GEORGE
HARRISON, IL PIÙ GIOVANE DEI BEATLES
Nasce
il 25 Febbraio 1943 a Liverpool. La famiglia, suo padre Harold, autista
di autobus, e sua madre casalinga, intuendo l'amore che George nutriva
per la musica non ostacolarono in alcun modo la passione del figlio,
contribuendo all'acquisto della prima "vera" chitarra
elettrica rigorosamente usata. George frequentò prima la Dovedale
Primary School, nella quale studiò anche John Lennon, successivamente
al Liverpool Institute, dove conobbe Paul McCartney.
Mostrò
la sua natura indipendente già da giovane, presentandosi a scuola con
capelli lunghi e indossando jeans. George e Paul prendevano lo stesso
autobus per andare a scuola e ben presto scoprirono la stessa passione
per la musica e la chitarra.
Ogni
giorno spendevano parecchie ore a suonare insieme fino a quando, nel
1956, Paul presentò il quattordicenne George ai Quarry Men. Troppo
giovane per far parte del gruppo, sedeva in un angolo della sala ad
ascoltarli abbracciando la sua chitarra e partecipando di tanto in tanto
quando il chitarrista titolare non era disponibile. Gradatamente George
divenne componente fisso del gruppo, che da allora prese il nome di
"Johnny and the Moondogs".
Fin
dall'inizio la popolarità dei Beatles era dovuta principalmente alle
canzoni di John e Paul, cosìcchè anche George concentrò la sua
attenzione nello scrivere brani musicali, anche se molte delle sue prime
opere non furono mai registrate dai Beatles.
La
prima canzone scritta da George e che appariva in un album dei Beatles
fu Don't bother me. George perse la più grande apparizione dei Beatles
in America all'"Ed Sullivan Show" il 9 Febbraio 1964, a causa
di una malattia alla gola.
Nei
mesi successivi, durante la registrazione del film A hard day's night,
si innamorò della modella Patty Boyd che sposò il 21 Gennaio 1966.
George comincia a trascorrere molto del suo tempo a leggere e studiare
sanscriti ed i trattati religiosi indiani. La sua trasformazione
musicale ed il suo nuovo modo di pensare, oltre a contagiare in parte
John Lennon e Paul McCartney, influenzarono anche altri artisti.
Le
composizioni che più rappresentano il cambiamento di George in quel
periodo furono cronologicamente Love you to, Within you without you e
The inner light la cui base musicale fu registrattta interamente a
Bombay con musicisti del posto. I
continui
viaggi in India, ben presto interrotti dagli altri tre Beatles e le
sempre più frequenti difficoltà ed incomprensioni caratteriali,
specialmente nei confronti di Paul McCartney, determinarono, intanto,
una prima preoccupante crepa nell'assetto interno del gruppo. La sua
ormai forte personalità ed il suo talento sin troppo sacrificato
provocarono in lui forti frustrazioni ma, allo stesso tempo, gli davano
nuovi stimoli competitivi.
Se
mai doveva darne ancora la prova, è con Abbey Road, l'ultimo album
"felice" composto dai Beatles, che George dimostra ancora una
volta tutta la sua bravura e genialità in brani come Something, il
brano più coverizzato dei Beatles insieme a Yesterday e Here comes the
sun in cui viene utilizzato per la prima volta dal quartetto il "Moog".
Significativa
per George è stata la sua attrazione per la musica e la cultura
indiana; organizzò a New York un concerto di beneficenza con molte star
della musica per raccogliere fondi per il Bangladesh, dove molte persone
stavano morendo di fame a causa della guerra civile.
Nonostante
il fatto che il 1972 fosse iniziato bene per George, con la
pubblicazione di un secondo triplo album in cofanetto (la registrazione
del suo Concert for Bangladesh), le sue buone intenzioni vennero
fiaccate quando il fisco statunitense pose delle tasse sui ricavi del
disco, causando un ritardo nella destinazione dei fondi alla popolazione
per la quale il concerto era stato organizzato.
Nonostante
tutto, il cofanetto raggiunse il primo posto nella classifica britannica
e vinse un "Grammy Award", e il Karma di George rimase
integro, dal momento che aveva agito in buona fede. George e Ravi
Shankar (il suo insegnante di sitar) ebbero anche un riconoscimento
dall'UNICEF per la raccolta di fondi a favore del Bangladesh.
Nel
1974 George occupò il primo posto delle classifiche sia con il singolo
Give me love, che con l'album dal quale era stato tratto il 45 giri
Living in a material world, ma era chiaro che fosse più interessato
alla spiritualità che non all'aspetto musicale.
Oltre
a lavorare con Ringo, lanciò la sua nuova etichetta discografica, la
"Dark Horse", e si imbarcò anche in un disastroso tour
statunitense che venne distrutto dai critici. Di lì a poco avrebbe
perso la moglie, Patty Boyd, innamorata dell'amico Eric Clapton.
Nel
1976 un tribunale americano stabilì che il brano My sweet Lord era un
plagio di He's so fine, una canzone portata al successo nel 1963 da un
gruppo femminile statunitense, "The Chiffons".
Musicalmente
parlando George attraversò un periodo di stallo, ma sviluppò un nuovo
interesse per il cinema attraverso la "Hand Made Films".
Trascorse gli ultimi anni del decennio seguendo una nuova passione, le
gare del Gran Premio di F1 e pubblicando un suo nuovo album tra il 1976
ed il 1981.
Si
sposò nuovamente e quando la seconda moglie, Olivia Arias, nell'Ottobre
del 1978 gli diede un figlio, Dhani, sembrò che George fosse finalmente
felice, sicuro e realizzato.
UN
MUSICISTA DA LEGGENDA CHE NON VOLEVA ESSERE STAR
(di
Ernesto Assante)
George
Harrison, l'ex chitarrista dei Beatles, l'autore di canzoni memorabili
come "Here comes the sun" e "My sweet Lord", è
morto ieri, alle 13,30, a Los Angeles, nella casa di un amico dove si
era ritirato da qualche giorno. Termina così la lunga battaglia che il
musicista inglese aveva iniziato, nel 1997, contro il cancro, che lo
aveva colpito prima alla gola, quindi ai polmoni e al cervello.
Con
Harrison scompare un grande pezzo di storia della musica popolare, un
altro dei componenti della band più leggendaria della storia del pop,
un musicista che, pur non avendo riscosso il successo personale che
hanno avuto John Lennon e Paul McCartney, è stato senza alcun dubbio
uno dei personaggi centrali della cultura giovanile degli anni Sessanta,
con il suo interesse per le religioni orientali e per la musica indiana.
E
con lui scompare un altro pezzo di quel grande sogno di "pace,
amore e musica" che ha animato il pianeta trenta anni fa, un sogno
costellato di canzoni meravigliose, di viaggi interiori e fisici, di
possibili e pacifiche rivoluzioni, un sogno che in parte, per qualche
tempo, è riuscito davvero a cambiare il mondo.
Il
suo soprannome, The Quiet One, "quello tranquillo" è servito
per anni a definire con semplicità il suo ruolo nei Beatles. Ma
"tranquillo" Harrison nella sua vita non lo è stato mai,
davvero. Anzi, rispetto agli altri Beatles è quello che ha accumulato
nella sua carriera solista il maggior numero di progetti, di
collaborazioni, di iniziative, in una instancabile ricerca di novità,
di risposte esistenziali, di musica, che ha segnato in maniera
determinante tutta la sua storia. A suo modo, in maniera completamente
diversa da quella del suo amico John Lennon, George era un ribelle, un
ragazzo che cercava di uscire dagli schemi, di trovare nuove strade, di
sfuggire all'ovvio. La sua infanzia era stata indubbiamente più
tranquilla di quella dei suoi due amici, John e Paul, non aveva sofferto
la separazione o la morte dei genitori come era accaduto a loro, ed era
cresciuto in una grande famiglia di modeste possibilità economiche (la
madre, Louise, era casalinga e il padre, Harold, autista) che lo aveva
portato ad avere una natura buona e compassionevole che stemperava la
sua propensione alla ribellione.
George
era nato il 25 febbraio del 1943, ed aveva due fratelli, Harold Jr. e
Peter, e una sorella minore, Louise, con i quali è rimasto sempre in
ottimi rapporti. Ed anche se era "buono e tranquillo" e non
dava dispiaceri ai genitori il suo sogno era quello di diventare famoso,
di essere un artista. George vestiva come un rocker, tendeva a dormire
in classe piuttosto che a studiare e soprattutto voleva suonare la
chitarra. Una passione sostenuta da sua madre, che acquistò, per far
contento il figlio, una chitarra usata da un suo compagno di classe alla
Dovendale Primary School, pagandola tre sterline. A scuola, comunque,
George non se la cavava male, e finite le primarie si iscrisse al
Liverpool Institute, dove erano già sia John Lennon, di due anni più
grande, che Paul McCartney, più grande di un anno. Paul e George
prendevano lo stesso autobus per andare a scuola, in breve tempo fecero
amicizia e iniziarono a condividere la loro grande passione per la
musica. George non iniziò subito a suonare con Paul e John, ma con suo
fratello Peter, con il quale mise in piedi una piccola skiffle band che
suonava alle feste, perché Paul presentò il quattordicenne George agli
altri Quarrymen ma gli altri componenti del gruppo pensarono che George
fosse troppo piccolo per suonare con loro. Harrison restò molto colpito
da Lennon e iniziò a imitarlo in tutto e a seguire i Quarrymen in ogni
loro esibizione, riuscendo a suonare anche un paio di volte al posto del
loro chitarrista. Nel 1958, alla fine, Harrison entrò a far parte della
formazione, diventando nel 1962, alla nascita dei Beatles, il
chitarrista solista del gruppo.
Il
suo ruolo nel quartetto fu di crescente importanza: se all'inizio la
coppia Lennon & McCartney scriveva la totalità delle canzoni dei
Beatles, pian piano George prese sicurezza e iniziò a sottoporre
all'attenzione degli altri le sue canzoni, fino ad arrivare, dal 1966,
ad avere una regola interna al gruppo che prevedeva che in ogni album
inciso dalla formazione ci fossero almeno uno o due brani scritti da
George. E' alla penna di Harrison, quindi, che si devono alcuni dei
grandi capolavori dei Beatles, da "Taxman" a "Something",
da "While my guitar gently weeps" a "Here comes the sun";
è alla voglia di ricerca spirituale e intellettuale di Harrison che si
deve la svolta mistica della band, il viaggio in India, l'incontro con
il guru Maharishi Mahesh Yogi, l'uso del sitar e l'amicizia con il
musicista indiano Ravi Shankar; è al suono della sua chitarra che si
deve molta della particolarità del sound dei Beatles.
E
fu proprio lui, con la realizzazione della colonna sonora del film
"Wonderwall", nel 1968, ad essere il primo dei Beatles a
lavorare da solo, in un periodo in cui le tensioni con Lennon e
McCartney si erano fatte più forti e in cui anche la sua vita privata
era piuttosto complicata: Harrison era sposato da diversi anni a Patti
Boyd ma la moglie aveva iniziato ad intrecciare una relazione con Eric
Clapton, che portò qualche anno dopo alla fine del matrimonio tra i
due. I tre rimasero comunque in ottimi rapporti, al punto che un anno
dopo, nel 1969, Harrison andò per la prima volta in tour senza i
Beatles, affiancando Clapton in molte date del tour dei Delaney and
Bonnie.
Pochi
mesi dopo i Beatles si sciolsero.
La
fine dell'avventura dei Fab Four segnò una rinascita artistica per
Harrison, il momento nel quale avrebbe potuto finalmente mettere a
frutto tutta la strada compiuta fino ad allora. Il risultato fu
eccellente, sia in termini di successo che di qualità: "All things
must pass", un album triplo, pubblicato alla fine del 1970, che
raccoglieva moltissimi dei migliori musicisti dell'epoca e un singolo
"My sweet lord" che raggiunse rapidamente i vertici delle
classifiche in tutto il mondo. Sfortunatamente il brano assomigliava
pericolosamente ad un'altra canzone, "He's so fine", un brano
inciso nel 1962 dalle Chiffons, che fecero causa a Harrison e la
vinsero: la corte, decise che Harrison aveva "inconsciamente"
copiato la canzone e stabilì un rimborso di un milione e seicentomila
dollari.
L'anno
seguente, il 1971, fu ancora più ricco di attività per Harrison, che
collaborò alla realizzazione di "Imagine" con il suo amico
John Lennon, produsse un album dei Badfinger (la prima band messa sotto
contratto dalla Apple, la casa discografica dei Beatles), e soprattutto
realizzò quello che fu destinato a passare alla storia come il primo
dei grandi concerti di beneficenza della storia del rock, il concerto
per il Bangladesh, per raccogliere fondi a favore della popolazione del
paese asiatico colpita da un alluvione, con la partecipazione, tra gli
altri, di tre carissimi amici di Harrison, Eric Clapton e Bob Dylan e
Ringo Starr. Dal concerto fu tratto un triplo album nel quale Harrison
proponeva per la prima volta in un disco le sue canzoni scritte per i
Beatles.
Nel
1973 Harrison trovò ancora il successo con l'album "Living in the
material world", che conteneva un singolo di grande impatto come
"Give me love" che lo portò ancora una volta al primo posto
delle classifiche sia in Europa che in America. Non fu così negli anni
seguenti, e album come "Dark Horse" del 1974 e "Extra
Texture" del 1975 segnarono un deciso declino della sua carriera
come musicista e autore. Il successo non tornò dalle parti di Harrison
fino alla fine degli anni Settanta, anzi il declino fu continuo,
nonostante qualche buona recensione per l'album 33 & 1/3, fino al
punto di arrivare al rifiuto della Warner Bros, nel 1979, di pubblicare
un album giudicato al di sotto di standard accettabili e al disastro
commerciale di "Gone Troppo" del 1982. Solo nel 1980,
all'indomani della morte di John Lennon, ci fu un ritorno in classifica,
ma fu tutto sotto il segno dei Beatles, con l'album
"Somewhere in
England" che conteneva il singolo "All those years ago",
un brano di pura nostalgia che segnava la prima collaborazione tra
McCartney, Starr e Harrison dallo scioglimento del gruppo.
In
quegli anni Harrison aveva iniziato a concentrare i suoi interessi sul
cinema, aprendo, nel 1978, la "Hand Made Films", una casa di
produzione indipendente con la quale produsse diversi film, alcuni anche
di successo, come "Life of Brian" dei Monty Phyton, "Time
Bandits" e "Shangai Surprise", con Madonna e Sean Penn.
Il
ritorno al successo nel mondo della musica avvenne alla fine degli anni
Ottanta, prima con "Cloud Nine", album che portò nuovamente
Harrison ai vertici delle classifiche con "I got my mind set on you",
una cover di un brano di Rudy Clarke, e poi con il supergruppo dei
Traveling Wilburys, con Tom Petty, Bob Dylan, Roy Orbison e Jeff Lynne,
che pubblicarono due album di grandissimo successo, nel 1987 e nel 1990.
Per
tutto il decennio Novanta Harrison non lavorò ad album di materiale
nuovo, si limitò a publicare soltanto un disco dal vivo nel 1992 e si
concentrò con McCartney e Starr alla realizzazione della colossale
Anthology dei Beatles, in video e in disco.
Una
vita tranquilla, quella di "the quiet one", che non rilascia
molte interviste, non rilancia la sua carriera come McCartney, non cerca
insomma le luci della ribalta. E se non fosse per la cronaca nera
nessuno parlerebbe molto di lui: nel 1999 Harrison e sua moglie furono
vittime di una violenta aggressione da parte di un folle che entrò
nella loro casa e accoltellò il chitarrista. Le ferite riportate da
Harrison non furono gravi, ma lo shock per il musicista inglese fu
fortissimo. Il recupero avvenne tornando alla musica, ristampando prima
il disco del concerto per il Bangladesh e poi, per celebrare il
trentennale della sua carriera solista, con la riedzione di "All
things must pass", con una nuova versione di "My sweet
lord". Nonostante le notizie sulla sua salute e sul male incurabile
che lo aveva colpito, Harrison tornò al lavoro all'inizio del 2001, sia
per iniziare le registrazioni di un nuovo album che per produrre un
disco dell'amico Ravi Shankar. L'ultima canzone l'ha incisa il 1[b0]
ottobre assieme al figlio Dhani per il disco di Jools Holland,
intitolata "Horse to the water".
OMAGGIO
A GEORGE HARRISON
Non
c’era nebbia nella città degli angeli, ieri. È là che George
Harrison è andato a morire, a Los Angeles. L’aveva cantata nel ‘67
(l’anno santo del rock, l’anno colorato di mille colori dalla
sinfonia psichedelica di Sgt Pepper’s) profetizzando uno scenario da
Blade Runner, in una delle più bizzarre, lisergiche e misconosciute
canzoni dei Beatles, dove la sua bella, delicata e introversa voce -
appoggiata su un fiume sonoro cupo e onirico - sussurrava «c’è
nebbia sopra L.A., e i miei amici hanno smarrito la strada». Chissà se
c’è anche quella canzone, Blue Jay Way, tra tutte le belle,
bellissime, strepitose canzoni di George che in queste ore scorrono
implacabili nelle menti e nei cuori dei milioni, che si affollano nei
ricordi, che occupano qualche posto speciale nelle intricate storie di
ciascuno di noi.
Ventun’anni dopo la scomparsa di John, trentuno dopo lo scioglimento
dei Beatles, cinquantotto da quando vide la luce, George se n’è
andato, dopo una lunga malattia, che sembra una beffa del destino dopo
quei cinque sudici colpi di pistola che l’8 dicembre 1980 colpirono
John Lennon, un dolente requiem per uno dei sogni più sconvolgenti (per
la musica, per la civiltà dei cuori) che sono stati i Beatles. Nell’immaginario
comune, George era sempre «il terzo»: non era il fragile profeta
utopico (John), non era il grande orchestratore delle fantasie (Paul).
Per il popolo del rock, lui era quello delle suggestioni indiane, quello
che ha introdotto il sitar nella musica pop, il chitarrista delicato,
elegante e timido, la perfetta spalla per due mostri sacri dalla vena
irrefrenabile, prepotente, inestinguibile. Eppure, eppure...
Tuffatevi nel passato. Nella fredda Liverpool degli anni cinquanta.
George, nato il 25 febbraio del ‘43, era un ragazzino magro e timido.
Sognava, come tutti, il grande rock’n’roll che veniva dall’America,
la liberatoria e sconvolgente forza ritmico-orgasmica di Elvis, Little
Richard, Chuck Berry, Carl Perkins. Suo papà, Harold, che era stato
marinaio, faceva il guidatore di autobus ed era un fervente
sindacalista. Era stata mamma Louise a capire che il loro figlio più
piccolo aveva del talento: fu lei a compargli la prima chitarra, per tre
sterline. A diciassette anni, nel ‘58 si unì ai Quarrymen, chiamato
da un suo amico, tal Paul McCartney, che non molto tempo prima aveva
legato con un altro ragazzo un po’ disturbato e attaccabrighe, John
Lennon. Quello che affascinava i due, che già si dilettavano a scrivere
canzoni, era che il piccolo George era capace di fare dei veri e propri
assoli sulla chitarra. Se loro erano dei ragazzi, lui era proprio un
ragazzino: la prima avventura amburghese del gruppo (che aveva trovato
un nuovo nome: Beatles) si concluse rapidamente, perché le autorità
locali si accorserso che quel tipetto smilzo non aveva ancora compiuto
la maggiore età. Di lì a poco, avrebbe preso forma l’incredibile: la
beatlemania, un successo planetario senza precedenti, il furore colorato
degli anni sessanta, qualcosa che nel tempo si
sarebbe trasformato in
una rivoluzione artistica, culturale e sociale che ancora non ha trovato
fino in fondo le parole per essere raccontata. Il George Harrison dei
primi Beatles è, perlopiù, quello di un chitarrismo delicato e
sobriamente intelligente, assolutamente peculiare: spesso una cascata di
note nitide e fresche, come in All My Loving oppure in A Hard Day’s
Night, limpidi concentrati di purezza.
Nondimeno, anno dopo anno e disco dopo disco, la personalità artistica
di George si staglia sempre di più: sin dall’inizio Harrison riesce a
non scrivere «alla Lennon-McCartney», e non deve esser stato facile.
Andiamo al glorioso 1966: Revolver, il grande album della svolta dei
Beatles, quello che preconizza il futuro e che proietta definitivamente
il rock in un altrove sonoro mai sentito prima, si apre con un ritmo
duro, staccato, implacabile, inedito. Era Taxman. La firma, inaudita per
l’incipit di un disco dei Beatles, era Harrison. Poche tracce dopo,
ecco Love You To: e dalla piovigginosa Londra in bianco e nero si apre
uno squarcio sconvolgente e dolcissimo in un mondo lontanissimo e
coloratissimo, l’India.
Sono un’infinità gli ambiti nei quali i Beatles, artisticamente, sono
stati i primi: i primi a farsi crescere i capelli, i primi a usare un
quartetto d’archi, i primi a fondere generi musicali diversi, i primi
di questo o di quello. In questo campionario di primati, quelli lanciati
da George sono tantissimi. Sì, oggi potremmo dire che è stato il buon
George, il timido George, ad inventare quello che ai nostri giorni viene
chiamata «world music». È stato lui a trascinare l’India (tramite
la sua conoscenza con il grande compositore e suonatore di sitar Ravi
Shankar) nell’Occidente materialista, ad aprire una porta culturale
che nessuno - e vieppiù in un campo che era considerato d’intrattenimento
- avrebbe potuto immaginare. È stato lui a trascinare gli altri tre
Beatles in India, così come è stato lui a fare le prime
sperimentazioni di musica elettronica, nel primo album solista
realizzato da un beatle, Wonderwall, nel ‘67, così come era stato lui
(si dice) il primo dei quattro ad aver fatto uso di droghe lisergiche
(ma questa è un’altra storia, forse).
A suo modo emblematica. la storia di George. Provateci voi a proporre
dei pezzi a dei tizi che ti aprono dinnanzi l’universo con A Day in
the Life oppure con la fluviale immensità di Abbey Road. Ebbene, lui ci
è riuscito: si presenta, un giorno, dagli altri scarafaggi e li
schianta lì un demo, con lui da solo alla chitarra. Era While My Guitar
Gently Weeps, 1968, White Album. Le parole del titolo (mentre la mia
chitarra gentilmente piange), l’aveva prese a caso da un dizionario.
La musica? Evita tutti i geniali trucchi della cabala Lennon-McCartney,
la sua voce è rarefatta e dolce, l’arpeggio è maliosamente obliquo,
la canzone è semplicemente perfetta così com’è. Nondimeno, i
Beatles, tutti insieme (e con l’aiuto di Eric Clapton, che consegna
alla storia uno degli assoli più lancinanti del rock), ci lavorano
sopra facendone una grande sinfonia del dolore. Something, che trovò
posto su Abbey Road, inizialmente era stata scartata da John e Paul:
folgorante e orgogliosa - in qualche modo sentimentalmente distaccata
dal grande fervore di quegli stessi anni sessanta che lo stesso George
aveva contribuito a inventare - da subito si è attestata come una delle
grandi canzoni-icona dei Fab four, a fianco di pezzi come Yesterday o
Strawberry Fields Forever.
Ma all’orizzonte le nubi si addensano. C’è una scena, nel
film-testamento Let It Be, che illustra alla perfezione le tensioni e l’irritazione
di George per la strabordante frenesia creativa di McCartney: «E
dimmelo cosa devo suonare, Paul. Farò qualsiasi cosa che vuoi. Anzi, se
vuoi non suono proprio». Abassato il sipario, nel ‘70, sulla più
grande avventura musicale del secolo, con milioni di fan sparsi sul
globo terracqueo a piangere lacrime sincere, è George il mistico,
George l’umanitario, il timido George a prendere la storia per le
corna: prima l’imponente e straordinario album triplo All Things Must
Pass e poi con il grande Concerto per il Bangla Desh al Madison Square
Garden, antesignano di tutti i Live Aid benefici a venire. Il disco
sembra una liberazione, è un fiume di idee, un capolavoro elegante e
sfaccettato, prodotto con intelligenza diabolica e orientale distacco,
dotato di un andamento, di un passo, saggio e deciso, che proietta il
solista Harrison nel tempo senza tempo dei capolavori che non temono la
storia. Il concerto per il Bangla Desh, da parte sua, mentre Lennon si
dilettava con i bed-in e McCartney si era ritirato in campagna a
leccarsi le ferite del dopo-Beatles,trasforma l’impeto umanitario dell’èra
flower power in azione pragmatica, in azione e, se vogliamo, in
politica.
Niente male, per uno che era «l’eterno terzo». George Harrison ha
vissuto tutte le sue stagioni con una grande, immensa, dignità: cosa
tanto più difficile se si considera il peso di un successo
irraccontabile, arrivato quand’era poco più che un ragazzino. Gli
anni settanta e ottanta passano con una manciata di album più o meno
riusciti, ma sempre dignitosi (cosa non necessariamente vera per Paul,
John & Ringo). È abbastanza rivelatore del carattere di George il
fatto che probabilmente senza di lui il mondo non avrebbe conosciuto l’iconoclasta
furia comica dei Monty Python: nel ‘78 era diventato produttore
cinematografico, con la «Handmade Films», a cui dobbiamo l’uscita di
Brian di Nazareth e, successivamente, di un film leggendario come Brazil,
di Terry Gilliam. Altrettanto, seppur sommessamente, divertita la
collaborazione con i vecchi compari Bob Dylan, Tom Petty, Roy Orbison e
Jeff Lynn nei Travelling Wilburys, così come il beffardo successo di
Cloud 9, l’album che nell’87 lo fece ripiombare, per lo stupore di
molti, sulla ribalta. Nel quale spiccava un pezzo dedicato alle antiche
glorie a fianco dei Beatles: When We Was Fab. Che sta a significare:
«quand’eravamo favolosi». Sotto i baffi, un sorrisetto ironico:
oibò, abbiamo cambiato il mondo. E allora? E noi, di quel sorrisetto
gli saremo grati. Sempre.
Roberto
Brunelli – L'UNITA' – 01/12/2001
E'
MORTO GEORGE HARRISON
George
Harrison è morto il 2911.2001 alle
13.30 ora di Los Angeles: lo ha detto l'amico Gavin De Becker all'Associated
Press. "È morto con un pensiero in testa" ha detto De Becker,
"amiamoci l'un l'altro". Con
l'ex Beatle c'erano la moglie Olivia e il figlio Dhani, 24 anni.
George
Harrison è il primo dei Beatles a morire di morte naturale. Con la sua
morte della rock band di Liverpool restano soltanto Paul McCartney e
Ringo Starr. John Lennon venne ucciso nel 1980, colpito da un fan
davanti al Dakota Palace, la sua residenza neyorkese davanti al Central
Park.
Nel
1988, quando seppe di essere malato di cancro alla gola, Harrison disse:
"è una cosa che serve a ricordarmi che può accaderci di
tutto". Non sapeva neppure quanto avesse ragione. L'anno dopo venne
assalito da un uomo e accoltellato diverse volte ma riuscì a
sopravvivere. Uno
dei suoi primi dischi da solista si intitolava "All Things must
Pass"
Nato
il 25 febbraio del '43, George era il più giovane dei Beatles. Proveniva
da una famiglia della working class di Liverpool: suo padre era stato
caposteward sulle vecchie navi di linea inglesi, poi autista e infine
sindacalista. Fu la madre ad aiutare George a inseguire la sua
aspirazione artistica: era il più piccolo e il più timido dei quattro
figli e la mamma gli diede tutto il sostegno di cui era capace perchè
imparasse a suonare bene la chitarra.Al Liverpool Institute conobbe Paul
McCartney, più grande di lui di un anno: tutti e due suonavano la
chitarra a scuola, tenevano concerti improvvisati di rock'n'roll
americano. Fu proprio grazie a Paul che George entrò nei Quarry Men, il
gruppo da cui nacquero i Beatles: Paul suscitò la curiosità di Lennon
dicendogli che George era più bravo di lui come chitarrista. Come prova
della sua abilità eseguì al cospetto di Lennon un brano rockabilly di
Bill Justis, 'Raunchy'. George non fu però invitato inizialmente a
unirsi al gruppo perchè considerato troppo giovane per essere preso sul
serio ma seguì passo passo John per un anno intero, come un allievo
segue il maestro, alle prove ma anche al cinema. Aspirava ad essere un
dandy e solo all'inizio del 1960 riuscì ad entrare ufficialmente nei
Beatles, proprio quando stava per lasciare la scuola e lavorare come
aiuto elettricista in un grande magazzino.
RED
RONNIE INTERVISTA GEORGE HARRISON
Con
la morte di George Harrison sono definitivamente morti anche Beatles. La
scomparsa di John Lennon, avvenuta in modo improvviso e violento, aveva
lasciato "vivo" John. E’ diventato un’icona, e per questo
immortale. Quindi pareva che, da un momento all’altro, ricomparisse
per riformare un gruppo che tutti vorrebbero rivedere insieme. Adesso
no, ora la favola del complesso più popolare al mondo è
definitivamente chiusa.
Geroge
era il timido dei quattro, quindi anche quello più sensibile. Fu lui a
provocare la svolta musicale dei Beatles, quella che portò al
capolavoro "Sgt. Pepper". George si lasciò convincere da
Donovan e portò i Beatles nel famoso viaggio in India, che trasformò
la musica del gruppo. George non solo fu affascinato dal sitar, ma anche
dalle filosofie orientali, che in futuro verranno abbracciate anche
dagli altri due più famosi Beatrles: John Lennon "sposerà"
il pacifismo e McCartney il vegetarianesimo.
Ho
incontrato George Harrison a Londra, all’83 di Baker Street. Era l’8
dicembre 1990, esattamente dieci anni dopo l’uccisione di John Lennon.
Era appena uscito "Nobody’s child", il secondo album dei
Traveling Wilburys, il supergruppo che George aveva costituito con Bob
Dylan, Roy Orbison, Tom Petty e Jeff Lynne.. Abbiamo iniziato parlando
di Formula 1, di cui Harrison era fan scatenato. Mi aveva chiesto il
perché del nome "Red Ronnie" e gli avevo raccontato che era
un omaggio al pilota Ronnie Peterson, scomparso a Monza nel 1978, in un
incidente "quasi voluto" da Colin Chapman, il patron della sua
scuderia, la Lotus. Peterson avrebbe meritato di vincere almeno due
mondiali, uno in cui ha dovuto lasciar passare il compagno Emerson
Fittipaldi e l’altro in cui ha fatto lo stesso con Mario Andretti…
-
Era il mio eroe perché era contrarissimo alla politica nelle corse.
Voleva solo correre e lui era il più veloce.
"Effettivamente
era il più veloce. Ha spinto Andretti tutto l'anno e l'ha superato
nelle qualifiche. E’ rimasto indietro soltanto per via del suo
contratto. E la cosa più terribile è che a Monza gli hanno dato la
macchina vecchia, altrimenti avrebbe potuto.."
-
So tutto perché ero in Austria due settimane prima che vincesse la
corsa. L'ho incontranto per fargli un intervista, e gli ho detto:
"Sarai costretto ad arrivare secondo". Lui mi rispose:
"Aspetta domani e vedremo se vincerò oppure se arriverò secondo
nel campionato mondiale". Il giorno dopo, nel Grand Prix d'Austria,
ha sorpassato subito nella prima curva e ha vinto. Quindi a Monza gli
hanno dato la macchina sbagliata..
"Sì,
gli hanno dato la macchina vecchia, ma la cosa peggiore è stato, quando
ha lasciato il pit per fare il giro di riscaldamento prima della corsa,
che Colin Chapman disse con qualcuno (perché un mio amico ha sentito
quello che diceva): "Ecco Ronnie nella Mclaren dell'anno
prossimo"; perché doveva unirsi alla Mclaren l'anno
seguente".
-
La Lotus lo ha boicottato.
"Sì,
è stato un gran peccato".
-
Io avevo un amico dentro l'ospedale e per telefono mi teneva al corrente
di tutto quello che succedeva. Barbara non voleva che Colin Chapman e
Andretti visitassero Ronnie all'ospedale.
"E’
stata una cosa terribile".
-
Tu hai fatto un disco per la lotta contro il cancro, dopo la morte per
tumore del pilota Gunnar Nillson.
"Esatto.
Con Gunnar Nillson. Ed era dedicato a Ronnie Peterson. S'intitolava
"Faster" (più veloce). Avrebbe potuto facilmente vincere
quell'anno. Era molto più veloce di Andretti. Una volta venne a casa
mia con Mario; erano buoni amici. Lui era un vero gentleman: l'accordo
era che stesse dietro ad Andretti per lasciarlo vincere e ha mantenuto
la parola".
-
George, perché suoni ancora, soltanto perché ti piace?
"Adesso
sì, bisogna far pur qualcosa della propria vita ed è una cosa che io
so fare. Se non facessi musica..non ne faccio troppa, però mi piace
fare un disco ogni anno o due. Mi dà qualcosa da fare".
-
Per me i Travelling Wilburys sembrano 4 ragazzi molto famosi senza
problemi che si ritrovano come vecchi amici e suonano senza essere in
competizione soltanto per divertirsi.
"Esatto.
E’ proprio questa la sensazione. Quando scriviamo i pezzi, vengono
fuori molto rapidamente da tutti e 4. Inoltre è musica soltanto per
divertimento ma che sembri vero rock'n' roll, in contrasto alla musica
di oggi che è tutta computerizzata. Quindi fondamentalmente per farla
sembrare vera e per divertirci".
-
Adesso sei in rapporti amichevoli con Bob Dylan e mi sembra di capire
che fra i Beatles eri quello più vicino a Bob Dylan. Dico bene?
"Si.
Tutti noi abbiamo conosciuto Bob nel lontano 1964, ma negli anni l'ho
rivisto qualche volta. John lo conosceva un po’, ma io lo vedevo una
volta ogni 2 anni e ormai è un bel pezzo che lo conosco. Naturalmente
ha fatto il concerto per il Bangladesh con me e inoltre ho scritto un
paio di motivi insieme a lui negli anni '60".
-
Il concerto per il Bangladesh, che tu hai organizzato, è stato il primo
grosso concerto per beneficenza. E’ stato molti anni prima del Live
Aid che oggi è così conosciuto. Perché hai fatto questo concerto del
Bangladesh? So che c'erano problemi di soldi. Dico bene? Nelle cose che
tu e tua moglie fate adesso curi tutti gli aspetti.
"Bisogna
ricordarsi che nel lontano 1971 nessuno aveva mai fatto qualcosa del
genere ed era difficile sapere come gestirla. Quello che si dovrebbe
fare è di istituire un fondo di beneficenza prima della manifestazione.
Così tutto filerebbe liscio. Però è successo che, facendo le cose
così di fretta, il fondo di beneficenza è divenuto effettivo soltanto
dopo il concerto. E tutto sarebbe andato per il meglio se non fosse
stato per un funzionario della finanza americana che insisteva sulle
nostre intenzioni di farlo per guadagno. Tutto quello che voleva lui era
il 50% dei profitti. Di conseguenza abbiamo nominato degli avvocati che
hanno combattutto con l'ufficio delle imposte americane per 12/13 anni.
Alla fine abbiamo dovuto lo stesso dargli una percentuale dei soldi che
abbiamo raccolto, giusto per chiudere il discorso. Però abbiamo
raccolto parecchi soldi, qualcosa come 14 milioni di dollari, che non
era male per quell'epoca, ma niente in confronto a quello che si può
raccogliere oggigiorno. Se non fosse stato per quell'esperienza forse
sarebbe stato più facile anche per altri".
-
Se John Lennon fosse stato ancora vivo magari i Beatles potevano
rimettersi insieme per il Live Aid?
"Non
lo so. Chi può saperlo? Se John fosse vivo le possibilità sarebbero
maggiori. Ma avevamo deciso di non fare più concerti dei Beatles. Anche
quando John era ancora vivo ci offrivano delle cifre pazzesche, l'ultima
offerta è stata di 84 milioni di dollari (180 miliardi di lire) per
rifare lo spettacolo dei Beatles. Ma però non non volevamo farlo".
-
Perché?
"Perché
eravamo già stati i Beatles e il gruppo era stato sciolto. A
quell'epoca poteva sembrare che si facesse soltanto per il clichè o per
i soldi. Adesso, che è passato tanto tempo, forse sarebbe bello farlo
soltanto per divertimento ma è impossibile perché lui comunque non
c'è più".
-
Avevate deciso di non fare più concerti dal vivo ancora prima di
sciogliere il gruppo, come mai?
"Perché
negli anni '60 andare in tournée era diventata una cosa troppo
difficile. Era semplicemente troppo faticoso. Non riuscivamo a sentirci
mentre suonavamo e la musica è peggiorata parecchio. Oltre a questo,
eravamo ad un punto in cui i nostri dischi erano troppo elaborati, molto
più dei primi, da poterli riprodurre in 4 sul palcoscenico. Ma
principalmente è stato perché dovunque andavamo c'erano disordini.
Oppure perché ci trovavamo in mezzo a disordini studenteschi in
America, disordini razziali nel sud. Quando andammo in Canada c'erano
disordini tra la gente di lingua francese ed inglese. Lo stesso in
Giappone. Dovunque si andava ci si imbatteva sempre nei problemi
politici del luogo parallelamente alla Beatle-mania ed era terribile,
era pericoloso".
-
Adesso tu e naturalmente tua moglie siete coinvolti in un progetto per
aiutare i bambini rumeni, ma tu ti accerti personalmente che tutto
quello che fate arrivi a destinazione, dico bene?
"Ancora
una volta, prima di tutto bisogna ottenere l'autorizzazione appropriata
dal governo, cosa che hanno fatto prima di poter agire. L'altra cosa è
che attraverso un giornale inglese, il Daily Mail, il paese ha
contribuito con più di un milione di sterline, quindi parecchi soldi.
Dunque, i soldi non vengono spediti in Romania. I rumeni se ne
interessano molto poco. In questo momento, quello che lei cerca di fare
è di riuscire a convincere il governo e il popolo rumeno di riconoscere
i propri problemi. Il resto del mondo sta cercando di aiutare, ma il
popolo rumeno non se ne interessa. Però con i soldi raccolti in
Inghilterra comperano i camion principalmente per fornire quei beni che
servono ai bambini e agli orfanotrofi. Cose semplici, come sistemare le
cucine, i bagni, i gabinetti. Prima c'erano 2 bambini per ogni lettino,
quindi fornire più lettini, più vestiti, cose del genere sai, migliori
comodita'. Così comprano il materiale in Inghilterra e i nostri
collaboratori vanno là con i camion, passano dal primo orfanotrofio,
rifanno l'impianto elettrico, l'impianto idraulico per i bagni, montano
piastrelle nuove nei bagni, sai, tutte quelle cose che si danno per
scontate. Per certi versi vivono ancora in condizioni da inzio secolo.
In questo modo i soldi vengono spesi bene".
-
Oggi ho comprato questo libro: "The Quiet One (quello tranquillo),
la vita di George Harrison".
"Io
non ne so niente. Non ha niente a che fare con me. Infatti non dovresti
neppure pubblicizzarlo. Non l'ho letto, non conosco l'uomo che l'ha
scritto, non so cosa racconta, non ne so se è bello o brutto".
-
Ma non sei curioso di leggere un libro che parla di te?
"Solo
perché me l'hai fatto vedere. Ci sono già stati tanti libri sui
Beatles e anche un paio su di me. Diventerei matto se leggessi tutta
questa roba, essendo per la maggior parte cose che hanno sentito dire o
preso dai giornali, oppure cose che ti hanno visto fare nelle
interviste. La maggior parte dei libri vengono compilati dalle
interviste che hanno visto o raccolto negli anni dai giornali e riviste.
Non mi dirà niente che io non sappia già di me stesso. Dipende anche
dall'atteggiamento che decide di assumere l'autore. Di solito, per
spillare i soldi agli editori, ci vogliono delle porcherie. E’ questo
che succede di solito quindi non ha senso leggerlo per me. Mi farebbe
solo arrabbiare e non ne vale la pena".
-
Hai letto il libro di Albert Goldman su John Lennon?
"No.
Hanno riportato un pezzo sul giornale e ne ho letto qualche pagina, ma
non mi piace quell'uomo. E’ un villano. E’ lo stesso che ha scritto
il libro su Elvis. L'unica cosa che gli interessa è dare scandalo per
guadagnare molti soldi. Perché c'è gente che ama leggere le porcherie,
non importa se sono vere o false. Piace anche perché lo possono
riportare a puntate nei giornali per vendere più copie".
-
Secondo te una figura pubblica come te, John Lennon, Eric Clapton, Jimi
Hendrix, deve essere giudicata soltanto per la sua musica e per quello
che produce o anche in base alla vita privata?
"Forse
per entrambe, ma non è giusto giudicare una persona fino alla fine. Sai
com'è, un giorno potremmo fare qualcosa di grandioso e il giorno dopo
un grossissimo errore. La vita ha degli alti e bassi ed è una ruota che
gira e credo che la fine della vita di una persona è forse un momento
migliore per giudicare come funzionava. Io la penso così ma, a volte,
specialmente coi Beatles, fanno film, serie Tv e scrivono libri come se
fossimo gia' morti. Una volta aspettavano che la gente morisse prima di
scrivere certi racconti. Adesso lo fanno in qualsiasi momento".
-
Oggi ad esempio, io compro cose del genere perché mi piace veder le
foto. Quando vedi cose del passato ti danno fastidio?
"Le
cose caratteristiche di questo sono le foto, purtroppo copie delle copie
delle copie delle copie. Diciamo che potrei prendere questo,
fotografarlo e fare altre copie. Vedi, sono tutte vecchie fotografie
copiate e rubate. Io non riesco più a rapportarmi ai Beatles. Quello
per me è come vedere i Monkees o i Bay City Rollers. Non significa
niente per me".
-
Ma voi eravate i primi.
"Veramente
no. Noi non siamo stati i primi. All'inizio facevamo soltanto la musica
degli artisti che piacevano a noi come Chuck Berry, Bo Didley, ecc..
Tutti devono partire da qualcun'altro. Nessuno è completamente
originale. E i Beatles divennero molto originali grazie alle loro
canzoni, ma abbiamo iniziato semplicemente tentando di copiare Buddy
Holly, Little Richard e altri come loro".
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-
Avevate un po’ di controllo o eravate come in un sogno?
"Si,
è successo tutto così in fretta che..".
-
Ad esempio, ti ricordi quando facesti questa foto?
"No,
lo posso indovinare in base ai vestiti e alla pettinatura. Sarebbe lo
stesso per te. Se io avessi delle foto di te a 18 anni nel mio album non
sarebbe diverso, è soltanto che io ero più esposto al pubblico di te,
ma di fatto siamo tutti uguali".
-
Perché tua moglie Patti non ha cercato di distruggere i Beatles come
fecero Linda e Yoko?
"Non
l'ho mica detto io. Perché non l'ha fatto? Non lo so. Ti do il suo
numero di telefono così glielo chiedi tu. Io non lo so".
-
No, no. Credo che tutti ce l'abbiano con Yoko Ono. Questo lo dico io non
tu. Tu non stai dicendo niente.
"Sì,
ma non credo che questo sia molto giusto. Molti fattori contribuivano a
come eravamo messi a quell'epoca e non era soltanto per colpa di Yoko.
19.11 Noi ci stavamo dividendo comunque. Eravamo arrivati ad un punto in
cui nei Beatles ci si stava stretti in 4. Poi oltre ad altre cose è
morto anche il nostro manager e noi siamo molto cambiati e penso che
forse Yoko abbia aiutato a sollecitare la decisione di John, ma non
credo che sia giusto dare la colpa a lei per la totale distruzione dei
Beatles".
-
D'accordo, ma quando oggi vedi quello che ha fatto Yoko Ono nel senso
che da un concerto dei Beatles ne ha fatto un concerto di John Lennon e
vedi solo Yoko con lui.
"Non
lo so, io faccio parte dei Travelling Wilburys".
-
Non potrai mai fare una tournée; è soltanto una cosa che fai per
divertimento. Potresti fare una tournée con i Travelling Wilburys? No,
siete delle personalità troppo importanti...
"Anche
i Rolling Stones sono personalità troppo importanti ma loro hanno fatto
una tournée. Se volessimo potremmo farla..".
-
La state organizzando?
"No,
il problema più grosso è che né a Jeff Lynne né a me piace essere
guardati".
-
Cosa?!?
"Sai
a me non piace essere su un palco con tanta gente che mi guarda.
Semplicemente non mi piace. Preferisco la mia intimità. Mi piace l'idea
di suonare in un gruppo ma non mi piace l'idea di un mucchio di gente
che mi guarda. Secondo me, per essere così in uno spettacolo, in fondo
bisogna essere un esibizionista per essere una star o quello che la
gente definisce una star".
-
Strano sentire questa notizia da te. Fin dall'inizio hai intrapreso la
carriera sbagliata.
"Forse
ne ho avuto fin troppo negli anni '60. Mi piace l'idea di suonare in un
gruppo che si prospetta divertente. Ma ci sono troppi altri problemi. Il
più importante è che per fare una tourneè ci vuole molto tempo per la
preparazione. Poi, già che la fai, tanto vale farla grande. Finisci per
fare il giro del mondo che t'impegna per 9 mesi all'anno. Ma cosa
succede al resto della tua vita? Io ho una mia vita, come ce l'hai tu.
Sarebbe come se ti mettessero in televisione per un anno intero senza
poter ritornare a casa, a vedere la tua famiglia e fare tutte le altre
cose che ti piacciono. A me non piace particolarmente questa idea. Ma
chissà, forse un giorno mi sveglierò con la pazza idea di decidere di
fare una tournée".
-
Sei profondamente legato alla tua casa?
"Alla
mia casa? Soltanto perché ci abito".
-
Ti piace perché ovviamente vivrai in mezzo agli alberi e alla natura?
"Si,
mi piace essere a casa anche se qualsiasi casa mi andrebbe bene purchè
abbia dello spazio, la mia intimità e dell'aria buona. Mi piace vivere
fuori città; la città non mi piace. Alberi e cose del genere mi
piacciono".
-
Mi dai l'impressione di essere un uomo a cui piace camminare, pensare
molto e che ama la solitudine.
"Mi
piace la tranquillità e i momenti di calma. A volte mi piace stare
solo, ma quasi sempre mi piace stare con amici. Sono un gregario".
-
In questo periodo è tornato di moda anche il simbolo della pace.
"Quello
rimane sempre un ottimo simbolo".
-
Credi che i simboli possono aiutare ad ottenere la pace? Pensi che i
padroni della guerra o del potere stavano attenti quando i Beatles o
John Lennon parlavano di pace. O quando se ne parla adesso. Pensi che
possa aiutare o che loro se ne interessano?
"Credo
ci sia stato un tempo in cui la gente l'ha recepito. Sì, credo che ci
siano molte brave persone al mondo che amano la pace. Chiunque però
potrebbe prendere quel simbolo e trasformarlo in qualcosa di negativo se
volesse. E’ come il simbolo usato da Hitler, la svastica, che oggi
tutti vedono come una cosa negativa. Ma Hitler aveva rubato la svastica
dall'India e ancora oggi, se ci vai, vedi le svastiche all'interno dei
templi. E’ un simbolo antico, buono e positivo. A Hitler piaceva come
marchio. Come si usa, ad esempio, sui dischi, logo Travelling Wilburys.
E’ qualcosa che cattura l'attenzione. Hitler avrà pensato:
"Quello è un bel marchio da usare". Adesso per colpa sua è
visto come un simbolo del male. Quindi potresti anche prendere il
simbolo della pace e darlo a un tizio come Hitler. Non è il simbolo di
per sé, ma le azioni che lo accompagnano che sono importanti".
-
Avete lanciato "She’s my baby", una bella canzone d’amore.
"Siamo
passati tutti dalla fase complicata e anche i Beatles hanno scritto dei
testi molto complicati, anche Bob Dylan. E’ bello sedersi a scrivere
qualcosa di semplice, è ingenuo".
-
Ma i Beatles scrivevano delle canzoni molto complicate.
"Si,
alcune erano complicate".
-
Avete scritto "Revolution". E oggi "Revolution" è
usato come sigla di una pubblicità
"Si,
questo è successo per un po’, poi l'abbiamo fatta interrompere".
-
Come mai questo è possibile?
"E’
possibile perché le edizioni del disco sono state prese quando eravamo
tutti molto giovani, noi abbiamo firmato le edizioni ma nessuno ci ha
detto: "Adesso vi rubiamo i diritti d'autore". All'epoca le
edizioni furono vendute a qualcun altro che di conseguenza le ha
rivendute e così via. Quindi la gente che ora ne ha il possesso dice
che può fare quello che vuole con le canzoni, pur di fare i
soldi".
-
Ma adesso il proprietario è Michael Jackson. E perché Michael Jackson
fa questo? E’ un'artista pure lui.
"Gli
piacciono anche i soldi. Ma comunque noi l'abbiamo interrotta perché
l'editore può usare la musica come vuole, però non può usare il
disco. Adesso questo è tutto a posto e non dovrebbe più succedere,
almeno non possono usare i nostri dischi per fare delle pubblicità. Ma
se io voglio dare una delle mie canzoni a qualcuno per fare una
pubblicità televisiva quello va bene. Ma quello che è successo, di
usare la musica dei Beatles, non è stato corretto".
-
Per esempio, tu hai scritto "Something", hai diritto su
questa, hai il potere di decisione su queste?
"Sì,
ce l'ho, per esempio, se tu volessi fare una pubblicità. Infatti la mia
canzone più richiesta per questo scopo è "Here comes the sun".
Per esempio, ogni anno riceverò almeno 5 richieste per usarla negli
spot pubblicitari. Io sono restio a fare questo perché quando vedo alla
Tv uno spot, una canzone per esempio come "California girls"
dei Beach Boys, fa sì che la canzone sia meno importante e si
svalorizzi. Se volessi potrei dire a qualcuno di usare una mia canzone,
gli posso dare i diritti d'autore e loro la reincidono ma non gli darei
il disco dei Beatles per fare ciò".
-
Di tutte le canzoni che tu hai scritto qual'è quella di cui sei più
orgoglioso?
"Penso
nessuna. Mi piacciono canzoni diverse per motivi diversi, non mi viene
in mente niente in questo momento. Di solito mi piace l'ultima, quella
che ho scritto di più recente. Le ultime canzoni sono sempre le
migliori. Allora direi, adesso come adesso... Ci sono delle canzoni su
"Cloud Nine" che mi piacciono... "The devil
radio"... Ma è ovvio che le due canzoni che ho scritto io, per
quanto riguarda il successo di paroliere, che hanno fatto più impatto
sono "Here comes the sun" e "Something". Ma quelle
canzoni... Il successo di una canzone non dipende da quante copie ne
vendi, ma da quanta gente la canta, dev'essere una canzone che tutti
vogliono cantare. Per esempio, di "Something" ci saranno 150 o
200 o forse 300 versioni. Questo è indice di quanto è popolare una
canzone. Quando questa canzone è usata in uno spettacolo da gente come
James Brown e Smokey Robinson and the Miracles o anche Liberace e Frank
Sinatra. Se viene cantata da tutti questi diversi artisti vuol dire che
questa è una canzone di successo".
-
Ma se la tua canzone viene usata da un'artista che non ti piace oppure
da un'artista di cui l'ultimo lavoro non ti piace..?
"Ma
non importa, questo non importa. E’ sempre bello se un'artista incide
una versione della tua canzone, anche se non ti piace è sempre un
complimento".
-
Certo. Adesso cosa fai a parte riposarti? I Travelling Wilburys sono
finiti e non ci sono tourneè in vista.
"Ma
no, i Travelling Wilburys non sono finiti altrimenti non sarei su questa
sedia".
-
Ma per te è finita, adesso inizia per noi. Noi l'ascoltiamo ma per te
è finita. Non c'è una tournée in vista quindi a parte il riposo cosa
fai?
"Ho
molte cose da fare".
-
Cosa?
"Ho
una casa cinematografica. M'impegna molto. Poi un sacco di cose. Tu hai
detto che gli Wilburys... Il disco è finito ma dobbiamo fare dei video,
pantaloni Travelling Wilbury's che dobbiamo far fare, dei tavoli
Travelling Wilburys insomma il commercio dei Travelling Wilburys."
-
Quando sei a casa suoni la chitarra, scrivi testi?
"Quando
sono a casa suono la ukulele perché è piccola ed è facile da portare
in giro. Mi piace la ukulele. Suono un po’ la chitarra ma di solito la
suono soltanto quando sto scrivendo una canzone oppure quando sto
facendo un disco".
-
Come produttore di film hai prodotto "Shangai surprise" con
Madonna. Allora hai conosciuto Madonna, anzi conosci Madonna molto bene?
"No,
io non l'ho conosciuta molto bene. L'ho conosciuta per un po’, 6
settimane all'incirca. Mi è bastato".
-
E’ difficile avere a che fare con una diva dei nostri giorni?
"Allora
lo era. Si era appena sposata con Sean Penn e litigavano sempre. Questo
ha reso difficile il lavoro che dovevamo fare in quel momento".
-
Tu facevi da mediatore tra di loro?
"Un
po’."
-
Oggi è l'8 dicembre 1990 e sono 10 anni che è stato ucciso John Lennon.
Quando hai ricevuto la notizia che è stato ucciso?
"Saranno
state un paio di ore dopo che è stato ucciso. Qualcuno mi ha chiamato
durante la notte, anzi di prima mattina perché per me saranno state le
4 o 5 di mattina. Quando tutti hanno sentito la notizia".
-
Cos'hai fatto, ti sei rimesso a dormire? Non lo so, hai pianto?
"Mi
sono rimesso a dormire, pensando che fosse solo ferito. Ma...".
-
Eri ancora in buoni rapporti con John, con Paul e Ringo allora?
"Non
l'avevo visto da tanto, l'ultima volta sarà stato un anno o due prima
della sua uccisione. Sì, c'era un rapporto. Lui abitava a New York ed
io in Inghilterra quindi non ci vedevamo molto."
-
Faccia a faccia con la morte di un amico cosa senti? Cosa senti verso la
morte?
"E’
lo shock la cosa più brutta. In un certo senso la morte è quella che
succede a tutti, è il modo in cui la morte arriva.. Per John non è
stato un modo molto bello per morire. Ma la morte in sè è come la
vita, è l'altra faccia della moneta, è l'altra meta'. E’ come il
giorno e la notte, la vita e la morte, è tutto la stessa cosa".
-
Ma dopo la notte c'è un altro giorno. Quindi dopo la morte c'è
un'altra vita?
"Sì.
E’ un pezzo che non leggi la Bibbia eh!".
-
La reincarnazione?
"Sì.
Veramente l'hanno tolto quel pezzo dalla Bibbia per assecondare la
politica del Cristianesimo. Ma Cristo ne ha parlato, della
reincarnazione".
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-
Immagino che ti chiederanno tutti sulla morte di John Lennon, appunto è
la mia ultima domanda: John era veramente un bravo ragazzo e tutte le
cose che ha fatto per la pace sono state utili? Hanno veramente aiutato
la causa per la pace?
"Si,
credo che abbia aiutato certe persone, ma è ovvio che non ha aiutato
tutti, ma è stato un esempio. Come uno qualsiasi..Ma lui era molto
onesto sulle cose che pensava, e una di queste era la pace. Come l'ha
fatto o almeno come ha cercato di farlo coi bed-in, proteste pacifiste a
letto, era una specie di presa in giro. Era sincero a proposito della
pace e questa sincerità si è comunicata a molta gente, ma non
tutti".
-
Senz'altro sai che si dice che c'era un complotto della Cia per
ucciderlo?
"Non
penso, ma chissà. Per capire, sai troppo presto che è inutile provare.
Bob Dylan l'ha detto. Chissà forse, non si sa. Sapere quello che è o
quello che non è".
-
Spero di vederti dal vivo così potrai soffrire di nuovo davanti a un
pubblico.
"Metterò
un sacchetto in testa".
-
Potresti essere il tipo timido che sta sempre nel retroscena.
"Allora,
il Wilbury tranquillo".
-
Tu chiedi a chi fa le luci di non puntarle addosso a te.
"Sì,
luci nere".
-
Sì, così stai nell'ombra. Ti sentono suonare l'ukulele.. Perché è
facile da portare in tourneè.
"Forse
si. Ciao"
Ciao
George…. |
CONCERT
FOR BANGLA DESH
di Danilo Cerreti
Il Concerto
Friends
as George told you just now.....
così esordiva Ravi Shankar il 1° agosto 1971 al Madison Square Garden di New
York dove si svolse "The Concert for Bangla Desh" organizzato da
George Harrison per aiutare la popolazione di quel paese stremata da guerra e
fame.
Continuava Ravi …suoneremo con strumenti indiani musica indiana. Questa è un
tipo di musica che ha bisogno di essere ascoltata con un po' di concentrazione.
Vorrei chiedervi di avere un po' di pazienza, so che siete molto impazienti di
ascoltare le vostre star preferite che suoneranno nella seconda parte del
concerto …. Questo speciale evento in questo storico programma contiene un
messaggio per una situazione molto seria che sta accadendo in Bangla Desh …noi
non facciamo politica, siamo artisti ed attraverso la nostra musica proviamo a
farvi capire l'agonia ed il dolore di un gran numero di persone in Bangla Desh
ed anche dei numerosi rifugiati che arrivano in India…
Suoneremo una melodia indiana e poi suoneremo la Fortuna del Bangla Desh…
Ora come usuale voglio chiedervi di astenervi dal fumare durante l'esecuzione
del programma…
Fu un evento memorabile, al quale parteciparono nomi altisonanti tra cui Eric
Clapton, Bob Dylan e Ringo Starr.
George chiese anche a John Lennon e Paul McCartney di partecipare ma, da quanto
dichiarato dallo stesso George, "John era introvabile e Paul non se la
faceva proprio più con noi". Va ricordato che il Concerto per il Bangla
Desh è stata la prima manifestazione musicale al mondo realizzata a scopo di
beneficenza: purtroppo, buona parte dell'incasso del concerto ebbe una
destinazione ignota.
Certamente il business si realizzò con la produzione dei filmati e dei dischi
tuttora in vendita dopo trenta anni.
Sul palco c'era uno schieramento di solisti d'eccezione e sessionmen di grande
valore: oltre a Eric Clapton, Bob Dylan, Ringo Starr ed ovviamente a George
Harrison, parteciparono Billy Preston all'organo, KlausVoorman al basso, Jesse
Ed Davis alla chitarra, Leon Russell al piano, il gruppo Badfinger, la sezione
fiati diretta da Jim Horn e due batterie con Ringo Starr e Jim Keltner.
Il tutto sotto la sapiente regia di George.
La prima parte del concerto dedicata alla musica indiana, con un quartetto
guidato da Ravi Shankar al sitar e con Ali Akbar Khan al sarod, fu molto intensa
e coinvolgente e ancora oggi si ascolta con grande emozione.
Uno dei meriti del concerto fu quello di far conoscere al mondo questo
eccezionale artista, Ravi Shankar, ed il suo strumento, il sitar, che è stato
poi suonato da George Harrison in diverse occasioni.
L'interesse per la cultura indiana rappresentò in questo frangente uno dei
momenti più coinvolgenti per George. I frequenti riferimenti al pensiero
indiano, alle sue divinità, alla storia orientale, presenti anche nei testi dei
Beatles, nonché l'amicizia di Harrison per gli Hare Krishna, trovarono un
compimento nelle ragioni della realizzazione del concerto.
All'ultimo momento Dylan, durante il soundcheck, manifestò l'intenzione di non
partecipare al concerto. Tuttavia nella seconda parte del programma, presentato
con trepidazione da George Harrison, inaspettatamente, Bob salì sul palco e
subito il Madison Square Garden esplose in un boato.
L 'esibizione di Dylan fu un concerto nel concerto, come documentato anche dal
film sulla serata che successivamente uscì in tutto il mondo.
L'arrivo di Dylan cambiò tutto, almeno per i cinque brani che lo videro
protagonista. Leon Russell abbandonò il pianoforte per imbracciare il basso
(così come faceva nella band di Joe Cocker), Ringo Starr scese dalla batteria e
prese in mano il tamburello, Harrison restò come chitarra solista accanto a
Dylan accompagnato dalla chitarra acustica dall'inseparabile armonica e dalla
sua inconfondibile voce.
I cinque brani sono una piccola antologia del primo Dylan. Il primo, infatti,
era "A Hard Rain's Gonna Fall", con il testo caratterizzato dal
pessimismo di visioni apocalittiche, trattato però con grande poesia.
A seguire un graffiante blues come "It Takes A Lot To Laugh,It Takes ATrain
To Cry" poi un'ovazione accompagnò "Blowin' In The Wind", uno
degli inni di Dylan, tratto da "The Freewheelin" e subito dopo l'altro
inno dylaniano "Mr.Tambourine Man".
Infine "Just Like A Woman" che venne proposta in una versione soul con
Harrison e Russell ai cori.
Il cofanetto, su supporto in vinile, del Concerto per il Bangladesh è molto
bello. Molto ben curato il box di colore arancione che contiene, oltre i tre
dischi, anche un fotobook del concerto.
Un richiamo a Krishna si trova nel fotobook dove in calce ai ringraziamenti
compare la scritta
All Glories to SRI KRSNA.
L'album non è stato mai pubblicato in Italia; l'edizione più comune che si
poteva trovare nei negozi era quella olandese oggi molto ricercata dai
collezionisti. Anche la più recente ristampa, distribuita dalla Epic, è stata
pubblicata in Olanda.
I concerti furono due: uno pomeridiano, l'altro serale.Dal concerto pomeridiano
fu ricavata la registrazione eseguita con l'uso di 44 microfoni in
contemporanea, da quello serale il video.
Nel concerto serale non fu eseguita Hear Me Lord, che è stata inserita invece
nella masterizzazione della ristampa del CD di prossima uscita.
L'album fu prodotto da George Harrison & Phil Spector e pubblicato il 20
Dicembre 1971.
Traduzione del testo di Bangla Desh:
"Il
mio amico è venuto con la tristezza negli occhi. Mi ha detto che desiderava un
aiuto prima che il suo paese morisse. Anche se non potrei sentire il dolore,
sapevo che dovevo provare.
Ora sto chiedendo a tutti voi di aiutarci a salvare alcune vite in Bangla Desh,
dove tanta gente sta morendo velocemente. Questo sicuro somiglia ad una rovina.
Non ho visto mai una tale angoscia.Ora non volete prestare la vostra mano?.
Provate a capire e alleviare la gente del Bangla Desh …Bangla Desh un così
grande disastro - non lo capisco ma sicuro assomiglia ad una rovina.
Io non ho mai visto una sofferenza così grande.
Per favore non voltatevi, desidero sentirvi dire che aiutate la gente del Bangla
Desh.
Il Bangla Desh ora può sembrare cosi lontano da dove ci troviamo.
E' qualcosa che non possiamo ignorare. Quella sofferenza non posso trascurarla.Ora
non volete dare un po' di pane?. Diamo un aiuto alimentare, dobbiamo aiutare il
Bangla Desh, sostenere la gente del Bangla Desh. Prova a capire, aiuta il popolo
del Bangla Desh …"
Ringraziamenti:
a Rosaria Pardo per il primo ascolto di Bangla Desh nel 1972, ad Enzo
"Piccolo Grande Uomo" per la sua sopportazione quando mettevo su il
disco per ore, al collezionista Luca Isaja, a Rebecca Gamberoni per avercela
messa proprio tutta….
http://www.bigtime.it/lovemedo/bangladesh.htm
Aveva
stampato sul volto il segno del proprio destino: una tristezza lieve,
impalpabile, come se conoscesse il futuro. Era il fratello triste dei Beatles,
l'imperturbabile. Per George Harrison i Beatles non erano stati l'era più
felice della sua vita. Troppa pressione, troppo ego, troppo per un uomo alla
perenne ricerca di sé. Era stato lui, in fondo, il più riluttante a mettere
insieme la band: non Paul, né John fino a quel terribile 8 dicembre di 21 anni
fa a New York.
I
Beatles erano rimasti un sogno perché fratello George ne aveva abbastanza di
riflettori e di notorietà. "Per quanto mi riguarda - usava dire - i
Beatles non si riuniranno fino a quando John Lennon resterà morto". E
quando sei anni fa cedette alle pressioni di Paul e Ringo, nelle foto scattate
da Linda Eastman appariva perplesso. Aveva accettato perché, diceva "è
bene ricordare quegli anni". E soprattutto, dicono i maligni, per ripianare
le perdite della Handmade Film, la compagnia cinematografica che aveva prodotto
un disastro cinematografico come Shangai Surprise.
"In verità - diceva - sono un uomo molto semplice -. Non voglio vivere a
tempo pieno nel mondo dell'industria musicale perché mi sento un giardiniere.
Pianto fiori e li osservo crescere. Non vado nei club, Resto a casa e guardo il
fiume scorrere".
Il suo epitaffio non è Horse To The Water, la canzone scritta per Jools Holland
con il figlio Dhani, bensì un album inciso trent'anni fa allo scioglimento dei
Beatles: All The Thing Must Pass vuole dire in italiano "Tutte le cose
passano". Un "tutto scorre" che collimava perfettamente con la
sua filosofia di vita, tanto posata da essere controcorrente.
Era
un profeta riluttante, brother George.
I Beatles gli avevano tarpato le ali, oscurato da Paul e John prima che potesse
acquisire la coscienza della propria grandezza. Ma gli erano serviti per
scoprire la parte altra di sé, l'anti-rockstar che aveva dato il via alla moda
delle filosofie orientali. Ma se i Beatles e i Rolling Stones, passata la
tendenza, si erano diretti altrove, George aveva seguito la sua strada, l'Induismo.
"Se c'è un Dio - affermava spesso - voglio vederlo e la coscienza in
Krisna e la meditazione sono vie attraverso le quali puoi vedere e ascoltare
Dio, giocare con lui".
Nella sua tristezza era anche un uomo ironico, come quando aveva prestato il suo
volto in un cameo per il film All You Need is Cash, parodia di una rock band
chiamata Rutles, i Prefab Four. "Una parodia racconta i Beatles molto
meglio di un noioso documentario - aveva commentato -. L'opportunità di
scherzare con il proprio passato è meravigliosamente catartica, una fuga nella
gioia".
L'ironia e il senso dell'altro lo hanno spinto a cercare nuove vie per i propri
interessi. I benefit concert che cosa sarebbero se l'8 gennaio del 1971 non
avesse guidato una fantastica corriera stravagante di musicisti nel primo
megaraduno pacifista, Concert for Bangladesh. Allora il suo grido di rabbia fu:
"Sono stanco di sentire gente che dice: 'Che cosa possiamo fare?'".
Accolse
con rassegnazione la multa inflittagli da un tribunale di 587 mila dollari per
il presunto plagio di He's So Fine degli Chiffons, troppo simile alla sua My
Sweet Lord. Affrontò con dignità la fuga di sua moglie Patty Boyd che lo
lasciò per l'amico Eric Clapton, visse con distacco perfino il successo dei
Traveling Wylburys, in cui impersonava il ruolo di Brother Nelson e la
produzione dei Monty Python.
A Anthony DeCurtis aveva detto una volta: "Sono pessimista sul futuro.
Quando vedi che la razza umana sta demolendo il mondo, inquinando gli oceani e
abbattendo tutte le foreste, ignorando le migliaia di essere umani che muoiono
per la povertà, senza risorse come fai a non essere triste? Ma alla fine la
vita andrà avanti con o senza di te. E io credo che il nostro mondo fisico sia
solo una parte, il nostro pianeta è una minuzia nell'universo fisico. Puoi
distruggere il pianeta, ma le nostre anime andranno altrove. Così alla fine non
è veramente importante".
Diceva
proprio così, "So in the end", come una vecchia canzone dei Beatles.
Parole-epitaffio per l'uomo inseguito dalla propria ombra, e dal destino segnato
sul volto.
30
novembre 2001 - Alfredo
D'Agnese
Sono
le tre di notte della vigilia di capodanno e una coppia di mezza età si è da
poco addormentata nella grande casa dell'Oxfordshire dove vive da vent'anni. Sir
George ha cinquantasei anni e sua moglie Olivia ne ha cinquantuno. L'indomani ci
sarà da fare, i preparativi per la festa di fine millennio con un po' di amici.
Niente di straordinario, la compagnia discreta e limitata che frequentano da
tempo. Ma alle tre di notte entrambi vengono svegliati si soprassalto da un
suono di vetri rotti. Sir George si alza e scende a vedere, ma viene aggredito
da un uomo sulla trentina, molto agitato, che lo colpisce con un coltello.
Quando Olivia arriva ai piedi della scale vede suo marito riverso a terra nel
sangue e lo sconosciuto venirle incontro con la lama brillante nella notte. Lei
prende in pugno una lampada da tavolo e si difende colpendolo alla testa. L'uomo
cade a terra tramortito. Arriva la servitù, arriva il giovane figlio Dhani,
viene chiamata la polizia, l'uomo è arrestato, un'ambulanza porta sir George
all'ospedale col petto squarciato.
Così
andò il capodanno del Duemila per George Harrison e per la sua famiglia. Così
andò tutta la sua vita, forse, catturata negli effetti collaterali di essere
stato uno dei Beatles, e nel tentativo di sfuggirne. Dagli effetti, non dai
Beatles, che furono sempre cosa sua. È buffo pensare che le mie canzoni da
solista avrebbero potuto essere delle canzoni dei Beatles, se solo non ci
fossimo lasciati, diceva. Per me si trattò solo di suonarle con altri
musicisti. Nulla cambiò, per lui. Non seguì-altre-strade, come impone il
cliché in questi casi, né cercò maggior spazio per se stesso, come fecero i
suoi compagni. Continuò a scrivere canzoni, come faceva già prima, con la sola
differenza di non dover più metterle in lista d'attesa dietro quelle di quei
mostri della composizione che erano gli altri due. Con i Beatles aveva scritto
Something, che molti ritengono la più bella canzone d'amore della loro storia,
altro che Yesterday, dàn, dàn. Aveva scritto While my guitar gently weeps, e
Here comes the sun, e un'altra ventina. Ma riuscire a farsi largo era
un'impresa. A permettere alle canzoni di farsi largo, che sir George non ci
aveva mai tenuto a sgomitare per se stesso. A volte era frustrante, raccontò
poi, dover far passare milioni di Maxwell's Silver Hammer prima di usarne una
delle mie; a pensarci adesso, ce n'erano un paio, delle mie, che erano migliori
di quelle che John e Paul scrivevano con la mano sinistra. Ma le cose andavano
così, sapete, e non mi dispiace particolarmente: ho solo dovuto aspettare un
po'.
Da
solo, in trent'anni ormai la durata dei Beatles è solo una piccola parte
delle vite dei suoi militanti, eppure tocca sempre parlarne, come Lotta Continua
George Harrison ha inciso una quindicina di dischi. All things must pass, che
uscì nel 1970 è probabilmente il più bel disco di un ex Beatle (Double
Fantasy di John Lennon perde per via delle canzoni di Yoko Ono). Allora sir
George fu il primo dei quattro ad arrivare al primo posto delle classifiche da
solo, con una canzone meravigliosa e canticchiabile per i prossimi quattro
secoli, My sweet lord. Ma il talento dell'uomo è sempre stato soggetto alle
disavventure del destino, e qualcuno al tempo orecchiò una palese similitudine
con una canzonetta di dodici anni prima, He's so fine dei Chiffons. Invece di
dargli un premio per averla resa un capolavoro, un giudice lo condannò a pagare
mezzo milione di danni. Per lui si trattò di un tradimento, che i diritti erano
stati nel frattempo acquistati da un suo scaltro ex agente, che dopo averlo
difeso pubblicamente passò a riscuotere.
Comunque, My Sweet Lord arrivò al numero uno che ancora gli altri Beatles
stavano riposandosi al sole o organizzando conferenze stampa a letto. Era una
canzone che aveva dentro tutta l'allegria musicale degli hits di sir George
senza transigere sul valore appassionato delle parole. Come è felice
l'innamorato di Something, come è deliziato e spensierato l'annunciatore di
Here comes the sun, come è ottimista colui che sa che All things must pass,
come è divertito colui che ricorda All those years ago. E come è terrenamente
invaghito della sua gioia e della sua fede quello che canta "mio dolce
signore, muoio dalla voglia di vederti e di conoscerti, di venire con te, ma ci
vuole così tanto, signore, alleluia, hare krishna, hare rama".
La passione per l'India a sir George venne nel 1967. Si era comprato un sitar
piuttosto scalcagnato in un negozio indiano di Londra, e aveva imparato a
suonarlo. Convinse gli altri a usarlo in Norwegian Wood, e fu molto contento del
risultato. Poi una sera conobbe Ravi Shankar a casa di Peter Sellers (andava
così, allora, mica ci si incontrava da Chiambretti). Shankar è il più grande
suonatore di sitar di tutti tempi, ma non è che questo gli abbia mai dato una
grande notorietà. Con George divennero molto amici e lo restarono sempre, e
qualche tempo dopo Patti Boyd, allora signora Harrison, lo introdusse alle cose
di meditazione e religioni orientali di cui si era appassionata. Si erano
sposati nel 1966, conoscendosi sul set di A hard day's night, in cui lei aveva
una parte discreta: recitava la battuta "Prigionieri?". Poi lei ed
Eric Clapton si innamorarono e con George finì. Lui andò anche al loro
successivo matrimonio e Clapton restò sempre uno dei suoi migliori amici. È
quello che suona la chitarra in While my guitar gently weeps, per capirsi. Sir
George lo invidiava, invidiava il suo virtuosismo e la sua libertà. Mentre noi
diventavamo un fenomeno, raccontava, mentre diventavamo gli Spice Boys del tempo
e non riuscivamo a fare un concerto senza che tutti strillassero per tutto il
tempo, Eric era sempre in tour e diventava più bravo e suonava con tutti i
musicisti migliori.
Comunque,
Patti e George andavano agli incontri, seguivano i corsi, leggevano dell'India,
e coinvolsero anche gli altri. Nel 1968, agosto, se ne andarono tutti laggiù
dal maestro Maharishi Mahesh. Fu un evento spettacolare, i Beatles in India, e
questo si sa. Poi il maestro risultò essere un cialtrone, Paul e Ringo si
stufarono presto, e John fu illuminato dalle sorti del mondo e dalla sua propria
grandezza. E i Beatles finirono, per via che George aveva voluto cercare
qualcosa di suo, con discrezione. O sarebbero finiti comunque. Lui rimase il
solo a mantenere un attaccamento fedele e sincero nei confronti della
spiritualità orientale, per il resto della vita, anche nell'Oxfordshire con la
messicana Olivia, che sposò nel 1978, un mese dopo la nascita del loro unico
figlio, Dhani. Con Shankar organizzò uno degli eventi musicali maggiori degli
anni Settanta, il concerto per il Bangla Desh al Madison Square Garden, a cui
parteciparono Clapton e Bob Dylan e che è l'unico motivo per cui molti di
quella generazione sanno cosa sia il Bangla Desh. Penso che John avesse molto a
che fare con questo atteggiamento, spiegava sir George di recente: se era
convinto di qualcosa, lo faceva. E io, sapete, ho imparato molto standogli
vicino.
Sir
George si fece una casa discografica e la chiamò Dark Horse. Come me, diceva,
quello su cui nessuno punterebbe un soldo, l'ultimo che ci si aspetta possa
diventare un vincente. Rimase nella seconda linea dove già stava con i Beatles,
non fece niente per reinventarsi. Scrisse canzoni, come prima, continuò a
guadagnare montagne di soldi mai come gli altri due si appassionò di
giardinaggio, continuò a seguire la formula uno e scrisse Faster, sugli eroi
dell'automobile. Produsse dei film dei Monty Python e qualche altro che andò
così e così. Decise di smettere con il cinema dopo il fallimento di Shanghai
Surprise, con Madonna e Sean Penn, e si legò al dito la mediocrità del
secondo, a cui pochi mesi fa non ha concesso di usare le canzoni dei Beatles per
il suo nuovo film. Penn ha dovuto ripiegare su delle cover. Incise delle canzoni
con un gruppo di arzilli vecchietti lui, Dylan, Tom Petty, Roy Orbison, Jeff
Lynne con il nome di Traveling Wilburys. Niente di che, ma si divertirono.
Non cercò nuovi amici, non volle tenersi giovane a forza di stupidaggini,
concesse rare interviste in cui disse che gli Oasis erano monnezza egocentrica,
gli U2 ambiziosi vanitosi e le Spice Girls la prima band che puoi seguire con lo
stereo spento. Niente a che vedere con il talento, trent'anni e nessuno si
ricorderà di loro.
Negli ultimi anni, a parte essere accoltellato da un giovane pazzoide, sir
George ha avuto il cancro. Ne ha avuti a bizzeffe e ha cercato di curarsi. La
stampa gli è stata sulla testata del letto come un avvoltoio. Alcuni mesi fa i
giornali inglesi falsificarono notizie e dichiarazioni sulla sua salute per
pubblicare allarmati annunci di una sua morte a giorni, ripresi in tutto il
mondo. Ci furono delle dimissioni, ma tutto è ricominciato nell'ultimo mese.
Ogni giorno un lugubre e vago avvertimento, sempre misterioso e indefinito. I
coccodrilli pronti nei cassetti. I titoli con i giochi di parole e le citazioni
dalle canzoni. Lasciatemi in pace. Per favore non vi preoccupate, erano le
ultime parole che aveva voluto diffondere, quest'estate.
Oggi è il primo dicembre. A dicembre sir George e Olivia vennero aggrediti in
casa loro due anni fa. A dicembre John Lennon fu ucciso, ventuno anni fa. Oggi
sir George è morto. I read the news today, oh boy. Metà dei Beatles sono
morti, e anche di più: i Beatles erano tre, e poi c'era uno che ebbe la botta
di fortuna della sua vita. Sono rimasti quelli più normali: un grandissimo
artista la cui maggiore alzata di testa nella vita è stata sposare una giovane
e bella portatrice di handicap, e uno che passava di lì con delle bacchette in
mano quando si incontrò la coppia perfetta della storia della musica. Paul
McCartney ha appena pubblicato un ennesimo disco, onesto e terribilmente
migliore del nuovo di Mick Jagger, per chiudere quella partita lì. Dentro c'è
un pezzo, Tiny Bubble, che gli potrebbe costare una condanna miliardaria se
l'autore di un'altra canzone, Piggies, lo denunciasse per plagio. Sono uguali.
Ma George Harrison, che scrisse Piggies per il White Album dei Beatles, non
l'avrebbe denunciato mai.
http://www.wittgenstein.it/html/foglio011201.html
HANNO
DETTO DI LUI
Ringo
Starr: "George ci mancherà per la sua vitalità, la sua musica, e il
suo senso dell'umorismo"
Paul
McCartney: "Sono sconvolto e tristissimo. Era un bravo ragazzo, un uomo
coraggioso ed aveva uno splendido senso dell'umorismo. Era davvero come il mio
fratello minore. Era da molto che combatteva contro il cancro, l'ho visto
qualche settimana fa, ma lui era d'ottimo umore come sempre. Ovviamente non
stava affatto bene, ma continuava a dire battute. Ci mancherà molto. Mancherà
a tutto il mondo".
Yoko
Ono: "Portava magia nelle vite di coloro i quali lo conoscevano. Invito
i media a tenere una rispettosa distanza dalla moglie e dal figlio di George,
esprimo le proprie condoglianze alla famiglia, la più unita e bella che si
possa immaginare. Grazie George, conoscerti è stato splendido"
Red
Canzian (bassista dei Pooh): "Ricorderò per sempre questo giorno, che
rappresenta per me un giro di boa, con profonda amarezza. La notizia della morte
di Harrison è arrivata come una doccia gelata proprio nel giorno in cui compio
50 anni. Difficile da dimenticare. Su Harrison si spenderanno meno parole,
perché non si è esposto più di tanto. Ha scritto però tra le canzoni più
belle, di forte intensità compositiva e poteva dire ancora molto. Tra i quattro
Beatles era quello che sin dall'inizio mi piaceva di più, forse perché suonavo
la chitarra come lui. Ne ero affascinato. Quando ho appreso la notizia alla
televisione ho pianto. Non mi era accaduto con la morte di Lennon: la sua
uccisione mi aveva solo tanto sconvolto. La scomparsa di Harrison invece mi ha
colpito in maniera diversa".
Tony
Blair: "Non ho mai avuto il privilegio di incontrare George Harrison ma
la nostra generazione, quella mia e di Bertie (Ahern), è cresciuta con i
Beatles. La musica ed il carattere del complesso hanno fatto da sfondo alle
nostre vite. La gente sarà molto triste a causa della sua morte. Penso sia
opportuno sottolineare che Harrison non è stato soltanto un grande musicista ed
artista, ma anche un uomo che ha fatto tantissimo in beneficenza e quindi la sua
presenza mancherà molto in tutto il mondo".
Carlo
Verdone: "Si capiva che aveva un carattere solitario, introverso:
rispetto a Paul McCartney e John Lennon stava un passo indietro, quasi allineato
con Ringo Starr. George era forse quello che faceva la musica più culturale e
sperimentale. Le sue canzoni più belle? 'Blue Jay way' da 'Magical mistery
tour' e 'Within you without you' da 'Sgt. Pepper': profonde, di grande cultura e
sensibilità. Lui si distaccava dalla solarità di John e Paul; era mistico, un
po' oscuro, malinconico, non a caso seguace delle filosofie indiane: nei suoi
album c'è sempre qualche riferimento alla cultura induista. 'All things must
pass', il suo triplo da solista, è un autentico capolavoro: non c'è una
canzone sbagliata. Mi spiace moltissimo che se ne sia andato, anche per quel suo
distacco. L'invadenza degli altri due lo aveva messo da parte, ma lui aveva un
suo mondo interiore pieno di fascino, si notava una continua ricerca di
serenità"
Anche
la Regina Elisabetta ha voluto esprimere il proprio cordoglio per la
morte di George Harrison. Un comunicato emesso da Buckingham Palace afferma che
la Regina è "molto triste" per la notizia della scomparsa dell'ex
Beatles.
Bob
Geldof: "Non fu un Beatle riluttante. Sapeva che il suo posto nella
cultura popolare era assolutamente saldo. Venne ad ascoltarci a Oxford. Fu
incredibile e sconvolgente... Quando entrò nella stanza... davanti a noi
avevano un Beatle dal vivo. Era molto orso per quanto riguardava la fama e cose
del genere. Lui era quello che scrisse "Taxman", un altro classico dei
Beatles giovani. Era molto gentile".
Alan
Clayson, (biografo di Harrison), ha ricordato dell'aggressione che l'ex
Beatle subì nella sua casa da uno squilibrato: "Si prese una coltellata a
un polmone, più o meno nel periodo in cui gli fu diagnosticato un cancro
proprio al polmone. Questa coincidenza ebbe un profondo effetto su di lui. Dopo
l'omicidio dell'amico Lennon (per mano di un esaltato a New York), Harrison
assunse un atteggiamento da fatalista. Spesso è stato visto bere nei pub della
zona di Henley, dove viveva. Di fatto quella coltellata più o meno lo uccise,
visto che in pubblico non si faceva più accompagnare da una guardia del
corpo".
Fabio
Fazio: "Mi dispiace moltissimo e non solo da fan dei Beatles. C'è
anche un dispiacere molto egoistico legato al fatto che quando vengono a mancare
personaggi come Harrison è come se un pezzo della nostra vita, legato al
ricordo di alcune canzoni, se ne andasse. Ho sempre amato pi Paul McCartney,
che ho anche avuto la fortuna di incontrare. George Harrison non l'ho mai
conosciuto ma ho sempre pensato che fosse un grandissimo musicista e che la sua
impronta si sia fatta sentire nella storia dei Beatles. Così come i Beatles
hanno segnato una parte della storia e del costume di questo secolo".
Renzo
Arbore: "Un periodo bellissimo del nostro passato comincia a perdere i
suoi protagonisti essenziali. Lui è stato fondamentale in quel periodo in cui
la musica cominciava a politicizzarsi grazie ai Beatles, Bob Dylan, Joan Baez e
in cui cominciava ad allargare i suoi confini per guardare al mondo e non solo
al modello americano. Dei Beatles era 'l'altro' rispetto a Lennon e McCartney.
Era Harrison quello che preferivo, l'anima vera e un po' diversa della band. E
poi, era un signor chitarrista. Per non parlare del fatto che molte delle
sorprese dei Beatles erano merito suo, come la svolta indiana e il sitar. Ogni
tanto i Beatles componevano canzoni separandosi. Cos" nacque "Something",
che per me è una delle cinque migliori canzoni dei Beatles. Harrison la scrisse
da solo, in uno studio dove si era ritirato e dove aveva trovato un'ispirazione
semplice ma poetica".
George
Bush si dice colpito e rattristato dalla morte di George Harrison. "Il
presidente è molto triste. Considera che i Beatles sono stati una delle grandi
espressioni musicali del nostro tempo e adesso due di loro sono morti"
George
Martin (storico produttore dei Beatles): "Olivia e Dhani hanno sofferto
per la sua malattia affrontandola con enorme coraggio e devozione. Ora credo,
come credeva anche lui, che sia entrato in una dimensione pi alta. Dio gli dia
la pace".
Bob
Dylan: "Era come il sole, i fiori e la luna e ci mancherà enormemente.
Il mondo sarà un posto molto più vuoto senza di lui. George era un gigante, un
grande con una grande anima: aveva la spiritualità e il buon senso di un uomo
compassionevole".
Mick
Jagger (Rolling Stones): "sono veramente troste, la morte di Geroge mo
ha colpito duramente. Mi piace pensare a lui come ad uno dei grandi amici della
mia vita, una persona con la quale ho passato alcuni dei momenti miglori della
mia esistenza.Aveva un carattere complesso. Da una parte era veramente "the
quiet one", un tipo tranquillo, divertente con un grande senso of humour e
di un modo gentile di trattare con il mondo. dall'altra poteva essere forte e
combattivo quando cen'era il motivo. era un uomo straordinariamente generoso,
faceva molto per la beneficenza e faceva molto per gli amici. Come chitarroista
George ha creato moltissimi riffs diventati classici, copiati infinite volte.
Come autore ha scritto bolte bellissime canzoni".
Bill
Wyman (Rolling Stones): "Ci piacevano le stesse cose, musica non
proprio per giovanissimi e moltissimo blues. Lo chiamai per chiedergli di
suonare nel mio album e lui mi disse: 'Bill, puoi avere i igliori chitarristi
del mondo, mentre io so suonare una sola nota', io gli risposi che avevo bisogno
esattamente di quella nota..."
Keith
Richards (Rolling Stones): "Eravamo molto amici e il motivo principale
era ovviamente la passione per la chitarra. Tutti e due pensavamo di aver avuto
una posizione simile nelle nostre rispettoive band e questo ha dato vita ad un
rapporto davvero speciale. Per me George era e restaerà un autentico
gentiluomo, nel senso esatto del termine. Spero solo che ora finalmente stia
suonando con John"
Philip
Hunter, autore di una tra le più prestigiose biografie dei Beatles, "Shout":
"Un altro beatle ci ha lasciato. Ed è un pensiero terribile, perché
quella band era un'entità presente nella vita della gente. Harrison fu
certamente oscurato da Lennon e McCartney e questo non gli faceva piacere, ed
era motivo di amarezza. Ma più tardi nella vita si rese conto quale fortuna
avesse avuto. Ha avuto un matrimonio felice e un figlio e ha preso coscienza che
vi era molto di più nella vita che essere un Beatle"
Scorsese svela George Harrison in
un film i segreti dei Fab Four
NEW YORK Che sia un documentario d' autore si
vede subito. La cura delle immagini, l' intelligenza del montaggio, l' agilità
del racconto, l' ambientazione dei personaggi intervistati. Soprattutto -
trattandosi della vita di un ex Beatles - schiva la tentazione di scadere nel
luogo comune, di raccontare il già raccontato, di riproporre le immagini di
repertorio che in questi quarant' anni hanno saziato, persino intossicato, il
mondo. Ma poiché la mano che ha guidato Living in the material world, il
lungometraggio su George Harrison trasmesso dalla tv via cavo Hbo in due parti
mercoledì e giovedì (a novembre sulla Bbc e nelle sale inglesi), è quella di
Martin Scorsese il risultato era garantito in partenza. Qualche critico lo ha
trovato meno appassionante di No direction home, il film che il regista aveva
realizzato su Bob Dylan. Ma Scorsese nonè film maker da brividi a buon mercato e
con lo scrupolo del direttore d' orchestra indaga sulle vicende del Beatle
timido e introverso che nella spiritualità ha realizzato la sua "second life".
Grazie anche agli archivi personali di
Harrison messi a disposizione del regista dalla vedova Olivia che firma un
libro, appena uscito, che porta lo stesso titolo del film. Scorsese non fa
mistero della simpatia per il suo coetaneo (classe 1943) che ha speso la sua
maturità alla ricerca dell' illuminazione: «George Harrison è stato la mia guida
e la mia ispirazione per quarant' anni», ha dichiarato alla presentazione del
film a Londra, la scorsa settimana. «Cari mamma e papà, i concerti sono andati
alla grande, il pubblico era in delirio, dovunque andiamo siamo scortati da
venti poliziotti in moto», scrive George, ventenne, dal primo tour trionfale con
la band. «Mia madre era un' entusiasta della musica», racconta in un' intervista
filmata da Scorsese prima della morte, «era fiera di avere un figlio con la
chitarra in mano».
Dice McCartney: «John e io cercavamo un
chitarrista. Un professionista non uno strimpellatore come noi. George era un
po' troppo giovane (John era del 1940, Paul è del ' 42), ma i suoi riff ci
incantarono subito». Svela Harrison: «Quando arrivai alle prove Lennon aveva una
chitarra a quattro corde, non riusciva a suonarne una normale». Scorsese riesce
persino a trovare una originale chiave d' accesso all' era Beatles attraverso il
racconto di Klaus Voormann (bassista ed artista tedesco premiato con il Grammy
per la copertina di "Revolver") e della sua compagna dell' epoca, la fotografa
Astrid Kirchherr, che ad Amburgo scattò immagini memorabili ai quattro di
Liverpool - talmente impressionanti da risultare
uno
dei piatti forti della prima parte del documentario, più dei racconti dei
fratelli di George o di Eric Clapton (che sposò la modella Pattie Boyd, la prima
moglie di George). «Quando i Beatles esordirono», dice Harrison «John era in
imbarazzo. Avevo 17 anni ma ne dimostravo dieci».
Quella fu anche la sua fortuna con le
ragazze, molte erano sedotte dall' aspetto adolescenziale che avrebbe conservato
fino al periodo psichedelico, quando si fece crescere barba e capelli e si
lasciò guidare dall' acido lisergico in un cammino mistico che avrebbe seguito
fino alla fine. «Eravamo come una famiglia», confida McCartney, «e proprio come
succede tra moglie e marito dopo un po' non ne puoi più». Ma quando arrivò il
momento critico - seconda parte del film - i Beatles, prima di litigare,
cominciarono a viaggiare dentro se stessi. Qualcuno, a un party, fece scivolare
pillole di acido lisergico nelle loro bibite. Da lì il loro percorso creativo
avrebbe preso un' altra piega. Fulminante e brevissima. Quando partì per il suo
primo viaggio in India e sperimentò gli effetti della meditazione
trascendentale, il "nuovo" George scrisse una lettera a sua madre Louise per
rassicurarla: «Non pensare che il rocker sia morto, tutt' altro.
E' solo che adesso amo voi e tutto il
mondo come mai prima». Qui nasce la leggenda del Beatle buono, tranquillo,
sereno, caritatevole, più attento al suo equilibrio interiore e all' armonia tra
sé, gli altri e la natura che al successo. L' ex Beatles ha vissuto così l'
ultimo quarto di secolo con Olivia Arias, la seconda moglie, che ha lavorato
incessantemente affinché il progetto Scorsese andasse in porto. Quello che
Voormann chiama «l' uomo che sempre metteva pace tra i Beatles», continuò senza
Lsd (rinnegò la droga dopo una visita a Haight-Ashbury, il quartiere hippie di
San Francisco) il viaggio che aveva iniziato in acido. Il racconto degli ultimi
giorni è toccante, soprattutto nelle parole di Ringo Starr e di Olivia.
Trascorse con sua moglie un'estate alle Fiji, sapendo che sarebbe stata
l'ultima.
Le disse: «Spero di non essere stato un
cattivo marito». «Fu un'esperienza catartica quando lasciò il suo corpo, il 20
novembre 2001», conclude Olivia. «Se qualcuno avesse voluto filmare il suo
trapasso non avrebbe avuto bisogno di luce elettrica. Lui illuminò la stanza».
DAL NOSTRO INVIATO GIUSEPPE VIDETTI
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2011/10/08/vita-da-beatle-scorsese-svela-george-harrison.html
Layla si
racconta, tra George Harrison ed Eric Clapton
Esce in Italia l'autobiografia di Pattie Boyd,
ex moglie di George Harrison e Eric Clapton, "Wonderful Tonight": il dramma
delle donne nel mondo del rock. PAOLO VITES 16 GIUGNO 2018 PAOLO VITES Pattie
Boyd e George HarrisonPattie Boyd e George Harrison
I " giovani", prima degli anni 60, come
categoria sociale non esistevano. Il mondo era a un colore solo, i figli erano
solo oggetti da plasmare secondo la volontà dei genitori. Categoria, quella dei
giovani, che nasce proprio come ribellione a una concezione della famiglia come
luogo di coercizione e di manipolazione durato secoli. Se non capite cosa
significa, leggete alcune righe della splendida autobiografia di Pattie Boyd,
pubblicata in Italia dall'attivissima e benemerita casa editrice Caissa Italia
("Wonderful Today, la mia vita con George Harrison e Eric Clapton, 255 pagine,
22 euro, con inserto fotografico): "Capitava che venissimo picchiati per i
nostri piccoli misfatti. Ci ordinava di piegarci in avanti e noi chiedevamo
scusa per il dolore che ci aspettava (…) mia madre non interveniva mai nelle
punizioni del mio patrigno, credo avesse troppa paura (…) Nei miei ricordi
di bambina non mi sembra di aver mai ascoltato o preso parte a chiacchierate
spensierate a tavola. Non ci era permesso di parlare a tavola del mio vero
padre, e non ci era permesso parlare alla tavola del mio patrigno. E se a tavola
facevamo qualcosa che lo contrariava ci costringevano a stare in piedi in un
angolo della stanza con le mani sulla testa. Dovevamo restare così a lungo e
dopo un po' non ce la facevamo più dal male". Non stiamo parlando
dell'Inghilterra vittoriana del XIX secolo, ma di quella degli anni 50, dove la
concezione della vita familiare era la stessa: la negazione dell'affetto.
Non ci si meraviglia allora che una intera
generazione, grazie alle maggiori disponibilità economiche della crescita
economica del dopoguerra, appena avutane una possibilità se ne sia andata di
casa per tentare di costruire un mondo migliore dove gli affetti si cercavano
ovunque. Come sia andata a finire, è un altro discorso, ma il tentativo era
sacrosanto.
Pattie Boyd ad esempio se ne andò a Londra,
dopo aver vissuto una infanzia tra Africa, Scozia, Galles, Inghilterra, a fare
la fotomodella. Fu lì, che appena ventenne, incontrò George Harrison, lui
21enne, quando le fu offerto di girare una parte da comparsa nel film "A Hard
Days Night", primo film dei Beatles. Quei giovani cercavano una felicità mai
avuta: "Aprivamo nuovi orizzonti in ogni campo, facevamo esperienze di ogni tipo
e credo vivessimo senza preoccuparci del domani. La gente viaggiava in posti
come l'India e l'Afghanistan, le prime mete hippy, e portava a casa vestiti
esotici, gioielli e droghe. Non avevamo modelli di riferimento non avevamo idea
che le droghe fossero potenzialmente pericolose o che i nostri amici potessero
finire col diventare tossicodipendenti e morire di overdose".
Erano
i primi, e la fuga per la libertà si sarebbe trasformata in tragedia, ma allora
ancora non lo si sapeva. o si cominciava solo a percepirlo: "Ci aspettavamo che
Haight-Asbury fosse speciale, un posto creativo e artistico, pieno di beautiful
peppole, invece era orribile - pieno di sbandati dall'aria spettrale, barboni e
ragazzini brufolosi, tutti completamente flippati. Sembravano tutti fatti, mamme
e bambini, e ci stavano talmente addosso da venirci a sbattere contro i
talloni". Ecco l'altra faccia del sogno degli anni 60.
Pattie Boyd sposa George Harrison, il Beatle
tranquillo come si dice spesso di lui, ma che tanto tranquillo, almeno
sessualmente, non lo era, in quanto approfittava con estremo piacere del suo
ruolo di star concedendosi ogni avventura extra coniugale possibile. Pattie,
ragazza semplice, che aveva visto accadere lo stesso con la madre, accetta
mestamente il ruolo, rivedendo ciò da cui era fuggita. E a questo punto che il
miglior amico di George, Eric Clapton, comincia a interessarsi di lei. E'
l'inizio della storia d'amore più devastante della storia del rock, che produsse
dolore e pazzia, ma anche alcune delle canzoni più memorabili di sempre. Perché
Clapton si innamora follemente della moglie del suo miglior amico, che lei
delicatamente allontana pur
essendone
attratta. Per Pattie George Harrison aveva scritto Something, definita da Frank
Sinatra la più bella canzone d'amore di sempre. Per Pattie Clapton inciderò
addirittura un doppio album, "Layla and Other Assorted Love Songs", un disco di
canzoni capolavoro. Ma il rifiuto di lei porterà il chitarrista a sprofondare
nell'eroina. La storia è conosciuta: stufa dei tradimenti di George, Pattie Boyd
lo lascia e a fine anni 70 finalmente sposa Clapton, un sogno che si avvera ma
che durerà pochi anni, ucciso dall'alcolismo del chitarrista che la trascina nel
suo dramma devastante.
Oggi Pattie Boyd è una bella signora che
vive con qualche amica una serenavecchiaia: "Adesso non permetto più a me stessa
di perdere la testa per qualcosa di inaffidabile (…) sono felice di andare in
paese a fare la spesa in tuta da ginnastica e senza un filo di trucco e se
capita che qualcuno mi ferma per strada e mi chiede mi scusi lei non è Pattie
Boyd?, sorrido e rispondo: sì sono Pattie Boyd".
Questa autobiografia, scritta benissimo in
modo coinvolgente e tradotta altrettanto bene dalla sempre brava Elena
Montemaggi, fa il paio con quella pubblicata sempre da Caissa di Suze Rotolo,
fidanzata storica del giovane Bob Dylan. E' il mondo del rock visto dalla parte
delle donne, e suona più sincero e meno fantasioso di quello maschile.
http://www.ilsussidiario.net/News/Musica-e-concerti/2018/6/16/LETTURE-Pattie-Boyd-Layla-si-racconta-tra-George-Harrison-ed-Eric-Clapton/825934/
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