuno si faceva male. Giocava maluccio, aveva un nome da impiegato e faceva il terzino, cioè niente di poetico: però era del Toro, e per me era come se scendesse in campo mio padre. Lì, all'Azteca, mio padre entrato per sostituire Rosato (un grandissimo, tra parentesi). Passai i primi minuti a cercarlo anche quando era fuori dall'azione, purché fosse dentro il televisore. Così lo vidi benissimo quando si mise a pasticciare orrendamente davanti ad Albertosi, al 94: la palla se ne rimase lì in mezzo, a due passi dalla porta, come un bambino dimenticato al supermercato: per Mueller fu uno scherzo metterla dentro, anche perché era Mueller, cioè un tipo umano che poi avrei incontrato infinite volte, cioè quello che sta in agguato e poi ti frega, quello che non lo vedi mai se non nel preciso istante in cui ti sta fregando, quello che la natura si è inventata per riequilibrare il mondo dopo aver inventato i Poletti. Colpetto rapinoso, e 2 a 1 per i crucchi.

 A quel punto la partita era finita. Riva respirava come se avvesse avuto l'enfisema, Boninsegna insultava tutti quelli che gli passavano a tiro, e Domenghini sciabolava dei cross talmente surreali che per ritrovare la palla dovevano ricorrere ai cani da tartufo. Ontologicamente, la partita era finita. Martellini lo fece capire, con la morte nel cuore e nella voce, a tutti i nonni di Italia, e quindi anche al mio: che disse: a nanna. Mi salvò Burgnich. Cosa ci facesse lui in mezzo all'area avversaria, al 98, è cosa che un giorno gli vorrei chiedere. Probabilmente si era perso. Sparò il suo ferro da stiro su una palla ignobilmente pasticciata da Vogts (Poletten), e insaccò, incredibilmente, regalando a quella partita un eleganza geometrica sovrannaturale, 2 a 2, i centravanti ad aprire la ferita e i terzini a suturarla, Boninsegna-Schnellinger, Mueller- Burgnich, in una splendida metafora di quello che il calcio è, lo scontro tra gente che cerca di far accadere cose, gli attaccanti, e gente che cerca di impedire che cose accadano, i difensori. A ripensarci, era tutto così perfetto che avrebbero dovuto mollarla lì, tornare a casa e non giocare a calcio mai più.

 Il 3 a 2 fu calcio vero, di quello che non ha bisogno del Poletti di turno per arrivare al goal. Apertura di Rivera sulla sinistra, non un centimetro troppo lunga, non un centimetro troppo corta, fughetta di Domenghini sull'ala, cross non surreale al centro, e palla a Riva: stop, finta, saluti vivissimi al difensore tedesco, palla sul sinistro, colpo di biliardo sul paletto lontano, rete. Più che un'azione, un'equazione. Dove quei tre abbiano trovato la lucidità di risolverla con quella perfezione dopo 104 minuti di battaglia è cosa che un giorno vorrei chiedergli. Era calcio ridotto alle sue linee più pure ed essenziali. I tedeschi non ci capirono niente. Intervistati, avrebbero potuto dire quello che Glenn Gould diceva del rock: "non riesco a capire le cose così semplici". 

Da lì in poi è confusione. Non ricordo più nulla, intorno a me, e questo significa che doveva esserci un gran casino, dentro e fuori casa. E' strano che io non abbia nemmeno un'immagine in testa di mio nonno che schizza fuori dalla poltrona e, che so, dà di matto sul balcone sparando dei vaffanculo tremendi a gente con cui, dall'8 settembre del '45, aveva qualche conto in sospeso. Niente del genere. Mi spiace, anche, perché terrei con me volentieri un'immagine di lui felice, incontrovertibilmente felice, lui che era un uomo così pudico nelle sue gioie. Eppure tutto, nella memoria, risulta ingoiato da due singole immagini, che hanno cancellato tutto il resto, come due flash accecanti che hanno spento tutto, intorno. E in tutt'e due c'è Rivera.

 La prima è lui abbracciato al palo, un istante dopo aver fatto passare un pallone pizzicato dalla testa di Mueller e spedito proprio dove c'era lui, sulla linea di porta, lì esattamente per fare quello che però, all'ultimo, non era riuscito a fare, e cioè interporre un qualsiasi arto o lombo tra pallone e rete, gesto per cui non era necessaria nessuna classe, nessun talento, ma giusto la semplice volontà di farlo, la determinazione di trasformarsi in corpo solido, l'ottuso istinto alla permanenza che hanno le cose tutte, tutte tranne Rivera su quella linea di porta, dove vede passare il pallone e guardarlo è tutto, il resto è un palo abbracciato comicamente e un Albertosi che ti grida dietro domande senza risposta.

 La seconda è l'icona massima di quell'Italia-Germania. Rivera, ancora lui, completamente solo a centro area, riceve un assist dalla sinistra (Boninsegna) e tira in porta al volo, di piatto destro. Maier, il portiere tedesco, un mattocchio che sapeva il fatto suo, è attaccato al palo destro dov' era andato a chiudere su Bonimba: si aspettava il solito centravanti che sfonda e poi tiracchia appena vede lo spiraglio; Boninsegna era in effetti il più classico dei centravanti; una sola cosa era logico che facesse: tirare. E invece con l'orecchio aveva visto Rivera, là, olimpico e apollineo, in una radura di magica solitudine nel cuore dell'area: illogica rasoiata in quel punto, palla nella radura, e Maier fuori posizione, fatto fuori da un'inopinata incursione della fantasia nel tessuto di un teorema che credeva di conoscere a memoria. Rivera e Maier. Tutta la porta spalancata, vuota. Maier lo sa e alla cieca abbandona il palo e si scaraventa a coprire tutto quello che può di quel vuoto. Rivera potrebbe affidare al caso la pratica, scaricando sul pallone la potenza approssimativa del collo del piede, e vada come vada. Invece sceglie la razionalità. Apre la caviglia (ho visto donne aprire ventagli senza nemmeno sfiorare quella eleganza), e opta per il colpo di interno, scientifico, geometrico, magari meno potente, ma nato per essere esatto: ha un'idea, e per quella idea non gli serve potenza, gli serve esattezza. E' un'idea fuori dalla portata di un portiere colto fuori posizione e provvisoriamente consumato dallo sforzo animalesco di rientrare nella propria tana prima che arrivi il nemico. E' un'idea perfida e geniale: fregare l'animale in contropiede andando a infilare il pallone non nel grande vuoto che sta davanti all'animale, ma nel piccolo vuoto che gli sta dietro: l'unico punto in cui, fisicamente, gli è impossibile arrivare. In pratica si trattava di tirare addosso a Maier, fiduciosi nel fatto che lui, nel frattempo, sarebbe finito altrove. Rivera lo fece. Il pallone passò a quattro dita da Maier: ma erano come chilometri. Goal. IL goal. Una buona parte dei maschi italiani della mia generazione conserva la memoria fisica di quel tocco riveriano appiccicato all'interno del proprio piede destro. Non scherzo. Noi abbiamo sentito quel pallone, non smetteremo più di sentirlo, ne conosciamo i più intimi riverberi, ne conosciamo perfettamente il rumore. E ogni volta che colpiamo di interno destro, è a quel colpo che alludiamo, e non importa se è una spiaggia, e il pallone è quello molliccio sfuggito a qualche stupido giocatore di beach-volley, e in braccio hai un frugolo che pesa dieci chili, e in faccia la faccia di uno che l'ultimo cross dal fondo l' ha fatto un secolo fa: non importa: peso sulla sinistra, apertura della caviglia, tac, interno destro: rispetto, bambini, quello è un colpo che è iniziato trent' anni fa, in una notte di giugno, pigiami e zanzare.

Perchè poi tutto questo, chi lo sa. Voglio dire: per quanto bella, era poi solo una partita. Cosa è successo perché dovessimo mitizzarla così? A dire il vero non l'ho mai veramente capito. Mi vengono in mente solo due spiegazioni. Avevamo l'età giusta. Tutto lì. Avevamo l'età in cui le cose sono indimenticabili. E poi: quella sera, quella partita, l'abbiamo vinta. Sembra una stupidata, ma sapete qual è la cosa più assurda di tutta questa faccenda? Che se voi citate a un tedesco quella partita, magari con un' aria un po' complice, come a condividere un ricordo pazzesco e perfino intimo, beh, quello quasi non se la ricorda, quella partita. Cioè, se la ricorda, ma non gli è mai passato per la testa che fosse qualcosa di più di una partita. Anzi, hanno sempre un po' l'aria di considerarla una partita stramba, folklorostica, neanche tanto seria. Non è un mito, per loro. Non è un luogo della memoria. Non è vita diventata Storia. E' una partita. Tutt'al più ti citano Beckenbauer che gioca i supplementari con la spalla fasciata e il braccio bloccato sul petto. Come sarebbe a dire? Tu parli di una cena pazzesca e loro ti citano le patate lesse? Non scherziamo. Tanto quello giocava rigido come una scopa anche se non lo fasciavano, sempre lì a colpire d'esterno, il fighetto, chiedigli un po' notizie di De Sisti, neanche l'ha visto, per tutta la partita, te lo dico io, ma vattela a rivedere poi ne riparliamo, altro che Beckenbauer, vattela a rivedere, tac, interno destro, altro che esterno, comunque per me quella partita abbiamo incominciato a vincerla al 91, credi a me, no, che c'entra Schnellinger, dico al 91, adesso tu non te lo ricorderai, ma è lì che si è deciso tutto, cambio dalla panchina, fuori Rosato, dentro Poletti, ti dico che lì la partita è girata, ascolta me, vattela a rivedere se non ci credi... Prego? Ma guarda te, questo non sa nemmeno chi è Poletti...

 

 

LO SPORTIVO SCAMBIO DELLE MAGLIE ALLA FINE DELLA STORICA PARTITA

 

Quando Gianni Brera sentiva usare l’espressione “Partita del secolo” a proposito di Italia-Germania del 1970, prima guardava torvo l’incauto interlocutore, poi lo apostrofava con una frase che più o meno era sempre la stessa: “Prova a parlare di Jahrhundertspiel (“Partita del secolo” appunto ) con un tudesc, pirlùn. Vedrai cosa ti risponde!”. Gianni, si sa, era sempre piuttosto estremizzante nei suoi giudizi. Diciamo che al netto del “tudesc” e del “pirlùn” lui sosteneva che quella fosse stata una partita bruttissima, diventata leggendaria per una somma di errori tattici e individuali che generarono (quasi) altrettanti gol e una somma di emozioni indimenticabili.

Resta il fatto che a torto o - secondo me - a ragione, se ne parla da cinquant’anni esatti. E chi l’ha vista ne ricorda ancora le sensazioni indelebili: mentre chi non l’ha vista, se non nei filmati, probabilmente ha capito (ma non del tutto) che notte trascorremmo quella notte. Perché Italia-Germania, è giusto rammentarlo, finì alle due abbondantemente passate. Ed è raccapricciante ricordare che, in caso di pareggio sul 3 a 3, si sarebbe tirata la monetina. Altro che algoritmi!

Fu la partita che ci spalancò le porte della gloria. Ma fu anche la partita che ce le richiuse immediatamente, perché la squadra arrivò stravolta dalla fatica alla finale col Brasile (che vi approdò certamente più fresco) e non potè che resistere un tempo solo davanti al samba indemoniato delle furie oro di Pelè e compagni.

A quel match sono stati dati tanti significati. Il più importante, secondo me, al di là del valore sportivo, è che segnò agli occhi del mondo il culmine di un riscatto umano, sociale e persino politico di un Paese che era stato in ginocchio fino a qualche lustro prima e che anche nelle gioie e nella coesione dello sport aveva ritrovato la sua strada. Da Coppi e Bartali, via via fino agli eroi contadini delle prime due Olimpiadi del dopoguerra, poi la bellissima sbornia dei Giochi di Roma, per finire col primo e unico titolo europeo nel calcio nel 1968: quel calcio che a livello di Nazionale ci aveva visto iniziare da campioni del Mondo in carica gli anni 50 e che, per vent’anni, ci aveva riservato solo bastonate.

Quei ragazzi che ci fecero sognare in Messico erano “tutti figli della guerra”: dai più vecchi (Puia e Burgnich del ’38 e del ’39) ai più giovani (Niccolai, Gori, Prati e Furino, tutti del ’46)). Si chiamavo Tarcisio, Comunardo, Angelo, Ugo, Giuseppe, Dino, Giacinto. Venivano da famiglie modestissime: quelle che si erano rimboccate le maniche per dar loro da mangiare e per farli crescere in un Paese migliore. E loro avevano ringraziato così: regalandoci un sorriso e sputando l’anima finchè avevano potuto. Erano anni in cui la maglia azzurra era più importante di tutte le altre maglie messe assieme. Anche se quei ragazzi non cantavano l’inno: anche se non si prendevano per mano. Perché era stato loro insegnato - a torto o a ragione - che l’inno andava ascoltato a testa alta e sull’attenti

La partita andò come andò: in un crescendo di emozioni - e qui ha ragione Brera - a cui contribuirono prodezze e svarioni, terzini fuori posto che andarono a far gol e svolazzi difensivi. Eppure alle due di notte di quel mercoledì, ormai giovedì, di un’estate già calda, l’Italia si ritrovò tutta "desta" come da spartito. Il gol decisivo di Rivera (subentrato a Mazzola nella celebre "staffetta") suscitò, dalle finestre spalancate, il primo boato in mondovisione della nostra storia. Si riempirono spontaneamente le piazze: molti tirarono l’alba e andarono direttamente a lavorare. Il resto lo fece la china del tempo: e così quella palla di neve azzurra diventò prima una slavina, poi una valanga e poi un mito. Forse sovradimensionato (in fondo era solo una “semifinale” di un Mondiale, anche se non ci arrivavamo dal 1938), forse preterintenzionale, probabilmente atteso e "necessario". Di certo, indimenticabile

Io ero davanti alla tv con mio padre. Ricordo che ci abbracciammo: cosa non usuale per una generazione non esattamente cresciuta a smancerie. Sognavo di fare il giornalista (e qualcosa già facevo a livello locale). Mai avrei potuto immaginare, a vent’anni o giù di lì, che quello sarebbe stato l’ultimo Mondiale che avrei visto in televisione. A tutti gli altri avrei assistito dal vivo. Sì, forse fu davvero la mia partita del secolo

Marino Bartoletti

 

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IL GIORNO DELLA FINALE E I SEI MINUTI DI GIANNI RIVERA

 

Fu un caso clamoroso. Al tempo l'Italia calcistica era spaccata in due per via di una rivalità tra due grandi campioni, il milanista Gianni Rivera e l'interista Sandro Mazzola. Protagonisti di tantissimi derby, rivali in campionato, Mazzola e Rivera trasferirono la loro guerra anche in nazionale.
L'allenatore era Ferruccio Valcareggi, un tecnico di grande competenza, il quale disse subito, che i due non avrebbero mai potuto giocare insieme.

La formazione-tipo dell'Italia era composta da dodici giocatori: Albertosi, Burgnich, Facchetti, Bertini, Rosato, Cera, Domenghini, Mazzola, boninsegna, De Sisti, Riva e Rivera. Quest'ultimo non entrava mai in campo dal primo minuto, ma dava regolarmente il cambio a Mazzola all'inizio del secondo tempo.
Nacque così la 'staffetta'. Un tempo i guizzi di Mazzola, l'altro i lanci di Rivera, e l'Italia andò sempre avanti. Passato il girone di qualificazione si trovò nei quarti di finale contro i padroni di casa del Messico, gli azzurri vinsero 4-1 e la staffetta funzionò a meraviglia.

 


 

Il 17 luglio, una delle giornate più luminose del calcio, Italia Germania Ovest. Di questa partita ormai si è detto tutto, un 4-3 che ha scritto le pagine del calcio, con il fantastico gol di Rivera nel finale. Ma Mazzola non digerì la sostituzione, nel primo tempo aveva annullato Beckenbauer e l'Italia finì il primo tempo in vantaggio 1-0. Nella ripresa, con Rivera in campo, l'Italia venne schiacciata e subì il pareggio. Poi andò a finire con la vittoria degli azzurri in una spettacolare alternanza di gol.
Mazzola 'sbottò', radunò i compagni di squadra dell'Inter e chiese solidarietà. 'Se mi volete bene, dovete pronunciarvi anche voi contro la staffetta'. I compagni lo appoggiarono e a turno lo comunicarono al Valcareggi. Dissero che loro preferirono Mazzola perchè era più utile alla squadra, sapeva sacrificarsi meglio di Rivera.
E la staffetta svanì. Proprio dopo essersi dimostrata un'arma straordinaria.
Nella finale Mondiale contro il Brasile, Mazzola giocò tutti i 90 minuti. Ma il 'giallo' riguarda gli ultimi 6 minuti della partita. Italia Brasile alla fine del primo tempo è sul risultato di 1-1, gol di Pelè e Boninsegna. Ma all'inizio del secondo tempo milioni di italiani restano di sasso quando non vedono entrare in campo Gianni Rivera.
L'Italia a poco a poco crolla. Al 21' segna Gerson, cinque minuti più tardi Jairzinho. I minuti scorrono e quando ne manca ormai una sola manciata, ecco il gesto tanto atteso, Rivera entra in campo, mancano sei minuti soltanto alla fine e a uscire non è Mazzola, ma Boninsegna. L'ingresso del fuoriclasse rossonero non può dare frutti, troppo tardivo il suo inserimento in campo. Ed è ancora il Brasile a realizzare il gol del definitivo 4-1 con Carlos Alberto.

 

 

 

Il mastino Burgnich: "Il mio Pelé, il migliore di tutti"

"Giocatori così nascono ogni trent'anni. Lui, Maradona, Di Stefano e Sivori i più grandi, ma Pelé è stato il più completo".

 “È fatto di carne ed ossa come tutti gli altri, mi dicevo prima di quella partita. Sbagliavo”: Tarcisio Burgnich, qualche anno fa, così ricordò, icasticamente, il giorno in cui marcò Pelé. 21 giugno 1970, Città del Messico, finale dei Mondiali: Brasile-Italia finì 4-1, la Seleçao portò a casa - aggiudicandosela in maniera definitiva - la sua terza Coppa Rimet. Vinsero tre Mondiali in tredici anni, il Brasile e Pelé, che in quel 1970 viveva probabilmente il periodo di massimo splendore. Segnò il primo gol, o Rei, e alla Roccia azzurra non restò che guardarlo esultare, da terra.

Burgnich, oggi, di anni ne ha 71, vive in Toscana dalle parti di Altopascio, si tiene in allenamento con la bicicletta e ferma volentieri il pedale per parlare di Pelé: “Dalle immagini di quel gol, e dagli scatti fotografici, sembra che lui salga in cielo per colpire il pallone. In effetti mi sovrastò, ma mi prese in controtempo: avevo fatto un passo in avanti perché mi aspettavo che Rivelino crossasse basso, arrivò un pallone alto e Pelé era già in vantaggio. L’elevazione non fu straordinaria, ma il colpo di testa fu perfetto”.

E allora lei capì che Pelé non era di carne ed ossa…

“Lo confermo: un giocatore così nasce ogni venti o trent’anni. Una perla rara”.

Pelé e chi altro?

“In ordine cronologico Di Stefano, Sivori, Pelé e Maradona”.

È stato il brasiliano il migliore?

“Direi di sì. Maradona era forse un talento più individuale, ma il Pelé che ricordo io aveva tutto: destro, sinistro, colpo di testa, velocità, dribbling, tiro e visione di gioco. E poi aveva un’altra dote: era leale”.

Il fuoriclasse senza la faccia da schiaffi.

“Non amava irridere gli avversari. Penso alla differenza fra i tunnel di Sivori e quelli di Pelé: per quest'ultimo era una situazione di gioco, lo faceva quando necessario. Tutte le volte che ho giocato contro di lui, l’impressione veniva confermata”.

In quella finale lo marcaste in due.

“Sì, è vero, a dividerci i compiti di marcatura su Pelé fummo io e Bertini, a seconda dei movimenti che faceva il brasiliano in campo”.

Nelle pagelle del giorno seguente Brera diede 7,5 a Pelé ma scrisse: “Non sempre è riuscito a farsi luce perché avere addosso un mastino come Burgnich non è comodo per nessuno”. Di lei vergò che “di riffe e di raffe in un certo modo s'è salvato”, ma le rifilò un 5…

 

 

“Va detto che, proprio per quel tipo di marcatura, Pelé in quella partita non ha mai cercato di andarmi via in velocità o di affrontarmi a tu per tu. Ci fu qualche contrasto, ma nessuno scontro con lui: più che altro, organizzava il gioco da centrocampo. E, a giudicare da come finì, evidentemente per il Brasile era più che sufficiente”.

Lo ha affrontato altre volte?

“Sì, due o tre, in amichevole contro il Santos o i Cosmos. Ma non mi capitò più di marcarlo, e credo di non averci nemmeno mai parlato. Eppure una amichevole contro il Cosmos in America finì con una scazzottata”.

Litigò con Pelè?

“No, Pelé non c’entrava e non prese parte alla scazzottata che seguì la lite. Io sì”.

 

 

Una squadra da sogno.

 

 Il Brasile nel 1970 si schierava con Félix tra i pali una difesa con Carlos Alberto, Brito, Wilson Piazza e Marco Antonio, due centrocampisti tattici come Clodoaldo e Gérson e tre centrocampisti offensivi come Pelé, Jairzinho e Rivelino con Tostão attaccante di riferimento, pronto a fare spazio agli inserimenti dei compagni o a fare da punta.

 Una punta? Due punte? In quella squadra attaccavano tutti, indistintamente: "Sembriamo una squadra di rugby - diceva il CT Zagallo - attacchiamo e basta".

 Eppure il Brasile arrivò da una preparazione difficile e non era certo arrivata in Messico da favorita: reduce da un brutto mondiale in Inghilterra, le qualificazioni (che si giocavano ancora con un girone diverso da quello odierno) videro il Brasile non faticare per nulla contro Colombia, Venezuela e Paraguay: sei vittorie e 23 gol segnati contro due soli subiti. Ma nonostante questo il clima era tutt'altro che sereno.

 Il CT che seguì le qualificazioni, João Saldanha, era un giornalista: si era ‘costruito' grazie alle sue amicizie giornalistiche e politiche, una professionalità da tecnico che in realtà quasi nessuno gli riconosceva. Saldanha, convinto che Pelé e Tostão non potessero giocare nella stessa squadra, litigò con giornalisti e dirigenti della Federcalcio, e arrivò a dire che Pelé avesse problemi di vista che la sua presenza al Mondiale poteva anche non essere considerata necessaria.

 Il Brasile la prese come un'offesa di stato: che si aggravò quando alle richieste del generale Emilio Medici, che dal canto suo amava molto un attaccante che si chiamava Dario e che non faceva parte dei piani di Saldanha, il CT rispose... "io non mi occupo del suo governo, lui non si occupi della mia squadra".

 Pochi mesi prima del Mondiale Saldanha fu esonerato e sostituito da Zagallo, esterno sinistro e chioccia di Pelè nei Mondiali del 1958 e del 1962. L'unico uomo che ha vinto quattro mondiali (due da giocatore uno da allenatore e l'ultimo nel 1994 come secondo allenatore).

 Zagallo, intelligente ad allenare la squadra ma altrettanto scaltro nell'intuire gli umori della folla che voleva tutte le sue stelle in campo, si affidò ai suoi giocatori di magggiore esperienza: famosa una riunione nello spogliatoio in cui il CT affidò il suo mandato a Gérson, Carlos Alberto, Brito e Pelé: "Dobbiamo fare questa cosa insieme", disse il tecnico. Pelè ottenne la sua maglia numero 10, Tostão perse la maglia simbolo ma ottenne un ruolo da titolare dimostrandosi un attaccante tra i migliori della storia del calcio; Rivelino venne schierato a sinistra con Wilson Piazza e Clodoaldo a fare da diga. E fin dalle prime partite ufficiali quella stessa squadra che i fan non riuscivano a ritenere la migliore possibile, girò come un orologio per diventare un simbolo tattico e tecnico che lascerà il segno nel calcio dei prossimi trent'anni. Se oggi guardiamo il famoso 4-2-3-1 di cui tanti parlano... beh, è nato proprio con quella squadra. Anche se Zagallo amava di più 'i pistoni' come li chiama lui: i due esterni che appesantivano una difesa a cinque o la linea esterna offensiva affiancandosi alle punte.

 Il Brasile parte con un 4-1 in rimonta sulla Cecoslovacchia: gol di Rivelino, di Pelè su splendido assist di Gerson, e poi doppietta di Jairzinho. Il 'miope' Pelé sfiorò la rete anche con un tiro da 60 metri.

 Contro l'Inghilterra campione in carica, salvata dalle parate di Banks, il gol è una meraviglia: Tostão dribbla tre difensori e con un no-look serve Pelé che, sempre senza guardare, offre a Jairzinho la palla della vittoria. Una delle immagini più belle di quella partita è lo scambio della maglia tra Pelé e Bobby Moore (che poi ritroveremo insieme in "Fuga per la Vittoria").

 Il Brasile si diverte contro la Romania vincendo 3-2 ma tenendo sempre la partita sotto controllo. I quarti di finale sono contro il Perù che aveva una delle squadre migliori della sua storia, battendo anche l'Argentina nelle qualificazioni e un CT come Didi, un'altra delle chiocce di Pelé. Il Brasile non ebbe molto rispetto per il suo vecchio amico: due gol di Tostão, altre reti di Rivelino e Jairzinho: finisce 4-2 ma poteva finire 6-0.

 Poi, con lo scheletro della Maracanaço (la sconfitta subita nella finale di Rio dall'Uruguay nel 1950) nell'armadio, il Brasile affronta proprio la Celeste in semifinale: l'Uruguay picchia ferocemente arrivando in un tackle a calpestare letteralmente il povero Pelé che, nel secondo tempo, finisce per difendersi e picchiare a sua volta. In "Fuga per la vittoria" c'è una citazione di quell'episodio quando Luis Fernandez (il caporale interpretato da Pelé), gioca con una costola rotta e finisce per rispondere per le rime alle gomitate di un giocatore tedesco. Uruguay in vantaggio (gol di Cubilla) con i giocatori che, in pieno clima di provocazione, ricordano ai giocatori brasiliani la tragedia del Maracana. Ma con il secondo tempo cambia la musica: prima Clodoaldo, poi Jairzinho e infine Rivelino a tempo quasi scaduto fissano il risultato sul 3-1. Mazurkiewicz dirà di aver vissuto come un incubo la sola presenza in campo di Pelé.

La finale purtroppo sappiamo bene com'è andata a finire. Il Brasile affronta l'Italia, reduce dall'epica sfida con la Germania, e vince 4-1: gol di testa di Pelé e dopo il pareggio azzurro, nel secondo tempo gol di Gerson, Jairzinho e Carlos Alberto.

 Restano le immagini sbiadite di quella squadra e della sua impresa, e i ricordi di un Brasile squassato da crisi e drammi sociali. Ma ubriaco di felicità di fronte a una squadra che ispirò il cinema, la letteratura, la musica. Le leggende intorno a quella squadra sono decine: alcune non del tutto positive. Ad esempio quella che riguarda il sindaco di San Paolo, Paulo Maluf, che regalò a tutti i giocatori come premio per la vittoria un Maggiolone. Ma pagò tutto con i soldi pubblici: fu condannato a restituire i soldi e nel 2005 dopo decenni di accuse di truffa e appropriazione indebita fu arrestato... Trentacinque anni dopo!

Fonte: it.eurosport.yahoo.com

 

 

Gigi Riva racconta il suo Mondiale

 

L’estratto dell’intervista al grande campione azzurro dal libro di Massimo Rota e Franco Dassisti, Il Mondiale è un’altra cosa (Bompiani)

 

In Il Mondiale è un’altra cosa (Bompiani) di Massimo Rota e Franco Dassisti 11 azzurri raccontano 40 anni di Mondiali da un punto di vista inedito e personale: quello del campo. E rivelano retroscena, rivalità, segreti dello spogliatoio. Scorrono 11 partite fondamentali, vittorie e sconfitte, da Messico 1970 a Sudafrica 2010. Al fianco dei racconti mondiali di Mazzola, Boninsegna, Zaccarelli, Collovati, Galli, Bergomi, Albertini, Di Biagio, Tommasi, Gattuso, Zambrotta, c’è un intervento di Sacchi, un incontro con Prandelli e un’intervista a Gigi Riva, per gli autori l’azzurro di sempre. Un eroe che: “non ha indossato la maglia azzurra, è la maglia azzurra. Tre numeri raccontano questa verità: 42-35-2. La prima cifra è relativa alle poche presenze (rispetto alla sua immensa classe) che ha collezionato in Nazionale; 35 sono le reti che ha messo a segno e che ne fanno il più grande cannoniere della storia azzurra; 2 le fratture che ha subito per difendere i colori della Nazionale.

Ecco un ampio stralcio dell’intervista al grande Rombo di Tuono, che pubblichiamo su gentile concessione degli autori e dell’editore.

Se pensa alla maglia azzurra, quali sono le prime immagini che le vengono in mente?

“Sono due e racchiudono un po’ tutta la mia vita azzurra.  La prima è la vittoria all’Europeo del 1968. La serata della finale, il mio gol in apertura. Il fatto che Roma quella notte non andò a dormire. Io avevo l’aereo per Cagliari alle 7 del mattino e ho girato tutta notte per partecipare ai festeggiamenti. Mi sono immerso in quell’allegra follia collettiva. La seconda è negativa ed è la frattura che ho subito a Vienna”.

Cosa rappresentava per lei quella maglia?

“L’ho sempre detto, la maglia azzurra mi si è attaccata alla pelle. La sento dentro. Quella del Cagliari l’ho altrettanto amata, ma in modo differente. Quei colori mi hanno dato tanto. In quest’isola mi sono fermato più di cinquant’anni fa e ho ricevuto affetto, amicizia.

Se potesse rigiocare una partita della Nazionale, quale sceglierebbe?

“Non ho dubbi quella con l’Austria che mi è costata troppo. Starei fuori, non scenderei nemmeno in campo. Quello è stato uno snodo importante della mia carriera. Avevo 26 anni e un incidente così grave non ci voleva proprio in quel momento. Se dovessi quantificare penso di avere perso un 20% di tiro, di stacco di testa, il cuore del mio gioco. Per tornare in una buona condizione ci ho messo un anno e mezzo”.

A rivedere le sue partite quello che impressiona è il coraggio, la voglia di battersi. Un’attitudine che gli attaccanti di oggi sembrano avere perso…

“Una volta se volevi fare gol dovevi non avere paura di entrare in area di rigore, accettare la battaglia con il tuo marcatore che poteva anche essere alto due metri e potente o piccolo e cattivo. Non potevi temere nessuno. Dopo il tuo marcatore trovavi il libero che era lì proprio per stenderti e prima o poi ti pigliava”.

Ci ha raccontato Boninsegna che dopo una serie di interventi rudi, è capitato che voi vi guardaste come a dire: ora questo lo mettiamo in mezzo…

“Confermo. Soprattutto sui calci piazzati e sui corner non si guardava la palla ma ci si interessava di più all’uomo. Tentavamo di metterlo in difficoltà. Erano tempi di battaglie, tempi molto differenti da oggi”.

In Nazionale ha giocato anche infortunato. Nel ’73 è sceso in campo a Roma con il Brasile con una contrattura e ha pure segnato…

“È vero, ma era l’inizio di una contrattura e poi ho giocato solo un tempo. Mi è arrivata una palla buona su una corta respinta del portiere Leão e ho fatto gol. E la partita successiva con l’Inghilterra a Torino l’ho saltata”.

Qual è il gol in Nazionale a cui è più affezionato?

“Per importanza non posso non citare la rete che ha sbloccato il risultato nella finale con la Jugoslavia agli Europei del ’68. Per bellezza penso al gol fatto alla Germania Est a Napoli durante le qualificazioni mondiali del ’70, in tuffo di testa. Mi piace perché avevo trovato il tempo giusto più che su un cross su un mezzo tiro proveniente da destra da parte di Domenghini. Una botta che cercava la deviazione e che sono riuscito a impattare bene con la fronte, tuffandomi in avanti”.

Con le regole di oggi Gigi Riva farebbe 40 gol a stagione…

“Certo qualche rete in più la farei. Oggi tutti i falli che subivo sarebbero da ammonizione o espulsione. Per non parlare dei falli che non si vedevano. Allora c’era una sola telecamera e quello che accadeva in campo rimaneva invisibile. attaccanti non erano minimamente tutelati. Infine bisognerebbe conteggiare anche quelle che una volta erano autoreti e oggi vengono date a chi tira in porta”.

Il record delle 35 reti che effetto le fece allora? E che ne pensa oggi?

“Devo dire che me lo sono goduto per quarant’anni, ma da sportivo credo che i record siano fatti per essere battuti. Ai tempi l’avevo cercato con caparbietà, senza però che diventasse un’ossessione. Rimane il rammarico per l’incidente che mi ha impedito di giocare molte altre partite e magari di segnare qualche gol in più”.

http://www.gqitalia.it/sport/calcio/mondiali-calcio/2014/06/10/gigi-riva-racconta-suo-mondiale/

 

 

“RICKY” ALBERTOSI, IL FALCO GRIGIO DI MESSICO 1970

Di Nicola Puccin

 

Ai più il nome dello scrittore austriaco Peter Handke non dirà niente. Altrettanto quello del regista tedesco Wim Wenders. Il primo nel 1970 scrisse il romanzo “La paura del portiere prima del calcio di rigore“, il secondo ne trasse un film. Ma proprio il ruolo del portiere è un insieme di nervi, pazzia e arte allo stesso tempo.

Proprio nel 1970, in un pomeriggio messicano allo Stadio Azteca di Città del Messico si consuma la famosissima sfida che si gustarono anche gli Dei del calcio. Passerà alla storia come la vera finale dei mondiali messicani. In realtà fu “solo” una semifinale. Quel Germania Ovest-Italia 3-4.

A difendere la porta azzurra un falco grigio che impedì ai panzer tedeschi di segnare più di tre gol. Era la Germania del Kaiser Beckenbauer e Muller. Il portiere deve comandare e essere leader in difesa. Si racconta che sul 2-3 per gli azzurri Muller sigla il momentaneo pareggio… e il falco grigio si arrabbia con Gianni Rivera, reo di non avergli impedito il tiro.

 Tenta di strangolarlo per la rabbia… si avete letto bene… per pochi secondi il Golden Boy ha rischiato forte…

 Il falco grigio non era altri che Enrico Albertosi, per gli amici Ricky. Nato a Pontremoli il 2 novembre 1939 da madre casalinga e padre maestro di scuola, che giocava a calcio nella Pontremolese. Sin da piccolo era affascinato dal ruolo del portiere, e già a 15 anni esordì in prima squadra. L’anno successivo andò allo Spezia. Nel 1958 lo prende la Fiorentina.

 Il suo esordio in serie A avviene in un plumbeo pomeriggio di gennaio, esattamente a Livorno, il 18 gennaio 1959. La partita: Roma-Fiorentina. L’Olimpico era squalificato, finisce 0-0. E giocò la partita come un veterano.

 Così il principe dei radiocronisti: Niccolò Carosio. “Niente scorpacciata viola contro la Roma, ma un buon primo tempo, un secondo alquanto opaco e zero al passivo soprattutto per merito del diciannovenne portiere Albertosi debuttante. A partita conclusa l’ottimo Albertosi, che in trasmissione ci aveva fatto provare emozioni, vertigini,stupore… tanto arditi, tanto plastici e sicuri erano stati molti suoi interventi. Appariva come uno qualunque al termine di una comune giornata lavorativa. Per niente emozioniato, per nulla commosso guardava stupito tutta quella gente che si occupava di lui, che lo festeggiava, che gli faceva gli auguri a non finire per una brillantissimo e proficua carriera“.

 I primi 5 anni gigliati li vive come secondo portiere alle spalle del suo maestro Giuliano Sarti. Nonostante questo gioca nel periodo 30 partite. Poi altre 5 stagioni, ma stavolta da titolare.

 Con la Fiorentina vince due Coppe Italia (1961-66), una Coppa delle Coppe (1961) una Mitropa Cup (1966). Nel 1968 passa al Cagliari con cui vincerà lo scudetto due anni dopo. Contemporaneamente stabilisce il record di minor gol subiti in un campionato a 16 squadre. 11 i gol al passivo di cui 2 portano la firma di due suoi compagni: Domenghini e il re delle autoreti, Comunardo Niccolai.

 Dopo 4 stagioni passa al Milan dove conosce le stelle e il baratro. Vince la Coppa Italia (1977), il campionato che permetterà ai rossoneri di cucire sulle maglie la stella (1978/79). Nel 1980 la pagina più nera della sua carriera: viene coinvolto nel calcio scommesse.

 L’Italia del tifo ricevette una botta tremenda. I calciatori coinvolti furono molti, ed alcuni illustri. Da Giordano a Chinaglia, a Paolo Rossi ed altri ancora.

 Il 10 febbraio 1980 a San Siro contro il Perugia disputa la sua ultima partita in serie A e si ferma a 532 presenze. Viene squalificato per 2 anni e il Milan quale società coinvolta retrocessa in B.

 Nel 1982 scontata la squalifica trova un ingaggio nella squadra marchigiana dell’Elpidiense in C2 in cui rimase 2 anni sino al definitivo ritiro nel 1984.

 Ma non fu solo vita di club. Giocò in Nazionale la prima volta il 15 giugno 1961 nella sua Firenze in un Italia-Argentina (4-1).

 Fate caso alla data. In quel periodo Albertosi non era neppure titolare nella Fiorentina. Nel 1966 fece parte della spedizione azzurra ai mondiali d’Inghilterra. Sì quelli della vergogna. Quella del “dentista” Pak Doo Ik. Fu tra i pochi a “salvarsi” nella disfatta.

 Nel 1968 alla vigilia dell’Europeo di calcio, a causa di un infortunio, lascia la porta azzurra a Dino Zoff. L’Italia quell’Europeo lo vinse.

 Ma arriviamo al 1970. E quel mondiale vissuto da uomo ragno. Perché quella nazionale avrebbe potuto portare a casa la terza Coppa Rimet. Se non fosse che davanti, in finale, trovò il miglior Brasile del secolo, in cui giocavano: Tostao, Pelè, Carlos Alberto, Jairzinho, Rivelino… insomma l’unico che non sapeva giocare era il portiere Felix.

 Ultima partita in nazionale il 21 giugno 1972, Bulgaria Italia 1-1. Dopo il ritiro fino al 2000 si occupò della supervisione e preparazione dei portieri della piccola società Margine Coperta di Massa e Cozzille (PT).

 

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 Nel 2004, durante una gara benefica di trotto, fu colpito da una tachicardia ventricolare che lo portò ad essere tenuto in coma farmacologico. Si riprese senza conseguenze.

 Albertosi era un portiere spericolato, e spettacolare nelle parate. Viveva fregandosene del decalogo dell’atleta perfetto. Due grandi passioni: sigarette e cavalli. Il suo più grande rivale in nazionale fu Dino Zoff. In un’intervista disse: “Il più forte fra me e Dino? Non scherziamo. Io naturalmente. Zoff era uno che se saltava un allenamento o faceva l’amore venerdì, la domenica aveva le gambe molli. Io invece lo facevo il sabato e la domenica mi esaltavo“.

 Delle sigarette c’è un aneddoto famoso. Scopigno, allora allenatore del Cagliari entrò nello spogliatoio. Trovò una nube di fumo ed i giocatori che giocavano a carte. Senza scomporsi li guardò e chiese loro: “Do fastidio se fumo?“

 – “Te presento Albertosi. El ga tuto quel che mi no poso soportar: el Magna, el bevi, el va in giro de notte, el xe’ carico de nave, el scometi sui cavai come ti. Ma mi lo tegno perché el xe’ Meo portier del mondo….” – Nereo Rocco

https://sport660.wordpress.com/2016/12/05/ricky-albertosi-il-falco-grigio-di-messico-1970/

(Roberto Boninsegna, da un'intervista di Aldo Pacor)

"Messico '70, il primo Mondiale del dopoguerra favorevole all’Italia, non sarà mai dimenticato da chi lo ha masticato dal primo all’ultimo giorno. Ma è un Mondiale del quale si può parlare all’infinito; almeno per me, che vi sono stato paracadutato quando sembrava lo dovessi vedere in tv. La mia soddisfazione, anche se il Brasile ci ha puniti nella finale, è stata doppia, perché io non c’entravo, erano già tutti in Messico quando una notte sono stato buttato giù dal letto dal ragionier Bianchi che mi ha detto: va domattina al consolato messicano di Milano e poi prendi il primo aereo e fila ai Mondiali. Al consolato sbatto contro Pierino Prati, anche tu qui? Sì, ci hanno richiamati. Che cos’era successo? Anastasi era stato ricoverato all’ospedale a Roma per un intervento inguinale. Lui era il titolare. Così con Valcareggi erano partiti in ventuno, mentre dovevano essere ventidue. Era mancato un attaccante e Valcareggi si rese conto che due soli attaccanti, Riva e Gori, per un Mondiale erano pochi, così recuperarono Prati ed io, già scartati!

Ci ritrovammo in ventitré, e questa è stata una brutta e deprimente faccenda. Arrivati al mattino, la sera si è scatenato il toto-rientro anticipato. A chi tocca? A noi appena arrivati no, agli inamovibili da sempre nemmeno, ma uno ci doveva essere. E ci fu, il ragazzo più buono di tutti. Bisognava vederlo, Giovanni Lodetti, uno dei milanisti. Uno straccio, quando gli comunicarono che doveva ripartire per l’Italia, settemila chilometri. È stato un atto crudele, inumano. Mandelli? Va bene alla Confindustria. Sì, allora comandava lui.

(Mandelli fece capire a Rivera che non sarebbe partito titolare e il milanista fu sul punto di fare fagotto e tornare a casa, così raccontava Rocco, che arrivò di corsa per calmarlo. Poi, dopo qualche partita, il compromesso e la staffetta) La mia opinione è questa: Rivera e Mazzola erano due grandissimi giocatori ai quali nessuna nazionale avrebbe rinunciato. Ma là ci furono anche altri fattori che incisero nelle decisioni. La stampa era divisa a metà sui due giocatori. E la stampa ha il suo peso, perché non mi si venga a dire che è stato il gruppo dell’Inter a far fuori Rivera. Questa è una bugia colossale. Né io, né Bertini, né Facchetti, né Burgnich abbiamo aperto bocca, anche perché non siamo mai stati interpellati. Io non vivevo in clan; avevo i miei amici, Albertosi, Poletti, Gori, Prati.

Mazzola? Beh, il “baffo” forse, anche perché era parte interessata. Il problema io lo vidi così: scelta politica. Altrimenti la staffetta che si fece dopo non aveva ragione di esistere. I due, grandi giocatori, non potevano scendere in campo insieme, perché erano diversi in tutto, nel carattere, nel senso di posizione, nella mentalità in campo, nel gioco. Però, visto come erano andate le cose, Valcareggi ha commesso un errore colossale a non far entrare in campo Rivera nel secondo tempo di Italia-Brasile. Mi stava anche bene che lo lasciasse in panchina per tutte le altre partite, ma quella no. Se c’era una partita nella quale ci doveva essere Rivera era proprio quella col Brasile.

Un incontro dei giocatori per decidere l'esclusione di Rivera? Io non ho partecipato a riunioni, e poi, ripeto, non facevo parte di nessun gruppo o di clan. Valcareggi a me non ha mai chiesto niente. I miei rapporti con lui sono stati difficili. Ho sempre sofferto per entrare in Nazionale. In Messico sono stato classificato il secondo centravanti dopo Gerd Muller, però, non appena la Nazionale si è ritrovata dopo i Mondiali, io ho avuto posto solo in tribuna. Che tecnico era? Un brav’uomo.

Chi comandava? Franchi, era l’unico dirigente all’altezza. Mandelli come capogruppo d’équipe è fallito in Messico, come fallì poi Allodi in Germania. Perché la staffetta? Valcareggi al principio aveva visto giusto, o Mazzola o Rivera. E fece giocare Mazzola che aveva fatto un grande campionato con l’Inter, aiutandomi anche a fare parecchi gol. Mazzola copriva di più, con Rivera rischiava di più. Ma poi gli imposero la staffetta. Non la decise lui. Fu una strana spedizione quella. Buoni risultati, ma sempre polemica, caos, i giornali non ce li facevano leggere, ma sapevamo lo stesso che infuriavano pareri contrastanti.

Bilancio buono per l'Italia? Senz’altro. Io dico di più, avevamo una squadra fortissima, la migliore che l’Italia abbia espresso nel dopoguerra: Albertosi, Burgnich, Facchetti, Bertini, Rosato, Cera, Domenghini, Mazzola o Rivera, Boninsegna, De Sisti, Riva. Nell’82 abbiamo vinto i Mondiali in Spagna, ma li abbiamo vinti in Europa. In Centro e Sud America non ha mai vinto una squadra europea (fino alla Germania nel 2014, ndr), e noi ci siamo andati vicini. Se potevamo vincere? Non so, ma si poteva fare di più. Due sono i motivi che ci hanno impedito di batterci meglio col Brasile nella finale: primo, i supplementari con la Germania; secondo, la non utilizzazione di Rivera. Ripeto, avevamo una grande Nazionale, però gestita male.

Certi di vincere la finale dopo il 4-3 ai tedeschi? No, questo no. Però, rientrati in ritiro ci siamo messi a tavola molto euforici, e adesso sotto col Brasile, urlavamo. Invece il giorno dopo eravamo morti. Quei centoventi minuti di gioco erano stati micidiali. Così, al Brasile, che aveva Pelé, noi abbiamo regalato i supplementari e Rivera. Un vantaggio troppo grosso. Abbiamo resistito un’ora. Loro hanno fatto il secondo gol con Gerson al 66′. Albertosi era un po' in tilt sin dalla drammatica partita con i tedeschi, quando s’era arrabbiato prima con Poletti per il secondo gol e con Rivera per il terzo. Non era il solito Ricky. Arrivò tardi su quel tiro di Gerson che si poteva parare. I brasiliani erano freschi e non stressati come noi. In semifinale con l’Uruguay avevano avuto vita facile. Noi siamo stati stroncati dalla mezz’ora storica con la Germania. Dopo il gol di Gerson ne abbiamo subito un altro balordo: Pelè era in fuorigioco quando diede la palla a Jairzinho. Ad ogni modo abbiamo fatto di più di quanto dovevamo fare.

Qualcuno parla della fatica fatta nelle prime tre partite, quelle con Svezia, Uruguay e Israele, ma non è vero. Eravamo in fase di carburazione, ma abbiamo giocato piuttosto tranquilli. Con la Svezia abbiamo fatto subito gol con Domenghini, un gol trovato, grazie al portiere Hellstrom, d’accordo, ma pur sempre il gol che ci bastava. Con l’Uruguay lo zero a zero andava bene sia a noi che a loro. Con Israele dovevamo vincere nettamente, ma un segnalinee ci giocò brutti scherzetti, annullandoci due o tre gol. Per più di un’ora giocammo senza preoccupazioni, ma nel finale vivemmo attimi di autentica paura, perché gli israeliani si erano fatti più intraprendenti. Bastava un loro gol e per noi sarebbe stata finita. Insomma, difendemmo lo zero a zero. In quella partita Rivera era entrato per la prima volta nel Mondiale, sostituendo nel secondo tempo Domenghini, poi la staffetta la fece con Mazzola.

Com’era il pubblico a Puebla e Toluca? Niente di particolare. In pratica non lo abbiamo mai avuto con noi. Subito dopo giocammo con il Messico, che noi eliminammo per 4 a 1 e perciò ci ritrovammo il tifo contro all’Azteca quando affrontammo la Germania. I messicani erano per i tedeschi, che tra l’altro davano da lavorare a molta gente con la Volkswagen. Diciamo che durante tutti i Mondiali il pubblico non ci è mai stato esageratamente contro, ma nemmeno mai a favore. Gli ultimi sei minuti di Rivera col Brasile? E chi li ha capiti?

I fischi al ritorno a Fiumicino? Devo dire che, tutto sommato, il Mondiale è stato per noi felice e positivo. Vicecampioni del mondo. Poi ha avuto riscontri incredibili, vicecampioni e criticati. Ma a Fiumicino la gente non ce l’aveva con noi giocatori. Cercava i dirigenti e forse qualche giornalista. La stampa spaccandosi in due, Mazzola e Rivera, aveva complicato molte cose. I tifosi cercavano Mandelli e Valcareggi. È stato un epilogo amaro quando doveva essere trionfale per tutti“.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ELIMINATA AL PRIMO TURNO

 

 

Ferruccio Valcareggi

 

1 Zoff · 2 Spinosi · 3 Facchetti · 4 Benetti · 5 Morini · 6 Burgnich · 7 Mazzola · 8 Capello · 9 Chinaglia · 10 Rivera · 11 Riva · 12 Albertosi · 13 Sabadini · 14 Bellugi · 15 Wilson · 16 Juliano · 17 Re Cecconi · 18 Causio · 19 Anastasi · 20 Boninsegna · 21 Pulici · 22 Castellini 

 

15-6-1974, Monaco (MO) Italia-Haiti 3-1 Reti: 46’ Sanon, 52’ Rivera, 64’ aut Auguste, 78’ Anastasi Italia: Zoff, Spinosi, Facchetti, Benetti, F. Morini, Burgnich, A. Mazzola, F. Capello, Chinaglia (69’ Anastasi), Rivera, Riva. Ct: F. Valcareggi. Haiti: Francillon, Bayonne, Auguste, François, Nazaire, Jean Joseph, Vorbe, Antoine, Sanon, Desir, G. Saint Vil (46’ Barthelemy). Ct: A. Tassy. Arbitro: Llobregat (Venezuela).

19-6-1974, Stoccarda (MO) Italia-Argentina 1-1 Reti: 20’ Houseman, 35’ aut. Perfumo Italia: Zoff, Spinosi, Facchetti, Benetti, F. Morini (66’ Wilson), Burgnich, A. Mazzola, F. Capello, Anastasi, Rivera (66’ Causio), Riva. Ct: F. Valcareggi. Argentina: Carnevali, Wolff (64’ Glaria), Sa, Telch, Heredia, Perfumo, Ayala, Babington, Yazalde (78’ Chazarreta), Houseman, Kempes. Ct: V. Cap. Arbitro: Kasakov (Urss).

23-6-1974, Stoccarda (MO) Polonia-Italia 2-1 Reti: 38’ Szarmach, 44’ Deyna, 85’ F. Capello Polonia: Tomaszewski, Szymanowski, Musial, Kasperczak, Zmuda, Gorgon, Lato, Deyna, Szarmach (77’ Cmikiewicz), Maszczyk, Gadocha. Ct: K. Gorski. Italia: Zoff, Spinosi, Facchetti, Benetti, F. Morini, Burgnich (31’ Wilson), Causio, F. Capello, Chinaglia (46’ Boninsegna), A. Mazzola, Anastasi. Ct: F. Valcareggi. Arbitro: Weyland (Germania Ovest).

 

 

 

Haiti

 

Giugno 1974: i caraibici erano in festa dopo il gol che fece tremare l'Italia in Germania. Poi, sull'isola, mai più calcio. Ma oggi c' è ancora chi lotta perché il pallone abbia un futuro.Avevano previsto tutto, tranne la pioggia. Si erano preparati alle sgroppate di Facchetti, ai tocchi di Rivera e alle fucilate di Gigi Riva, li avevano studiati minuziosamente, per ore, tappati nell'ostello gelido di Monaco di Baviera. Non sapevano che un acquazzone li avrebbe messi in ginocchio. Ad Haiti l'erba è un bene prezioso.

Philippe Vorbe, all'epoca  centrocampista, occhi, azzurri come il Caribe, spacca il silenzio con la sua voce tuonante:"Per mesi ci siamo allenati sulla terra battuta, con le scarpette dal fondo liscio. Degli azzurri conoscevamo ogni dettaglio ma, credetemi, rimanere in piedi o soltanto toccare il pallone sopra un prato fradicio era qualcosa di impossibile per la maggior parte di noi".

Sono passati più di 30 anni da quel pomeriggio di giugno. Fu il giorno in cui una generazione di fenomeni chiamò mestamente il cambio. Facchetti, Rivera, Mazzola, Riva, Chinaglia: i vice-campioni del Mondo del Messico al loro capolinea. Perché ciò accadesse, si erano resi necessari undici dilettanti haitiani con le scarpe sbagliate e l'entusiasmo della prima volta.

 

Mondiale di Germania, gara d' esordio: Italia Haiti. Alla fine del primo tempo il parziale è di 0-0. Ecco: visto dalla prospettiva di Port au Prince, con il vecchio porto inondato di sole e povertà, quel Mondiale sarebbe dovuto finire lì. Italia Haiti 0-0. Sarebbe stato meraviglioso e, chissà, forse la storia, non solo calcistica, avrebbe preso un'altra piega. Invece si tornò in campo: giusto in tempo per vedere Emmanuel "Manno" Sanon evadere con facilità dalla guardia di Luciano Spinosi per segnare il più celebrato dei gol mondiali: quello che mise fine al record d'imbattibilità di Zoff.

A Port au Prince vi furono feste istantanee, caroselli per strada e anche un paio di morti, perché qui celebrazioni e dispute hanno la stessa colonna sonora: i colpi di arma da fuoco. Il caos durò sei minuti: il tempo necessario perché Rivera pareggiasse. Poi vennero l'autogol di Auguste e il gol di Anastasi. Italia Haiti 3-1. Avremmo dovuto farne almeno cinque. Ci eliminò l'Argentina per differenza reti. Haiti ci aveva fregati.

Di quella formazione capace di conquistare quell'unica qualificazione ai Mondiali, Philippe Vorbe è l'unico che ancora vive in patria. Tutti gli altri sono scappati all'estero. Negli uffici cadenti della federazione locale, l'impresa di quegli uomini è ricordata con una fotocopia color seppia, attaccata a una parete. Fine. Racconta Vorbe: "Perdemmo con l'Italia, ma nel primo tempo avevamo giocato meglio. Poi ce ne fecero sette i polacchi e quattro gli argentini. Eravamo bravi, ma con zero esperienza per quel livello. Di sicuro eravamo un gruppo forte che avrebbe potuto riprovarci nel '78. Ma non ci fu data la possibilità".

Non solo. Per colpa di quella spedizione, il calcio fu cancellato dall'isola. Quella nazionale era stata voluta con forza e finanziata da Baby Doc in persona, il sanguinario dittatore che dominò il Paese per 15 anni. Fu lui a ottenere in modo sospetto di ospitare ad Haiti la fase finale della qualificazione al Mondiale. Raggiunto l'obiettivo, ottenuto anche grazie a qualche arbitraggio non proprio irreprensibile, Baby Doc regalò a ogni calciatore una Fiat 147 di seconda mano. Ma non permise loro di usarla: li spedì anzi in Germania con mesi di anticipo perché si preparassero alla grande impresa. Il tam tam mediatico era stato tale che si sospetta fosse servito a Baby Doc per sbarazzarsi dei suoi oppositori in totale tranquillità. Quasi 40 mila dissidenti trucidati, col Paese distratto dal grande evento.

Poi però il Mondiale, a parte quei 45 minuti con l'Italia, fu una missione non all'altezza delle aspettative. Baby Doc chiuse così ogni risorsa al calcio. Racconta Vorbe: "Sapevamo che c'era la politica alle nostre spalle, ma non ce ne siamo mai preoccupati. Ci volevamo bene, credevamo nel nostro lavoro e quando battemmo Messico e Polonia durante una serie di amichevoli in casa nostra acquistammo la fiducia necessaria. Poi ci trasferimmo a Monaco e quello fu un errore...".1 2 3 4 Antoine Tassy, il tecnico maniacale, aveva abitudini bizzarre. Non permetteva ai suoi di uscire dall'ostello, e impartiva allenamenti massacranti. Unica licenza: la visita di gruppo allo zoo, dove Vorbe, Sanon e il portiere Francillon firmarono estasiati i loro primi autografi."Ci scaricammo sul piano nervoso. Troppo lunga l'attesa, troppo forte la nostalgia di casa. Sapevamo che l'Italia era nervosa e preoccupata a causa del dualismo Mazzola-Rivera, però poi entrammo in campo già cotti".

Al ritorno in patria li accolse l'ira di Baby Doc. In pochi anni, quasi tutti lasciarono il Paese per paura delle conseguenze. Sanon, il giustiziere di Zoff, trovò posto in Belgio, poi emigrò negli Usa. Il "gatto nero" Francillon provò la sorte proprio in Baviera, nel Monaco 1860 a 500 mila lire lorde al mese, pagandone 100 mila di affitto. Ma faceva troppo freddo e dopo due mesi il tecnico, di nome Merker, lo cacciò perché non parlava una parola di tedesco. Anche Francillon oggi vive negli Stati Uniti, vicino a Boston.

Vorbe, l'unico mulatto di quella squadra, figlio di agiati imprenditori, non mollò. Giocò anche negli Usa, agli albori del soccer, assieme a Luis Cesar Menotti, poi tornò ad Haiti a farsi testimone di vent'anni di orrori. "Sono in contatto solo con alcuni elementi di quella squadra. Ci sentiamo ogni tanto, i ricordi di quell'Italia vengono fuori. Non potrò mai dimenticare Capello in quel primo tempo: gli azzurri erano incavolati, capivano che le cose non andavano come volevano loro. Lui me ne diceva di tutti i colori. Non capisco l'italiano, ma so che mi odiava perché quella non era una passeggiata".Oggi Philippe allena i giovani della sua squadra storica, il Violette AC. Era il tecnico della prima squadra, ma ha dato le dimissioni dopo aver subito un'aggressione in panchina da parte di indisturbati tifosi avversari. Preferisce i ragazzi. Li raduna ogni mattina alle sette in uno spiazzo spelacchiato poco distante dall'aeroporto, e trasmette loro l'entusiasmo di sempre. "Ci vorranno forse vent'anni per rivedere Haiti a un Mondiale. Purtroppo stiamo perdendo generazioni di potenziali buoni giocatori. Ma qui le priorità sono altre".

http://www.storiedicalcio.altervista.org/haiti_mondiali_1974.html

 

 

SANON, L’HAITIANO CHE BEFFO’ ZOFF AI MONDIALI DEL 1974

 

Questa è una storia che sa di polvere e romanticismo; che regala qualche minuto di gloria a chi ha passato la vita in sotterranea; che si chiude anzitempo e lascia a chi la legge un non so che di malinconico. Ma ha valore umano come non molte altre.

21 febbraio 2008, Emmanuel Sanon muore per un tumore al pancreas all’età di 56 anni. Ed un paese intero si ferma per lutto.

Sanon, chi era costui? Elevato al rango di comandante dal presidente haitiano René Préval un anno prima della sua morte, è nientepopodimeno che un eroe nelle Grandi Antille, status di icona che deve al suo exploit nella Coppa del Mondo di calcio. Ai Mondiali di Germania del 1974, infatti, l’attaccante che gioca per il Don Bosco – un piccolo club a Petionville, non lontano da Port-au-Prince dove è nato – segna entrambi i gol per la sua squadra e diventa, da quel giorno, l’unico marcatore di Haiti in questa competizione.

Emmanuel Sanon ha il merito di aver colto al balzo l’occasione per far parlare di lui. Già nel match d’esordio con la blasonatissima Italia, vice-campione del mondo e con non celate ambizioni di grandezza anche in terra di Germania, inganna Dino Zoff all’inizio del secondo tempo, facendo crollare inaspettatamente l’imbattibilità del portiere azzurro dopo 1142 minuti di rete inviolata.

 In Germania Sanon è forse l’unico giocatore di Haiti capace di tener la testa fuori dall’acqua, in una squadra in pieno naufragio collettivo che colleziona tre sconfitte in altrettante partite contro l’Italia, 3-1, la Polonia, 7-0, e Argentina, 4-1. Movenze feline e capacità di accelerazione, Sanon gioca sulle sue qualità principali, che non mancano proprio di incuriosire gli osservatori della squadra belga del Beerschot. Che lo assoldano tempestivamente al termine della kermesse mondiale, catturati dal bagaglio tecnico e dall’esuberanza atletica del ragazzo, poco più che ventitreenne.

 La storia con il club belga dura sei anni (1974-1980). La recluta haitiana conquista la simpatia e l’ammirazione di tutti, dal più accanito dei sostenitori al presidente. Per la sua gentilezza dentro e fuori dal campo, tanto da non aver mai ricevuto un’ammonizione durante la sua permanenza in Belgio, e la sua abilità sotto porta (Sanon mette a segno 43 gol in 142 partite ufficiali).  “Manno”  si impone come il re del piede piatto e del gioco di testa decisivo.

 Un uomo di valore che se ne va a testa alta al termine del suo contratto realizzando un nuovo exploit, ovvero ponendo la sua firma in occasione di un appuntamento importante. Nel 1979, durante la finale della Coppa del Belgio, Sanon affonda sull’ala offrendo il gol della vittoria al compagno di squadra Johan Conynx. Il Beerschot si impone per 1-0 contro il Club Brugge, e il giocatore di Haiti ottiene l’unico trofeo del suo palmares. Un grande riconoscimento per un atleta non certo abituato a vincere titoli, ad eccezione di alcune distinzioni personali: ingresso tra i “100 eroi della Coppa del Mondo” (54°), una classifica pubblicata dalla rivista France Football, e una quarantina di reti (47 per l’esattezze) in 100 presenze tonde per Haiti. Accessori di una carriera che gli sono valsi un funerale di stato dopo la sua morte. Onore concesso fino a quel momento ad un solo altro sportivo di Haiti, Silvio Cator, medaglia d’argento nel salto in lungo alle Olimpiadi di Amsterdam (1928), deceduto nel 1952.

 Emmanuel Sanon lascia il Belgio nel 1980 per stabilirsi in seguito negli Stati Uniti, accasandosi prima ai Miami Americans, poi ai San Diego Sockers. L’esperienza nel campionato NASL è positiva, dopodiché per un breve periodo si esibisce in Messico a fianco di Hugo Sanchez, fin quando un brutto infortunio al ginocchio costringe al ritiro dall’attività questo globe-trotter del pallone.

 Si trasferisce definitivamente in Florida, ad Orlando; gli viene affidata la guida della Nazionale di Haiti nel biennio 1999-2000 ma è nelle opere caritative che l’uomo di distingue, creando una fondazione a suo nome per la lotta alla povertà del suo paese.

 Il giorno del suo funerale più di diecimila persone danno l’estremo saluto ad Emmanuel Sanon, omaggio all’altezza della dimensione umana di questo internazionale dal cuore grande così.

 In seguito, il Club Don Bosco ha ritirato la maglia numero 10. Perché alcuni uomini, e Sanon è stato uno di questi, sono insostituibili.

https://sport660.wordpress.com/2016/07/01/sanon-lhaitiano-che-beffo-zoff-ai-mondiali-del-1974/

 

 

ll mondiale del vaffa di Chinaglia

di Alessandro Bernini

 

L’avventura dell’Italia dura un battito di ciglia. Gli azzurri nella prima fase battono Haiti 3-1 ma al termine di una partita sofferta. Il pareggio 1-1 con l’Argentina rimanda tutto all'ultima partita del gironcino, contro la Polonia: Valcareggi lascia fuori Gigi Riva e Gianni Rivera ma la nazionale è spenta, grigia, gli avversari hanno una marcia in più, si portano subito sul 2-0, poi segna Fabio Capello all’85’ ma è una rete inutile: finisce 2-1, siamo fuori.

La paura si insinua lungo il perimetro dei 24 giorni del mondiale 1974 in Germania Ovest, allora le Germanie erano ancora due.  Troppo fresco e doloroso il ricordo del massacro di Monaco, con 17 vittime durante le Olimpiadi di due anni prima. Ecco perché si rivela il mondiale delle più ferree misure di sicurezza: polizia schierata in massa prima e dopo le partite, ritiri delle squadre presidiati, nazionali scortate ogni attimo. L’Italia si presenta tra le favorite con Brasile e Olanda, un gradino più sotto la Germania Ovest. Ma ben dieci giocatori convocati dal Ct Ferruccio Valcareggi hanno superato abbondanentemente i 30 anni, la formazione è quasi la stessa di quattro anni prima, quella che ha perso in finale con il Brasile. Si punta soprattutto su Giorgio Chinaglia, capocannoniere e campione d’Italia con la Lazio, ma di lui resteranno più veleni che gol. Soprattutto l’immagine di una sua uscita dal campo, sostituito durante la prima partita, con un plateale gesto di disprezzo verso la panchina.

L’avventura dell’Italia dura un battito di ciglia. Gli azzurri nella prima fase battono Haiti 3-1 ma al termine di una partita sofferta. Il pareggio 1-1 con l’Argentina rimanda tutto all’ultima partita del gironcino, contro la Polonia: Valcareggi lascia fuori Gigi Riva e Gianni Rivera ma la nazionale è spenta, grigia, gli avversari hanno una marcia in più, si portano subito sul 2-0, poi segna Fabio Capello all’85’ ma è una rete inutile: finisce 2-1, siamo fuori. Passano Polonia e Argentina, quest’ultima con tre punti come noi ma con una migliore differenza reti.

 

 

Non ci resta che fare da spettatori ai due gironcini che determineranno le finaliste. Nel gruppo A l’Olanda del calcio totale (Johan Crujff ne è il simbolo) vince sempre e va in finale lasciando al secondo posto il Brasile, nel gruppo B invece la Germania Ovest precede la Polonia. L’ultimo ritaglio tricolore ce lo regala l’arbitro Aurelio Angonese che dirige la finale per il terzo posto, vinta dalla Polonia 1-0 sul Brasile (gol di Grzegorz Lato). Nella finalissima all’Olympiastadion di Monaco, una bolgia trascina la Germania Ovest alla grande rimonta sull’Olanda: segna subito Johan Neeskens su rigore, pareggia al 25’ Paul Breitner sempre su rigore, poi al 43’ Gerd Muller firma il 2-1. Vent’anni dopo la Germania Ovest torna sul tetto del mondo.

 

 

Facchetti, seguito da Boninsegna, tenta invano di sfondare la difesa polacca.

 

 

 

Valvareggi, l'uomo della staffetta

C’era il triestino Nereo e c’era l’altro triestino, Uccio. Con il paron te la spassavi, volendo avresti potuto comporre un romanzo. Con Valcareggi rischiavi di non scrivere nemmeno una riga. Perché Ferruccio Valcareggi non era spinto dalla bora a dire e divertire, era un uomo probo e con qualche frase sgrammaticata («Rivera e Mazzola hanno fatto la sua partita») sapeva di football che, nel settore, sembra sempre di più merce rara. Per i contemporanei, agitati dalle prove tv e dalla perdita di memoria, segnalo che la nazionale italiana allenata da Valcareggi vinse un titolo europeo nel 1968 contro la Jugoslavia e perse la finale mondiale del 1970 contro il Brasile, il Brasile di Pelè e Jairzinho, non di Dunga e Bebeto. Al rientro in Patria vennero presi a monetine e pomodori, Uccio e gli altri azzurri con l’eccezione del «pallido prence mandrogno» (copyright Gianni Brera), al secolo Gianni Rivera, eroe di comodo per i 6 minuti concessigli dal suddetto Uccio nella finale contro i brasiliani. Letto l’almanacco, che comunque fa prima cronaca e poi storia, Valcareggi fa di sicuro parte di coloro che hanno dato luce al nostro calcio, anche per la rilettura tattica e caratteriale che ne seppe fare, dopo le comiche del 66.

Ho detto apposta comiche. Infatti all’epoca Valcareggi era tra i consulenti di Mondino Fabbri e alla vigilia della partita contro la Corea andò a osservare gli avversari e tornò con una relazione ridotta all’osso: «Sembrano Ridolini» paragonandoli a Larry Semon, protagonista americano del cinema muto, da noi tradotto appunto in Ridolini. A ridere fu mezzo mondo, grazie al colpo di Pak Doo Ik, l’Italia perse partita e faccia, Valcareggi restò dietro il palcoscenico ma due anni dopo diventò, grazie alla reggenza Franchi e all’opera astuta di Mandelli e Allodi, l’uomo della provvidenza.

 

 

Non erano tempi tanto facili. Valcareggi doveva gestire le mattane di Giorgio Chinaglia che lo mandò a quel paese in mondovisione, dopo la staffetta con Anastasi in un’altra celebre ridolinata contro Haiti; fece i conti con la notte brava dello stesso Pietruzzu Anastasi alla vigilia del mondiale messicano; poi nell’altura messicana c’erano molte teste euforiche, Rivera voleva tornarsene a casa, Nereo Rocco gli ordinò di restare, incominciarono le trasmissioni televisive intercontinentali e Manlio Scopigno così descrisse l’impiego di Comunardo Niccolai: «Tutto mi sarei aspettato nella vita ma non di vedere Niccolai via satellite».Valcareggiil Ct che divise l'Italia con la staffettaPortò gli azzurri al titolo europeo, fu secondo ai mondiali del ’70 in Messico. Ma passò alla storia per il cambio tra Mazzola e Rivera Lo svedese Kindvall mandò in frantumi Comunardo e le battute di Scopigno, giocò Rosato con il ginocchio valgo. Fu un mondiale allegro, Carosio per colpa di un guardalinee etiope che segnalò un off side di Domenghini («cosa sbandiera l’etiope!») venne sospeso (senza farsi eleggere al parlamento europeo) e sostituito a vita da Nando Martellini, battemmo il Messico 4 a 1, Valcareggi era uno zucchero, Beppe Viola confezionò un memorabile servizio televisivo, l’autorete di Peña, la doppietta di Riva, il gol di Rivera erano accompagnati dalla voce di Jannacci che cantava Messico e nuvole!.

Venne il 4 a 3 leggendario con la Germania e poi la finale amarissima con il Brasile, tutto firmato da Ferruccio Valcareggi e dalla sua orchestra. Così come la vittoria di Wembley, sull’Inghilterra, il tiro di Chinaglia, la respinta di Shilton e il carrello basso di Capello che mette in rete nel tempio ammutolito, dopo che i tabloid avevano presentato l’evento così: «Settantamila inglesi contro undici camerieri».

Questo era il tempo di Ferruccio Valcareggi che fu anche calciatore con Triestina e Fiorentina, Bologna e Vicenza, Milan, Brescia, Piombino e Lucchese, che in nazionale era chiuso da gente illustre, da Mazzola Valentino in giù e che aveva preso dimora e quasi accento toscano vivendo tra Coverciano, ormai un museo delle cere azzurre, e il Franchi di Firenze.

Rivedendolo in alcune fotografie dell’epoca, con quella tuta celeste, la scritta cubitale ITALIA, divisa dalla zip, a gonfiare il petto, priva di sponsor e di altri orpelli, sembra davvero di risentire il profumo dell’olio canforato e di rivivere un giornalismo e un football che ormai sono stati sepolti. Il minuto di silenzio è doveroso, dopo quel lungo, miserabile silenzio che il nostro calcio ha riservato a Ferruccio Valcareggi, mezzala e allenatore di un tempo ormai perduto.

di Tony Damascelli

http://www.storiedicalcio.altervista.org/damascelli_valcareggi.html

 

 

 

 

 

 

L’Olanda del calcio totale

 BaroneRosso -  4 novembre 2014

 

Il calcio olandese, alla fine degli anni 60, coi successi di Ajax e Feyenoord, porta alla ribalta europea un modo di giocare per l’epoca rivoluzionario, basato sulla rinuncia alle specializzazioni e su un atletismo spinto, concetti sino ad allora praticamente sconosciuti. Rinus Michels sarà la guida di questo vero e proprio sconquasso tattico, fedele al suo credo che prevedeva di allargare il campo in fase di possesso palla (sarà più facile mantenerne il possesso) e rimpicciolire il campo quando è la squadra avversaria ad avere la palla, per rendere più difficoltoso il mantenimento di tale possesso. Al giorno d’oggi possono apparire ovvietà ma per il calcio di allora erano concetti assolutamente fuori dagli schemi.

Si inizia a definire il calcio giocato dalle squadre olandesi come ‘calcio totale’, uno stile di gioco per cui ogni calciatore che si sposta dalla propria posizione è subito sostituito da un compagno, permettendo così alla squadra di mantenere inalterata la propria disposizione tattica. Secondo questo schema di gioco nessun giocatore è ancorato al proprio ruolo e nel corso della partita chiunque può operare indifferentemente come attaccante, centrocampista o difensore.

Ad integrazione di questi atteggiamenti individuali il calcio totale è stato anche il primo stile di gioco ad applicare sistematicamente il pressing e la tattica del fuorigioco.

 

Naturalmente ogni innovazione tattica necessita anche di buoni giocatori per esprimersi al meglio ed il gruppo di giocatori olandesi dei due club che dominavano in Europa era composto da autentici fuoriclasse. Giocatori che poi portarono in nazionale, sotto la guida di Rinus Michels, il loro modo di giocare e nei mondiali del 1974 strabiliarono il mondo col loro sistema rivoluzionario che disorientò completamente gli avversari, incapaci di raccapezzarsi nel vortice di movimenti messo in scena dagli ‘orange’.

Analizzando lo schema tattico cogli occhi attuali potremmo definire il modulo applicato dagli olandesi come una sorta di 1-3-3-3. La squadra attua un pressing abbastanza sostenuto che la difesa segue in maniera regolare portando perciò la linea difensiva ad attivare sistematicamente la trappola del fuorigioco. Tale meccanismo era una novità assoluta a livello mondiale e gli attaccanti avversari si trovarono subito in grosse difficoltà, abituati com’erano a stazionare nei pressi delle aree avversarie per essere pronti a ricevere i passaggi dei compagni. Stessa sorte toccava ai difensori avversari non abituati a vedersi attaccati in maniera costante dagli avanti olandesi.

La difesa è schierata a zona coi due centrali di difesa che hanno due ruoli ben distinti, con lo ‘stopper’ che si occupa esclusivamente di compiti difensivi mentre il ‘libero’ è portato anche ad impostare l’azione; in fase di possesso palla i terzini si sganciano continuamente sulle fasce per dare alla squadra ulteriori sbocchi offensivi. La famosa intercambiabilità dei ruoli inizia appunto dalle coperture degli sganciamenti dei terzini, che porta spesso in difesa i centrocampisti e qualche volta anche gli attaccanti.

La differenza del calcio totale rispetto ai moduli a zona successivi è che i giocatori si muovono in relazione alla posizione dei compagni invece che a quella della palla, perché la copertura degli spazi è una condizione primaria di questo stile di gioco, secondo cui la squadra in campo deve sempre mantenere la stessa disposizione tattica.

Il pressing a tutto campo ha anche l’effetto di mantenere la squadra corta, cosa che favorisce gli inserimenti offensivi così come i ripiegamenti difensivi. Questo influisce però anche sul gioco del portiere, che opera ora quasi come un libero, controllando l’area di rigore sia nelle uscite sia giocando il pallone con i piedi.

La creazione degli spazi quando la squadra è in possesso di palla è un’altra condizione necessaria per poter giocare il calcio totale, e solo la capacità di creare e riempire gli spazi da parte dei giocatori rende possibile la buona riuscita di questo stile di gioco. In caso contrario, sarebbe impossibile imbastire azioni d’attacco efficaci perché verrebbero a mancare tutti i corridoi di passaggio. Invece, i movimenti continui e perfettamente sincronizzati dei giocatori in campo, e le insistenti sovrapposizioni degli uomini senza palla, mettono in difficoltà le difese bloccate nella marcatura a uomo, mentre la circolazione del pallone per vie orizzontali permette ai giocatori in attacco di avere il tempo di liberarsi e rendersi pericolosi.

Il fatto veramente rivoluzionario era che lo scambiarsi delle posizioni avveniva in senso longitudinale, e non per vie orizzontali. Altre squadre, come la Dinamo Mosca di Arkadiev, attuavano degli scambi di posizione tra i giocatori, ma le tre linee di difesa, centrocampo ed attacco rimanevano invariate. Tramite il pressing invece le squadre di Michels furono le prime a promuovere gli scambi di posizione tra giocatori di linee diverse.

In pratica, lo schema principale prevede il possesso palla gestito da tutti i giocatori che, passandosi il pallone in semicerchio, avanzano compatti accerchiando la difesa nemica, per poi partire all’improvviso con triangolazioni veloci che portano uno o due giocatori in area di rigore. Un impegno offensivo costante caratterizza la squadra, aggredendo costantemente il portatore di palla avversario che non sa più cosa fare del pallone vedendosi accerchiato e assalito contemporaneamente da tre o quattro olandesi.

L’obiettivo era quello di scardinare le difese avversarie e Michels decide di coinvolgere nella manovra d’attacco anche i centrocampisti ed i difensori, in una sorta di attacco di massa, il che voleva dire ad esempio che dei difensori dovevano avanzare da dietro per fornire alla squadra delle ulteriori opzioni d’attacco.

La buona riuscita del calcio totale dipende in larga parte dall’adattabilità di ogni membro della squadra a ricoprire più ruoli. I giocatori devono avere una grande capacità di analizzare le diverse situazioni tattiche per potersi scambiare con efficacia la posizione in campo, e sono necessarie una buona tecnica e un’ottima preparazione fisica.

La nazionale olandese del 1974, che portò alla ribalta il ‘calcio totale’ , contava su giocatori di valore assoluto e applicò in maniera totale l’intercambiabilità dei ruoli. Già dal portiere, Jongbloed, che per gli schemi di allora era una sorta di ‘marziano’; in pratica si comportava da difensore , spesso costretto dalle evenienze tattiche a disimpegnarsi ricorrendo a recuperi avventurosi e salvataggi coi piedi. La difesa era composta da due difensori centrali rigorosamente a zona, Haan, il ‘libero’ e Rijsbergen, lo ‘stopper’, mentre i terzini erano Suurbier e Krol. Questi ultimi erano in realtà dei terzini-ali, costantemente portati all’offensiva ed a scambiarsi di ruolo coi centrocampisti e qualche volta anche cogli attaccanti.

A centrocampo agivano Jansen, Van Hanegem ed il vero e proprio fuoriclasse Neeskens, dalla grande intelligenza tattica, tecnica sopraffina e vero uomo ovunque della formazione olandese, in pratica l’emblema del superamento dei ruoli. Poteva giocare difensore, mediano, regista, rifinitore e soprattutto attaccante, come suggerisce la sua media gol. In attacco erano schierati Rep a destra, Resenbrink a sinistra e Cruijff in mezzo, autentico fuoriclasse e primo, grande, ‘finto-centravanti’ del calcio moderno. La sua forza stava nella capacità di scivolare come un’anguilla tra le maglie della difesa, partecipando al tourbillon offensivo per poi proiettarsi a concludere, ora da punta, ora da interno in avanscoperta, nei momenti meno prevedibili.

Tutto il resto è movimento, sovrapposizioni, interscambi. I terzini sono sovente in avanti, le ali spesso ripiegano o si accentrano alla ricerca di spazi, i centrocampisti si spostano sincroni in attacco od in difesa a seconda delle situazioni.

E’ un modulo altamente spettacolare che però, con la nazionale di Michels, non porta a risultati all’altezza: solo due secondi posti consecutivi ai mondiali del 1974 e 1978, anche se a parziale giustificazione c’è da dire che entrambe le volte giocarono in finale contro la nazionale che ospitava i mondiali.

Di ben altro spessore i successi a livello di club; il Feyenoord vince nel 1969/70 una coppa Campioni mentre nelle 3 stagioni successive, dal 1970/71 al 1972/73 è l’Ajax a vincere ininterrottamente il massimo trofeo continentale. Senza contare coppe Intercontinentali, coppe Uefa e scudetti vari. In definitiva il calcio olandese pensionerà definitivamente il catenaccio ed il dominio dei club italiani in Europa degli anni 60 e farà da apripista alla concezione moderna del calcio.

Rinus Michels porterà al Barcellona tale filosofia di gioco e Cruijff come allenatore ne diverrà il degno erede creando quella formidabile fucina di talenti e stile che è l’attuale Cantera blaugrana.

Ma anche in Olanda l’Ajax resterà sempre fedele ai metodi di questo grande allenatore perpetuando fino ai giorni nostri la filosofia del ‘totaalvoetbal’.

Riportiamo infine ciò che scrisse il grande maestro del giornalismo sportivo, Ganni Brera, sull’Olanda di quei giorni.

«Gli olandesi sprizzavan­o energia e divertimento da tutti i pori. Quando non dove­vano rischiare le gambe, Cruijff e Neeskens inscenavano giostre ineffabili. Il loro genio si trasmetteva a un complesso non meno dotato che esperto. Contro l’Olanda si sono scornati uruguagi e bulgari, ar­gentini e tedeschi orientali, non però gli svedesi e, pensandoci nemmeno i brasilia­ni, che pure non avevano attacco. Si spropositava per gli olandesi di calcio totale, diciamo pure di panturbiglione, di girandola continua: non mi è acca­duto di vedere in attacco sull’estrema de­stra i due terzini d’ala? Ogni schema difensivo andava a ramengo dietro all’ ispirazio­ne e al ritmo dell’azione offen­siva. Era questo un difetto che secondo logica gli olandesi avrebbero dovuto pagare. Già con il Brasile nel turno semifi­nale, avevano lasciato tre co­mode palle gol ad attaccanti che le sciuparono miserevol­mente. Il povero Zagallo, che giocava uno splendi­do calcio difensivo, non aveva attaccanti che valessero non di­co Pelé e Garrincha, ma nean­che i vecchi arrembati “italio­ti” Altafini e Clerici. Dopo aver tanto sprecato, era fatale che il Brasile lasciasse via libe­ra agli olandesi. E questo pre­cisamente avvenne: però chi aveva occhi per vedere non po­teva dimenticare le disinvolture difensive, diciamo pure le cica­late che perpetravano Cruijff e compagni. Nello stilare il pro­nostico della finale me ne sono ricordato. I tedeschi hanno messo un duro come Vogts su Cruijff e si sono asserragliati intorno a Beckenbauer. Il prin­cipe Franceschino si è ben guardato, per l’occasione, di uscire a bailar fùtbol come so­leva nelle partite facili. E rima­sto al centro dell’area e sì è battuto con la modestia di un capitano conscio di sé e degli avversari. Vogts è subito incap­pato in un fallo da rigore ma poi ha convinto Cruijff che fos­se meglio girare al largo. Le caviglie dei miliardari sono preziose anche in Olanda. Il presuntuoso calcio totale ha mostrato le sue pecche e il cal­cio difensivista i suoi pregi di modestia e di praticità. In Italia avevano tutti pronosticato Olanda e si scagliarono contro di me, che avevo scritto come qualmente ì tedeschi avessero vinto i mondiali giocando all’italiana. Lo confermò papale papale anche Beckenbauer: ov­viamente, ha precisato, con il nostro impegno, la nostra rab­bia».

https://www.fmita.it/1452-lolanda-del-calcio-totale

 

 

 

 

 

 

 

Arriva Bernardini. Al via la coraggiosaricostruzione dopo lo svecchiamento.

Addio Mazzola, Rivera, Riva, Burgnich, Albertosi, Rosato, De Sisti.

 

QUARTO POSTO

 

 

 

Enzo Bearzot

 

1 Zoff · 2 Bellugi · 3 Cabrini · 4 Cuccureddu · 5 Gentile · 6 Maldera · 7 Manfredonia · 8 Scirea · 9 Antognoni · 10 Benetti · 11 Pecci · 12 Conti · 13 P. Sala · 14 Tardelli · 15 Zaccarelli · 16 Causio · 17 C. Sala · 18 Bettega · 19 Graziani · 20 Pulici · 21 Rossi · 22 Bordon ·

 

 

PRIMA FASE

 

2-6-1978, Mar del Plata (MO) Italia-Francia 2-1 Reti: 1’ Lacombe, 29’ P. Rossi, 54’ Zaccarelli Italia: Zoff, Gentile, Cabrini, Benetti, Bellugi, Scirea, Causio, Tardelli, P. Rossi, Antognoni (46’ Zaccarelli), Bettega. Ct: E. Bearzot. Francia: Betrand-Demanes, Janvion, Bossis, Michel, Rio, Tresor, Dalger, Guillou, Lacombe (75’ Berdoll), Platini, Six (76’ Rouyer). Ct: M. Hidalgo. Arbitro: Rainea (Romania).

6-6-1978, Mar del Plata (MO) Italia-Ungheria 3-1 Reti: 34’ P. Rossi, 35’ Bettega, 61’ Benetti, 81’ A. Toth rig. Italia: Zoff, Gentile, Cabrini (79’ Cuccureddu), Benetti, Bellugi, Scirea, Causio, Tardelli, P. Rossi, Antognoni, Bettega (83’ Graziani). Ct: E. Bearzot. Ungheria: Meszaros, Martos, J. Toth, Zombori, Kereki, Kocsis, Pusztai, Csapo, Fazekas (46’ Halasz), Pinter, Nagy (46’ A. Toth). Ct: L. Baroti. Arbitro: Barreto Ruiz (Uruguay).

10-6-1978, Buenos Aires (MO) Italia-Argentina 1-0 Rete: 67’ Bettega Italia: Zoff, Gentile, Cabrini, Benetti, Bellugi (6’ Cuccureddu), Scirea, Causio, Tardelli, P. Rossi, Antognoni (73’ Zaccarelli), Bettega. Ct: E. Bearzot. Argentina: Fillol, Olguin, Tarantini, Gallego, Luis Galvan, Passarella, Bertoni, Ardiles, Kempes, Valencia, Ortiz (72’ Houseman). Ct: L.C. Menotti. Arbitro: Klein (Israele).

SECONDA FASE

14-6-1978, Buenos Aires (MO) Italia-Germania Ovest 0-0 Italia: Zoff, Gentile, Cabrini, Benetti, Bellugi, Scirea, Causio, Tardelli, P. Rossi, Antognoni (46’ Zaccarelli), Bettega. Ct: E. Bearzot. Germania Ovest: Maier, Vogts, Dietz, Bonhof, Rüssmann, Kaltz, Rummenigge, Zimmermann (53’ Konopka), Fischer, Flohe (68’ Beer), Hölzenbein. Ct: H. Schön. Arbitro: Maksimovic (Jugoslavia).

18-6-1978, Buenos Aires (MO) Italia-Austria 1-0 Rete: 13’ P. Rossi Italia: Zoff, Gentile, Cabrini, Benetti, Bellugi (46’ Cuccureddu), Scirea, Causio, Tardelli, P. Rossi, Zaccarelli, Bettega (71’ Graziani). Ct: E. Bearzot. Austria: Koncilia, Sara, Strasser, Krieger, Pezzey, Obermayer, Hickersberger, Prohaska, Krankl, Kreuz, Schachner (63’ Pirkner). Ct: H. Senekowitsch. Arbitro: Rion (Belgio).

21-6-1978, Buenos Aires (MO) Olanda-Italia 2-1 Reti: 19’ aut. Brandts, 50’ Brandts, 76’ Haan Olanda: Schrijvers (21’ Jongbloed), Brandts, Poortvliet, Jansen, Neeskens, Krol, R. Van de Kerkhof, W. Van de Kerkhof, Rep (65’ Van Kraay), Haan, Rensenbrink. Ct: E. Happel. Italia: Zoff, Cuccureddu, Cabrini, Benetti (77’ Graziani), Gentile, Scirea, Causio (46’ C. Sala), Tardelli, P. Rossi, Zaccarelli, Bettega. Ct: E. Bearzot. Arbitro: Martinez (Spagna).

 

FINALE 3° E 4° POSTO

24-6-1978, Buenos Aires (MO) Brasile-Italia 2-1 Reti: 38’ Causio, 64’ Nelinho, 71’ Dirceu Brasile: Leão, Nelinho, Rodrigues Neto, Toninho Cerezo (64’ Rivelino), Oscar, Amaral, Gil (46’ Reinaldo), Jorge Mendoça, Roberto, Batista, Dirceu. Ct: C. Coutinho. Italia: Zoff, Cuccureddu, Cabrini, P. Sala, Gentile, Scirea, Causio, Maldera III, P. Rossi, Antognoni (78’ C. Sala), Bettega. Ct: E. Bearzot. Arbitro: Klein (Israele).

 

 

Grazie a Rossi, ma soprattutto al grande cuore, questa Nazionale è per ora la più ammirata

 

L'Italia è arrivata alle semifinali del Mundial. Le più ardite speranze si sono realizzate. Non mi vergogno a confessare che scrivo con un groppo alla gola. Ho provato una delle più grandi emozioni della mia vita di cronista sportivo. Perché ho assistito al trionfo di una squadra che finalmente ha giocato col cuore, rigettando tutte le meschinità che fan parte del bagaglio che i «ragazzi d'oro» del nostro sballatissimo pallone si portano appresso. Un'Italia che ha voluto farsi onore davanti a un'altra Italia, quella trapiantata in ..questo amaro e amato Paese. Ho veduto gente piangere, intorno a me, come il giorno che sono arrivato a Buenos Aires e ho messo piede nella «cancha» del Boca: ma queste, amici, erano lacrime diverse, come quelle che mi sento scoppiare negli occhi e che respingo dicendomi ma via, che fai, sciocco: in fondo è una partita di calcio.

GIA', in fondo è una partita di calcio, in fondo abbiamo soltanto sconfitto l'Ungheria, cosi come abbiamo sconfitto la Francia. Ma se è vero che in Perù il presidente della repubblica s'è salvato il posto per i gol di Cubillas; se è vero che in Italia sappiamo che si sono verificate manifestazioni di giubilo somiglianti a quelle delle notti «messicane», è altrettanto giusto che il vostro povero cronista raggelato dall'inverno platense e riscaldato dai gol di Rossi e compagni provi oggi un senso di grande felicità e cerchi di trasmettervelo. Oggi a Mar del Plata, dopo che abbiamo sconfitto anche l'Ungheria, non è stata festa per tutti: certo, a chi è partito dall'Italia con la penna-mitra nel taschino questo trionfo azzurro non va giù. Diomio, ripenso a quella notte di Italia-Jugoslavia, a Roma, e mi vergogno. Per i colleghi, naturalmente, che hanno tentato di imbastardire la Nazionale figlia de campionato suggerendo chissà quali rivoluzioni, vomitando sugli azzurri critiche che meritavano forse d'esser proposte, ma civilmente, senza la libidine di distruzione ch'è abituale ai nostri mamma-santissima. Oh, sapeste quanto sono orgoglioso del poco o niente che conto, del fatto che certe mie critiche abbiano voluto aiutare a costruire una Nazionale migliore e mai a demolire quel che si stava faticosamente costruendo: di questo mi è stato dato atto, e ne sono pago. Così come ho dato atto a Franco Causio di essermi sbagliato sul suo conto, quando ho pensato che fosse meglio sostituirlo: loro, i giocatori, sono, stati leali con noi, dandoci la più grande delle soddisfazioni; e allora cerchiamo di ricambiarli.

NON E' MAI troppo tardi per riconquistare la fiducia e la stima della gente del calcio, quella che lo fa e quello che lo chiacchiera. Ora sono pienamente soddisfatto della scelta che feci alla vigilia del Mundial, quando volli incamminarmi sulla via della serenità e dell'ottimismo, una via sulla quale fui indirizzato dalle parole di Bearzot, dalle confidenze serene dei giocatori, dal livore idiota di certa critica. Una scelta difficile, che ha motivato in parte (è una spiegazione che devo ai lettori, perché il nostro rapporto continui ad essere chiaro e onesto) il «divorzio mondiale» fra noi del «Guerino» e Helenio Herrera, giunto a Baires con la convinzione di dover assistere al funerale del calcio italiano, forse frastornato dal clamore delle Cassandre, lui che aveva tanta esperienza per evitare un così grave errore di valutazione.

L'AVVENTURA ARGENTINA continua grazie soprattutto alla solidarietà di gruppo esplosa improvvisamente nel clan azzurro, laddove da sempre erano esistiti padrini, mafie, gruppuscoli di scontenti e di contestatori; in Nazionale abbiamo veduto per la prima volta ragazzi come Graziani accettare senza batter ciglio le scelte del tecnico; abbiamo registrato per la prima volta l'assenso di uno Zaccarelli all'ordine di ritornare in panchina, dopo che proprio lui, il modesto ma generosissimo «Zac», era stato l'artefice della prima, importante vittoria sulla Francia. Abbiamo poi veduto gli juventini stringersi intorno al «fratello mancato», quel Paolino Rossi che è stato il deus-ex-machina della meravigliosa rappresentazione azzurra in Mar del Plata. Bearzot me l'aveva detto a Budapest, dopo che s'era vista all'opera un'Ungheria giustamente valutata per quel che poi si è mostrata, una squadra dotata di buona tecnica e di gran carattere: stava pensando a Rossi, al ruolo che avrebbe potuto ricoprire al Mundial. Ci ha pensato, con molta calma, respingendo le chiamate del popolo romano che voleva Paolino in campo contro la Jugoslavia solo per esasperare l'umiliazione di Graziani, e trovandogli il giusto ruolo.

OGGI SAPPIAMO che l'Italia ha trovato un vero grande campione. Oggi forse Giampiero Boniperti sta pensando che forse quei due miliardi e passa non erano poi tanti, se rapportati al valore del ragazzo. E Farina se lo stringe al petto contento: vada come vada, il tesoro del calcio italiano lo conserva gelosamente lui, a Vicenza. E' facile oggi parlar bene di Paolo Rossi impressionati dai suoi gol che hanno sbloccato i trionfi azzurri. Ma il suo apporto non va valutato singolarmente, ma per il peso che ha avuto sull'intero gioco di squadra. Se avete seguito bene le due partite degli azzurri, avrete notato che per la prima volta l'Italia ha scelto la via dell'offensiva ragionata, quel progetto in apparenza assurdo che prima Bernardini (l'inventore dei «piedi buoni») eppoi Bearzot avevano studiato di realizzare, imbattendosi in più d'un ostacolo. Il primo incentivo a questa nuova e importante scelta tecnico-tattica è venuto dal destino, vale a dire dal gol-lampo realizzato da Lacombe al trentaduesimo secondo di Francia-Italia (stando ai testi sacri, solo un altro francese, Nicolas, segnò un gol più rapido ai Mondiali, al trentesimo secondo di Francia-Belgio del '38, l'anno in cui l'Italia vinse il suo secondo Mondiale... che sia di buon augurio? facciamo corna, come Leone, e tiremm innanz): quell'incidente (chiamiamolo così, anche se sappiamo che la nostra difesa, di questi incidenti, potrebbe riservarcene altri...) ha costretto l'Italia a svelare le sue naturali qualità forzatamente celate dalla modestia del nostro tecnico; la seconda spinta a battersi da uomini e non da pecore è venuta dal cuore ritrovato; la terza spinta (ma forse la più importante) dalle caratteristiche tecniche di Paolo Rossi, che ha riportato la prima linea azzurra ai livelli di rendimento che aveva conosciuto soltanto davanti alla Finlandia, tenendo conto - ovviamente - del diverso livello tecnico fra finlandesi, francesi e ungheresi; vale a dire che Rossi ci ha fatto fare un grande passo avanti realizzando con Causio e Bettega quell'intesa ideale che potrebbe aver trasformato il nostro attacco in una macchina da gol. PAOLO è giocatore di discreta classe, di media resistenza fisica, ma soprattutto di incredibile intelligenza tattica: il suo «movimento» è senza dubbio la realizzazione delle chimere heribertiane, perché non accenna a sprechi, non ha radici in teorie da ginnasiarchi, è pura espressione calcistica, continua minaccia ai difensori avversari, ininterrotta presenza per la collaborazione con i compagni del centrocampo e dell'attacco.

Si deve ancora stabilire se sia stata miracolosa la facilità con cui Rossi si è inserito nel tessuto di una Nazionale già schematizzata diversamente, in un attacco che s'era dato al ben diverso rapporto intercorrente fra Graziani e Bettega, o se invece il miracolo l'abbia compiuto la squadra, «adottando» con tanta disinvoltura il ragazzino dalla «cara limpia» (faccia pulita, come dicono qui) e dal cervello fino, quando aveva rifiutato altri importanti trapianti. Cosa volete che dica, che Bearzot s'è rivelato un Barnard? No: molto semplicemente che forse Paolo Rossi era quel cuore che ci mancava, l'unico capace di resistere alla crisi di rigetto. Ma il ragazzo - che non è stupido - s'è affrettato a dire chi l'ha aiutato a trovare così rapida intesa con la squadra: Bettega. Già, Bettega: qualcuno l'ha definito padrino, ma di allocchi è pieno il mondo. Bettega, amici miei, non ha nulla a che spartire con gli abusati «padrini» e «Richelieu» del nostro povero calcio: se amate leggermi (o appena mi sopportate) avrete appreso da tempo quel che penso di lui: che è grande calciatore, grande uomo. E non ho bisogno di aggiungere altro, se non che ha fatto coppia con un grande calciatore e un grande ragazzo che ormai da queste parti chiamano così, con dolce e delicata enfasi: Paolino.

QUESTO MUNDIAL, lasciatemelo dire, non è un gran Mundial: la sua «cifra tecnica» (come dicono i sapienti) è assai modesta: più ricca la sua parte romanzesca, dove figurano un incredibile Perù (che ha umiliato la mia Scozia), una dignitosissima Tunisia, una lodevole Svezia, un amaro Brasile, una quadratissima Austria, una spenta Spagna e un'incertissima Germania. E se ci fate caso - non da tifosi, ma da gente che capisce calcio - il meglio è venuto proprio dal nostro girone; da un'Ungheria che solo le trappole argentine potevano ridurre a miti consigli; da una Francia che solo le astuzie argentine (leggi arbitri) potevano rispedire a Parigi con un fardello di sogni infranti; ma soprattutto da un'Italia che invece si è fatta avanti onorando il gioco e la lealtà sportiva, superando la Francia che già l'aveva messa in ginocchio, godendo soltanto (e certo non è poco) dell'assenza di quei due fantastici e sciocchi ragazzi che sono Torocksik e Nyilasy, vittime della scatenata Argentina e della sua hinchada (tifoseria) che vuole a tutti i costi la squadra di Menotti finalista dell'undicesimo Mundial.

MAGARI CON L'ITALIA, anche se dopo le «rappresentazioni azzurre» di Mar del Plata questo desiderio s'è un po' raffreddato: adesso l'Italia fa paura, ragazzi miei, perché ha chiaramente dimostrato d'essere, fin qui, la migliore squadra del Mundial, perché la più forte del «girone di ferro» e penso che sabato al River Plate si avrà un saggio di questo incontro fra amiche-rivali. Come stanno le cose ora, l'Argentina non può più sperare di giocare con l'Italia una partita-camomilla, truccata insomma, come quella organizzata in apertura da Germania e Polonia; non può, perché se non vince rischia di dover lasciare l'adorata sede di Buenos Aires, e spostarsi a Rosario, dove certamente si troverà davanti l'interrogativa Germania. E d'altra parte l'Italia non può regalare a Menotti la partita, rinunciando alle comodità logistiche e quasi certamente tecniche di Baires. Sarà dunque un altro capitolo avvincente - me lo auguro - quello che si scriverà sabato al River Plate. Già c'è chi pensa ad una sorta di bis di Italia-Germania del 70, in Messico 70. Dite che potrebbe costarci caro per le partite successive? Dite quel che vi pare: io credo al proverbio che dice: l'appetito vien mangiando, e la voglia di vincere viene vincendo. Così, coraggio Bearzot, affrontiamo decisi anche questa battaglia che si voleva fosse platonica; ormai la qualificazione ce la siamo guadagnata, rischi non ne corriamo, e addirittura ci può essere fornita l'occasione di sperimentare una difesa più solida, che i nostri problemi son tutti qui, e riusciremo a risolverli fino a che l'attacco girerà a pieno regime come in questi giorni, i bellissimi giorni azzurri che hanno presentato al mondo Paolo Rossi, el angel da la cara limpia, l'angelo dalla faccia pulita.

Italo Cucci, giugno 1978

http://www.storiedicalcio.altervista.org/italia_78_cucci_3.html

 

... e Paolo divenne Pablito

 

 Capocannoniere del nostro campionato e protagonista indiscusso solo all'ultimo convince Bearzot che lo schiera titolare per un mondiale storico.

La favola di Paolo Rossi incomincia al termine di una fantastica stagione con il LR. Vicenza,; il giovane talento di Prato, già esploso in serie B, aveva portato la sua squadra ad un soffio da un leggendario scudetto ed aveva vinto la  classifica dei cannonieri con ben ventiquattro reti.

Paolo Rossi era l’uomo-nuovo del calcio italiano, un giocatore dal fisico esile, ma dal grande senso del gol. Le sue reti non erano frutto della potenza di un bomber, ma solo dell’abilità dell’ultimo tocco decisivo nella rete avversaria. Era lì sui calci d’angolo, sulle respinte del portiere, sull’errore del difensore, pronto con la sua furbizia a metterla dentro. Semplicità e genio insieme.

Aveva debuttato in  nazionale, due sole presenze dove non aveva brillato come in campionato; una vittoria in Belgio con rete di Antognoni, ed una sconfitta in Spagna per 2 a 1. Nessuna rete e Bearzot non vedeva in lui il titolare per gli imminenti mondiali argentini. Davanti quel Ciccio Graziani che era da anni protagonista dei cannonieri del nostro torneo, bomber di razza e fisicamente l’opposto del nostro Paolo.

Paolo è protagonista della scena; dopo lo scudetto sfiorato, eccolo pronto alla sfida del calcio mercato con l’offerta alle buste considerato che è in comproprietà con la Juventus. Farina, presidente del Vicenza, offre la cifra esorbitante di due miliardi che sbaraglia l’esile proposta della Juventus, stranamente non molto interessata; Boniperti si era fermato a soli 800 milioni.

 Si arriva alla partenza per l’Argentina e Bearzot ha chiara la formazione degli azzurri; i nostri primi avversari sono i francesi di quel  Michel Platini che aveva già messo in difficoltà la nostra difesa in un’ amichevole a Napoli giocata a febbraio. Dopo giocheremo con l’Ungheria, squadra ostica dell’est e infine con i padroni di casa dell’Argentina.

 La stampa italiana preme per Rossi, considerando anche un opaco fine campionato di Graziani ma

 Bearzot vuol il granata titolare, e la notizia di Rossi in panchina viene vista dai giornalisti francesi come un  “grande regalo”. Alla fine il tecnico friulano non farà questo presente ai cugini transalpini e come un vero “colpo di scena” Paolo gioca si dal primo minuto del mondiale. Tutto sembra la trama di un giallo; dopo pochi secondi la Francia passa in vantaggio, ma l’Italia con Causio e Bettega non demorde e si arriva al pareggio. E Paolo il “salvatore della patria” segnando un gol proprio alla Rossi, dopo una serie di rimpalli che tolgono il fiato.

 Si vince e giochiamo contro l’Ungheria; Paolo diventa sempre più padrone del gioco e realizza la rete del vantaggio contro i magiari, riprendo una stentata parata del portiere avversario ed infilando in rete.

 Il temuto girone dell’Italia in pochi giorni è “domato” e gli azzurri vengono visti già come una delle formazioni candite al titolo finale. La partita con l’Argentina, che qualche mese prima era la nostra ultima chance, diventa quasi una formalità, addirittura una sfida per dimostrare la grandezza della nostra squadra. Così avviene e Rossi e protagonista della rete realizzata da Bettega, inventandosi una triangolazione attivata da un suo colpo di tacco. Le prodezze di Paolo aumentano sempre di più.

 Le speranze di rivedere l’Italia in finale dopo otto anni ormai sono diventate quasi una certezza. L’Argentina è stato sconfitta e la Germania, il Brasile e l’Olanda non sono più le formazioni zeppe di campioni di quattro anni prima. La stanchezza comincia a farsi sentire con i tedeschi, dove in una giornata nebbiosa Rossi e compagni sbagliano gol quasi fatti. L’Italia perde i colpi ma con l’Austria ecco che lo spirito di Paolo ritorno ad essere decisivo.

 Viene superato da un difensore ma lui insiste nel suo duello e infila una zampata che beffa anche il portiere in uscita. La sia prodezza è sufficiente a superare gli austriaci! Le speranze si sono riaccese ma per la finale bisogna solo battere l’Olanda, e non è poco. Rossi si perde nella sfortuna di una partita segnata e cade nella trappole storiche del fuorigioco olandese. Il gigante delle partite precedenti diventa un giovane ragazzo sperduto nei campi di tulipani fatte dalle maglie arancioni.

 L’amarezza della sconfitta e tanta , ma ci giochiamo il terzo posto con il Brasile, un risultato insperato per una squadra che un anno prima vedeva la qualificazione per la fase finale quasi come una utopia. L’Italia e a pazzi; stanca, con infortunati e squalificati, Bearzot si inventa una squadra che mai avrebbe pensato. Rossi capisce che il suo talento può fare a ancora la differenza e gioca a tutto campo trasformandosi anche in ala; suo il cross per la testa di Causio ed ecco una rete che offende il grande Brasile.

 Poi ancora tiri da lontano e fine del mondiale. L’Italia e solo quarta, l’Italia è grande quarta e Rossi torna in Italia da vincitore, gioia  e amaro in bocca ma la favola di Pablito è veramente cominciata.

http://www.golcalcio.it/Rossi%20mondial.htm

 

 

 

 

 

 

CAMPIONE DEL MONDO

 

 

Enzo Bearzot

 

1 Zoff · 2 Baresi · 3 Bergomi · 4 Cabrini · 5 Collovati · 6 Gentile · 7 Scirea · 8 Vierchowod · 9 Antognoni · 10 Dossena · 11 Marini · 12 Bordon · 13 Oriali · 14 Tardelli · 15 Causio · 16 Conti · 17 Massaro · 18 Altobelli · 19 Graziani · 20 Rossi · 21 Selvaggi · 22 Galli ·

 

PRIMO TURNO

14-6-1982, Vigo (MO) Italia-Polonia 0-0 Italia: Zoff, Gentile, Cabrini, Marini, Collovati, Scirea, B.Conti, Tardelli, Rossi, Antognoni, Graziani. Ct: Bearzot. Polonia: Mlynarczyk, Majewski, Jalocha, Matysik, Janas, Zmuda, Lato, Buncol, Iwan (72’ Kusto), Boniek, Smolarek. Ct: Piechniczek. Arbitro: Vautrot (Francia).

18-6-1982, Vigo (MO) Italia-Perù 1-1 Reti: 19’ Conti, 85’ aut. Collovati. Italia: Zoff, Gentile, Cabrini, Marini, Collovati, Scirea, B.Conti, Tardelli, Rossi (46’ Causio), Antognoni, Graziani. Ct: Bearzot. Perù: Quiroga, Duarte, Olaechea, Velasquez, Salguero, Diaz, Barbadillo (65’ Leguia), Cueto, Uribe (65’ La Rosa), Cubillas, Oblitas. Ct: Tim. Arbitro: Eschweiler (Germania Ovest).

23-6-1982, Vigo (MO) Italia-Camerun 1-1 Reti: 61’ Graziani, 62’ M’Bida. Italia: Zoff, Gentile, Cabrini, Oriali, Collovati, Scirea, B.Conti, Tardelli, Rossi, Antognoni, Graziani. Ct: Bearzot. Camerun: N’Kono, Kaham, M’Bom, Aoudou, N’Djeya, Onana, M’Bida, Kunde, Milla, Abega, Tokoto. Ct: Vincent. Arbitro: Dotchev (Bulgaria).

OTTAVI DI FINALE

29-6-1982, Barcellona (MO) Italia-Argentina 2-1 Reti: 57’ Tardelli, 67’ Cabrini, 83’ Passarella. Italia: Zoff, Gentile, Cabrini, Oriali (75’ Marini), Collovati, Scirea, B. Conti, Tardelli, Rossi (80’ Altobelli), Antognoni, Graziani. Ct: Bearzot. Argentina: Fillol, Olguin, Tarantini, Gallego, Luis Galvan, Passarella, Bertoni, Ardiles, Diaz (58’ Calderon), Maradona, Kempes (58’ Valencia). Ct: Menotti. Arbitro: Rainea (Romania).

QUARTI DI FINALE

5-7-1982, Barcellona (MO) Italia-Brasile 3-2 Reti: 5’ Rossi, 12’ Socrates, 25’ Rossi, 68’ Falcão, 74’ Rossi. Italia: Zoff, Gentile, Cabrini, Oriali, Collovati (34’ Bergomi), Scirea, B.Conti, Tardelli (75’ Marini), Rossi, Antognoni, Graziani. Ct: Bearzot. Brasile: Valdir Peres, Leandro, Junior, Cerezo, Oscar, Luisinho, Socrates, Falcão, Serginho (69’ Paulo Isidoro), Zico, Eder. Ct: Telé Santana. Arbitro: Klein (Israele).

SEMIFINALE

8-7-1982, Barcellona (MO) Italia-Polonia 2-0 Reti: 22’ e 73’ Rossi. Italia: Zoff, Bergomi, Cabrini, Oriali, Collovati, Scirea, B.Conti, Tardelli, Rossi, Antognoni (28’ Marini), Graziani (70’ Altobelli). Ct: Bearzot. Polonia: Mlynarczyk; Dziuba, Majewski; Matysik, Janas, Zmuda; Lato, Kupcewicz, Ciolek (46’ Palasz), Buncol, Smolarek (77’ Kusto). Ct: Piechniczek. Arbitro: Cardellino (Uruguay).

 

Quell’11 luglio 1982: “Campioni del Mondo!” Il miracolo dell’Italia di Bearzot

 

 Finì così: «Palla al centro per Muller, ferma Scirea, Bergomi, Gentile, evviva è finita! Campioni del mondo, Campioni del mondo, Campioni del mondo», Nando Martellini, mitico telecronista Rai diede il via libera. L’Italia esplose di gioia. Da Nord a Sud, 11 luglio 1982, 30 anni fa, la vittoria sulla Germania – allora ancora Ovest – per 3-1 ci laureava campioni del mondo per la terza volta. Stadio Santiago Bernabeu, Madrid. Ma, in campo, alcuni minuti prima, era finta con Alessandro Altobelli che infilava la terza stoccata dell’Italia nella porta difesa dal tedesco Schumacher ed in tribuna era finita con il volto amico del Presidente partigiano Sandro Pertini che sorrideva in piedi davanti al re Juan Carlos: «Non ci prendono più, non ci prendono più».

 


Mercoledì saranno trent’anni da quel batticuore. Da quel capolavoro di calcio firmato dal ct Enzo Bearzot, il «vecio», il friulano che seppe indovinarne tante e far esplodere Paolo Rossi – capocannoniere del torneo – e gli altri moschettieri. Negli occhi dei tifosi il trionfo con l’altro friulano Dino Zoff in divisa grigia e fascia da capitano che sollevava la coppa. L’urlo spaccacuore di Marco Tardelli che aveva segnato il raddoppio.

 


Sì, quel Mundial è nei cuori. Era un’Italia che combatteva con la fine del terrorismo, che si affacciava agli anni ’80 e si appassionò via via a un cammino della nostra Nazionale che fu impervio nel Mondiale. L’ambiente del calcio – due anni prima – era stato investito dalla prima bufera del calcio scommesse che vide – tra gli altri – il coinvolgimento di Paolo Rossi. Ma Bearzot sapeva parlare a quel gruppo, sapeva dirigerlo.

 

 

La sua Italia, superate le qualificazioni a Vigo con tre pareggi con Polonia, Perù e Camerun, per la sola differenza gol, eliminò prima l’Argentina di Maradona e Passarella con la famosa maglietta strappata di Diego nel duello contro Gentile, poi il Brasile superstar di Zico, Falcao, Socrates, e poi mise a sedere la Polonia di Boniek (che non giocò in semifinale) e infine la Germania di Rummenigge e Breitner.


Un altro calcio, certo. Senza replica virtuale. Con l’Italia i silenzio stampa dopo le tante polemiche. Ma proprio Tardelli recentemente ha ricordato: «Non ci ha aiutato il silenzio stampa, ci siamo aiutati da soli». Zoff fu scelto come portavoce. L’Italia ingranò la quarta.
Indimenticabile il successo sul Brasile con la tripletta di Pablito Rossi, ai verdeoro bastava il pari, lo raggiunsero due volte e persero 3-2. «Solo una grandissima squadra poteva reagire così alla mazzata del loro doppio pareggio», ha detto Tardelli. Poi la Polonia per la semifinale e ancora doppietta di Rossi.
Italia in finale contro i tedeschi. 11 luglio 1982. Bearzot chiamato ad un altro miracolo. Antonioni è infortunato. Graziani si fa male ed esce. Cabrini sbaglia un rigore nel primo tempo. Niente nubi sugli azzurri, però. Il disegno tattico di Bearzot è perfetto. Ed è sempre Pablito Rossi che la mette dentro all’11’ della ripresa. Al 23’ la fiondata di Tardelli dalla distanza: 2-0, la rete più rivista del calcio italiano, la corsa con l’urlo liberatorio. E al 36’ Altobelli piazza il terzo. Paul Breitner al 38’ segna per i tedeschi. È fatta. E l’ultimo colpo di teatro è dell’arbitro brasiliano Coelho che afferra la palla e la solleva.
Comincia il trionfo. La gente è nelle strade. Gli Azzurri ritornano. Tra le immagini che resteranno per sempre la partita a scopone, sull’aereo presidenziale. Il Presidente Pertini e Zoff contro Bearzot e Causio, che poi vinceranno. La Coppa era sistemata accanto a loro. L’Italia li aspettava. Emozionata.

Fonte: Il Mattino - La Redazione -  M.V.

 

 

"Chiedete a Zico e a Maradona se ero cattivo "

 Milano, 22 settembre 2013

Nel giorno del suo 60° compleanno il grande ex si racconta: Juve, Nazionale, Under. "Parlo con i risultati. Vycpalek, TRap, Bearzot sono i miei maestri"

"C’è il gruppo con Argentina e Brasile, la gente è tutta contro di noi, Maradona e Zico all’orizzonte. Bearzot ci prende da parte: “Ragazzi, è il momento di prendere una decisione”. È il patto di ferro, ma non immaginiamo come finirà". Claudio Gentile ha 29 anni, baffi scaramantici e Tardelli che in camera sta sveglio la notte e non lo fa dormire. Annulla Maradona e Zico e l’Italia vince il Mondiale spagnolo. Gentile compie 60 anni venerdì, vive a Como, ha il fisico di un trentenne e quasi ogni mattina fa cento chilometri in bici. OMISSIS

L’altro grande allenatore è Bearzot .

"Simile a Trap: il dialogo per risolvere tutto. Tiene la squadra fuori dalle polemiche e si assume tutte le responsabilità".

Poi arrivano Maradona e Zico...

"Il suo problema è: chi marca Diego? Ha diverse idee, poi mi prende da parte e fa: “Te la senti?”. Io, per fare lo spiritoso: “Qual è il problema?”. E lui, felicissimo: “Bravo!”. Non può immaginare quante volte mi do del cretino appena capisco: quello è Maradona! Prendo due cassette e lo studio. È andata".

Superato Diego, ecco Zico .

"Il piano è: Oriali per lui, io per Eder. Nel tunnel degli spogliatoi Bearzot mi fa: “Ho cambiato idea, su Zico vai tu”. L’ha deciso prima, credo, ma non vuole caricarmi di responsabilità".

Nasce la storia di Gentile "cattivo"...

"Che mi manda in bestia. In carriera, una sola espulsione, per fallo di mano, Bruges-Juve di Coppa Campioni. Mai fatto male a nessuno. Zico lo dice. E Schumacher su Battiston? E De Jong? E Goicoechea? Io cattivo? No, ignorante chi lo dice".

Altra storia che non le va giù: il soprannome Gheddafi.

"Quel che ha fatto agli italiani... Ma me lo affibbia l’Avvocato".

Fabio Licari

http://www.gazzetta.it/Calcio/22-09-2013/calcio-gentile-chiedete-zico-maradona-se-ero-cattivo-201210350224.shtml

 

  

 

TORINO, 28 giugno - «Dopo quello che ha detto ieri sera devo aderire al parere di Pelè e Platini: Maradona è più un ciarlatano che un allenatore». Claudio Gentile, in diretta telefonica con Mondiale Sera su Raidue, risponde a denti stretti alle affermazioni di Diego Armando Maradona che, domenica sera, dopo la partita vinta dall'Argentina contro il Messico, infastidito dalle domande sul gol in fuorigioco convalidato a Tevez, rispondeva che forse il Messico si doveva preoccupare della mancata espulsione di un suo difensore per un fallo su Messi, affermando «non siamo mica tornati ai tempi dei difensori killer come Gentile».

LA RABBIA - Il campione del mondo 1982, a questo punto rincara la dose affermando che l'ex pibe de oro è lui sì un calciatore violento: «È stato espulso in quel mondiale per un calcio nello stomaco ad un giocatore del Brasile - dice -. Io, invece, non sono mai stato espulso per gioco violento. Ho preso solo un cartellino rosso per un fallo di mano in Champions League e basta». «È un ciarlatano. Quello è il suo parere, ma io non lo rispetto e non sono d'accordo, lo ripeto è lui quello che è stato espulso per gioco violento». Claudio Gentile, poi, afferma di non voler avere contatti con il tecnico della Seleccion: «Non voglio chiarire niente. A differenza di Zico - che ho incontrato qualche tempo fa in una trasmissione sportiva e di cui sono molto amico - che non si è mai permesso di offendere, di dire quanto ha detto Maradona, ammettendo la superiorità dell'Italia, che il merito c'è stato, lui non sa perdere» rimarca l'ex terzino della Juventus. «Quando parla con questi termini e dà del killer a me che non sono mai stati espulso per gioco violento, fa sì che qualcuno possa farsi un'idea sbagliatissima. Io non ho fatto altro che giocare e marcare come i suoi connazionali Passarella e Gallego. Prima di dare certi giudizi si deve guardare la carriera di un giocatore. Ci sono stati difensori che per delle espulsioni sono stati fuori dal campo per sei sette giornate. Io ribadisco, invece, non sono mai stato espulso per gioco violento e quindi mi fa rabbia sentir dire da Maradona delle cose non vere».

http://www.tuttosport.com/calcio/mondiali_2010/girona_b/argentina/2010/06/28-74580/Gentile+risponde+a+Maradona%3A+%C2%ABIo+killer%3F+Lui+%C3%A8+un+ciarlatano%C2%BB

 

 

L’Italia Mundial e quell’urlo tra storia e mito.

di Alessio Pediglieri

1982: l'Italia diventa Campione del Mondo per la terza volta. E' il segnale del 'risveglio' di una Nazione che si rivede dietro l'urlo di Tardelli, urlo di rabbia, di gioia. Di rinascita.

L’esultanza del Presidente Sandro Pertini in tribuna, il capitano Dino Zoff con la Coppa del Mondo rivolta al cielo, il CT Enzo Bearzot portato in trionfo in mezzo al campo dai propri giocatori, il bomber Paolo Rossi capocannoniere dei Mondiali, il primo storico “silenzio stampa” della nazionale, le partite a carte durante il ritiro, il calcioscommesse degli anni ’80, la diffidenza e la contestazione verso una Nazionale mai amata fino in fondo. Ma soprattutto l’urlo di Marco Tardelli, nella finalissima contro la Germania, un urlo di liberazione collettiva, di un’intera nazione che tornava a sognare. Questi sono alcuni dei fermo immagini più significativi di una vittoria storica, epocale per l’Italia, non solo dal punto di vista calcistico che vi raccontiamo in altre storie di Noi italiani

I Mondiali di Spagna arrivarono in un momento socioculturale molto particolare sia per l’Italia che per l’Europa. Il clima politico in cui si svolse questo campionato era abbastanza disteso, nonostante un tentativo di colpo di stato del colonnello Tejero circa un anno prima proprio nella penisola iberica. L’evento dell’anno fu sicuramente la guerra delle Falkland (o delle Malvine, nome argentino di quelle isole) tra Argentina e Regno Unito, ma anche l’Italia visse una stagione difficile: si era reduci da tragedie come la strage di Bologna e il disastro aereo di Ustica, dall’assassinio di Aldo Moro, da anni di difficoltà economiche crescenti, dagli “anni di piombo”. Venne assassinato dalla mafia il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, prefetto di Palermo, con la moglie Emanuela Setti Carraro e la  morte di Roberto Calvi, responsabile del crack del Banco Ambrosiano, aprì uno dei grandi misteri italiani del dopoguerra.

Dal punto di vista calcistico, il Mundial di Spagna fu anche il primo mondiale dell’”era moderna”, con l’incremento del numero delle formazioni partecipanti: da 16 a 24 squadre. Ciò permise a ben 14 Paesi europei di prender parte alla competizione e per la prima volta scesero in campo le rappresentanti di tutti i 5 Continenti e delle 6 Confederazioni. L’incremento del numero delle formazioni partecipanti comportò anche uno stravolgimento nell’organizzazione del torneo. La prima fase dei gironi, infatti, prevedeva 6 gironi composti di quattro squadre ciascuno. Le prime due squadre classificate di ciascun girone venivano inserite in ulteriori quattro gironi, composti, a loro volta, di 3 squadre ciascuno. Le vincitrici di questa seconda fase, avrebbero dato vita alla due seminifinali che definivano le partecipanti alla finalissima.

In tutto questo “fermento” calcistico, si era presentata anche la Nazionale italiana. Una Nazionale contestata dal proprio Paese, figlia del calcioscommesse con la presenza di Paolo Rossi, reduce da due anni di squalifica. Un CT, Enzo Bearzot, mai amato fino in fondo, fedele al “blocco Juventus“ in quegli anni indiscussa Signora del calcio italiano. Alcuni mesi prima era scoppiata la bufera del calcio scommesse, nel 1980, che coinvolse moltissimi giocatori di serie A, tra cui colui che sarebbe stato il “fenomeno” di Espana 82, “Pablito” Rossi, insieme agli altri giocatori del Perugia in cui al tempo militava. Rossi si dichiarò sempre estraneo ai fatti, venne squalificato per due anni, nel 1981, la Juventus gli diede fiducia ingaggiandolo nonostante l’inattività, una fiducia da lui ripagata giocando le ultime tre giornate del campionato e trascinado la squadra allo Scudetto.

 L’atmosfera del nostro calcio era anche minata da altri eventi poco positivi: gli incidenti negli stadi erano cresciuti per gravità e frequenza, e nel 1979 ci fu la morte assurda di un tifoso della Lazio, Vincenzo Paparelli, a causa di un razzo sparato dalla curva opposta nello stadio Olimpico.

 Il disamore verso una Nazionale “indigesta” al grande pubblico venne avvalorato dalle prime tre gare della prima fase, con il pareggio a reti inviolate contro la Polonia, e il doppio 1-1 con Perù e Camerun. Due partite che misero in evidenza le difficoltà di un gruppo che si fece largo con il minimo sforzo alla seconda fase grazie alle reti di Bruno Conti e Ciccio Graziani. Poco gioco, risultati vicini allo ‘zero’ e critiche feroci dall’Italia portarono anche alla decisione storica del primo “silenzio stampa” in una competizione così importante: Enzo Bearzot, recentemente scomparso, colui che poi venne immortalato come il “Grande Vecio“, era semplicemente un incapace selezionatore marmorizzato ad un gioco oramai superato, radicato in una visione che risaliva ancora al 1978, anno in cui aveva iniziato la sua ‘avventura’ mondiale come Ct della Nazionale italiana. Dal quel giorno fino a fine competizione con la stampa parlò  solamente il capitano, Dino Zoff. Tutti gli altri restarono lontano dai microfoni della nostrani e internazionali.

 Fu però proprio quella decisione impopolare a far sì che nel gruppo Italia scattasse la scintilla dell’orgoglio e del sentimento nazionale: contro l’Argentina prima e il Brasile poi, avvenne una trasformazione nel gioco e nella mentalità tanto da far scrivere sulle prime pagine dei giornali “miracolo Italia“, osannando quali eroi nazionali coloro che solamente una settimana prima erano stati definiti giocatori sulle soglie della pensione calcistica. Tardelli e Cabrini misero in ginocchio l’Argentina del primo Maradona (che colpì un palo) all’esordio Mondiale. Poi con il fenomenale Brasile di Socrates e Falcao scoppiò il mito di “Pablito” Rossi, che siglò tutte le tre reti di quel 3-2 rimasto negli annali della storia e che è ancor oggi viene ricordato come la “tragedia del Sarrià”, un’autentica disfatta per i giocatori verdeoro, che fino a quel momento erano così sicuri di passare il turno al punto di aver già prenotato l’albergo a Madrid.

 Da quel momento anche in Italia si cambiò atteggiamento verso gli Azzurri e verso quel ragazzo, Paolo Rossi, riabilitato dal pallone mondiale, che riuscì nel miracolo di depurarlo dallo scandalo del totonero. Tre reti al Brasile, due gol alla Polonia in semifinale e infine la rete dell’inizio della goleada nella finalissima dell’11 luglio 1982 al Bernabeu contro la Germania: 3-1 perentorio con le altre reti di Marco Tardelli e “Spillo” Altobelli.

 Una partita che è rimasta ancor oggi nella memoria collettiva di tutti gli sportivi, con l’urlo mondiale di Tardelli al momento del gol del momentaneo 2-0: un urlo di gioia per lo spendido gol segnato che divenne poi l’icona di quei Campionati del Mondo e delle successive avventure della nazionale italiana.

 Un urlo che fu il segnale della rinascita e della ripresa dell’Italia intesa come Nazione, prima ancora che come Nazionale calcistica, facendo capire che era possibile “vincere”, uscire dal buio. L’immagine dell’Italia nel mondo ebbe una scossa positiva straordinaria. Il Paese si svegliò “vincente” nella vita sociale di tutti i giorni e anche nello sport, perchè nel 1982 vincemmo 45 titoli mondiali in discipline diversissime tra loro. Da Uncini nel motociclismo a Saronni nel ciclismo, dai fratelli Abbagnale nel canottaggio a Masala nel Pentathlon Moderno, l’Italia maturò una consapevolezza sepolta da troppi anni. Il 1982 e quella vittoria Mondiale iniziò una nuova era calcistica: incominciarono i “Processi” sportivi televisivi, si diede spazio alle moviole e alle polemiche nei salotti del calcio parlato, aumentò il pubblico negli stadi e il campionato italiano divenne il più ambito dai campioni stranieri.

Ma soprattutto quella vittoria e quell’urlo di Marco Tardelli ci insegnarano la lezione più importante: quella di non rinunciare mai ai sogni.

http://calcio.fanpage.it/litalia-mundial-e-quellurlo-tra-storia-e-mito-i-campioni-del-1982/

 

 

 

 

 

 

 

 

ELIMINATA AI QUARTI DI FINALE

 

Enzo Bearzot

 

1 Galli · 2 Bergomi · 3 Cabrini · 4 Collovati · 5 Nela · 6 Scirea · 7 Tricella · 8 Vierchowod · 9 Ancelotti · 10 Bagni · 11 Baresi · 12 Tancredi · 13 De Napoli · 14 Di Gennaro · 15 Tardelli · 16 Conti · 17 Vialli · 18 Altobelli · 19 Galderisi · 20 Rossi · 21 Serena · 22 Zenga 

 

31-5-1986, Città del Messico (MO) Italia-Bulgaria 1-1 Reti: 43’ Altobelli, 85’ Sirakov Italia: G. Galli, Bergomi, Cabrini, De Napoli, Vierchowod, Scirea, B. Conti (65’ Vialli), Bagni, Galderisi, Di Gennaro, Altobelli. Ct: Bearzot. Bulgaria: Michailov, Zdravkov, A. Markov, Sadkov, Dimitrov, Arabov, Iskrenov (65’ Kostadinov), Sirakov, Getov, Gospodinov (74’ Jeliazkov), Mladenov. Ct: I. Vutzov. Arbitro: Fredriksson (Svezia).

5-6-1986, Puebla (MO) Italia-Argentina 1-1 Reti: 6’ Altobelli rig., 34’ Maradona Italia: G. Galli, Bergomi, Cabrini, De Napoli (87’ G. Baresi), Vierchowod, Scirea, B. Conti (64’ Vialli), Bagni, Galderisi, Di Gennaro, Altobelli. Ct: Bearzot. Argentina: Pumpido, Ruggeri, Garré, Batista (59’ Olarticoichea), Cuciuffo, Brown, Burruchaga, Giusti, Borghi (76’ Enrique), Maradona, Valdano. Ct: C. Bilardo. Arbitro: Keizer (Olanda).

10-6-1986, Puebla (MO) Italia-Corea del Sud 3-2 Reti: 18’ Altobelli, 62’ Choi Soon Ho, 73’ Altobelli, 82’ aut. Cho Kwang Rae, 89’ Huh Jung Moo Italia: G. Galli, Vierchowod, Cabrini, De Napoli, Collovati, Scirea, B. Conti, Bagni (68’ G. Baresi), Galderisi (88’ Vialli), Di Gennaro, Altobelli. Ct: Bearzot. Corea del Sud: Oh Yun Kyo, Cho Kwang Rae, Park Kyung Hoon, Huh Jung Moo, Yung Yong Hwan, Cho Young Jeung, Kim Joo Sung, Park Chang Sun, Cha Bum Kun, Byun Byung Yoo (75’ Kim Jong Boo), Choi Soon Ho. Ct: Kim Jung Nam. Arbitro: Socha (Stati Uniti).

17-6-1986, Città del Messico (MO) Italia-Francia 0-2 Reti: 14’ Platini, 57’ Stopyra Italia: G. Galli, Bergomi, Cabrini, G. Baresi (46’ Di Gennaro), Vierchowod, Scirea, B. Conti, De Napoli, Galderisi (57’ Vialli), Bagni, Altobelli. Ct: Bearzot. Francia: Bats, Ayache, Amoros, Fernandez (73’ Tusseau), Bossis, Battiston, Tigana, Giresse, Rochetau, Platini (85’ Ferreri), Stopyra. Ct: H. Michel. Arbitro: Esposito (Argentina).

 

 

Tutta colpa di Platini

 

(Paolo Valenti) – 14 Maggio 1986. Primo pomeriggio. Cammino lungo il viale delle Olimpiadi per raggiungere il Centrale del tennis. Nelle cuffie del lettore musicale “Every Little Thing She Does Is Magic”, dei Police. Per caso o per destino è la canzone da sentire in questo momento: la primavera scende dalle pendici di Monte Mario inondando di luce e di calore tutto il complesso del Foro Italico. Ho il biglietto per assistere al match pomeridiano dei quarti di finale degli Internazionali d’Italia tra Wilander e Pimek. Non è l’incontro clou della giornata ma non mi importa. Ho appuntamento con Guido, un compagno di classe, direttamente ai posti a noi assegnati. Quando entro, lo trovo già seduto: Rayban scuri, Lacoste bianca a maniche corte e un primo accenno di abbronzatura. A scuola le ragazze stravedono per lui. Mi accomodo al mio posto:

“Ciao Guido, che aria tira qui?”

“Hanno iniziato da due minuti il riscaldamento. Non credo che sarà una gran partita. In compenso il panorama promette bene…”.

Colgo senza difficoltà il riferimento alle ragazze che vanno a sedersi nei posti più assolati per preparare le prime escursioni al mare.
Il primo game del secondo set è appena iniziato. Come da previsioni, il match non ha storia: conduce Wilander senza fatica. All’improvviso, durante uno scambio più lungo del solito, il pubblico comincia a rumoreggiare. Inizialmente è un brusio ma, in pochi secondi, diventa un’acclamazione che costringe il giudice a fermare lo scambio tra gli increduli tennisti.

ARRIVANO GRAZIANI E ANCELOTTI. Il Centrale si scioglie in uno scroscio di applausi: poche file sotto di noi sono appena arrivati Francesco Graziani e Carlo Ancelotti, alfieri di una Roma che nella stagione appena conclusa ha sfiorato lo scudetto dopo una rincorsa alla Juventus fermatasi proprio al traguardo. Alla fine del mese inizieranno i mondiali in Messico e in questo momento Graziani e Ancelotti rappresentano il passato e il presente della nazionale. Nonostante un ottimo campionato, Graziani non è stato inserito da Bearzot nella lista dei ventidue per ragioni anagrafiche mentre Ancelotti partirà come prima alternativa a Bagni e De Napoli, titolari a centrocampo.

Non vedevo così da vicino Graziani da quattro anni, da quel famoso luglio del 1982 quando, appena due giorni dopo la vittoria di Madrid, Ciccio si presentò dal barbiere presso il quale ero solito andare durante le vacanze. Tra un autografo e una foto, venni così a scoprire che Graziani aveva una casa al mare proprio nello stesso posto dove la mia famiglia trascorreva il periodo estivo. Fu proprio quel giorno che capii che anche i campioni del mondo sono persone come tutti quando, finito già da qualche minuto il taglio, all’ennesima richiesta di posare davanti alla macchina fotografica di una tifosa accalcata davanti al barbiere, Ciccio esclamò, con le mani giunte a mo’ di preghiera: ”A signo’, ma io devo anda’ a magna’!”.
I MONDIALI DEL POST-TERREMOTO MESSICANO. Lo svolgimento in Messico di quell’edizione dei mondiali era stata a lungo in forse a causa del devastante terremoto che aveva colpito il paese l’anno precedente. Venne profuso un grande sforzo per poter garantire comunque la regolare tenuta della manifestazione, anche perché l’evento era necessario al Paese per potersi risollevare economicamente.

L’Italia, sempre nelle mani di Bearzot, si affaccia all’appuntamento tra luci e ombre: bisogna capire se funzionerà il mix tra i campioni dell’82 ancora in squadra (Cabrini, Scirea, Conti, Altobelli) e i nuovi innesti. Tardelli e Rossi sono nei ventidue ma, per esplicita dichiarazione dello stesso commissario tecnico, vengono aggregati più per fare gruppo e creare un buon clima nello spogliatoio che per esigenze di campo. In generale, per esperienza internazionale e valori tecnici, la nazionale dell’86 sembra comunque non all’altezza del titolo che deve difendere.

QUI COMINCIA L’AVVENTURA. L’avventura comincia il 31 maggio. Come campioni in carica spetta a noi la partita di apertura del mondiale. L’avversario, la Bulgaria, è abbordabile. La formazione, annunciata in tv per la prima volta in un mondiale da Bruno Pizzul, prevede: Galli; Bergomi, Cabrini; Bagni, Vierchowod, Scirea; Conti, De Napoli, Galderisi; Di Gennaro, Altobelli. Attendo molto questo esordio, sospeso tra la speranza, improbabile, di rivivere le gioie spagnole e i dubbi legati all’effettivo valore della squadra. Il salone di casa è pronto: pizza al taglio sul tavolo e Coca Cola. Giambattista, il mio compagno di banco a scuola, mi ha avvertito un’ora prima che non riesce a raggiungermi. Il mio terzo mondiale sta per cominciare proprio come il primo: cena nel salone di casa davanti alla tv in collegamento con un paese latino americano.

Il giorno dopo, in classe, si parla della partita: gli ultimi giorni dell’anno, se non ci sono materie da rimediare, diventano dei piacevoli incontri tra amici che si accordano su dove vedersi nel pomeriggio e si raccontano i programmi per le vacanze estive. L’esordio della nazionale è stato sfortunato: buone trame di gioco, molte conclusioni verso la porta avversaria ma alla fine solo uno striminzito pareggio per 1-1 firmato da Altobelli, che risulterà il migliore degli azzurri a fine torneo, e Sirakov. Con Giambattista argomentiamo sul passaggio del turno, diventato improvvisamente più arduo del previsto perché bisogna incontrare l’Argentina di Maradona senza aver ottenuto la vittoria il giorno precedente.

LA FRANCIA DI MICHEL PLATINI. Un po’ a fatica le cose vanno come devono andare: un pareggio combattuto contro l’albiceleste (terzo incontro di fila nella fase finale dei mondiali) e una vittoria di misura sulla Corea del Sud garantiscono all’Italia il secondo posto nel girone e la qualificazione agli ottavi di finale, dove incontreremo la Francia di Michel Platini.

 

 

Il 17 giugno tutta la classe è invitata a casa di Luca per vedere la partita. Gli auspici non sono dei migliori: l’Italia sembra lontana parente della squadra che ha vinto il titolo quattro anni prima mentre i francesi, campioni d’Europa in carica, giocano un calcio effervescente, organizzato in mezzo al campo da Giresse e Tigana, inarrestabile nelle giocate di Platini. Bearzot, conscio della situazione, decide di marcare a uomo l’asso transalpino, togliendo dal nostro centrocampo l’unico uomo capace di costruire, Di Gennaro, per inserire Beppe Baresi. L’incontro è una disfatta nel risultato, due a zero per i francesi, e nel gioco: l’Italia non è mai realmente in grado di osteggiare gli avversari che, ad ogni affondo, ci fanno tremare. Si chiude amaramente un ciclo storico per gli azzurri: da settembre bisognerà ricostruire la nazionale dalle fondamenta, facendo leva sul gruppo dell’under 21 che sta mettendo in mostra tanti giovani talenti. Ma alle dieci di sera del 17 giugno 1986 non è solo questa sconfitta che mi pesa sostenere.

http://www.storie.it/mundial/messico-86-tutta-colpa-di-platini/

 

 

 

 

 

 

 

 

TERZO POSTO

 

 

Azeglio Vicini

 

1 Zenga · 2 Baresi · 3 Bergomi · 4 De Agostini · 5 Ferrara · 6 Ferri · 7 Maldini · 8 Vierchowod · 9 Ancelotti · 10 Berti · 11 De Napoli · 12 Tacconi · 13 Giannini · 14 Marocchi · 15 Baggio · 16 Carnevale · 17 Donadoni · 18 Mancini · 19 Schillaci · 20 Serena · 21 Vialli · 22 Pagliuca 

 

9-6-1990, Roma (MO) Italia-Austria 1-0 Reti: 79’ Schillaci Italia: Zenga, Bergomi, P. Maldini, F. Baresi, R. Ferri, Ancelotti (46’ De Agostini), Donadoni, De Napoli, Vialli, Giannini, A. Carnevale (75’ Schillaci). Ct: A. Vicini. Austria: Lindenberger, Russ, Streiter, Aigner, Pecl, Schöttel, Artner (62’ Szak), Linzmaier (77’ Hörtnagl), Ogris, Herzog, Polster. Ct: J. Hickersberger. Arbitro: Wright (Brasile).

14-6-1990, Roma (MO) Italia-Stati Uniti 1-0 Reti: 11’ Giannini Italia: Zenga, Bergomi, P. Maldini, F. Baresi, R. Ferri, Berti, Donadoni, De Napoli, Vialli, Giannini, A. Carnevale (52’ Schillaci). Ct: A. Vicini. Stati Uniti: Meola, Doyle, Banks (82’ Stollmeyer), Windischmann, Armstrong, Balboa, Caligiuri, Ramos, Vermes, Harkes, Murray (84’ Sullivan). Ct: B. Gansler. Arbitro: Codesal (Messico).

19-6-1990, Roma (MO) Italia-Cecoslovacchia 2-0 Reti: 9’ Schillaci, 78’ R. Baggio Italia: Zenga, Bergomi, P. Maldini, F. Baresi, R. Ferri, Berti, Donadoni (51’ De Agostini), De Napoli (66’ Vierchowod), Schillaci, Giannini, R. Baggio. Ct: A. Vicini. Cecoslovacchia: Stejskal, Nemecek, (46’ Bielik), Bilek, Kadlec, Kinier, Hasek, Moravcik, Chovanec, Skhuravy, Weiss (59’ Griga), Knoflicek. Ct: J. Venglos. Arbitro: Quiniou (Francia).

25-6-1990, Roma (MO) Italia-Uruguay 2-0 Reti: 65’ Schillaci, 83’ A. Serena Italia: Zenga, Bergomi, P. Maldini, F. Baresi, R. Ferri, De Agostini, Berti (52’ A. Serena), De Napoli, Schillaci, Giannini, R. Baggio (79’ Vierchowod). Ct: A. Vicini. Uruguay: Alvez, Pintos Saldaña, Dominguez, Gutierrez, De Leon, Perdomo, Aguilera (55’ Sosa), Ostolaza (79’ Alzamendi), Francescoli, R. Pereira, Fonseca. Ct: O. W. Tabarez. Arbitro: Courtney (Inghilterra).

30-6-1990, Roma (MO) Italia-Irlanda 1-0 Reti: 38’ Schillaci Italia: Zenga, Bergomi, P. Maldini, F. Baresi, R. Ferri, De Agostini, Donadoni, De Napoli, Schillaci, Giannini (64’ Ancelotti), R. Baggio (71’ A. Serena). Ct: A. Vicini. Irlanda: Bonner, Morris, Staunton, Moran, McCarthy, Townsend, McGrath, Houghton, Aldridge (78’ Sheridan), Sheedy, Quinn (53’ Cascarino). Ct: J. Charlton. Arbitro: Silva Valente (Portogallo).

3-7-1990, Napoli (MO) Italia-Argentina 3-4 rig. (1-1 d.t.s.) Reti: 17’ Schillaci, 68’ Caniggia Rigori: F. Baresi (t), Serrizuela (t), R. Baggio (t), Burruchaga (t), De Agostini (t), Olarticoechea (t), Donadoni (p), Maradona (t), A. Serena (p) Italia: Zenga, Bergomi, P. Maldini, F. Baresi, R. Ferri, De Agostini, Donadoni, De Napoli, Schillaci, Giannini (75’ R. Baggio), Vialli (70’ A. Serena). Ct: A. Vicini. Argentina: Goycochea, Ruggeri, Olarticoechea, Simon, Serrizuela, Basualdo (95’ Batista), Burruchaga, Giusti, Caniggia, Maradona, Calderon (46’ Troglio). Ct: C. Bilardo. Arbitro: Vautrot (Francia).

 

FINALE 3° E 4° POSTO

 

 

 

 

TOTO’ SCHILLACI E QUEGLI OCCHI SPIRITATI

CHE ILLUMINARONO LE NOTTI MAGICHE DEL MONDIALE 1990.

DI FRANCO ROSSI

 

 L’eroe delle notti magiche ha gli occhi invasati di chi viene da una vita povera e dal ghetto del Cep, il quartiere palermitano dove il calcio, con il suo cocktail di forza, tecnica e agonismo, rappresenta l’unico passaporto per uscirne.

Non è facile spiegare perchè Salvatore Schillaci diventa il simbolo di tutta l’Italia durante i Mondiali del 1990. Gli occhi grandi, stupiti e sorpresi, attraversati da lampi di aggressività animale, non bastano a spiegarlo, nè tanto meno i gol.

Otto anni prima quelli di Paolo Rossi erano stati decisivi per far vincere agli azzurri il titolo mondiale, quelli di Schillaci nel 1990 sono soltanto sufficienti per arrivare terzi.

E allora perchè sotto il cognome di un siciliano, che parla sgrammaticato e usa i congiuntivi in maniera personalissima, tutti gli italiani, d’incanto, si sentono riuniti?

Quando arrivò alla Juve, acquistato dal Messina, tutti pensarono che mai e poi mai avrebbe giocato in bianconero, C’era la convinzione che fosse girato al Torino per avere il brasiliano Muller. E invece con la Juve è diventato campione, con la nazionale un idolo.

Difficile capire per chi è nato mille chilometri lontano dal Centro elementare pericolosi, traduzione poliziesca del quartiere palermitano Cep da dove proviene.

Un tempo, lì sotto il Monte Pellegrino, nelle loro straordinarie ville, passavano le ferie gli aristocratici, e in una di queste Luchino Visconti giro molte scene de “Il Gattopardo”.

Successivamente gli aristocratici se ne andarono e al posto delle eleganti dimore fu costruito, nel delirio urbanistico-mafioso della città, un orrendo quartiere periferico, dove violenza, emarginazione, ignoranza trovano terreno fertile per crescere.

Uscire onesti dal Cep non è facile e ancor più difficile è uscirne con un lavoro.

Eppure a tredici anni Totò Schillaci un lavoro l’aveva: da Nino Barone a cambiar gomme.

In casa le cose andavano male e le centomila al mese del ragazzino – che sarebbero diventate 281mila nel 1981 – servivano eccome. Anzi erano indispensabili.

Mimmo,il padre, un po’ faceva in carpentiere, un po’ faceva il disoccupato. Rosalia, Giuseppe e Giovanni eran troppo piccoli per cercare quattrini e la madre, Giovanna, faticava assai nel mettere assieme il pranzo con la cena.

Totò non teneva animo per lo studio, avrebbe stentato a superare le elementari alla Crispi e le medie alla Cucchiara, ma nel calcio, si che se la cavava.

Diventare calciatori è da quelle parti, un mezzo per uscire dal ghetto, come il basket, il baseball e l’atletica in quelli americani. Così ecco lo Schillaci bambino giocare tra gli “Aquilotti Amat” e Angelo Chianello, carroziere al Cep con patentino da allenatore di terza categoria, dire ancor oggi con voce piena d’orgoglio: “Totò Schillaci l’ho scoperto io….”

Era un ragazzo gracile che correva, però, senza soste, non possedeva alcuna base tecnica, ma cosa importava?

L’Angelo Chianello lo volle subito con sè. “Tutto ciò che Totò sa di calcio l’ha imparato da me”.

Ad essere onesti c’è da dire che forse di calcio Totò non ha imparato granchè. Nè avrebbe potuto. Nel calcio, come nella vita, Totò ha sempre seguito l’istinto, piuttosto che le regole. D’istinto aveva capito, da adolescente, che soltanto con il calcio sarebbe evaso dal Cep, e d’istinto andava avanti, facendosi strada tra i giovani calciatori palermitani, finchè Salvatore Massimino, presidente del Messina, fiutò nel ragazzo il campione.

Se lo portò in squadra per venticinque milioni. A Totò duecentocinquantamila al mese, più naturalmente il costo della pensione: da Celeste. Era il 1982 e l’Italia tutta invadeva le piazze per inneggiare agli azzurri campioni del mondo in Spagna.

Schillaci è preso in cura da Francesco Curro e dal dottor Filippo Ricciardi, medico sociale.

Inizia la sua carriera di professionista con determinazione e feroce volontà di riuscire. Viene acquistato dalla Juventus e finisce in nazionale.

E proprio con la maglia azzurra incendia le notti magiche di Italia ’90.

Negli occhi di Totò, nei gesti furenti, nell’espressioni che farebbero la felicità di qualsiasi psichiatra, c’è tutta la classe di un grande campione, anche se al livello dei Mondiali, ha vissuto (e ballato) una sola estate.

Per un istintivo come Schillaci, che significato ha la parola classe?

Il significato di chi usa ogni fibra muscolare, anche la più profonda per raggiungere, prima del difensore avversario la palla da scaraventare in rete e di chi rivolge ogni pensiero e animo allo scopo di raggiungere lo scopo che si è prefissi.

E’ la trance agonistica. Quella che permette a Totò di segnare sei gol al Mondiale.

Dopo i fasti di Italia ’90 comincia per Totò la lenta via del tramonto. Non si ripeterà più, lo scrittore o il regista che nella loro Opera prima dicono tutto: il “dopo” non sarà più lo stesso. Anzi, non avrà più senso.

Finisce la sua carriera in Giappone, notti non più magiche ma d’Oriente. Firma il contratto nell’aprile del 1994 e quello stesso dicembre vado a trovarlo, una visita di cortesia, sono a Tokio per la Toyota Cup tra Milan e Velez Sarsfield e rivederlo più che un dovere, è un piacere.

I ragazzini giapponesi vanno matti per Schillaci, uno così lontano dal loro mondo. Un siciliano nella terra dell’ikebana, dell’origami e del “Teatro No”: cosa potrebbe essrci di più contrastante?

“Nulla sapevo, tutto mi incuriosiva. Mi trovo bene? Certo, qui ho trovato l’America. Per guadagnare quello che guadagno in un anno in Giappone, in Italia dovrei giocare almeno tre campionati. Niente è più lontano da me, dalla mia Sicilia, di questo Paese dove quando una persona ti sorride non sai se è triste o allegro, e se ha la testa bassa non sai se è allegro o triste. Non ho imparato una parola di giapponese, ma se dico qualcosa in siciliano, magari mettendoci dentro qualche espressione siciliana, tipo minchia, ho l’impressione che mi capiscano. Non ho nostalgia dell’Italia, sono felice di essere qui, nessuno mi obbligò…All’Italia ho dato tutto, vero, vorrà dire che la mia rabbia, la mia grinta, questo mio istinto che mai mi fa tirare indietro il piede, continuerò a darlo a questa squadra giapponese che ha creduto in me. Noialtri siciliani da sempre siamo abituati ad emigrare e io mi considero un emigrante fortunato. Oh, guarda che nelle partite dell’Jwata ci sono 38 mila spettatori fissi, mica pochi. E qui mi considerano un idolo, la mia maglietta viene venduta a 150 dollari nei negozi di Tokio e le ordinazioni finiscono subito. Entro breve tempo voglio imparare almeno una cosa: a firmare gli autografi con gli ideogrammi. Sarei il primo calciatore italiano a farlo¯.

Una stretta di mano e se va. Firmando decine d’autografi con la grafia di casa nostra. Ma ancora per poco.

FRANCO ROSSI

http://www.francorossi.com/2011/01/toto-schillaci-e-quegli-occhi-che-illuminarono-le-notti-magiche-del-mondiale-del-1990/

 

ZENGA CONTRO TUTTI

 

MARINO Sembra quasi divertirsi, forse un gusto masochistico nel sentirsi in croce, chissà. Walter Zenga è pronto a sfidare tutti. A viso aperto, come sempre. D' altronde, il portiere dev' essere così, no? Coraggioso e presuntuoso, sfrontato e folle nella vita come nelle uscite. E quell' uscita infelice su Caniggia ci è costata la finale, inutile girarci intorno: primo gol mondiale sul groppone degli azzurri e tutti a casa, anzi, tutti a Bari per una finalina che nessuno sente sua, quasi qualcosa di posticcio e sgradevole. Ha dormito male e soprattutto poco (come al solito) e già all' alba si era segnato in testa nomi e cognomi di chi gli aveva imputato l' eliminazione, o almeno una grossa fetta di responsabilità. Mi chiedete se ho colpa sul gol ? Mi spiace tanto deludervi, ragazzi. Ne ho lette di tutti i colori stamane, ma ormai ho le spalle larghe: solo Maradona, che capisce di calcio, ha centrato il problema.

Diego ha detto che è stato bravo Caniggia. Non mi sembra proprio il caso di dare la colpa a Zenga. Non tutti la pensano così, ovviamente. E anche qualche suo compagno azzurro avrebbe forse qualcosina da dirgli. Ma tace: l' ambiente è già sufficientemente giù, che serve sparare sul portiere? Ma chissà se Walter in cuor suo si sente un pochino colpevole, certe sue frasi lasciano dubbi profondi.

Che dire, ad esempio, di questa? E' stato bravo Caniggia ad anticipare una mia idea di anticipare lui. Leggetela come volete: anche che Walter ha sbagliato il tempo dell' uscita.

E i rigori? Chi sostiene che non ci ha nemmeno provato perché mai si è sentito un portiere pararigori è servito così: Io ci ho sempre provato ma non hanno tirato mai dove mi buttavo: sfido chiunque a mettersi in porta. C' è chi è bravo come il portiere loro e c' é chi non l' azzecca. In cinque minuti potevo diventare l' eroe della Nazionale.... Non lo é diventato: ora è lì, le spalle al muro, occhialoni scuri, parla di forza di gravità, di Maradona che contro la Jugoslavia aveva tirato (sbagliando) sulla destra e stavolta ha tirato (centrando) sulla sinistra. No, Zenga nei panni del difensore ci sta proprio stretto. Preferisce attaccare. Tutti. E' la tattica del giorno dopo. Gli argentini? Le provocazioni fanno parte del gioco. Bisogna saper perdere ma anche vincere. Loro davano degli ignoranti alla gente che fischiava l' inno argentino, ma si sono comportati peggio, si sono dimostrati la peggior specie... Non è vero che li abbiamo sottovalutati, storie: ma l' arbitro ha sin troppo favorito gli argentini, loro facevano judo, non calcio. E' livido di rabbia. L' unico che non c' entra niente è Maradona. Gli altri adesso non dovranno più lamentarsi se le gente in futuro fischierà il loro inno o li tratterà male. Dalla loro panchina hanno cercato di distrarmi per un' ora e mezzo, ma se c' é un dio... Il mondo è piccolo, ci si ritrova sempre, prima o poi. Si covano già brutte rivincite, fra quelli che si sono distinti al tiro allo Zenga (insulti e sfottò); si segnalano soprattutto tre argentini d' Italia: Caniggia, Troglio e Lorenzo.

 

E Walter non dimentica. Che hanno fatto loro più di noi? Ci bastava solo un pizzico di fortuna in più ed era fatta: loro hanno segnato quando ormai non se l' aspettavano più. Ha già dimenticato i record battuti e soprattutti quelli falliti: 517' senza beccare un gol al Mondiale, superato Banks. Ma solo 980' di imbattibilità azzurra (compresi 45' di Tacconi, non dimentichiamolo): ha resistito il primato di Zoff (1.143' nel ' 74). Non me ne frega niente, assolutamente niente adesso. Forse si ricorderanno di me fra dieci anni quando avrò smesso di giocare. E' sconvolto. Ma non cambia niente, io non mi nascondo, non si può mollare: l' esempio é Zoff. In 41 partite azzurre ho preso solo 14 gol, qui al Mondiale solo uno. Ma che conta?. Si attacca a tutto, ormai: accuse agli argentini, a Vautrot, agli arbitri mondiali (l' unico vantaggio per noi azzurri quel gol regolare annullato alla Cecoslovacchia), c' é anche un pizzico di risentimento perché il Mondiale si è giocato in Italia (abbiamo speso un sacco di energie in più per dimostrare tante cose): ma che si voleva, giocare in Papuasia?

E adesso si va a Bari, per cosa? Giocheremo con rabbia, 50.000 tifosi saranno con noi, per fortuna non c' è un giocatore avversario che gioca nel Bari. Noi vogliamo chiudere imbattuti. La gente è contenta di noi. Abbiamo la coscienza pulita, questo conta. Tornando a Marino, nella notte triste, ha trovato un telegramma. Dell' Inter. Un incoraggiamento? Macché, la convocazione per il ritiro del precampionato. Appuntamento il 2 agosto. Ma io ci vado soltanto il 6, dice stizzito. Ci voleva anche questa. Povero Zenga.

FULVIO BIANCHI            

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1990/07/05/zenga-contro-tutti.html

 

 

 

 

 

 

 

VICE CAMPIONE DEL MONDO

 

 

 

Arrigo Sacchi

 

1 Pagliuca · 2 Apolloni · 3 Benarrivo · 4 Costacurta · 5 Maldini · 6 Baresi · 7 Minotti · 8 Mussi · 9 Tassotti · 10 R. Baggio · 11 Albertini · 12 Marchegiani · 13 D. Baggio · 14 Berti · 15 Conte · 16 Donadoni · 17 Evani · 18 Casiraghi · 19 Massaro · 20 Signori · 21 Zola · 22 Bucci ·

 

 

PRIMO TURNO

18-6-1994, New York (MO) Irlanda-Italia 1-0 Rete: 11’ Houghton Irlanda: Bonner, Irwin, Phelan, Keane, McGrath, Babb, Houghton (68’ McAteer), Sheridan, Coyne (89’ Aldridge), Townsend, Staunton. Ct: J. Charlton. Italia: Pagliuca, Tassotti, P. Maldini, Albertini, Costacurta, F. Baresi, Donadoni, D. Baggio, Signori (84’ Berti), R. Baggio, Evani (46’ Massaro). Ct: A. Sacchi. Arbitro: Van der Ende (Olanda).

23-6-1994, New York (MO) Italia-Norvegia 1-0 Rete: 69’ D. Baggio Italia: Pagliuca, Benarrivo, P. Maldini, Albertini, Costacurta, F. Baresi (49’ Apolloni), Berti, D. Baggio, Casiraghi (68’ Massaro), R. Baggio (21’ Marchegiani), Signori. Ct: A. Sacchi. Norvegia: Thorstvedt, Håland, Björnebye, Mykland (81’ Rekdal), Berg, Bratseth, Flo, Leonhardsen, Fjörtoft, Bohinen, Rushfeldt (46’ Jakobsen). Ct: E. Olsen. Arbitro: Krug (Germania).

28-6-1994, Washington (MO) Italia-Messico 1-1 Reti: 48’ Massaro, 58’ Bernal Italia: Marchegiani, Benarrivo, P. Maldini, Albertini, Apolloni, Costacurta, Berti, D. Baggio (65’ Donadoni), Casiraghi (46’ Massaro), R. Baggio, Signori. Ct: A. Sacchi. Messico: Campos, Rodriguez, Del Olmo, Ambriz, Suarez, Ramirez Perales, Garcia Aspe, Bernal, L. Garcia (83’ J. Chavez), Hermosillo, Alves. Ct: M. Mejia Baron. Arbitro: Lamolina (Argentina).

OTTAVI DI FINALE

5-7-1994, Boston (MO) Italia-Nigeria 2-1 d.t.s. Reti: 26’ Amunike, 88’ e 102’ rig. R. Baggio Italia: Marchegiani, Mussi, Benarrivo, Albertini, P. Maldini, Costacurta, Berti (46’ D. Baggio), Donadoni, Massaro, R. Baggio, Signori (63’ Zola). Ct: A. Sacchi. Nigeria: Rufai, Eguavoen, Emenalo, Oliseh, Okechukwu, Nwanu, Finidi, Okocha, Yekini, Amunike (57’ Oliha), Amokachi (35’ Adepoju). Ct: C. Westerhof. Arbitro: Brizio Carter (Messico).

QUARTI DI FINALE

9-7-1994, Boston (MO) Italia-Spagna 2-1 Reti: 25’ D. Baggio, 58’ aut. Benarrivo, 88’ R. Baggio Italia: Pagliuca, Tassotti, Benarrivo, Albertini (46’ Signori), P. Maldini, Costacurta, Conte (66’ Berti), D. Baggio, Massaro, R. Baggio, Donadoni. Ct: A. Sacchi. Spagna: Zubizarreta, Alcorta, Otero, Baquero (64’ Hierro), Abelardo, Nadal, Ferrer, Goicoechea, Luis Enrique, Caminero, Sergi (60’ Salinas). Ct: J. Clemente. Arbitro: Puhl (Ungheria). 

SEMIFINALE

13-7-1994, New York (MO) Italia-Bulgaria 2-1 Reti: 21’ e 25’ R. Baggio, 44’ Stoichkov rig. Italia: Pagliuca, Mussi, Benarrivo, Albertini, P. Maldini, Costacurta, Berti, D. Baggio (55’ Conte), Casiraghi, R. Baggio (71’ Signori), Donadoni. Ct: A. Sacchi. Bulgaria: Mihailov, Kiriakov, Zvetanov, Yankov, Ivanov, Hubchev, Kostadinov (71’ Yordanov), Lechkov, Sirakov, Stoichkov (78’ Guenchev), Balakov. Ct: D. Penev. Arbitro: Quiniou (Francia).

 

 

 Quel pianto di Baresi

 

 Non c' e' stato lieto fine, ma il pianto dirotto, straziante di Franco Baresi, il capitano di ghiaccio, il duro fra i duri, un tipo cosi' tosto da giocare come un gigante . venti giorni dopo l' operazione al menisco . la prima e ultima finalissima mondiale della vita. Cosi' desiderata, cosi' vicina. Anche a Napoli, quattro anni fa, era stato il primo ad avviarsi al dischetto: un capo branco non tradisce mai il proprio ruolo. Allora aveva fatto centro. Piangeva come un bambino, sommerso dall' infelicita' , da quell' errore di cui si sentiva colpevole e ti veniva voglia di consolarlo ma sapevi che nessuna parola sarebbe servita; c' era tutta la desolazione di chi aveva combattuto innumerevoli guerre per vincere quest' ultima battaglia e sentirsi, finalmente, appagato. In tanti anni non aveva mai perso il controllo, la sua marmorea impassibilita' , il suo orgoglio virile: aveva giocato con un braccio rotto, aveva resistito . gli occhi asciutti . a dolori lancinanti. Era come veder piangere Rambo ed eri indifeso davanti a tanto dolore. Cosa vuoi dire a questi giocatori se non ringraziarli? Cosa puoi rimproverare a Roberto Baggio se, stringendo i denti, ha voluto scendere in campo, sperando di compiere un altro miracolo e, invece, ha fallito due gol e un rigore? Non l' avevano accusato di scarso carattere? Cosa vuoi dire a Massaro se, inciucchito dalla fatica, ha tirato nelle braccia di Taffarel? Nessuno s' e' tirato indietro; il traguardo raggiunto e' di grande prestigio; il loro rimpianto e' maggiore del nostro. Potevamo vincere questo mondiale, come potevamo vincere quello del ' 90. Li abbiamo persi entrambi ai rigori, ma ne' quell' Argentina ne' questo Brasile valevano gli azzurri. Unici ad esser finiti fra i primi quattro in entrambe le edizioni, a conferma della nostra supremazia, di quanto valga il movimento calcistico italiano. Sia Vicini sia Sacchi hanno commesso l' identico errore: schierare un attaccante (allora Vialli, adesso Baggio) in non buone condizioni fisiche. Cio' ha pesato sulla squadra, sui cambi, sullo sviluppo della partita. Sacchi ha un po' tradito le proprie idee: anziche' puntare sul collettivo e utilizzare i giocatori piu' tonici, s' e' affidato al colpo di magia, sperando che Roberto gli risolvesse anche questo problema, come con Nigeria, Spagna e Bulgaria.

Un comportamento da Trapattoni qualsiasi... Pretendeva troppo dal suo leopardo azzoppato; l'ha tenuto in campo fino all' ultimo secondo, mentre Signori e Zola ammuffivano in panchina, pieni di energie e di rabbia. Ci sarebbe stato bisogno di un centrocampista veloce come il laziale, visto che l' Italia (stanca e ferita) si difendeva con un catenaccio da tempi antichi. Sacchi mandava in campo persino Evani, altro reduce da un lungo infortunio: un inno a Enrico Toti.

Lo faceva per rimpiazzare Dino Baggio e rafforzare un centrocampo esausto. Ma si era nei supplementari: poteva arretrare Massaro e schierare Signori, poteva far entrare Zola piu' incisivo di Evani? Inutile recriminare, direte: ormai e' fatta. Ma questo Brasile non vale molto se un' Italia formato Crocerossa e provata dall' attraversamento degli USA (ricordate il crollo della Bulgaria) l' ha inchiodato sullo 0 0, ha avuto tre occasioni per infilarlo. Romario e' bravissimo ma Filippo Galli ad Atene e Apolloni al Rose Bowl l' han ben neutralizzato. Lo stopper del Parma meritava maggior fiducia; invece Sacchi non se l' e' sentita di schierarlo subito con Baresi e ha mandato in campo il fragile Mussi, tante volte tormentato quest' anno (anche nel Toro) da guai muscolari. Cosi' l' ha perso dopo mezz' ora e s' e' giocato un cambio. I nodi vengono al pettine. Alcune riserve non erano all' altezza del compito o son state utilizzate fuori ruolo: lo stesso c.t. ha dimostrato di non essere convinto. Giusto rimpiangere Rossi, Panucci, Vierchowod, Lombardo o . comunque . un altro uomo di fascia; tranne Donadoni non ne abbiamo avuti. Abbiamo giocato due buoni primi tempi (Spagna e Bulgaria), rischiato troppe volte di uscire, utilizzato non nel modo migliore le grandi potenzialita' del nostro calcio, praticato un gioco troppo logorante.

Giorgio Tosatti

 

 

E' il mondiale dei paradossi, quello al termine del quale per l'Italia l'orgoglio per essere arrivata in finale senza venirvi battuta è sopraffatto dall'amarezza perché il trofeo sfugge ancora una volta ai calci di rigore.Gli azzurri si presentano a Usa 94 tra i favoriti, guidati da un tecnico che ha vinto tutto, Arrigo Sacchi, e da molti giocatori del "suo" Milan: Baresi, Maldini, Tassotti, Costacurta, Donadoni e Massaro a cui devono aggiungersi il capocannoniere del campionato Beppe Signori e il giocatore più amato e invidiato dal mondo intero: Roberto Baggio.

 Parte male, l'Italia, perdendo contro l'Irlanda, ma nelle partite successive, in circostanze spesso difficili per il gran caldo e a volte complicatissime per gli eventi che si verificano sul campo, riesce comunque ad avanzare nel torneo.Negli ottavi contro la Nigeria, per esempio, gli azzurri ridotti in 10 devono ribaltare nei supplementari un risultato che fino all'88' li vedeva soccombere. Protagonista a suon di gol è Roberto Baggio, che poi sarà l'artefice principale anche dei successi nei quarti sulla Spagna e in semifinale sulla Bulgaria.In finale c'è il temibile Brasile, a caccia del suo quarto titolo iridato.

 La partita si disputa domenica 17 luglio alle 12.30 al Rose Bowl di Pasadena sotto un sole cocente e di fronte a centomila spettatori. Sacchi, che deve fare i conti con infortuni, acciacchi e squalifiche, fa miracoli per mettere in campo una squadra competitiva. Recupera Franco Baresi 24 giorni dopo l'asportazione del menisco e manda in campo un dolorante Baggio.Contro le incursioni brasiliane la difesa azzurra è perfetta, ma finiscono zero a zero sia i tempi regolamentari che quelli supplementari. Si riaffaccia così lo spettro dei rigori che già nel 1990 costarono il mondiale agli azzurri.L'infausto destino purtroppo si ripete. Dal dischetto sbagliano i più rappresentativi: Massaro, Baresi e, proprio lui, Baggio, che manda alto il pallone decisivo. Finisce 3 a 2. Mai un titolo mondiale era stato aggiudicato ai rigori

http://www.figc.it/it/3195/3250/Storia.shtml

 

             

 

 

 

 

 

 

ELIMINATA IN SEMIFINALE

 

 

Cesare Maldini

 

1 Toldo · 2 Bergomi · 3 P. Maldini · 4 Cannavaro · 5 Costacurta · 6 Nesta · 7 Pessotto · 8 Torricelli · 9 Albertini · 10 Del Piero · 11 D. Baggio · 12 Pagliuca · 13 Cois · 14 Di Biagio · 15 Di Livio · 16 Di Matteo · 17 Moriero · 18 R. Baggio · 19 Inzaghi · 20 Chiesa · 21 Vieri · 22 Buffon ·

 

PRIMO TURNO

11-6-1998, Bordeaux (MO) Italia-Cile 2-2 Reti: 10' Vieri, 45' e 49' Salas, 85' R. Baggio rig. Italia: Pagliuca, Nesta, P. Maldini, Albertini, Cannavaro, Costacurta, Di Livio (62’ Chiesa), D. Baggio, Vieri (71' Inzaghi), Di Matteo (57’ Di Biagio), R. Baggio. Ct: C. Maldini. Cile: Tapia, Villaroel, Reyes, Fuentes, Margas (64' Miguel Ramirez), Rojas, Acuna (82' Cornejo), Parraguez, Estay (81' Sierra), Zamorano, Salas. Ct: Acosta. Arbitro: Bouchardeau (Niger).

17-6-1998, Montpellier (MO) Italia-Camerun 3-0 Reti: 7' Di Biagio, 75' e 89' Vieri Italia: Pagliuca, Nesta, P. Maldini, Albertini (62’ Di Matteo), Cannavaro, Costacurta, Moriero (84’ Di Livio), D. Baggio, Vieri, Di Biagio, R. Baggio (65'' Del Piero). Ct: C. Maldini. Camerun: Songo'o, Ndo, Njanka, Kalla, Song, Wome, Angibeaud, Mboma (66' Tchami), Olembe, Ipoua (46' Job), Omam Biyik (66' Eto'o). Ct: Leroy. Arbitro: Lennie (Australia).

24-6-1998, Montpellier (MO) Italia-Austria 2-1 Reti: 48' Vieri, 89' R. Baggio, 90' Herzog rig. Italia: Pagliuca, Nesta (4' Bergomi), P. Maldini, D. Baggio, Cannavaro, Costacurta, Moriero, Pessotto, Vieri (60' Inzaghi), Di Biagio, Del Piero (73'' R. Baggio). Ct: C. Maldini. Austria: Konsel, Mahlich, Schottel, Feiersinger, Pfeffer, Wetl, Pfeifenberger (79' Herzog), Reinmayr, Kuhbauer (74' Stoger), Polster (62' Haas), Vastic.. Ct: Prohaska. Arbitro: Durkin (Inghilterra).

 

QUARTI DI FINALE

27-6-1998, Marsiglia (MO) Italia-Norvegia 1-0 Rete: 18' Vieri Italia: Pagliuca, Costacurta, P. Maldini, Albertini (72' Pessotto), Cannavaro, Bergomi, Moriero (62' Di Livio), Di Biagio, Vieri, D. Baggio, Del Piero (77'' Chiesa). Ct: C. Maldini. Norvegia: Grodas, Berg, Eggen, Johnsen, Byornebye, H. Flo (73' Solskjaer), Mykland, Rekdal, Leonhardsen (12' Strand, 39' Solbakken), Riseth, T. A. Flo. Ct: Olsen. Arbitro: Heynemann (Germania).

 

SEMIFINALE

3-7-1998, Parigi (MO) Francia-Italia 4-3 (ai rigori) Sequenza rigori: Zidane gol, R. Baggio gol, Lizarazu parato, Albertini parato, Trezeguet gol, Costacurta gol, Henry gol, Vieri gol, Blanc gol, Di Biagio traversa. Francia: Barthez, Thuram, Blanc, Desailly, Lizarazu, Karembeu (Henry dal 65'), Deschamps, Zidane, Petit, Guivarc'h (65' Trezeguet), Djorkaeff. Ct: Jacquet. Italia: Pagliuca, Cannavaro, P. Maldini, D. Baggio (52' Albertini), Costacurta, Bergomi, Moriero, Di Biagio, Vieri, Pessotto (Di Livio dal 90'), Del Piero (67'' R. Baggio). Ct: C. Maldini. Arbitro: Dallas (Scozia).

 

 

1998: SERIE NERA DEI RIGORI, ULTIMO ATTO

La nazionale italiana perde ai rigori per la terza volta consecutiva. Le reti di vieri e baggio, convocato per volonta’ popolare ma impiegato a mezzo servizio per far spazio a del piero, trascinarono la squadra ai quarti di finale, dove si perse ai rigori contro i padroni di casa francesi, dopo che Baggio sfioro’ il colpaccio nei tempi supplementari.

Arrigo Sacchi lasciò la nazionale nel dicembre 1996 per tornare a guidare il Milan in difficoltà; in quell’anno la squadra disputò un pessimo campionato europeo perché la squadra titolare, che aveva vinto la prima partita, non venne confermata successivamente. Approdò alla guida della nazionale il vincente allenatore della nazionale giovanile dell’Under 21 Cesare Maldini, forte di 3 campionati continentali vinti.

Dopo le innovazioni tattiche sacchiane la nazionale tornò al vecchio gioco di Maldini, troppo antico per alcuni. Le prime partite dell’Italia nel Gruppo 2 europeo di qualificazione al mondiale di Francia 98 erano state giocate con Sacchi C.T., a Maldini toccò l’arduo compito di presentarsi subito a Wembley per scontrarsi con l’Inghilterra e fece centro con una rete di Zola. Comunque quel girone lo vinse l’Inghilterra, l’Italia si classificò al secondo posto e dovette sfidare la Russia in un doppio confronto di spareggio per andare ai mondiali: passò l’Italia (1-1 e 1-0 i risultati). Il portiere Peruzzi doveva essere il titolare in quei mondiali ma si fece male, così Pagliuca si ritrovò nuovamente titolare.

Il giocatore del momento era Del Piero ma nell’ultimo scorcio di quella stagione accusò dei problemi fisici, i tifosi chiesero a gran voce il ritorno di Roberto Baggio in nazionale, perché aveva vissuto una straordinaria stagione a Bologna e vennero accontentati, visti i problemi di Del Piero. Vieri quell’anno aveva fatto meraviglie con l’Atletico Madrid e tutti speravano che potesse continuare il suo momento magico. La difesa era composta dai veterani Paolo Maldini (figlio di Cesare), Costacurta e dagli esordienti Nesta, Cannavaro, Pessotto. A centrocampo c’erano Albertini, Di Livio, Di Biagio, Dino Baggio, Moriero e Di Matteo. L’Italia giocò la prima partita del Gruppo B l’11 giugno contro il Cile a Bordeaux (Stadio Parc Lescure): fu un sofferto 2-2, Vieri portò in vantaggio la squadra, poi si subì l’uno/due con Salas e all’ultimo minuto Baggio si procurò un rigore che trasformò.

Tutto facile alla seconda partita il 17 giugno contro il Camerun a Montpellier (Stadio De la Mosson): 3-0 con reti di Di Biagio e Vieri (2). Alla terza partita a Saint Denis (periferia di Parigi), allo Stade de France, il 23 giugno contro l’Austria si vinse 2-1 con reti di Vieri e Baggio, che era partito dalla panchina facendo ristabilire le gerarchie di Del Piero titolare perché guarito. Nesta si infortunò e subentrò Bergomi, l’ultimo degli eroi di Spagna 82, che era tornato in nazionale. L’Italia passata agli ottavi di finale affrontò la Norvegia a Marsiglia (Stadio Velodrome) il 27 giugno: vinse 1-0 con rete del solito Vieri, che fallì anche altre occasioni, mentre la Norvegia andò vicina al pari con Flo T.A., considerato alla vigilia lo spauracchio azzurro, e altri giocatori.

 

Ai quarti di finale a Saint Denis il 3 luglio c’era la Francia ad attenderci. Uno poteva pensare alle coincidenze con l’altro mondiale francese di 60 anni prima: ottavi Norvegia a Marsiglia, quarti Francia a Parigi e quindi doveva finire in gloria per gli azzurri. La Francia fino a quel momento non aveva brillato e aveva sofferto contro il Paraguay, rischiando l’eliminazione; contro l’Italia continuò a non brillare anche se ebbe alcune occasioni per segnare. L’Italia si difese ma quando uscì allo scoperto mise in seria difficoltà la Francia: nei tempi supplementari Baggio, che sostituì Del Piero durante la partita, ebbe tra i piedi il pallone della vittoria (golden gol) che calciò al volo e finì fuori di pochissimo. Ai rigori si riascoltò la stessa sinfonia dei 2 precedenti mondiali: Francia avanti e Italia a casa, il rigore decisivo fu sbagliato da Di Biagio che colpì la traversa.

Cesare Maldini, sommerso dalle critiche per via di uno spento Del Piero preferito a Baggio, fu esonerato. Ma egli nel suo periodo di cittì della nazionale era stato sempre visto come un traghettatore che doveva guidare la nazionale italiana per pochi mesi.

 

 

 

 

 

ELIMINATA AI QUARTI DI FINALE

 

 

Giovanni Trapattoni

 

1 Buffon · 2 Panucci · 3 Maldini · 4 Coco · 5 Cannavaro · 6 Zanetti · 7 Del Piero · 8 Gattuso · 9 Inzaghi · 10 Totti · 11 Doni · 12 Abbiati · 13 Nesta · 14 Di Biagio · 15 Iuliano · 16 Di Livio · 17 Tommasi · 18 Delvecchio · 19 Zambrotta · 20 Montella · 21 Vieri · 22 Toldo · 23 Materazzi

 

3-6-2002, Sapporo (MO) Italia-Ecuador 2-0 Reti: 7’ e 27’ Vieri Italia: Buffon, Panucci, Nesta, Cannavaro, Maldini, Zambrotta, Di Biagio (69’ Gattuso), Tommasi, Doni (63’ Di Livio), Totti (74’ Del Piero), Vieri. Ct: Trapattoni. Ecuador: Cevallos, De La Cruz, Hurtado, Porozo, Guerron, Mendez, Obregon, E. Tenorio (59’ M. Ayovi), Chala (85’ Asencio), Aguinaga (46' C. Tenorio), Delgado. Ct: Gomez. Arbitro: Hall (Stati Uniti).

8-6-2002 Ibaraki (MO) Italia-Croazia 1-2 Reti: 55¹ Vieri, 73¹ Olic, 76¹ Rapaic Italia: Buffon, Panucci, Nesta (24¹ Materazzi), Cannavaro, Maldini, Zambrotta, Tommasi, Zanetti, Doni (79¹ Inzaghi), Totti, Vieri. Ct: Trapattoni. Croazia: Pletikosa, Tomas, R. Kovac, Simunic, Saric, Soldo (62¹ Vranjes), Vugrinec (57¹ Olic), N. Kovac, Jarni, Boksic, Rapaic (79¹ Simic). Ct: Jozic. Arbitro: Poll (Inghilterra).

13-6-2002 Oita (MO) Messico-Italia 1-1 Reti: 34¹ Borgetti, 84¹ Del Piero. Messico: Perez, Vidrio, Marquez, Carmona, Arellano, J. Rodriguez (77¹ Caballero), Torrado, Luna, Morales (75¹ R. Garcia), Blanco, Borgetti (80¹ Palencia). Ct: Aguirre. Italia: Buffon, Cannavaro, Nesta, Maldini, Zambrotta, Tommasi, Totti (78¹ Del Piero), Zanetti, Panucci (63¹ Coco), Inzaghi (56¹ Montella), Vieri. Ct: Trapattoni. Arbitro: Simon (Brasile).

 

QUARTI DI FINALE

18-6-2002 Taejon (MO) Corea del Sud-Italia 2-1 golden gol Reti: 18¹ Vieri, 88¹ Seol, 117¹ Ahn. Corea del Sud: W.J. Lee, J.C. Choi, Hong (82¹ Cha), T.Y. Kim (63¹ Hwang), Song, N.I. Kim (68¹ C.S. Lee), Yoo, Y.P. Lee, Park, Ahn, Seol. Ct: Hiddink. Italia: Buffon, Panucci, Iuliano, Maldini, Coco, Zambrotta (72¹ Di Livio), Tommasi, Totti, Zanetti, Del Piero (61¹ Gattuso), Vieri. Ct: Trapattoni. Arbitro: Moreno (Ecuador).

 

 

Esattamente quel venerdì di 11 anni fa, la Coppa del Mondo, organizzata per la prima volta in Asia e da due nazioni congiunte (si ripeteva l’esperimento del biennio precedente dell’Europeo), partiva con l’incontro inaugurale tra i campioni in carica della Francia e i debuttanti del Senegal. L’incontro terminò a sorpresa con la vittoria degli africani (decisa da un gol di Bouba Diop) e non fu minimamente l’unica sorpresa di quel torneo, ricordato alla storia come il più pazzo tra i Mondiali disputati. La Francia non superò la prima fase, il Portogallo super favorito nel proprio girone, viene eliminato all’ultima giornata da una certa Corea del Sud, salutò poi l’Argentina, buttata fuori dalla Svezia del giovanissimo Ibrahimovic che vinse quel raggruppamento.

Il primo dei due padroni di casa, il Giappone, interruppe la propria corsa agli ottavi di finale, eliminata dalla Turchia che poi arrivò incredibilmente in semifinale, incredibile come fu il cammino del Senegal, arrivato tra le prime otto formazioni mondiali superando il record del Camerun come migliore squadra del continente africano (battuto poi qualche anno più tardi dal Ghana). Vinse il Brasile in finale contro la Germania, ma a stupire più di tutti fu il cammino dei secondi padroni di casa, la Corea del Sud, che eliminò dalla manifestazione la bellezza di tre tra le più forti squadre europee, anche se…

L’INTRIGO IN COREA – Di certo i coreani non erano la squadra più forte, ma si sapeva che, giocando in casa, i giocatori potevano avvantaggiarsi della forte spinta del proprio pubblico, fondamentale per il morale della squadra. Dopo il successo nella partita iniziale contro la Polonia per 2-0, e il pareggio per 1-1 contro gli USA, gli asiatici si presentano all’ultimo incontro contro un Portogallo che deve vincere a tutti i costi se vuole passare il turno. La partita è molto aspra già dalle prime fasi iniziali di gioco, ma l’arbitro argentino Sanchez diventa a suo malgrado il protagonista principale del match, espellendo due giocatori lusitani e non fischiando invece l’irruento gioco dei padroni di casa. Quel match venne vinto dalla Corea grazie ad un gol di Park Ji Sung, che la proiettò in prima posizione nel girone e la vedeva dunque nel turno successivo, affrontare l’Italia a Daejon. La nostra Nazionale non era esattamente quella che vinse in Germania nel 2006, ma comunque era ben più forte della nazionale coreana. Nell’aria però, si avvertiva qualcosa di sospetto. Come riportato poi dal film ufficiale della manifestazione, il tecnico italiano Giovanni Trapattoni disse di aver notato che l’arbitro dell’incontro, Byron Moreno, non strinse intenzionalmente ad inizio match la mano ai calciatori azzurri. I tifosi di casa ci accolsero con striscioni poco amichevoli (Benvenuti nella tomba degli Azzurri), mentre la partita si aprì con il vantaggio di Christian Vieri, una serie evidenti di episodi (il fallaccio su Zambrotta, il calcio in testa a Maldini, la gomitata a Del Piero) fece comprendere che la partita stava diventando ad un unico senso arbitrale. Fatto che si concretizzò dopo il pareggio della Corea e i successivi tempi supplementari: Francesco Totti venne espulso per simulazione (solo l’arbitro non vide l’evidente rigore) e Damiano Tommasi, sempre sull’1-1, venne fermato in posizione regolare mentre era lanciatissimo a rete. Tutto questo scatenò l’arrabbiatura di Trapattoni, arrabbiatura giustificata poi dal gol vittoria del perugino Ahn e i successivi festeggiamenti coreani. Ai quarti di finale l’inedito Spagna-Corea del Sud, con i primi già sicuri del passaggio in semifinale e irridendo sui giornali l’Italia per aver perso contro gli asiatici. La cronaca fu impietosa, due gol annullati agli spagnoli regolari, falli duri sulle “furie rosse” non fischiati (epico il labiale di Joaquin all’arbitro egiziano) e fuorigioco completamente errati.

 

 

La Spagna perse ai rigori, e il giornale AS intitolava con “Furto – L’Italia aveva ragione”. Il cammino degli organizzatori si fermò poi in semifinale contro la Germania, ma furono tanti i casi in cui tutto faceva pensare ad arbitri corrotti, per far arrivare la Corea del Sud tra le prime quattro. Interessante fu poi che uno di quei tre direttori di gara, Byron Moreno, fu accusato per aver falsato una partita nel campionato ecuadoregno, ed ora è in carcere per esser stato scoperto nel 2010 a possedere droga all’aeroporto JFK di New York. Quando si perde e non si ottengono i risultati sperati, è più facile dar la colpa al prossimo dei propri insuccessi. La Uefa fece un controllo ma non risultò nulla di anomalo (esattamente come in quel Dinamo Zagabria-Lione del 2011), ma se Portogallo, Italia e Spagna persero in quel modo, sarebbe anche lecito pensare che tre indizi spesso fanno una prova.

A cura di Mirko Di Natale

 

 

 

 

 

 

CAMPIONE DEL MONDO

 

 

Marcello Lippi

 

1 Buffon · 2 Zaccardo · 3 Grosso · 4 De Rossi · 5 Cannavaro · 6 Barzagli · 7 Del Piero · 8 Gattuso · 9 Toni · 10 Totti · 11 Gilardino · 12 Peruzzi · 13 Nesta · 14 Amelia · 15 Iaquinta · 16 Camoranesi · 17 Barone · 18 Inzaghi · 19 Zambrotta · 20 Perrotta · 21 Pirlo · 22 Oddo · 23 Materazzi

 

 

 

PRIMO TURNO

ITALIA: Buffon; Zaccardo, Nesta, Cannavaro, Grosso; Perrotta, Pirlo, De Rossi; Totti; Toni, Gilardino. All. Lippi. GHANA: Kingston; Paintsil, Kuffour, Pappoe, Mensah; Essien, Appiah, Muntari, Addo; Amoah, G.Asamoah. All. Dujkovic. Arbitra il brasiliano Simon.

Italia (4-4-2): Buffon; Zaccardo (54' Del Piero), Nesta, Cannavaro, Zambrotta; Perrotta, Pirlo, De Rossi; Totti (34' Gattuso); Gilardino, Toni (62' Iaquinta). All. Lippi. Stati Uniti (4-5-1): Keller; Cherundolo, Pope, Onyewu, Bocanegra; Dempsey (62' Beasley), Mastroeni, Reyna, Convey (52' Conrad); Donovan, McBride. All. Arena

Arbitro: Larrionda (Uruguay)

Rep. Ceca: Petr Cech, Zdenek Grygera, Radoslav Kovac (Marek Heinz, 78'), David Rozehnal, Marek Jankulovski, Karel Poborsky (Jiri Stajner, 46'), Tomas Rosicky, Jan Polak, Pavel Nedved, Jaroslav Plasil, Milan Baros (David Jarolim, 64') Ct: Karel Bruckner Italia: Gianluigi Buffon, Gianluca Zambrotta, Alessandro Nesta (Marco Materazzi, 17'), Fabio Cannavaro, Fabio Grosso, Gennaro Gattuso, Andrea Pirlo, Simone Perrotta, Mauro Camoranesi (Simone Barone, 74'), Francesco Totti, Alberto Gilardino (Filippo Inzaghi, 61'). Ct: Marcello Lippi arbitro: B. Archundia (Messico)

OTTAVI DI FINALE

ITALIA (4-3-1-2): Buffon; Zambrotta, Materazzi, Cannavaro, Grosso; Perrotta, Pirlo, Gattuso; Del Piero (30’ st Totti); Toni (11’ st Barzagli), Gilardino (1’ st Iaquinta). A disposizione: Peruzzi, Amelia, Zaccardo, Oddo, Barone, Camoranesi,Inzaghi. All: Lippi. AUSTRALIA (3-5-1-1): Schwarzer; Moore, Neill, Chipperfield; Sterjovski (37’ st Aloisi), Culina, Grella, Cahill, Bresciano; Wilkshire; Viduka. A disposizione: Kalac, Covic, Popovic, Skoko, Lazaridis, Beauchamp, Thompson, Kennedy, Kewell, Milligan. All: Hiddink. ARBITRO: Medina Cantalejo (Spa)

QUARTI DI FINALE

Italia: Gianluigi Buffon, Gianluca Zambrotta, Andrea Barzagli, Fabio Cannavaro, Fabio Grosso, Simone Perrotta, Andrea Pirlo (Simone Barone, 68'), Gennaro Gattuso (Cristian Zaccardo, 77'), Mauro Camoranesi (Massimo Oddo, 68'), Francesco Totti, Luca Toni; Ct: Marcello Lippi Ucraina: Oleksander Shovkovsky, Andriy Rusol (Vladislav Vashchyuk, 45'), Vyacheslav Svidersky (Andri Vorobei, 20'), Andriy Nesmachny, Oleg Gusev, Anatoly Tymoshchyuk, Oleg Shelayev, Maxim Kalinichenko, Andriy Husin, Andriy Shevchenko, Artem Milevsky (Olexiy Belik, 72'); Ct: Oleg Blokhin arbitro: Frank De Bleeckere (Belgio)

SEMIFINALE

Germania (4-4-2): Lehmann; Friedrich, Mertesacker, Metzelder, Lahm; Schneider (83' Odonkor), Kehl, Ballack, Borowski (73' Schweinsteiger); Klose (111' Neuville), Podolski. C.T.: Klinsmann. Italia (4-4-1-1): Buffon; Zambrotta, Cannavaro, Materazzi, Grosso; Camoranesi (91' Iaquinta), Gattuso, Pirlo, Perrotta (104' Del Piero); Totti; Toni (74' Gilardino). C.T.: Lippi. Arbitro: Archundia (Messico)

 

Arrivati in Germania sull'onda dello scandalo calciopoli gli azzurri tirano fuori l'orgoglio e conquistano la coppa. All'inizio non giocano bene, ma non cadono mai. L'inviato di

di MAURIZIO CROSETTI

 Dopo sette anni, che nel calcio valgono sette generazioni, sette volte sette come nell'Antico Testamento, resta di Berlino 2006 una sensazione precisa: da un certo punto del mondiale in avanti, si ebbe la certezza che gli azzurri non avrebbero perso mai. Era qualcosa di difficile da definire, e solo in parte di razionale. Di fatto, l'Italia non prendeva mai gol. E passava il turno anche quando avrebbe meritato di perdere, come nella sciagurata sfida all'Australia: esserne usciti indenni grazie a un rigore, regalato dall'arbitro e segnato da Totti, rappresentò lo spartiacque. Come Italia-Camerun dell'82. Perché la storia del nostro calcio passa anche attraverso snodi strani, in bilico tra il ridicolo e la gloria.

 

Tutti ricordano come la nazionale arrivò in Germania, sull'onda di uno scandalo che ne avrebbe cambiato profondamente la natura, spazzando via la società padrona di quegli anni foschi, la Juve di Moggi e Giraudo. I bianconeri, come spesso accade nella storia azzurra, rappresentavano l'ossatura della formazione ed erano allenati da Marcello Lippi, altro bianconero storico. Il loro portiere, Gigi Buffon, era appena stato coinvolto in una faccenda di scommesse on-line, nulla di penale ma nemmeno di elegantissimo: un calciatore che scommette, seppure legalmente, su competizioni sportive, suvvìa. E c'erano dubbi anche su Fabio Cannavaro, il capitano, colui che sarebbe diventato il miglior giocatore dei mondiali nonché Pallone d'Oro.

Si cominciò dunque il mondiale nel modo peggiore, che poi per il calcio italiano diventa spesso il migliore: assediati dentro Fort Apache. La sindrome dell'accerchiamento, che già aveva dato frutti memorabili nell'82, fece il solito effetto taumaturgico. Gli azzurri non giocavano bene ma vincevano, e soprattutto non cadevano mai. Il loro portiere non prendeva gol: cosa che peraltro accadde una volta sola su azione, autorete di Zaccardo.

Questo, alla lunga, spiegò la forza dell'Italia, squadra blindata e orgogliosa, capace dei guizzi giusti nei momenti più neri.

Dopo l'avvio navigando a vista (2-0 al Ghana), le scintille contro gli Stati Uniti (1-1), con De Rossi espulso e squalificato per una gomitata in faccia a un avversario, e la vittoria per 2-0 contro la Repubblica Ceca, la squadra di Lippi rischiò seriamente l'eliminazione contro l'Australia negli ottavi, prima gara a eliminazione diretta. Come detto, la buona sorte intervenne e non smise più di sfiorarci con la sua salvifica ala (non servì però contro l'Ucraina nei quarti, 3-0 liscio come l'olio).

Anche se quel mondiale lo vincemmo soprattutto in semifinale, mandando fuori la Germania in casa sua con due gol nei supplementari: il vecchio fuoriclasse Del Piero e il giovane Fabio Grosso diventarono la chiave di volta. E nella notte di Berlino accostammo la Francia non certo da favoriti, ma sicuri che nulla ci avrebbe preoccupato, neppure Zidane e Trezeguet (la Juventus, come si vede, ritorna sempre, anche se sotto forme diverse).

 

Il resto della storia è un epilogo mandato a memoria da chiunque ami il calcio. La finale fu una brutta partita, nella quale rischiammo di non entrare mai. Andammo sotto su rigore (segnò Zidane, fortunosamente) e pareggiammo grazie a un colpo di testa di Marco Materazzi, vero eroe spurio di una squadra che sapeva improvvisare protagonisti inattesi. Il roccioso stopper avrebbe risolto la partita in altro modo, non solo segnando ma facendo cacciare Zinedine Zidane, il quale venne provocato da Materazzi che lo ferì negli affetti più cari (madre e sorella: con un francese/algerino non si fa) e ne causò l'espulsione, dopo avere rimediato la testata più famosa nella storia del calcio. Meraviglioso contro il Brasile, che aveva eliminato quasi da solo, Zizou lasciò la Coppa del mondo e, di fatto, il calcio, con un raptus, lui che avrebbe meritato ben altro epilogo.

 Da quel momento, l'Italia andò verso i rigori e se li mangiò come un bimbo una merendina, infallibile perché senza nulla da perdere. Nessuno, dal dischetto, tremò. E l'ultimo tiro, quello destinato a racchiudere il senso di tutta una storia e di ogni gesto precedente, appartenne di nuovo a Fabio Grosso, il terzino sbucato dal nulla, l'uomo del destino. Fece gol, il ragazzo, con l'incoscienza di chi non ha mai avuto niente. E sa che quel niente non lo può sprecare, dal momento che non esiste.

http://www.repubblica.it/la-repubblica-delle-idee/quel-giorno/2013/07/09/news/2006_italia_campione_del_mondo-62662130/

 

 

 

 

https://www.mimmorapisarda.it/2024/MATE.JPG

 

 

LA VIGILIA DELLA FINALE DI CAMORANESI CON MARADONA.

 

"Non è che si dorma proprio bene la sera prima di giocare una finale del Mondiale.Le ore scorrono lentamente alla vigilia di Italia-Francia.A un certo punto non saprei neanche bene dire perchè mi sono messo a camminare su e giù per il ritiro e mi sono ritrovato di fronte alla porta di stanza di Ciro Ferrara,il vice di Lippi.L'ho aperta.La scena che mi si è presentata davanti era orribile.Ciro vagava per la camera a petto nudo,coperto solo da un asciugamano proprio là sotto e intanto parlava al telefono.

'Mauro perchè sei qui?'

'Scusa Ciro non sapevo stessi parlando.Vuoi che torni dopo?'

'No.Non ti preoccupare.Sto parlando con Maradona'

Ciro è sempre stato cosi.Un giocherellone.Ovviamente non credevo a ciò che mi aveva appena detto.

'Stai scherzando vero?Stai parlando veramente con Diego Maradona?

'L'originale'.Rispose lui.

Per un attimo si rivolse direttamente all'interlocutore:

'Diego ti devo passare una persona'

Poi mi ha allungato il telefono.Ero ancora convinto che Ciro stesse bluffando però dopo un pò la mia voce ha cominciato a incrinarsi.

'Ciao,Camo,come stai?'

Parlata inconfondibile:era davvero Maradona.Non sono svenuto solo perchè spesso recitavo la parte del cattivo e un cattivo al massimo ringhia,di sicuro non può perdere conoscenza.

'Allora.Camo,come stai?'

'Insomma sono agitato'.A quel punto lo ero più per la telefonata che per la finale in campo.

Stavo parlando con il calciatore che quando eravamo bambini,durante le nostre partite per le strade di Tandil,moltiplicavamo per ciascuno di noi.Tutti ci sentivamo lui.Tutti volevamo essere lui.Mi mancava il fiato quindi è stato Diego a riprendere il discorso.

'Sono molto felici che siete arrivati in finale,posso darti un consiglio?'

'Per me sarebbe un onore ascoltarlo'

'E allora ti dico di dormire tranquillo stanotte che domani diventerai Campione del Mondo'

'Grazie Diego'

'Questa finale non ti scappa.Stai tranquillo se te lo dico io fidati.Ora ti mando un bacione enorme.E ci vediamo domani allo stadio lavoro per una TV'.

Credo di essere diventato pallido durante quella telefonata,sicuramente ho tremato,tanto che Ciro nel frattempo si era sdraiato sul letto quasi piangeva per il troppo ridere. Il duro Camoranesi si era sciolto:roba da lacrime agli occhi.In realtà era vero il contrario.Avrei voluto giocare subito la finale sentivo una carica pazzesca.

La sera dopo c'era troppa gente non riuscii a rincontrarlo.Per stringerci finalmente la mano avrei dovuto aspettare altri otto anni,ci siamo ritrovati nel 2014 quando commentavo il Mondiale per una TV americana.Addirittura in quell'occasione mi ha invitato ospite alla sua trasmissione.Abbiamo chiacchierato tanto e a lungo.Di Italia e Argentina.Di sogni e speranze.Di Mondiali e medaglie.Di Ciro mezzo nudo per fortuna con l'asciugamano."Mauro German Camoranesi

 

 

 

 

 

ITALIA GERMANIA, SEMPRE LEI.

 Non è la data, l'anno, il paese, lo stadio che rende ogni volta incredibile questa partita, ma è la nomenclatura che la fa diventare mitica: Italia-Germania.

 Due parole che unite da un trattino e messe dovunque, o in una partita al calcio balilla o sulla spiaggia di un villaggio turistico fra un'amichevole di turisti tedeschi e italiani, innescano una magia che scatena quanto di più incantato si possa pensare per una partita di calcio. C'è qualcosa di stregato in queste due parole, è come se il Dio Palla volesse chiedere la parola d'ordine a chi vorrebbe conferire con lui per iniziare a parlare di pallone.

 Questa partita è diventata lunghissima, non finirà mai. Da oggi ancora di più, ma per quanto tempo ancora? Il 90' è finito da parecchio, i minuti di recupero pure, ma i supplementari si stanno ancora giocando e forse si giocheranno ancora. Da una fantastica panchina le riserve sostituiscono da quarant'anni i titolari: esce Boninsegna ed entra Totti; Gigi Riva ha i crampi ma Paolo Rossi si sta già scaldando; il sudato Tardelli ha problemi alle corde vocali per quanto ha urlato e Gattuso gli va incontro per farlo riposare. Chissà quando lo sentiremo davvero il triplice fischio finale! E' un match che è diventato ormai una leggenda, una sfida interminabile fra la scuola dei panzer tedeschi, tutta muscoli, perfezione e geometria e quella italiana, tuttta estro, contropiede e genialità. Quando quel rettangolo verde si riempie di 22 puntini bianchi e azzurri una polverina magica scende sul capo di quegli uomini che per sortilegio, anche se sfiniti, ritrovano nuove forze, nuovi stimoli, corrono come pazzi alla ricerca del gol della vita.

 C'è da dire che in queste epiche battaglie i tedeschi hanno sempre incassato cocenti sconfitte sulle quali, però, non hanno mai potuto recriminare nulla o accampare scuse. E questo li ha fatti inviperire ancor di più, perché sono state sconfitte sempre limpide, pulite e meritate e che hanno fatto sempre male al loro stomaco e al loro orgoglio nazionale. Ma più perdono e più ritornano ad essere i soliti crucchi, fino ai miserabili articoli della loro stampa o alle puntuali e puerili minacce di boicattaggio delle pizzerie italiane in Germania. Non mangiano più la nostra pizza? E cchisenefrega!! Chiedete al pizzaiolo coi baffi neri di Berlino se sono meglio duemila Margherite invendute o due gol a nostro favore! Forse non vi può rispondere perché è ancora ubriaco di birra ed euforia. Però… sotto sotto, anche se dicono che siamo cafoni, furbetti e disonesti, alla fine ci ammirano e ci invidiano e - a modo loro - ci rispettano. Perché per loro noi siamo, da sempre, IL NEMICO.

 

 

Chi ha più di sessant’anni avrà certamente passato una notte in bianco in quel 17 giugno del 1970.

Italia-Germania, in qualsiasi torneo, è ormai diventato un simbolo, una metafora per significare che in ogni occasione della vita tutto è il contrario di tutto, che puoi scendere dalle stelle alle stalle in un minuto, che mentre stai a difendere la tua area di rigore piena di problemi ti ritrovi - per spontanea reazione - proiettato ad attaccare l'altra area di rigore; che niente in ogni nostra Italia-Germania è predisposto, preparato, dettato e organizzato ma, illogicamente, in quella confusione di ormoni impazziti tutto va al suo posto come se ogni lancio o rimessa laterale fosse già stata scritta su un libro.

Italia-Germania significa che può succedere qualsiasi cosa, avere la licenza di essere te stesso, vuole dire dimenticarsi subito degli schemi imposti dall'allenatore, entrare in campo e perdersi… perdersi fra quelle immense praterie di prato verde che si spalancano davanti perché la tattica non esiste più, le marcature nemmeno (figuriamoci la zona) e i capovolgimenti di fronte fanno diventare il campo di calcio come un flipper col Tilt acceso.

Ognuno va per conto suo, e si ritrova da solo con la sua sorte in quel suo piccolo fazzoletto verde personale, smarrito, come su un campo di battaglia della Grande Guerra in attesa che il nemico si affacci da dietro la nebbia. Fra l'odore di erba fresca appena tagliata, il calciatore, bianco o azzurro che sia, ormai non sente più nemmeno il boato del pubblico, non vede neanche gli spalti ma soltanto il verde e quella nebbia surreale. Attorno a lui soltanto un fatato silenzio. Ogni tanto avverte ai suoi lati soltanto una locomotiva che passa, bianca o azzurra non importa, è un compagno di squadra o un avversario che in preda ai cinque minuti di straordinaria follia che gli ha assegnato il fato corre in cerca di una gloria che vede davvero, di un gol che percepisce in anticipo, di appiccicosi e fraterni abbracci che già avverte sulle spalle, di una prima pagina di giornale che sta già leggendo mentre corre come un dannato, con 120 minuti nelle gambe, alla ricerca di quelle tanto ambite linee bianche: i pali e la traversa. In quei suoi cinque minuti il pallone che ha davanti ai piedi è pazzo, ha voglia di infilarsi in quella rete come uno spermatozoo che tenta di entrare nell'utero di una donna. E non importa se per strada ha perso i parastinchi e gli sgambetti gli fanno tanto male, lui deve macinare a tutti i costi quei trenta metri che lo separano dal sogno.

Non c'è più niente di patriottico in quel che fanno questi 22 uomini quando s'incontrano; lo fanno perché accade qualcosa di strano, quasi miracoloso. Non lo sanno nemmeno loro perché.

Questa è divenuta Italia-Germania. Come ci ricorda una famosa foto di Tardelli, è una folle e infinta corsa segnata dal destino, un urlo lungo centodieci metri di prato colorato di bianco e azzurro.

(Mimmo Rapisarda)

 

 

 

 

 

 

 

 

ELIMINATA AL PRIMO TURNO

 

Marcello Lippi

 

1 Buffon · 2 Maggio · 3 Criscito · 4 Chiellini · 5 Cannavaro · 6 De Rossi · 7 Pepe · 8 Gattuso · 9 Iaquinta · 10 Di Natale · 11 Gilardino · 12 Marchetti · 13 Bocchetti · 14 De Sanctis · 15 Marchisio · 16 Camoranesi · 17 Palombo · 18 Quagliarella · 19 Zambrotta · 20 Pazzini · 21 Pirlo · 22 Montolivo · 23 Bonucci 

 

 

Italia: Buffon (1' st Marchetti), Zambrotta, Cannavaro, Chiellini, Criscito, De Rossi, Montolivo, Pepe, Marchisio (13' st Camoranesi), Iaquinta, Gilardino (27' st Di Natale). All. Lippi. Paraguay: Villa, Bonet, Alcaraz, Da Silva, Morel, Vera, Riveros, V. Caceres, Aureliano Torres (14' Santana), Barrios (30' st Cardozo), Valdez (23' st Santacruz). All. Martino Arbitro: Archundia (Messico)

ITALIA (4-4-2): Marchetti; Zambrotta, Cannavaro, Chiellini, Criscito; Pepe (dal 1’ s.t. Camoranesi), De Rossi, Montolivo, Marchisio (dal 16’ s.t. Pazzini); Gilardino (dal 1’ s.t. Di Natale), Iaquinta. (De Santis, Bonucci, Bocchetti, Maggio, Gattuso, Palombo, Quagliarella). All. Lippi. NUOVA ZELANDA (3-4-3): Paston; Reid, Nelsen, Smith; Bertos, Elliott, Vicelich (dal 35’ s.t. Christie), Lochhead; Smeltz, Killen (dal 47’ s.t. Barron), Fallon (dal 18’ s.t. Wood). (Moss, Sigmund, Boyens, Brown, McGlinchey, Clapham, Mulligan, Brockie). All. Herbert. ARBITRO: Batres (Gua).

SLOVACCHIA: Mucha; Pekarik, Skrtel, Durica, Zabavnik, Strba (87' Kopunek), Stoch, Hamsik, Vittek, Kucka, Jendrisek. Ct. Weiss ITALIA: Marchetti; Zambrotta, Cannavaro, Chiellini, Criscito (46' Maggio), Montolivo (56' Pirlo), De Rossi, Gattuso (46' Quagliarella), Iaquinta, Pepe, Di Natale. Ct. Lippi. ARBITRO: Howard Webb (Inghilterra)

 

 

Vergogna Italia. 

E' fuori dal Mondiale

 

Azzurri battuti 3-2 dalla Slovacchia ed eliminati. Squadra senza idee e gioco, un po' meglio nella ripresa ma non bastano i gol di Di Natale e dall'inviato MAURIZIO CROSETTI

 

JOHANNESBURG - La peggiore Italia degli ultimi cinquant'anni o forse di sempre,  esce meritatamente dal mondiale: fine di una generazione e di un'illusione. La tremenda sconfitta per 3-2 contro la Slovacchia ci riporta alla famosa Corea del 1966, solo che questa volta i Ridolini siamo noi. E non basta un po' di cuore nel finale ad alleggerire il peso e le colpe. Azzurri inesistenti, sempre dominati dall'avversario, sfortunati solo sul tiro di Quagliarella respinto sulla linea (o forse oltre, ma fa differenza?) da uno slovacco: però, la nostra eventuale qualificazione sarebbe stata un furto. Lippi ha portato in Sudafrica una squadra senza talento e senza fantasia, anche se purtroppo il nostro calcio oggi non offre molto di più. Qualcosa magari sì, ma non molto. Torniamo a casa dopo tre gare pessime, una più brutta dell'altra. In 270 minuti avremo tirato in porta sette o otto volte. Non ci sono attenuanti, neppure gli infortuni. In difesa, Cannavaro è un ex giocatore e quasi tutti gli altri sono bolliti. Eravamo campioni del mondo e abbiamo fatto ridere il mondo.

La prima impressione, e pure la seconda e la terza, e magari la quarta e la quinta, è stata subito di una squadra a pezzi, debole di cuore e sbilenca di piede. I primi piani sul povero portiere Marchetti rivelano espressioni da film di Dario Argento. Gli azzurri arrivano sempre in ritardo sul pallone, quando ci arrivano, ma il più delle volte no. Oppure sbagliano clamorosamente la misura dei passaggi, una specialità del modesto Pepe, difetto che diventa fatale quando lo sbaglio è di De Rossi: pallone regalato alla Slovacchia, azione ribaltata, inserimento di Vittek e gol dopo 25 minuti. Elementare e disarmante.

La nuova formazione (con modulo annesso, il terzo in tre partite) è pure peggio delle altre due: nessuno si propone, nessuno ha il coraggio dell'iniziativa. L'unico che potrebbe ragionare calcio a centrocampo è Montolivo, assai involuto rispetto alle prime due gare mondiali, e poi è sempre troppo timido: se è in forma è elegante, altrimenti è una specie di ectoplasma. Presi uno per uno, i nostri sono tutti fantasmi. In particolare, l'attacco rimesso a nuovo è scarso come quello vecchio, forse persino di più: Iaquinta, che è una sponda e un gregario, non certo un rapinatore d'area, impiega un quarto d'ora ogni volta che deve girarsi e comunque la porta non la vede mai. Neppure il capocannoniere Di Natale la vede: gira al largo e pure  piano, come se avesse i sassi in tasca. Di Pepe, che dovrebbe dare imprevedibilità, si è detto, anche se nella ripresa mette in area qualche cross. Senza offesa, l'Italia gioca il primo tempo con due terzi dell'attacco dell'Udinese, quindicesima in serie A. Forse il convento passava qualcosa di meglio.

 Siccome niente funziona, nel secondo tempo Lippi ne cambia due: Maggio per Criscito e Quagliarella per Gattuso, dunque una punta in più anche se il vecchio Ringhio, pur con mille limiti, era l'unico che provava a contrastare gli slovacchi. Forse, però, Gattuso non aveva più fiato di così. E al 56' arriva la mossa della disperazione: fuori l'inguardabile Montolivo, dentro il convalescente Pirlo, unico azzurro con fosforo portato da Lippi in Sudafrica. Il guaio è che l'Italia continua a patire e poi gioca al rallentatore, come se stesse vincendo 3-0. Una partita così sconcertante non si ricorda, davvero. Neppure la fortuna aiuta gli azzurri, vista la respinta sulla linea (o magari oltre, il replay non chiarisce) di Skrtel sul tiro di Quagliarella, almeno lui vivace. Poi arrivano la seconda mazzata slovacca, l'inutile golletto di Di Natale, quello annullato a Quagliarella per fuorigioco, la botta finale di Kopunek (fa quasi rima con Pak Doo Ik) e il raddoppio di Quagliarella all'incrocio: l'unica cosa bella del mondiale azzurro. Giusto che la piccola, quasi comica Italia se ne torni a casa. E tanti auguri a Prandelli che ora dovrà gestire una ricostruzione totale.

 (24 giugno 2010)

http://www.repubblica.it/speciali/mondiali/sudafrica2010/squadre/italia/2010/06/24/news/slovacchia_italia_diretta-5119745/

 

 

 

 

 

 

 

ELIMINATA AL PRIMO TURNO

 

 

Cesare Prandelli

 

1Buffon, 2 De Sciglio, 3 Chiellini, 4 Darmian, 5 Motta, 6 Candreva, 7 Abate, 8 Marchisio, 9 Balotelli, 10 Cassano, 11 Cerci, 12 Sirigu, 13 Perin, 14 Aquilani, 15 Barzagli, 16 De Rossi, 17 Immobile, 18 Parolo, 19 Bonucci, 20 Paletta, 21 Pirlo, 22 Insigne, 23 Verratti

 

 

 

 

INGHILTERRA (4-2-3-1): Hart; Johnson, Cahill, Jagielka, Baines; Henderson (dal 28’ s.t. Wilshere), Gerrard; Welbeck (dal 16’ s.t. Barkley), Sterling, Rooney; Sturridge (dal 34’ s.t. Lallana). (Foster, Forster, Smalling, Jones, Shaw, Milner, Oxlade-Chamberlain, Lampard, Lambert). All.: Hodgson. ITALIA (4-1-3-1-1): Sirigu; Darmian, Barzagli, Paletta, Chiellini; De Rossi; Verratti (dal 12’ s.t. Motta), Pirlo, Marchisio; Candreva (dal 34’ s.t. Parolo); Balotelli (dal 28’ s.t. Immobile). (Perin, Abate, Bonucci, Aquilani, Cerci, Cassano, Insigne). All.: Prandelli. ARBITRO: Kuipers (Ola)

ITALIA: Buffon; Abate, Barzagli, Chiellini, Darmian; De Rossi; Candreva (57' Insigne), Thiago Motta (46' Cassano), Pirlo, Marchisio (70' Cerci); Balotelli. CT Prandelli. COSTA RICA: Navas; Gamboa, Duarte, Gonzalez, Umana, Diaz; Ruiz (81' Brenes), Borges, Tejeda (68' Cubero), Bolanos; Campbell (74' Urena). CT Pinto. Arbitro: Osses (Cile).

ITALIA (3-5-2): Buffon; Barzagli, Bonucci, Chiellini; Darmian, Verratti (dal 30’ s.t. Motta), Pirlo, Marchisio, De Sciglio; Balotelli (dal 1’ s.t. Parolo), Immobile (dal 26’ s.t. Cassano). (Sirigu, Perin, Paletta, Abate, Aquilani, De Rossi, Candreva, Cerci, Insigne). All.: Prandelli. URUGUAY (3-4-1-2): Muslera; Gimenez, Godin, Caceres; Gonzalez, Arevalo Rios, Rodriguez (dal 33’ s.t. Ramirez), A. Pereira (dal 18’ s.t. Stuani); Lodeiro (dal 1’ s.t. M. Pereira); Suarez, Cavani. (Munoz, Silva, Lugano, Coates, Fucile, Gargano, Perez, Forlan, Hernandez). All.: Tabarez. ARBITRO: Rodriguez (Messico).

 

 

Yes, con SuperMario si vince

Inghilterra battuta nell'esordio mondiale: l'Italia si prende i tre punti con un colpo di testa di Balotelli dopo il botta e risposta Marchisio-Sturridge. Buone le risposte di Sirigu e Darmian

MANAUS - Due lampi, uno di Marchisio e l'altro di Balotelli, illuminano la notte amazzonica rendendo brillante l'avvio dell'avventura mondiale per l'Italia. Gli azzurri di Prandelli dunque battono ancora una volta l'Inghilterra di Hodgson, che pure è stata capace nel primo tempo di creare molte occasioni, anche al di là del gol del momentaneo pareggio realizzato da Sturridge. Ma la sostanza è tutta nel 2-1 finale; e nella consapevolezza che il successo a sorpresa ottenuto dalla Costa Rica sull'Uruguay cambia, oltre che le gerarchie del girone, le prospettive: ora il 20 giugno a Recife gli azzurri non sono chiamati a tutti i costi alla vittoria, e questo psicologicamente aiuta.

 In una serata in cui le condizioni climatiche hanno inciso meno del previsto, positivo comunque il responso sulle condizioni atletiche dell'Italia, sicuramente migliori di quelle degli avversari che hanno chiuso la gara con crampi e lingua di fuori. E positive anche le considerazioni sulla prestazione di alcuni dei protagonisti: oltre all'acclamato Balotelli, Darmian, Candreva, Marchisio e Sirigu, che non ha fatto sentire la mancanza di Buffon.

 Gli infortuni che hanno costretto Prandelli a modificare in avvicinamento l'impianto della squadra azzurra si erano susseguitI fino all'immediata vigilia, con una distorsione alla caviglia sinistra per Buffon: Prandelli l'ha sostituito con Sirigu, all'esordio mondiale come pure Paletta chiamato a fare il centrale con slittamento sulla sinistra di Chiellini. Il modulo è rimasto il 4-1-4-1 con i due registi Pirlo e Verratti.

 Hodgson ha risposto con la consueta formazione votata alla propulsione e Sturridge punta avanzata. La propensione all'accelerazione degli inglesi trovava immediata dimostrazione al 3' in una ripartenza di Sterling seguita da tiro sull'esterno delle rete. Due minuti dopo era Welbeck a dare il battesimo dei brividi a Sirigu: destro potente e ottima risposta in tuffo del portiere del Psg. All'8' finalmente l'Italia si faceva vedere dalle parti di Hart, ma un fraseggio Pirlo-Verratti veniva interrotto in area col braccio da Johnson: inutili le proteste italiane.

 In una gara bloccata, con spazi ristrettissimi, a fare la differenza poteva essere il tiro da lontano: saggiamente ci provava al 19' Candreva, impegnando per la prima volta Hart che parava in due tempi. E al 23' toccava a Balotelli, finalmente vivo: gran destro alto. Ma al 24' arrivava una enorme opportunità per gli inglesi. Welbeck metteva in croce sulla destra Paletta e appoggiava al centro, dove miracolosamente Barzagli anticipava Sterling, pronto calciare a colpo sicuro. La prima vera occasione azzurra arrivava quando a De Rossi riusciva la verticalizzazione per Darmian, pronto a rimettere al volo al centro: Balotelli colpiva fiacco di testa.

 Poi, al 35' l'Italia passava: angolo di Candreva dalla destra, velo di Pirlo e gran rasoterra di Marchisio a filo del palo. Neanche il tempo di esultare e l'Inghilterra pareggiava: fuga di Rooney sulla sinistra e cross: difesa azzurra tagliata fuori e Sturridge con gran controllo metteva dentro. Il recupero regalava due emozioni azzurre con un pallonetto di Balotelli che impegnava Cahill al salvataggio sulla linea e soprattutto una gran botta di Candreva che colpiva il palo a portiere battuto.

 Nella ripresa ancora Sturridge impegnava Sirigu in avvio, ma Candreva trovava la giocata illuminante e decisiva: dribbling e crss dalla destra, colpo di testa vincente di Balotelli per il 2-1. Tornava ad alzarsi il Popoporopo, simbolo di ben altri successi ma comunque beneaugurante. Una botta di Rooney non sortiva effetti, il solito Johnson sulla destra imperversava, ma ci pensava De Rossi a mettere una pezza.

 Prandelli immetteva l'esperienza di Thiago Motta (fuori Verratti), Sturridge continuava a creare problemi a Paletta senza trovare il ko. Che sfuggiva anche a Rooney al 17', poco abile nel calciare da ottima posizione. L'Inghilterra andava in difficoltà fisica e il suo tentativo di recupero diventava sempre più flebile, ma Prandelli inseriva energia verde con Immobile al post di Balotelli e Parolo per Candreva. Una punizione di Baines veniva neutralizzata con casse da Sirigu, un'altra di Gerrard finiva alta. Piuttosto Pirlo colpiva una traversa, sempre su calcio piazzata: ma era comunque festa per l'Italia.

 

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RECIFE (BRASILE) - Niente bacio dalla Regina. Piuttosto uno schiaffo che fa male. Il bacio lo aveva annunciato Balotelli su twitter in caso di vittoria contro la Costa Rica, lo schiaffo lo dà capitan Ruiz che al 44', con un perfetto colpo di testa, rende il pomeriggio azzurro amarissimo. L'Italia, dunque, rimedia la prima sconfitta del Mondiale in Brasile non riuscendo a rimontare nella ripresa il gol subito in chiusura di primo tempo dall'imprevedibile Ruiz. Prandelli le prova tutte per evitare il ko, ma gli ingressi di Cassano, Insigne e Cerci, tutti all'esordio Mondiale, non cambiano il risultato finale che mortifica l'Italia e manda agli ottavi la Costa Rica. Chi lo avrebbe mai detto? Per l'Italia, invece, sarà decisiva la partita con l'Uruguay nella quale basterà un pareggio per superare il turno come secondi (quasi impossibile arrivare primi). È già fuori dal Mondiale, invece, l'Inghilterra che dopo il ko con l'Uruguay poteva sperare solo con un successo azzurro.
LE FORMAZIONI - Prandelli in avvio ritrova Buffon con Abate (all'esordio) e Darmian esterni in difesa. Motta invece prende il posto di Verratti a centrocampo. Dunque, rispetto all'Inghilterra fuori Sirigu, Verratti e Paletta. Confermati tutti gli altri. Per il ct Jorge Luis Pinto nessuna novità e undici annunciato alla vigilia che non presenta sorprese: 5-4-1 con Campbell pericolo numero 1 in attacco.
COSTA RICA AVANTI - Nei primi minuti le squadre sono molto chiuse con la Costa Rica pronta a ripartire in contropiede e Italia che cerca di fare, senza riuscirci, la partita. Bisogna aspettare 7' per vedere la prima occasione da gol ed è la nazionale centro-americana a finire sul tabellino: gli azzurri perdono il pallone a centrocampo, Bolanos imbecca perfettamente Tejeda in profondità che però viene chiuso ottimamente da Barzagli in corner. Sugli sviluppi è Borges ad impattare di testa ma la conclusione finisce alta sopra la traversa. Il problema dell'Italia in questo avvio è la costruzione del gioco, lento e prevedibile, anche complicato dall'asfissiante pressing della Costa Rica che non lascia spazio agli azzurri di manovrare in serenità. Al 16' poi, sugli sviluppi di un corner, Buffon deve liberare con i pugni l'area di rigore. Non è una vera e propria palla gol per la Costa Rica ma è comunque il segnale che conferma le grandi difficoltà italiane in questo primo quarto d'ora. Problemi che si protraggono per altri 10' quando, finalmente, al 27' si materializza la prima occasione per l'Italia: lancio di Pirlo per Balotelli che fa la sponda per Thiago Motta che dai 20 metri prova la conclusione di destro verso la porta di Navas ma il tiro è sbilenco e la palla finisce mestamente sul fondo. Al 31' opportunità d'oro per l'Italia: ancora Pirlo lancia di prima Balotelli che si invola verso la porta avversaria ma arrivato da solo davanti a Navas tocca malamente con l'interno destro spedendo la palla sul fondo. Mani in faccia per Mario, disperazione sulla panchina azzurra. Al 33' nuova occasione per l'Italia: sempre Pirlo lancia per Balo, Thiago Motta fa la torre di testa e serve il centravanti del Milan che dal limite dell'area prova la conclusione di prima intenzione ma Navas blocca in due tempi.

 Due minuti, due opportunità incredibili per l'Italia. La Costa Rica però non ci sta e con Bolanos dai 30 metri va vicina al vantaggio, ma Buffon è attento e respinge a lato con i pugni. Al 42' nuova occasione per i centroamericani: Ruiz mette un pallone d'oro al centro dell'area di rigore, Duarte impatta a colpo sicuro ma l'incornata è sbilenca e finisce sopra la traversa. Passa solo un minuto e gli azzurri rischiano ancora: Chiellini perde il pallone a centrocampo, Campbell si invola verso l'area contrastato da Barzagli, poi da dietro ritorna l'altro centrale della Juve che stende il centravanti avversario. L'arbitro Osses non fischia il rigore facendo esplodere la protesta dei centro-americani. È solo il preludio al gol però che arriva al 44': Diaz, lasciato troppo solo sulla fascia, crossa perfettamente al centro dell'area per Ruiz che anticipa Chiellini e beffa Buffon con l'aiuto della traversa. La "goal line tecnology" conferma solo quanto visto dal vivo: 1-0 e Italia alle corde.
SECONDO TEMPO SENZA EMOZIONI - Nella ripresa Prandelli corre subito ai ripari: fuori Thiago Motta e dentro Cassano per il debutto Mondiale a 32 anni. L'Italia ha bisogno di imprevedibilità e l'arma "Fantantonio" va proprio in questa direzione. Al 47', sugli sviluppi di un corner, Balotelli viene steso in area di rigore ma l'arbitro fa proseguire. Al 51' Italia di nuovo pericolosa: Darmian prende palla sulla sinistra, si accentra e prova la grande conclusione di Destro ma Navas salva deviando in angolo. Gli azzurri sono più vivi, giocano più in velocità e sono più imprevedibili sulla trequarti. Al 53' è Pirlo a tentare la conclusione su punizione ma il tiro è troppo lento e Navas può respingere a lato scongiurando il pericolo. Al 56' nuova mossa di Prandelli: fuori Candreva e dentro Insigne, anche lui al debutto Mondiale. L'Italia, almeno in questo avvio di secondo tempo, si muove meglio sul campo ma la Costa Rica non concede spazi alzando tantissimo la linea di difesa e mettendo in fuorigioco gli azzurri in più di un'occasione.
FINALE SENZA EMOZIONI - Purtroppo per l'Italia però l'imprecisione è il minimo comune denominatore della partita che con il passare dei minuti, complice la fretta di recuperare, aumenta in maniera esponenziale. Al 67' primo cambio anche per la Costa Rica che leva Tejeda per inserie Cubero. Al 69' ultima sostituzione per Prandelli che getta nella mischia Cerci (anche per lui prima volta al Mondiale) al posto di un confuso Marchisio. L'Italia si ridisegna con il 4-2-4 con Insigne e Cerci sulle fasce con Cassano leggermente dietro rispetto a Balotelli. I cambi del ct azzurro però restano senza seguito: non c'è inventiva, non c'è velocità, non c'è intensità e quindi la Costa Rica controlla in scioltezza. Al 74' il ct Luis Pinto ha gioco facile e  leva Campbell, ormai con il fiato corto, per inserire Urena per dare maggiore freschezza all'attacco centroamericano. L'Italia è stanchissima e non riesce più a costruire palle gol degne di nota. All'81' ultimo cambio per la Costa Rica, Ruiz per Brenes che serve solamente per concedere la standing ovation al match winner, futuro eroe nazionale. La Costa Rica poi, nei minuti finali, gestisce bene il vantaggio e porta a casa tre punti che valgono la qualificazione agli ottavi. Per l'Italia, invece, ci sarà ancora da soffrire. Decisiva la sfida con l'Uruguay (basta un pareggio). Ma questa volta non saranno ammessi cali di concentrazione e soprattutto servirà un approccio alla partita completamente diverso.

C’è una brezza leggera, non ci saranno più di 25 gradi, giusto un pochino di umidità per ricordarci che siamo in Brasile, ma a Natal, a differenza di Manaus e Recife, le condizioni sono ideali per giocare a calcio. A parità di tifoserie, gli uruguaiani prevalgono, ma, alla conta finale, il volume è più alto per l’Italia, perché i brasiliani (sarà per il Maracanazo? Per la vicinanza?Chissà…) tifano per noi. In campo, le squadre sono quelle previste: Prandelli opta per il 3-5-2 modello Juve, con la difesa titolare bianconera, Pirlo direttore d’orchestra e l’inedito Balotelli-Immobile. Che si specchiano nei terribili Cavani-Suarez, supportati dal talentuoso Lodeiro e da una rocciosa mediana a tre (Rodriguez-Arevalo-il laziale Gonzalez). Si comincia subito. E Balotelli, dopo un contrasto con il «bodyguard» Rios, sembra farsi male, falso allarme. Ma quando Verratti atterra Cavani e Barzagli butta giù Suarez, si capisce immediatamente che non sarà partita di fioretto, come le altre due precedenti, quasi senza ammoniti: in mezzo a tanti falli ed entrate non oxfordiane, all’8’ Suarez impegna per la prima volta Buffon, su punizione. Pirlo, che al momento sembra godere di una buona libertà, ci prova alla stessa maniera poco dopo, due volte. La prima invano, sulla seconda l’ex laziale Muslera manda alto.

Ci sono comunque molti errori, da una parte e dall’altra, passaggi fuori misura e inserimenti sbagliati (l’ex interista Pereira sembra quello scarsino visto ai tempi di San Siro). Insomma match molto contratto, sarà la posta in palio. Per ora lo spettacolo infatti è più sugli spalti, gli uruguaiani saltano come dei disperati e ogni tanto si eleva per contro il grido «I-ta-lia, i-ta-lia». I sudamericani giocano come se dovessero puntare al pari, tutti in attesa dietro la linea di centrocampo, gli azzurri provano a costruire, ma la manovra non ha esito. Balotelli lo percepisce, viene a prendere la palla in mediana, prova a tirare appena può ed è purtroppo molto nervoso: si fa ammonire infatti per un’entrata alta (sulla nuca...) di Pereira. Sarebbe stato squalificato, se l’Italia fosse passata. Attore protagonista in negativo dunque, mentre alla mezz’ora Immobile perviene per la prima volta sul tabellino, con una svirgolata alle stelle.

L’unico azzurro invece che sembra esserci è Verratti che gioca, letteralmente, a tutto campo (pure eccedendo in sicurezza con un tacco nella nostra tre quarti). A rompere il noioso equilibrio, al 33’, Buffon: il portiere azzurro ricorda di essere ancora uno dei migliori al mondo, a 36 anni, con due respinte da vicinissimo su Suarez e Lodeiro. Non succede praticamente più niente, la palla scorre soprattutto sulla nostra fascia destra dove Darmian incrocia prima Pereira e poi Suarez. Una sfida nella sfida, dove, nella prima parte, non vince nessuno. Per il resto, si annovera giusto un lampo del 9 uruguaiano, verso la fine della prima parte. Poi basta, per una delle partite più brutte viste fin qui in questo Mondiale altrimenti spettacolare. Uno scarno 0-0 che premierebbe gli azzurri però.

Si riparte: Prandelli sostituisce Balotelli con Parolo, mentre Tabarez tira fuori Lodeiro, un po’ inconsistente, e butta dentro l’altro Pereira, Maxi. La mediana azzurra diventa più folta e il buon Verratti di oggi avanza a fare la seconda punta (anche se in realtà continua a correre per tutto il campo, come nel primo tempo). Lo spartito è quello dell’inizio: di nuovo falli a go-go e gioco spezzettato, zero occasioni da rete per il primo quarto d’ora. Con una situazione dubbia, ma neanche tanto, di Bonucci su Cavani al 51’. Se davanti si produce poco, la nuova difesa a tre finora convince. Primo strepito al 59’: il mediano dell’Atletico Madrid «Cebolla» Rodriguez si esercita in una percussione che finisce di poco a lato.Poi, l’inaudito: Marchisio tocca involontariamente coi tacchetti sul ginocchio Arevalo, chissà cosa vede l’arbitro e il bianconero viene espulso con un rosso diretto.

Via l’amarezza, bisogna cambiare tutto. Ora Verratti ritorna sulla linea dei centrocampisti, Immobile rimane solo, l’Italia si chiude in difesa e l’Uruguay deve iniziare a fare la partita. Dopo aver aspettato tanto, Tabarez butta infatti dentro un’altra punta, Stuani, al posto di Pereira. Sì, bisogna stringere i denti: infatti il cobra Suarez si sveglia, al 65’, e Buffon fa un altro miracolo, deviando in angolo il suo tocco d’esterno. Il pubblico di casa empatizza con le ingiustizie azzurre e riprende a sostenere l’Italia. Immobile lo sente e al 70’ manda i primi squilli nell’area altrui. Ma la sua partita dura ancora poco: in quest’Italia costretta all’antica arte del catenaccio, Prandelli lo sostituisce con Cassano, abbassando ancor più il baricentro. Figuriamoci quando poi Verratti prende un pestone da Cavani ed entra Thiago Motta: ci aspettano quindici minuti di assoluto coltello tra i denti.

Suarez il «cannibale» e quel morso a Chiellini

Tabarez risponde buttando dentro un’altra punta ancora, l’ex bolognese Gaston Ramirez per Rodriguez. E sì, si gioca all’antica, quando una combinazione in contropiede Pirlo-Cassano, mette quasi Parolo davanti alla porta. Poi l’episodio più assurdo: Suarez morde Chiellini sulla spalla, ma l’arbitro in questo caso non vede assolutamente nulla. Un attimo dopo, l’Uruguay, senza aver fatto neanche poi troppa fatica, segna.All’83’ Godin salta più in alto di tutti su angolo ed è vantaggio Celeste. Pirlo prova a reagire su punizione poco dopo. È fuori. Cassano tenta una combinazione con Thiago Motta, ma finisce in out. Gli uruguaiani ora urlano come degli ossessi, dagli spalti. Recupero: cinque, lunghissimi, minuti. Non succede nulla, il Mondiale azzurro finisce qui. E pesa come un macigno quell’espulsione ingiusta.

http://www.corriere.it/mondiali/2014/italia/notizie/marchisio-espulso-gol-godin-passa-l-uruguay-italia-furiosa-ba287e48-fbca-11e3-9def-b77a0fc0e6da.shtml

 

Terremoto ai vertici del calcio italiano. Si dimettono sia il ct Cesare Prandelli sia il presidente della Federcalcio, Giancarlo Abete. L’eliminazione della Nazionale al primo turno dei Mondiali brasiliani provoca un’assunzione di responsabilità da parte di entrambi.

Prandelli scandisce in conferenza stampa: "Il progetto tecnico è di mia responsabilità, rassegno le mie dimissioni. Quando un progetto tecnico fallisce, è giusto prendersi le responsabilità". Poi il ct si toglie un sassolino dalla scarpa: "Ci siamo sentiti aggrediti, non ho mai rubato i soldi. Non voglio sentirmi dire che rubo i soldi ai contribuenti", dice Prandelli riferendosi al clima che avrebbe accompagnato la Nazionale verso i Mondiali. Il ct ha firmato il nuovo contratto, valido fino al 2016, prima della spedizione in Brasile.

Abete convoca consiglio federale tra venerdì e lunedì prossimi

Accanto a lui, Abete prende atto della decisione del commissario tecnico: "Il ct Prandelli ha rassegnato le dimissioni, io convocherò un Consiglio federale tra venerdì e lunedì. Spero che Cesare ritiri le dimissioni, penso che al di là del risultato che amareggia tutti, sia stato fatto il possibile all'interno dei livelli di competitività del nostro calcio. Il secondo posto agli Europei e alla Confederations, le brillanti qualificazioni non vanno sottovalutate alla luce del risultato di oggi", dice il numero uno del calcio italiano, prima di soffermarsi sulla propria posizione. "Io andrò in consiglio federale presentando le mie dimissioni irrevocabili. Avevo già preso questa decisione prima dei Mondiali, a prescindere dal risultato. Lo faccio con grande serenità, continuerò a fare politica sportiva”. -

di Nicola Iannello 25 giugno 2014

 http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Terremoto-ai-vertici-del-calcio-italiano-Dimissioni-irrevocabili-per-Prandelli-e-Abete-2b646228-ff50-4e16-9465-55d68b44dcbc.html#sthash.cnDadyor.dpuf

 

 

 

“Tuo padre è tuo. Mia madre è tua. I miei genitori sono tuoi… è mai possibile che è tutto tuo?!?!”. Una sorta di ‘il sette e l’otto’ (involontario) in chiave Mondiale in Brasile. Com’è possibile? La somiglianza tra Marcelo (esterno del Real Madrid e della Seleçao) e Ficarra (attore e conduttore di Striscia la Notizia) ha fatto il giro del Web e fatto impazzire la Rete che s’è sbizzarrita a ironizzare sull’affinità tra il calciatore e il popolare comico. Lui, Ficarra (alter ego di Picone sul palcoscenico) sta allo scherzo e, ai microfoni di Rai Radio2 ‘Un Giorno da Pecora Mundiao’, si cala nei panni del difensore sudamericano protagonista dell’autogol che ha regalato il momentaneo vantaggio alla Croazia.

 

 

 “Diciamo che ultimamente circa un milione e mezzo mi hanno detto che gli somiglio – ha ammesso -. Ci hanno mandato foto e mail e anche a Striscia hanno mandato un filmato a mia insaputa”. In effetti, la somiglianza è notevole… “Non so perché, mio padre girava molto ma il motivo di questa somiglianza lo ignoro”. Ma come si giustifica il Ficarra/Marcelo per la clamorosa autorete? “Può capitare, non buttatemi la croce addosso!”.

http://calcio.fanpage.it/mondiale-ficarra-sono-il-sosia-di-marcelo-del-brasile-video/#ixzz35dCm5coG