La cucina catanese è la cucina tipica della città di Catania e delle zone limitrofe. Città di commerci e crocevia collocato tra l'Etna, il mare e la fertile "Piana", il capoluogo etneo ha una cucina di carattere eterogeneo, che sviluppa alcune specificità rispetto alla cucina siciliana e ne valorizza alcuni tratti. La composizione di varie influenze storiche, geografiche e culturali si manifesta anche in una sintesi tra una marcata natura popolare e di strada, pietanze tipiche di alcuni periodi dell'anno e di ricorrenze o feste religiose, e qualche tratto più signorile e aristocratico. (Wikipedia)
La pesca ha rappresentato per secoli la maggiore risorsa per gli abitanti della nostra isola. Ce lo documentano le tante grotte in cui sono stati ritrovati resti paleolitici di molluschi e pesci o disegni e graffiti raffiguranti la pesca dei tonni, delle cernie, delle spigole, sogliole e murene. Quando in Sicilia si parla di pesca l’attenzione va anzitutto ai grandi porti di Mazara del Vallo e a seguire Sciacca, Porto Empedocle, Licata e Pozzallo, che si affacciano sul mare africano; sulla sponda tirrenica fa da contraltare Porticello. In questi grossi centri lo sfruttamento del mare ha dimensioni industriali che spiegano il potere di alcune dinastie di armatori. Negli altri siti la pesca ha dimensioni locali e nella maggior parte di essi si limita ad un’attività artigianale. Questa è ritenuta a torto un’attività minore, unicamente perché sfugge a valutazioni precise e perché sembra un lavoro povero, che dà poco o nessun guadagno. In realtà non è così e pur non essendo un’attività molto ricca, essa riesce ancora a far sopravvivere tante famiglie. In ogni caso nella piccola pesca tradizionale sopravvivono intatti i fondamenti della cultura materiale e dell’etnografia mediterranea: un vero e proprio bagaglio di tradizioni e cultura. Nel nostro mare è molto abbondante quello che viene definito ”il pesce azzurro”.
La denominazione di pesce azzurro, non si riferisce ad un gruppo scientificamente definito di specie ittiche, ma è utilizzata commercialmente per indicare alcune varietà di pesci pelagici, generalmente di piccola pezzatura, caratterizzati da una colorazione dorsale blu e ventrale argentea. Si tratta di specie come la palamita, il tombarello, le acciughe, lo sgombro, l’aguglia, l’alaccia, la sarda, l’alice e il capone, il cui costo è generalmente ridotto per la grande quantità di pescato. Per tanti anni considerate simbolo di una cucina povera, le carni del pesce azzurro in realtà sono molto ricche di qualità nutrizionali. Sono molto digeribili grazie all’assenza di grassi saturi, e fonti importanti di omega 3 e di calcio. Il pesce azzurro è molto facile da digerire e contiene sostanze che fanno bene all’organismo come selenio, calcio, iodio, fosforo, potassio, selenio, fluoro, zinco, vitamine A e B. Paola Gianguzza, docente di Ecologia marina all’Università di Palemo
SARDE "A BECCAFICO" FRITTE ALLA CATANESE E` una delle specialita' siciliane piu' rinomate. Di chiara influenza araba, nasce nel palermitano ma esiste la versione catanese. Ingredienti: 1 Kg di sarde fresche non molto piccole, 100 g di pangrattato, 100 g di pecorino con pepe grattugiato, 1 trito d'aglio e prezzemolo, 3 uova sbattute, più 2 per passare nell'uovo le sarde, 100 g di farina bianca una scodellina d'aceto forte, olio d'oliva, sale e pepe. Preparazione:Intanto preparare un composto di pangrattato, formaggio pecorino grattugiato, trito d'aglio e prezzemolo, uova sbattute insaporite da sale e pepe; impastare e formare una polpetta larga e allungata che verrà chiusa da due sarde aperte. Quando le due sarde aperte diventano reciprocamente "coperchio", con dentro la farcia che si è detto, vanno inzuppate nell'uovo battuto e poi nella farina: ora potranno friggere nell'olio fumante. Superlative calde o fredde. Perché sono detta "a beccafico"? Salvatore Lo Presti, insigne studioso di folklore in catania, spiega in Lo stivale allo spiedo (Roma, cassini), che il "beccafico" è un uccelletto bigiognolo, avido di fichi maturi, e quindi "sarda a beccafico" vuol essere un omaggio ittico all'uccelletto buongustaio, purché le sarde stiano una sopra e l'altra sotto, aperte a linguata, ed in mezzo ci sia la farcia, come accade da tempo immemorabile, dopo aver tolto la testa e lisca, e averle messe a macerare entro l'aceto forte. Ed infatti, contrariamente a quanto accade a Palermo, nella Sicilia orientale, per "sarde a beccafico" si deve trattare sempre di "due sarde", e mai di una giacché, oltretutto, se fosse una sola arrotolata o a barchetta, omaggio all'uccelletto bisignolo a parte, chi è che "becca", e chi è il "fico"? ________ Sarebbero arabe le sarde a beccafico farcite con pangrattato, aglio, pecorino, prezzemolo e fritte. Sono invece Sicilianissime! La servitù al servizio dei nobili ritornando a casa raccontava delle prelibatezze servite ai signori: beccafichi, piccoli uccelli simili ai passeri, imbottiti e stufati, sogliole, quaglie e tante altre leccornie. Le povere massaia non si perdevano d'animo e reinventavano i piatti dei signori con ingredienti poveri e disponibili. Non avevano i beccafichi, nessun problema: le umili sarde che squamate, eviscerate, eliminate la testa e le lische, aprivano a libro e imbottivano come i beccafichi dei signori ed ecco le Sarde a beccafico.
(da "I sapori lontani della cucina siciliana" di Gino Schilirò - Lancillotto e Ginevra Editori
Anche le sarde aperte a libro fritte e condite: ed ecco inventate le sarde allinguate (lenguada in spagnolo è la sogliola), altro modo per imitare le prelibatezze dei signori. (da "I sapori lontani della cucina siciliana" di Gino Schilirò - Lancillotto e Ginevra Editori
Le Sarde Allinguate, sono un piatto della tradizione palermitana, ma che è possibile trovare in altre parti della Sicilia. La loro caratteristica principale è che prima di venir fritte, vengono marinate nell’aceto. Non conoscevo l’esatta etimologia del termine “Allinguata”, ma come sempre, Eveline ed il suo fantastico Blog sulla storia gastronomica e non di Palermo, mi hanno illuminato! Leggete questo Post e avrete tutte le risposte, e come sempre di mezzo ci stanno loro, le nostre vecchie dominazioni! Questa volta è merito degli spagnoli se esiste questa buonissima variante delle sarde fritte! 1 kg di sarde fresche, farina qb, aceto di vino bianco qb, olio di semi per friggere qb, sale. Beh… Come ingredienti possiamo benissimo dire che non serve altro che la nostra pazienza e le sarde, tutto il resto è pura formalità! :-D Ci vuole molta pazienza per un semplice motivo, la pulizia del pesce! Le sarde non sono difficili da pulire, però bisogna essere abbastanza bravi a non far staccare i due filetti che ricaveremo dal pesce intero. L’operazione è molto pratica, basta staccare la testa della sarda, pulendola sotto l’acqua corrente, e poi con un dito, passare in mezzo allo stomaco e sollevare la lisca, che delicatamente verrà via lasciando il nostro pesce abbastanza pulito. Per effetto scenico ma anche come collante per non staccare i filetti, lasciamo la parte terminale del pesce, la coda, in modo che serva come dicevamo, sia da legante per i filetti che da piccola presa quando li mangeremo. <<A sarda all’inguata è un vero cioccolatino, si scippa n’mucca ri quant’è bona! Io un c’ha fazzu a’spittari quannu i cociu… M’abbruciu sempri tutti i ‘irita e a linngua pi manciarimilli ancora cavuri cavuri appena sculati ri l’ogghiu cavuru! A sarda allinguata è u’cchiu poveru ri piatti ca canusciu, picchi o mircatu, quannu u pisci è friscu, tu tiranu na’facci e a sarda è chidda ca custa chiù picca ri tutti, ma puru su u’pisci fussi fitusu, io ma manciassi u’stissu, picchi è accussi bona, ca cu un’si l’avi manciatu mai, unnu pò capiri! Chisti su veri cosi belli! Veri cosi ri capricciu! >> Come avrete ben capito, le sarde allinguate sono un piatto molto povero della cucina palermitana, fatto con estrema semplicità ma che racchiude sempre quel tocco di “nobiltà” tipico dei piatti di ripiego, nati per sostituire le pietanze ed i cibi troppo cari per la povertà del tempo. http://mangiarechepassione.wordpress.com/2010/09/21/sardi-allinguati-e-quante-storie-dietro-di-esse/
Ovviamente, i palermitani non perdono occasione di mostrare la loro sindrome da capitale, come se la dominazione spagnola fosse avvenuta solo a Palermo. Come per le sarde e Beccafico, quando TUTTO il popolo siciliano simulava l’uccelletto Beccafico che potevano mangiare solo i nobili Signori (dominazione spagnola), anche questo piatto deriva da una simulazione: la sarda aperta e priva di lisca simile alla sogliola – in spagnolo lenguado - , leccornia che gli spagnoli mangiavano e cucinavano in questo modo. La sogliola costava parecchio ma TUTTI i siciliani, maestri nell’arte dell’arrangiarsi, crearono così anche questo piatto con la loro fantasia. La ricetta nasce anche dalla necessità di nascondere con l’aceto (mezz’ora prima di friggerle infarinate) l’odore del pesce non di giornata freschissimo che le massaie a quel tempo prendevano ai mercati dell'isola. Oggi, ovviamente, si cucinano con pesce freschissimo. (Mimmo Rapisarda)
Acciughe e cozze fritte Ingredienti per 4 persone 20 cozze pulite 12 acciughe fresche 1 albume pangrattato prezzemolo 1 spicchio d’aglio olio per friggere 2 fette di pancarrè sale e pepe
Far
aprire le cozze a fuoco vivo in un tegame coperto, scuotendolo di
tanto in tanto, quindi staccare i molluschi dalle valve e tenerli da
parte.
Acciughe al latte Ingredienti per 4 persone 400 gr di acciughe freschissime 2,5 dl di latte il succo di 2 limoni 1 spicchio d’aglio 2 dl di olio extravergine d’oliva 1 mazzetto di prezzemolo sale e pepe bianco Pulire
le acciughe eliminando la testa e le lische, quindi lavare i filetti
sotto acqua corrente e asciugarli bene. Sistemarli con la parte aperta
rivolta verso l’alto in un piatto fondo, ricoprirli con il latte e
lasciarli marinare in frigorifero per 6 ore o, ancora meglio, per una
notte intera.
Acciughe al limone Ingredienti per 4 persone 400 gr di acciughe fresche olio extravergine d’oliva 6 limoni aceto di vino bianco peperoncino sale Pulire
le acciughe eliminando la testa e le lische, quindi mettere i filetti
in una terrina sotto un filo di acqua corrente per circa 30 minuti. Acciughe in pastella Ingredienti per 4 persone 200 gr di farina 00 5 acciughe sotto sale 1 uovo olio per friggere sale e pepe Dissalare
e diliscare le acciughe, poi dividere ognuna in 4 filetti. Sgusciare l’uovo,
separare il tuorlo dall’albume e montare quest’ultimo a neve soda.
Versare in una terrina il tuorlo, la farina, un pizzico di sale e una
macinata
di pepe, quindi mescolando unire acqua tiepida in quantità
sufficiente ad ottenere una pastelle dalla consistenza fluida.
Marinate al limone Ingredienti 1000 G Acciughe Minute, 4 Limoni (succo In Due Volte) Abbondante Prezzemolo 1 Peperoncino Rosso Aglio, Olio D'oliva, Sale, Pepe Preparazione : Diliscare e buttare le teste delle piccole acciuga della Plaja di Catania (che i pescatori mangiano anche crude) e metterle, così aperte, a cuocere a freddo nel succo di due limoni. Lasciarle in un grande piatto per circa mezz'ora, affinché l'azione dell'acido citrico possa cuocere la tenerissima carne delle acciughe che, da rossa che era, diventerà bianca. A questo punto buttare il primo succo di limone, dove rimarranno le tracce del sangue delle acciughe, se queste erano freschissime. Condire con olio d'oliva di prima spremitura, foglioline di prezzemolo intere, il succo degli altri due limoni, sale, pepe, un peperoncino rosso intero e guarnire con fette di limone.
Al
forno Ripiene fritte Ingredienti
Per 4 persone 500 g
di alici fresche 200 g di mollica di pane casereccio raffermo 2 uova 3
cucchiai di pecorino fresco grattugiato un cucchiaio di prezzemolo
fresco trito farina di grano duro olio d’oliva per la frittura Lavorate in una ciotola del pangrattato con olio, sale, aglio e prezzemolo tritati, qualche ciuffo di zeste di limone, capperi dissalati, pinoli e, senza farvi vedere da nessuno un cucchiaino di pecorino grattugiato. Aggiungete pochissima polpa di pomodoro in modo che l'impasto resti umido. Stendere un filo d'olio in una teglia e coprite il fondo con un primo strato del pangrattato condito appena preparato. Su questo adagiate le alici con il dorso rivolto verso il basso. Ricoprite ancora con il pangrattato e poi con uno strato di alici, pangrattato e ancora alici. Finite con un ultimo strato di pangrattato. Versate un filo d'olio e infornate in forno caldo (180 °C) per una mezzora e comunque sino a quando il pangrattato non risulti tostato.
IL TRIONFO!
Masculina da magghia La cornice è quella del golfo di Catania: un arco che va da Capo Mulini a Capo Santa Croce, nel comune di Augusta. Una porzione di mare tutelata in parte dalla Riserva Naturale Marina delle Isole Ciclopi e solcata ogni giorno dalle piccole barche dei pescatori del golfo. Qui, secondo la stagione, si pescano aguglie, spigole, tonni, triglie, sgombri, e masculini. I pescatori li chiamano anche anciuvazzu o ancora anciuvurineddu: molti nomi per le piccole, guizzanti acciughe, le stesse catturate dai liguri e dalle menaidi cilentane. Le stesse che, diceva padron ’Ntoni ne I Malavoglia, «sentono il grecale ventiquattr’ore prima di arrivare, (…) è sempre stato così, l’acciuga è un pesce che ha più giudizio del tonno». Ad aprile, si comincia a calare le tratte (così chiamano a Catania le reti menaidi, che hanno maglie di un centimetro di lato e sono lunghe circa 300 metri): il momento giusto è la notte fonda, quasi sul fare dell’alba. La tecnica è la stessa praticata in tutto il Mediterraneo già dai tempi di Omero. Questo meccanismo di cattura (l’imprigionamento della testa dell’alice nelle maglie della rete, da cui il nome da magghia) provoca un dissanguamento naturale che rende il pesce più gustoso e quindi pregiato. In Italia le flottiglie che praticano la pesca tradizionale con la menaide sono poche: si trovano a Pisciotta, in alcuni piccoli centri della costiera del Cilento (in Campania) e nel golfo di Catania. Qui le famiglie che vivono di questo mestiere antico sono una trentina: un gruppo sparuto – che si divide fra i porticcioli di San Giovanni li Cuti, Ognina, Aci Trezza – e qualche civitotu (così si chiamano gli abitanti del quartiere catanese della Civita) al porto di Catania. Attualmente, i masculini da magghia sotto sale non sono in commercio: si possono ancora assaggiare soltanto in qualche ristorante di Catania o nelle dispense delle famiglie dei pescatori. Il neonato Presidio sta tentando di riorganizzarne la produzione e la commercializzazione. I masculini si vendono freschi sul mercato catanese
di piazza Pardo ( ‘a Piscaria) oppure vengono messi sotto sale dalle
mogli dei pescatori. La tecnica di salagione è la stessa di tutto il
Mediterraneo, ma qui esiste una preparazione assolutamente unica,
inventata dai pescatori catanesi per sfamarsi durante le molte ore
trascorse in mare. Si tratta di una conserva fatta con pezzetti di alici
e con le teste che rimangono impigliate nelle maglie della menaide.
Impossibili da vendere, questi “scarti” erano consumati in barca.
Tornati a riva, le donne di casa mettevano ciò che rimaneva sott’olio
di oliva, in vasetti di vetro o in piccoli orci di terracotta (i cugnitti) e all’occorrenza se ne prelevava una parte per cucinare
sughi e salse. https://www.fondazioneslowfood.com
IL CAPONE (Lampuga) Il modo migliore per cucinarli, secondo me, è alla brace. Un buon arrosto di pesce. Mi raccomando, per non rischiare di mangiare carne di gomma, incidiamo il pesce di generose dimensioni sui fianchi con dei tagli perpendicolari alla linea laterale, in modo da aiutarne la veloce cottura, che protraendosi a lungo inciderebbe sulla suddetta stopposità e indurimento (gommosità) delle carni. Come si suol dire carne cruta e pesce cottu!!!! Ma non ‘ntustulisciatu!!! È anche possibile cuocerli alla griglia tagliandoli in tranci. Un accorgimento: ungete la griglia di olio altrimenti ci si attacca tutto sopra e, se volete, intingete i tranci in un pinzimonio di olio d’oliva ed aceto balsamico. Gusto assicurato. (dal web)
Il “capone apparecchiato” è un tipico piatto della cucina dei Monsù (antichi cuochi della nobiltà palermitana), che rielaborarono una particolare salsa agrodolce, basata su concetti filosofici di armonia ed equilibrio, che aveva origini preislamiche. Con questa salsa i cuochi condivano piatti a base di carne, verdure o di pesce, basati sul mettere insieme (dal francese “appareiller”) diversi ingredienti. Il pesce “più apparecchiato” fu il capone (lampuga), un pesce che si trova nei banchi dei nostri pescivendoli nel periodo autunnale. La salsa agrodolce è la stessa che si usa per condire le melanzane nella famosa caponata, piatto delizioso che fa parte della cucina povera (infatti in questo caso, le trance di capone erano sostituite dai tocchetti delle più economiche e facilmente reperibili melanzane). E’ probabile quindi che il nome caponata origini dal piatto originario a base di capone, anche se esistono diverse ipotesi riguardo all’origine del nome caponata. http://www.cinisionline.it/2016/10/06/capone-apparecchiato/24962
La passione per le murene in brodo, per i frutti di mare, per le ostriche e le seppioline ripiene è romana .(da "I sapori lontani della cucina siciliana" di Gino Schilirò - Lancillotto e Ginevra Editori
CRISPEDDI DI MUCCO Cioè: frittelle di neonata di sardine o triglie. Pochi cibi al mondo, per gusto e fragranza possono stare alla pari delle frittelle di muccu (o di nannatu). Legare i pesciolini con le uova crude sbattute, il trito d'aglio e prezzemolo; olio d'oliva, sale, pepe. Nella padella delle fritture, con olio abbondante fumante, versare una cucchiaiata dei pesciolini così conciati. Subito si forma una frittella che, con la paletta o la forchetta, va voltata appena diventa dorata. Sgocciolare sull'apposita carta, con l'avvertenza, però, di consumare subito queste frittelle, giacchè calde sono più buone. Consiglio un bianco adattissimo: il Grecanico.
Antonino Mangiatore, nella "Della Sicilia ricercata" scrive: "V'ha di notabile in questa pescagione, che essendo il pesce spada vicino alla barca, i pescatori l'invitano con parlar greco che stimano ben intendere che non intenda l'Italiano" . La lingua con la quale i pescatori dialogano col pesce pare fosse in origine il Greco, ma nei millenni ha subito tante di quelle trasformazioni che non si capisce in che lingua si rivolgono al pesce. (da "I sapori lontani della cucina siciliana" di Gino Schilirò - Lancillotto e Ginevra Editori
PANE, ZUCCHINE E SAURO «Da bambino e poi in barca – racconta Nino Testa - il destino del sauro o sugarello era quello di finire alla brace, conservando come se fossero benedette tutte le sue spine. Poi, un giorno, durante i primi imbarchi non avevo sonno sono andato in cucina, pensando a un altro modo di cucinarlo. Così è nata la ricetta pane, zucchine e sauro, usando allora come oggi quello che puoi trovare in dispensa e nel frigo. Un piatto d’occasione». Preparazione dei filetti di sauro Si inizia col marinare per 30 minuti i filetti in 2 cucchiai di aceto di vino rosso siciliano, 4 cucchiai di olio evo, un trito di timo, rosmarino e mentuccia, a cui va aggiunto un pizzico di sale e dello zucchero di canna. Arrotolare, quindi, i filetti e passarli al forno, preriscaldato a 180° e ventilato, dai 6 agli 8 minuti in base alla grandezza del filetto. Ingredienti per la crema di pane vegetale 500 ml di acqua, 150 grammi di pane di semola siciliano, 1 costa di sedano, 1 pomodoro, 1 carota, 1 cipolla, 1 cucchiaio abbondante di pecorino, 2 filetti di alici sott’olio evo di Testa Conserve. Preparazione della crema di pane vegetale In una pentola con acqua fredda (è essenziale che sia fredda) si tagliano gli ortaggi a pezzettoni, portando a bollore e lasciando cuocere per 15 minuti. Si aggiunge quindi il pane raffermo per altri 5 minuti; dopodiché si frulla insieme alle alici, al pecorino e a un filo d’olio evo del barattolo di alici di Testa Conserve, facendo attenzione che la crema resti grumosa. A parte, si tagliano a metà due piccole zucchine nel senso della lunghezza che verranno grigliate, lasciandole però croccanti. Sul piatto Per prima si dispone la crema di pane o in una ciotola o in angolo del piatto, poi le zucchine e i filetti. Pane, zucchine e sauro è un piatto semplice dove gli ingredienti possono variare in base a quello che c’è in casa. Nel prossimo post, parleremo di come utilizzare gli scarti del sauro. Famiglia Testa pescatori - in Sicilia dal 1800
" Rissi lu tunnu: chi sugnu nnfatatu, ca stati tutti a spiranza di mia?I Greci lo mangiavano a pezzetti, arrostito o insaporito con olio e sale e fatto macerare in salamoia piccante. Archestrato consigliava di mangiare la tenera carne della femmina del tonno: a tunnina. Ancora oggi in Sicilia non si compra u tunnu ma a tunnina. Naturalmente ci è sconosciuto il sesso del tonno che compriamo in pescheria.
(da "I sapori lontani della cucina siciliana" di Gino Schilirò - Lancillotto e Ginevra Editori
La mia prima TUNNINA CA CIPUDDATA (o almeno credo) Infarinare il tonno e soffriggerlo per circa 5 minuti da entrambi i lati. Metterlo da parte e nella stessa padella aggiungere altro olio e la cipolla (consigliata quella di Tropea) a spicchi. Fate rosolare un paio di minuti, salate e coprite.
Abbassate la fiamma e proseguite la cottura per circa 10 minuti aggiungendo un bicchiere di acqua. Aggiungere il tonno e due cucchiai di zucchero mischiati nell’aceto, sale e pepe nero. Cuocere a fiamma moderata fino a quando l’aceto non evapora e la cipolla è caramellata. Spegnere, cospargere il tonno di cipolla, sopra e sotto, e lasciare per almeno 20 minuti col coperchio. Consiglio di consumarla quando è raffreddata e rappresa.
Versione catanese con pere varietà Spinelli (vedasi sotto), prodotto autoctono in questo momento nel suo pieno periodo ma introvabile a causa dei danni provocati alle coltivazioni dalla cenera vulcanica caduta quest’estate. Ne ho trovate solo due, per miracolo, in un mercatino rionale alla sua apertura nel primo mattino. Per fruttivendoli e grande distribuzione, ancora niente. Ingredienti per 2 persone 500 gr di stoccafisso - 500 gr di patate - 2 coste di sedano - 1 cipolla bianca - 70 gr di olive verdi denocciolate - 30 gr di pinoli - 30 gr di uvetta - 30 gr. di capperi - 3 pomodori maturi - 1 cucchiaio di concentrato di pomodoro - 2 foglie di alloro - 2 pere varietà Spinelli - Olio EVO - Sale e pepe q.b. Preparazione 1) Tagliare i pomodori a cubetti. Mettere in ammollo in acqua fredda l’uvetta e i capperi (se sotto sale). 2) Pelare le patate (non quelle novelle), tagliarle a spicchi medi e ammollarle in acqua fredda per privarle dell’amido in eccesso 3) Tagliare a rondelle la cipolla e il sedano finemente. 4) Tagliare 2 pere Spinelli a spicchi, con la buccia e senza semi
In cucina! 5) Fare appassire in un tegame con l’olio la cipolla e il sedano e, una volta che la cipolla si sarà imbiondita, aggiungere il pesce ponendo la parte con la pelle a contatto con il fondo del tegame. 6) Dopo 5 minuti, aggiungere i cubetti di pomodoro, il concentrato, le olive, i capperi, i pinoli, l’uvetta e un bicchiere d’acqua. 7) Regolare di sale (non troppo) e pepe, insaporire con due foglie d’alloro e lasciare cuocere il tutto a fiamma bassa per circa 30 minuti. 8 ) Aggiungere le patate e le pere a spicchi alla pietanza, con un altro mezzo bicchiere d’acqua, e lasciare cuocere per altri 40 minuti finché le patate non si saranno ammorbidite e la salsa non si sarà ristretta. Se necessario, prima di servire, regolare di sale. ________________________ Questa versione è quella che facciamo, normalmente, a Catania e ci accontentiamo. Per i puristi e gli amatori dello stoccafisso nella cucina siciliana, consiglio di navigare in siti di cucina messinese o, ancora meglio, in quelli calabresi e in particolare allo stocco di Mammola http://www.stoccomammola.it/Stocco.php, dove esiste una vera Accademia dello stoccafisso, con almeno 21 classificazioni. ___________________________ SPINEDDU - Cultivar molto diffusa soprattutto nelle zone alte del territorio etneo, terza per importanza dopo coscia e Putiru d’estate, gli impianti sono specializzati o promiscui con altre cultivar di pero o di melo. Tipica è la commercializzazione di questi frutti in “pennule” (15-20 frutti legati a gruppi di 2 o 3 con lo spago da conservare appesi in dispensa). L’albero vigoroso ha portamento fastigiato ed è molto produttivo tanto da costringere i produttori a sostenere i rami più carichi con apposite forcelle, elevata è la sensibilità alla psilla. Le foglie sono piccole, lanceolate, con lembo ondulato e picciolo corto; i fiori hanno petali di forma ovale-larga, separati; fiorisce nella III decade di aprile. Il frutto di forma turbinata, presenta peduncolo lungo, sottile, legnoso, resistente; la buccia è di colore verde-giallo, con sfaccettatura rossa e rugginosità intermedia; la polpa è dolce, compatta, tannica e con sclereidi. Si raccoglie nella III decade di ottobre e si conserva in locali freschi o in celle frigorifere fino alla primavera. Si consuma quasi esclusivamente cotto: bollito in acqua o nel mosto. Si presta alla preparazione di marmellate o canditi che assumono una caratteristica colorazione rossa brillante. Si utilizza nella preparazione di alcuni piatti tipici come il coniglio in agrodolce e lo stocco alla messinese. _____________ Fonte: Antichi frutti dell'Etna, di C. Bonfanti, A. Continella, A. Gentile, S. La Malfa
vai a
“Il polpo si deve cuocere nell’acqua sua!” Quante volte abbiamo sentito dire questa frase? Assaporare i polipetti alla luciana, piatto preferito dai pescatori, è come addentare un pezzo di Napoli. Questo piatto, infatti, prende il nome e nasce nel borgo di Santa Lucia. Si narra che i “luciani”, ovvero i pescatori del borgo, rientrati dalle lunghe giornate di lavoro fossero soliti cucinare i polpi, appena pescati. I polpi veraci venivano tagliati grossolanamente e posti in una casseruola coperta da un panno umido e si lasciavano cuocere per lungo tempo, per farli ammorbidire. Attenzione, non bisognava aggiungere acqua né aprire il operchio fino alla fine della cottura. Da qui deriva il detto, la cottura prolungata rende i polpi estremamente teneri e saporiti. (F. Panella)
CALAMARI ALLA TAMMURRIATA (personale).
Stamattina sono solo a casa e, una volta tanto, per non farmi
tediare sono stato autorizzato a mettere mani a fornelli e pentole.
Che bello, meglio di vedere la Clerici!
LA STORIA DELLA CANZONE
Gambero Rosso del Golfo di Catania
Rilettura dell’aggrassato. Aggrassato, non agglassato, perché in questo piatto una vera glassatura non c’è. Qualunque glassa, sia dolce che salata, è frutto di una emulsione di grassi, vino o acqua, con l’aggiunta di addensanti ma anche no, di aromi o succhi di frutta o versure, ecc… ed esistono una miriade di ricette di arrosti di carne glassati. In un arrotolato agglassato si impregna la carne nella glassa preparata e lo si manda al forno in teglia per un paio d’ore, poi si spennella con la grassa e si continua fino a cottura perfetta sempre spennellandolo di tanto in tanto. Alla fine si raccolgono i fondi di cottura, si filtrano, si versano sull’arrosto affettato che si serve con la rimanente grassa da aggiungere. L’aggrassato non è questo. Proviamo ad ipotizzare una origine molto più antica di questo piatto, una origine radicatasi indissolubilmente con la cucina siciliana ed arrivato a noi dopo millenni. Un piatto così radicato nella nostra cultura gastronomica che con nome di “carne e patate” e mille varianti, è cucinato in tutte le famiglie siciliane. Il termine aggrassato potrebbe derivare dal vocabolo greco κρατήρ, che indicava il grande vaso dove si mescolava il vino all’acqua per servirlo ai banchetti e da στο κρασί, cioè cucinato nel vino. Come il polpo affogato che un giorno mangiai in una taverna nel Peloponneso, chtapódi sto krasí (χταπόδι στο κρασί), cucinato con cipolle, vino e pomodoro. Neanche l’aggrassato si salva dal destino di una doppia versione, quella popolare e quella nobile. Nella cucina nobile le carni usate erano quelle dell’agnello e del vitello, i tagli quelli più teneri, lacerto e noce, nella cucina povera entravano in gioco il pollo, le interiora, soprattutto la trippa, e il manzo, ma a parte la differenza di carni e di tagli, la ricetta rimaneva e rimane però la stessa. La carne rosolava lentissimamente, con tante cipolle cremate in bianco, magari novelle, piccole piccole, cuocendo nei propri umori e nei profumi delle spezie, per ore. Quando poi le carni cominciavano a colorire, giù una arrusciata di vino vecchio, l’antenato del Marsala, fino alla completa cottura. Aumentando di molto la quantità di cipolle e fermandoci a questo punto avremmo cucinato la napoletana Genovese, ma quello che distingue questo splendido piatto partenopeo dal nostro aggrassato non è soltanto la quantità di cipolle, ma l’aggiunta di verdure, come patate o piselli, fave, asparagi selvatici, carciofi da stufare assieme alla carne giunta quasi a cottura. Come per molti piatti della cucina classica siciliana, dell’aggrassato arriva al popolo soprattutto il sistema di cottura, e quello che rimaneva nel tegame dopo avere tolto la carne, magari attraverso gli sguatteri che avevano diritto agli avanzi, cioè l’untino e le verdure che ad un certo punto diventarono soprattutto patate. Con queste verdure e l’unto rimasto, quello che oggi chiamiamo il “fondo di cottura”, gli sguatteri condivano la pasta inventando “la grassa” una delle ricette più diffuse a Palermo. La glassa invece la troviamo, e quindi ci suggerisce l’attribuzione all’influenza francese, in un piatto in uso a Castellammare del Golfo, l’Agneddru cu riquagghiu, una preparazione di agnello aggrassato e poi passato al forno con una glassa di uovo e formaggio. Altro retaggio francese sono il Gattò, torte di riso prima e poi di patate, la Matalotta, una zuppa di pesce profumata di cannella, alloro, mandorle e scorza di limone, il Ratafià un rosolio di frutta, la Fricassè una preparazione di carne o più raramente di pesce con aggiunta di uovo e succo di limone, i Ramacchè, bignè salati di pasta choux farciti di salame e caciocavallo, fritti e non cucinati al forno, le Briosce. Dopo il Vespro l’indipendenza siciliana durò solo cinque mesi, e le famiglie siciliane, prima di dilaniarsi in una nuova guerra civile, preferirono chiamare Pietro III d’Aragona, che da tempo aspirava a dominare la nostra Isola. Il 30 agosto 1282 gli spagnoli sbarcano in Sicilia, a Trapani, e in un modo o in un altro vi rimasero fino all’inizio del ‘700. Angelo Bentivegna https://medium.com/@angelobenivegna/il-raconto-del-cibo-siciliano-e-non-solo-d029b5e59471
LA NOSTALGIA DEI SAPORI PERDUTI (di Augusto Ignoto) La domenica è un giorno particolare, è un giorno di festa. I ritmi della settimana si attenuano e i tempi si dilatano. Tutto diventa più “lento”, gustabile ed armonioso. Sembra che si faccia pace con noi stessi e con il mondo. Quando mi sveglio presto e, davanti ad una tazzina di caffè, rifletto sulle cose da fare per godermi questa giornata di riposo, spesso nella mia mente affiorano i ricordi della mia infanzia e di quei giorni di festa senza scuola, quei giorni in cui ci si riuniva a tavola con tutta la famiglia per il pranzo domenicale. Immancabilmente risento i profumi ed i sapori di quelle squisite pietanze amorevolmente preparate dalla nonna! Un piatto tipico della domenica era la carne “a grassatu”. Le radici del termine “grassatu” non sono chiare; c’è chi dice che il termine grassatu si riferisca all’aspetto della carne dopo la cottura, in quanto i piccoli pezzetti di patate e la purea che si forma, sembrino somigliare a tanti pezzetti di grasso con la carne in mezzo, altri, invece, dicono che il termine “grassatu” rappresenti una libera traduzione, in dialetto catanese, di glassato. Qualunque sia l’origine, importa poco. La vera cosa importante è che, la carne a “grassatu”, sia buonissima! Cos’è “u grassatu”? È uno spezzatino di carne con patate che permette, volendo, anche di condire i maccheroni con il fondo di cottura. Semplicissima la sua preparazione. Acquistate, dal vostro macellaio di fiducia, della carne per bollito, non magra. Come tagli di carne di manzo, io prendo la punta di petto, il fianchetto e i ”cannola” (biancostato): un terzo per ognuno. Ingredienti: Cipolle, Patate, Carne, Sale, Pepe, Acqua. Tenete presente che le quantità sono così ripartite: 200 grammi di manzo a persona ed il rapporto fra carne e patate è di 1:1, cioè, un chilo di patate per un chilo di carne. Tempi di preparazione: 10 minuti; cottura, 1 ora e mezza circa.
buon pranzo domenicale!
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ALTRA VERSIONE (by Claudia Magistro) (25 gennaio 2015) – Nella tradizione della mia famiglia lo spezzatino si è fatto, da sempre, con il sugo: tante varietà di carne, cottura lentissima e “pacienza di santi”. Qualche giorno fa, mia madre mi parlò dell’aggrassatu, uno spezzatino “in bianco” cotto sempre molto lentamente, con molta cipolla; cuoce talmente tanto che la cipolla alla fine della cottura diventa caramellata, come una glassa, da cui il nome. Eppure, mi disse, non lu ficimu mai, chiediamo la ricetta alla zia Mariella che lo fa buonissimo. La zia Mariella non è una zia di sangue, e nemmeno una zia acquisita, lei è un’amica di famiglia e noi, nutrichi, sempre zia la chiamammu e devo dire che zia rimase per sempre anche oggi che aju quarantacinc’anni. Io, fissata sugnu cu le tradizioni e in men che non si dica ‘n’attaccammu ‘o telefono e patteru le frasi di rito “e tu come lo fai? e quale carne ci vuole? Ah, solo due tipi? ma questa è la ricetta di mammina come la faceva lei io mai c’arriniscivì”. ‘Nsumma, cominciammu la jurnata con ‘sta telefonata carrica di ricordi, risate e pareri, consigli e ‘divieti’. Immancabile poi la solita ricerca su internet per vedere come il resto dell’Isola realizza questa antica preparazione. Ebbene ho scoperto che l’aggrassatu, aggrassato o agglassato viene realizzato in moltissimi modi in tutta la Sicilia, chi ci mette le patate, chi sfuma la carne col vino e chi omette i pomodori. Una cosa è certa ognuno rivendica l’originalità della ricetta di famiglia, asserendo che la propria è quella “vera”. La zia Mariella dice che sua mamma, la nonna Venera, non usava sfumare la carne col vino, “nella maniera più assoluta” niente patate e qualche coccitello di pomodoro. Una cosa è certa, le cipolle devono essere assai picchì devono caramellare durante la lunghissima fase di cottura e si riducono di molto; anche la carne del resto, lo spezzatino, sia in bianco che al sugo ha un epiteto,'svergogna famigghie' proprio perché compri tre chili di carne e si riduce a un mossiceddu. Non vi pozzu cuntari come viene la pasta condita con il sugo della carne e una spolverata di ricotta infornata, lassamu peddiri va! per 4 cristiani: 500 g di spezzatino di vitello 700 g di spezzatino di maiale (punta di petto) 1,500 g di cipolle rosse 5 pomodori datterino grossi q.b. brodo vegetale 4-5 cucchiai di olio extra vergine d'oliva sale e pepe Soffriggete, in un tegame capiente, la carne nell'olio caldo a fuoco vivace fino a quando la carne si colora ben bene. Aggiungete le cipolle affettate finemente con una mandolina. Fate insaporire mescolando aggiungete i pomodori, il brodo vegetale, un po' sotto il livello della carne. Coprite e cuocete a fuoco lento per un paio d'ore, mescolando ogni tanto. Quando la carne sarà cotta, ponetela in una ciotola e continuate a cuocere fino a ottenere una crema di cipolle. http://www.sicilypresent.it/scorza-darancia/1387-aggrassatu.html testo e foto di Claudia Magistro https://scorzadarancia.it/
MANZO LESSO - 1 kg di carne bovina per bollito - 3 l di acqua 12 gr di sale 1 carota 1 cipolla 2 coste di sedano 2-3 pomodori 2-3 patate Ovviamente, dovremo saper scegliere la parte di carne adatta; i tagli migliori per ottenere un ottimo brodo sono: la spalla, il petto, la copertina, la culatta, il fianchetto, la coscia e le costole. In genere comunque, si tratta di parti che possono sopportare una lunga cottura e che hanno qualità tali da dare tutto il loro sapore nell’acqua. Di solito per le dosi si calcola circa 3 lt di acqua per ogni Kg di carne.
Il modo migliore per cucinare il lesso sarebbe quello di mettere la carne nella pentola con acqua fredda salata. Insieme alla carne si può aggiungere qualche osso e qualche verdura, quali sedano, carote, cipolle, patate e qualche pomodoro, uniremo poi il sale, qualora non avessimo già provveduto prima. Quando l’acqua comincia a sobbollire si toglierà la schiuma che verrà a galla, e quindi si continuerà la cottura sobbollendo in modo costante e schiumando ancora, di tanto in tanto. Il tempo utile per cuocere a puntino il manzo non si può stabilire con precisione, perché dipende sia dal pezzo più o meno grosso della carne, sia dalla qualità, in ogni caso non è quasi mai inferiore alle tre ore; inoltre potremo capire che la carne è cotta quando le ossa si staccano. La carne, cuocendo così a lungo perderà nell’acqua una buona parte dei suoi principi nutrienti, ma questo è l’unico modo per renderla tenera. Se preferite trascurare un po’ il sapore del brodo e siete interessati a un lesso di manzo più saporito, sarebbe meglio immergere la carne in acqua calda salata. A cottura ultimata il lesso di carne potrà essere servito insieme al brodo, mentre ciò che rimane dello stesso potrà essere utilizzato nella realizzazione di altri piatti. http://ricettablog.it/il-manzo-lesso/
Il manzo lesso condito con le carote, sedano e cipolle, che si consuma ancora nelle trattorie palermitane risale al periodo Normanno.
(da "I sapori lontani della cucina siciliana" di Gino Schilirò - Lancillotto e Ginevra Editori
VUGGHIUTU CUNZATU A CATANISA (Tocchetti di carne lessa condita) Ingredienti 300 g di manzo lesso; 200 g di pollo lesso; 200 g di olive schiacciate e condite; 2 acciughe salate; origano 1 spicchio d’aglio; sedano con foglie; 50 g di sottaceti; aceto aromatico; olio d’oliva, pepe o peperoncino. Preparazione Ecco un’appetitosa maniera per utilizzare il lesso freddo: tagliare a piccoli tocchi manzo e pollo che vanno mischiati, in un grande piatto di ceramica, assieme alle olive schiacciate condite, ai pezzetti delle acciughe diliscate, origano, aglio schiacciato e sminuzzato, sottaceti, pepe o peperoncino, olio d’oliva ed una spruzzatina di aceto aromatico. Guarnire con le foglie verdi del sedano. http://www.cataniatradizioni.it/catania.htm
Si tratta del più celebrato piatto di carne in Sicilia, detto "falsomagro" appunto perché dentro rinserra strettamente tanto ben di Dio. Si comincia col battere bene la carne allargandola a rettangolo: su tutta la superficie si accomodano il prosciutto o le fette di mortadella, poi, al centro, si mettono in fila le uova, nel senso della lunghezza, si pone una striscia di lardo, naturalmente senza cotenna e poi, nello stesso senso, bacchette di provolone piccante, ciuffetti di prezzemolo, pezzettini d’aglio e una bella cipollina fresca. Per completare la farcia manca ormai la carne trita, amalgamata con un uovo ed il brontese con la lagrima, cioè con l’olio che gocciola attorno ai grani di pepe, grattugiato, ed i pisellini teneri e, se si vuole, anche la salsiccia fresca sbriciolata. Adesso sì che possiamo arrotolare la grande fetta di carne per racchiudere quanto elencato e, col filo bianco sottile, tracciare fittissimi paralleli, per far diventare "magro" il grosso salsiccione imbottito preparato. Ed eccoci pronti per adagiare nella grande padella dei fritti il falsomagro per rosolarne la crosta nel grasso delle salsiccia prima fritta nella stessa padella, oppure con un po’ di strutto e di olio. A questo punto, se il falsomagro non è destinato ad arricchire il sontuoso gran ragù della festa, cioè finire stufato in tegame assieme alla salsiccia e alle polpette rosolate, ma dovrà troneggiare da solo in tavola, allora si versa il vino sul falsomagro ben rosolato da tutte le parti e, sempre rigirando, si fa cuocere fino ad evaporazione. Finalmente si aggiunge la salsina di pomodoro, allungata con un po’ d’acqua, e si fa cuocere quietamente, incoperchiato, per circa un’ora. Al momento di servire liberarlo dal filo e tagliarlo in tavola, mai prima, ne va della bellezza del risultato, giacché, se avete fatto le cose a dovere, tagliando adesso fette di due centimetri di spessore, ecco comparire al centro di ogni rotonda fetta il brillare del giallo d’uovo incastonato nel suo alone di bianco, con accanto la nebulosa di lardo e tutt’intorno i verdi pianetini dei piselli ruotanti nel via lattea del caciocavallo fuso, emergenti dagli spazi infinitamente saporiti del falsomagro, sovrano indiscusso della portata di carne in Sicilia.Servire con la salsa di cottura.
Si dice arrusti e mancia, si legge in tantissimi modi diversi. In italiano lo possiamo tradurre come “Griglia e mangia“, anche se per rendere a pieno la sua vera essenza, lo si deve pronunciare in siciliano. Arrusti e mancia è, a Catania, il nome comune con cui si indica la carne arrostita e mangiata al volo. Qui, a farla da padrone, è la carne di cavallo arrosto, insieme a quella di asina. È un modo molto caratteristico e frugale di gustare lo street food a Catania, che non ha bisogno di orpelli o particolari intingoli. Questa tradizione non conosce declino, come tutte quelle radicate nella cultura enogastronomica del territorio. Il fulcro è in via del Plebiscito, una zona popolare del centro storico, dove si trova la carne esposta in banchi refrigerati, a vista. Così si sceglie ciò che si vuole. Un tempo si cuoceva solo sulla brace, accesa direttamente sul marciapiedi, ma oggi si fa ricorso ad altri metodi di cottura. Il fascino dell’Arrusti e mancia, però, è rimasto immutato e continua ad attirare tantissimi avventori. La carne appena cotta viene messa direttamente nel panino, che si consuma a morsi, con voracità. Un cibo per gli amanti della cucina schietta e sincera.
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