Il giorno di San Silvestro del 1961 quattro ragazzi di Liverpool, John
Lennon, Paul McCartney, George Harrison e Pete Best caricavano i loro
strumenti su un furgone e si accingevano a partire per Londra dove, l’indomani
mattina, avrebbero dovuto
sostenere
un’audizione presso gli studi dell’etichetta discografica Decca
Records. Ma non ebbero fortuna. La Decca, dopo l’audizione, mostrò di
non credere in loro e li rimandò a casa. Da allora i responsabili della
casa discografica hanno avuto parecchie occasioni di mangiarsi le mani.
In capo a due anni da allora, infatti, i Beatles sarebbero diventati il
complesso più popolare del mondo e, più di trent’anni dopo, tre loro
CD doppi di canzoni rimaste inedite, The Beatles Anthology, sarebbero
giunti in testa alle classifiche di vendita di tutto il mondo, mentre un
documentario di sei ore a loro dedicato, dello stesso nome dei CD,
sarebbe stato l’evento televisivo del 1995 con il più alto indice d’ascolto.
Ad ogni modo, troppe parole furono spese in seguito sulla presunta
incapacità dei dirigenti della Decca. Bisogna dire subito una cosa, e
cioé che in realtà la Decca, quantomeno, concesse ai Beatles un’audizione,
laddove la stessa EMI dei Beatles non ne voleva sapere, e fu solo l’insistenza
di Brian Epstein e le sue minacce di boicottare l’etichetta
discografica londinese nei suoi negozi di Liverpool a convincere
finalmente i dirigenti della EMI, che demandarono a George Martin il
compito di ascoltare qualche traccia incisa dai Beatles.
La
leggenda dei Beatles inizia quattro anni e mezzo prima di quella
sfortunata audizione londinese. Per la precisione sabato 6 luglio 1957
(anche se alcuni dicono che fosse due settimane prima, il 22 giugno),
nella chiesa di san Pietro a Liverpool. Il gruppo del
diciassettenne
John Lennon, i Quarry Men, stava esibendosi in occasione della festa
annuale della parrocchia, quando un comune amico, tale Ivan Vaughan
(già compagno di classe di John Lennon alla scuola elementare Dowendale)
presentò a John il quindicenne Paul McCartney (di cui Ivan Vaughan era,
all’epoca, compagno di scuola al Liverpool Institute). Paul si
presentò suonando Long Tall Sally di Little Richard e Twenty Flight
Rock di Eddie Cochran e, qualche settimana dopo, John invitò Paul a far
parte del complesso. L’anno dopo Paul portò il suo amico George
Harrison, chitarrista, e, nel 1960, un compagno dell’Istituto d’Arte
di John, Stuart “Stu” Sutcliffe, divenne il bassista dei Quarry Men.
Più tardi, quell’anno, in onore dei Buddy Holly’s Cricket, il
complesso prese il nome di Beatles. Poco dopo Pete Best si unì al
complesso come batterista.
Subito
dopo il reclutamento di Pete Best la band partì per Amburgo, in
Germania, dove suonarono per un po’ di tempo in vari locali notturni
(prima l'Indra poi il Kaiserkeller), reggendosi con le anfetamine per
vincere il sonno e darsi energia, e suonando cover di brani americani di
rock-n-roll. Rimasero quasi quattro mesi ad Amburgo, alloggiando in uno
squallido cinema, il Bambi Kino, di proprietà del tedesco Bruno
Koschmider. Quando il gruppo riuscì a ottenere un contratto in un
locale migliore, il Top Ten, nel quartiere a luci rosse di St. Pauli,
Koschmider denunciò Harrison alla polizia perché minorenne e ne
ottenne il rimpatrio in Gran Bretagna. Paul McCartney e Pete Best
andarono a riprendersi la loro roba ma mancava la luce, così appesero
quattro profilattici al muro e diedero loro fuoco per illuminare la
stanza, che non aveva finestre.
C’è
una foto, non molto celebre, dei Beatles che quasi mi commuove. Non è
una foto ufficiale, non è nemmeno una di quelle apparentemente
spontanee, ma che in realtà è stata scattata su un set cinematografico
o durante le riprese di un “video” (allora non si chiamavano così,
ma di fatto lo erano). E’, credo, la prima foto in assoluto dei
Beatles, nel senso che già c’è Ringo Starr al posto di Pete Best: è
del 1961, e loro sono nel porto di Amburgo, prima di salire sulla nave
che li riporterà a Liverpool. Lì giunti incontreranno Brian Epstein e
George Martin, e diverranno, nel giro di poco più di un anno, il
fenomeno che ancora oggi, dopo 40 anni, si ricorda e si ama.
Quando quella fotografia viene scattata loro non se lo sognano neppure,
eppure sono speranzosi e felici. Hanno suonato nei night club di
Amburgo, e hanno fatto successo. Ringo ha un anno più di loro e più
esperienza, e li ha accompagnati durante certe folli serate. Nella foto
manca Stuart, l’amico di Lennon che in Germania ha incontrato l’amore
della sua vita, la fotografa Astrid. Lei ha consigliato ai ragazzi il
nuovo taglio di capelli, sconsigliandoli di indossare sempre abiti di
pelle nera e ciuffi alla Elvis: troppo rockabilly. Lei ha insegnato loro
come muoversi sul palco, come piacere alle ragazze e ai ragazzi, ma ha
portato via Stuart.
I quattro ragazzi stanno per salire sulla nave,e sorridono, un po’
goffi nei loro maglioni scuri da pochi soldi. Hanno il futuro davanti.
Hanno meno di vent’anni di media, e per loro far musica è solo un
buon modo per viaggiare senza spendere e fare l’amore con le ragazze.
Provare a confrontare questa foto con la copertina di “Abbey Road”,
il loro ultimo album (dopo uscirà “Let it be”, ma sono brani
malinconicamente scartati dai quattro e messi insieme dal produttore per
onorare il contratto discografico), fa stringere il cuore. Nel giro di
soli otto anni i ragazzini ingenui e sorridenti sono diventati dei
vecchi guru e riempiono le loro foto e le loro canzoni di strane
simbologie ( celebri i piedi scalzi di Paul Mc Cartney, che indicavano
il fatto che era morto…). Musicalmente sono diventati bravissimi. Nel
1961 non sapevano nemmeno accordare i propri strumenti! Sono ricchi,
famosi. E non riescono più a sorridere e ad andare d’accordo.
Per ragioni anagrafiche abbiamo conosciuto i Beatles sette-otto anni
dopo la loro separazione. Ci appariva un tempo incommensurabile e ci
pareva vana la speranza di rivederli assieme. Oggi sono passati 20 anni
dalla morte di John, e ancora qualcuno, di tanto in tanto, favoleggia di
una loro riunione (ma tra chi?). Semplicemente perché ancora non ci si
è rassegnati a mettere la parola “fine” a quella loro avventura.
Solo i diretti interessati ci sono in qualche modo riusciti, ma
portandosi dietro il fardello delle loro immortali composizioni e dei
loro intensissimi anni di gioie, dolori, esperienze esaltanti ed
esperienze sbagliate. Noi li abbiamo amati ostinatamente quando erano
dei ragazzini cicciotelli che cantavano canzoni tanto belle quanto
semplici, con liriche banali e musiche costruite su solo tre accordi. Li
abbiamo amati quando indossavano abiti colorati e capelli lunghi e
cantavano testi lisergici su musiche tanto difficili da non poterle più
eseguire dal vivo. Li abbiamo amati persino durante le loro esecrabili
carriere solistiche. Ne abbiamo persino incontrati un paio, e l’emozione
provata è sinceramente ridicola.
Ma quanti sono i ragazzi di vent’anni che tornano da una malpagata
tournée ad Amburgo, e quanti sono quelli che diventano i Beatles?
Guardate un po’ in fondo ai loro occhi: per voi, loro ci credevano?
http://www.quartopotere.com/pagine/archivio/60.htm
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Koschmider prese a pretesto le macchie
di nerofumo lasciate sulla parete per sostenere che i due volevano
incendiare il cinema, così la polizia tedesca procedette al rimpatrio
forzato anche di Paul e Pete. John li seguì a Liverpool, ma Stu,
innamoratosi nel frattempo di Astrid Kirchherr, una fotografa tedesca,
lasciò il complesso e rimase in Germania (Stuart morì di emorragia
cerebrale nel 1962. Alla sua storia, al rapporto con i Beatles e alla
relazione con Astrid è ispirato un film inglese del 1993, Backbeat, di
cui chi vi scrive ebbe modo di leggere la recensione in lingua
originale, ma che fu poco pubblicizzato in Italia; il film fu diretto da
Iain Softley e interpretato da Stephen Dorff - nella parte di Stu - e da
Sheryl Lee - già Laura Palmer in Twin Peaks - nella parte di Astrid.
Tornati
in Gran Bretagna, i proprietari dei club furono stupiti dai progressi
del gruppo e dall’entusiasmo che suscitavano nei fan. La stampa
iniziò a parlare di Liverpool come centro della musica beat. In effetti
in quel periodo c’erano in riva alla Mersey molte band, e tutte di
buon livello (si esibiva in quel periodo anche una band chiamata Gerry
and The Pacemakers, guidata da Gerry Marsden, che divenne famosa per una
canzone cantata come inno dai tifosi del Liverpool, che, come i Beatles,
si avviava a conquistare il mondo di lì a qualche anno: You’ll Never
Walk Alone viene cantata ancora adesso dai supporter dei Reds nel catino
di Anfield), e i Beatles amichevolmente rivaleggiavano con molte di
esse. I Beatles tornarono tre mesi ad Amburgo nella primavera del 1961
per affinare la loro tecnica. In giugno furono il gruppo di
accompagnamento del cantante Tony Sheridan in sei canzoni, incluso il 45
giri My Bonnie, che conobbe un piccolo successo in Germania.
In
quel periodo, John Lennon e Paul McCartney scrivevano regolarmente i
loro brani (avevano già firmato I’ll Follow The Sun e One After 909)
e sognavano di entrare con essi nelle classifiche di vendita. Nel
novembre successivo, tale Brian Epstein, un giovane ed eclettico,
ancorché pasticcione, personaggio di famiglia ebraica benestante, messo
dai suoi a dirigere un negozio di dischi, durante un’esibizione dei
Beatles al Cavern Club intravide in loro un grosso potenziale. Si offrì
quindi, forte delle sue capacità manageriali (invero non eccelse, visto
che i Beatles nei primi anni di carriera costituirono più un affare per
la EMI che per loro stessi), di gestire le attività del gruppo e, una
volta ottenutane la gestione, si adoperò con i dirigenti londinesi
della Decca per far avere loro un’audizione di lì a un paio di mesi.
Come andò a finire l’abbiamo visto, ciononostante Epstein non si
perse d’animo, convinto di avere per le
mani materiale di prima qualità. Si adoperò per migliorare l’immagine
del gruppo e, mentre i quattro continuavano a tenere concerti presso i
vari locali di Liverpool, lui inviava cassette registrate dei loro brani
a tutte le case discografiche di Londra. Una di queste giunse in mano a
George Martin, a quei tempi responsabile per le audizioni alla
Parlophone, un’etichetta sussidiaria del gigante EMI. Ci volle molto a
Epstein per convincere Martin a prendere in esame le cassette, e alla
fine, Martin - più per spossatezza che per altro - convocò Epstein e
offrì un contratto al gruppo, benchè non fosse molto convinto della
qualità dei brani originali di Lennon e McCartney e dell’abilità di
Best come batterista. Harrison, Lennon e McCartney accettarono il
contratto e non parlarono di ciò a Best, che fu scartato un mese dopo
da Epstein e sostituito da un altro batterista di Liverpool, Richard
Starkey Jr., conosciuto ad Amburgo durante un giro di concerti del suo
gruppo, Rory Storm and The Hurricanes. Il ventiduenne ragazzo già era
conosciuto con il nome d’arte di Ringo Starr.
L’11
settembre 1962 i Beatles tennero la prima seduta ufficiale di
registrazione agli studi londinesi della EMI. Martin disse a Ringo che
il suo apporto non era richiesto, in quanto era disponibile il
session-man ufficiale Andy White. Ringo Starr dovette rassegnarsi a
suonare le maracas e il tamburello in Love Me Do e in P.S. I Love You,
le due facce del loro primo 45 giri. La leggenda narra che Epstein
avrebbe acquistato diecimila copie del disco per farlo entrare almeno
nei Top 20, ma Epstein smentì sempre il fatto. Sta di fatto che il
disco si piazzò al 17° posto nelle classifiche di vendita britanniche.
Il loro secondo 45 giri, Please Please Me, balzò in
testa alle classifiche il 1° febbraio 1963, e i Beatles erano in
procinto di diventare superstar. Il 33 giri d’esordio che uscì in
marzo, anch’esso intitolato Please Please Me, rimase in testa alle
classifiche per trenta settimane finchè non venne scalzato dal loro
album seguente, With The Beatles. Verso la fine dell’anno i Beatles
suonarono una serie di marce reali di fronte alla regina madre e alla
principessa Margaret; nell’occasione John Lennon disse la famosa
frase: «I signori seduti nei posti economici applaudano. Gli altri
cortesemente scuotano i loro gioielli…».
Il
26 ottobre 1965 i Beatles vengono ufficialmente insigniti del titolo di
Baronetti dalla regina Elisabetta nella Sala del Trono di Buckingham
Palace. Fin dal primo annuncio, avvenuto il 12 luglio, la loro
investitura ha suscitato un putiferio. A complicare la vicenda
contribuiscono anche le dichiarazioni dei quattro, in particolare di
John Lennon e di Ringo Starr. Il primo manifesta la sua incredulità ai
giornalisti mettendo in dubbio la notizia: «Baronetti? Non ci credo.
Credevo fosse indispensabile guidare carri armati e vincere guerre». Il
secondo commenta con sarcasmo «C'è una vera medaglia, no? Me la terrò
per metterla quando sarò vecchio». Le polemiche sono, quindi,
inevitabili. In prima fila nel tentativo di impedire la
"profanazione" c'è la nobiltà, ma non mancano reduci di
guerra, eroi della RAF e indignati vari che si sono dichiarati disposti
a riconsegnare le loro onorificenze per protesta. Tutto è stato
inutile. Il 26 ottobre i Beatles diventano Baronetti. Nel corso della
cerimonia ufficiale i quattro ragazzi di Liverpool appaiono un po'
alterati. Sono eccitati e confusi e per tutta la durata del lungo
cerimoniale si comportano in modo decisamente fuori dalle regole.
Scambiano battute e sottolineano con commenti divertiti i vari passaggi
dell'investitura. Sembra un quadro irreale. Da una parte quattro ragazzi
dall'aria stralunata e dall'altra una lunga fila di parrucconi in alta
uniforme. Si arriva al culmine del paradosso quando la regina Elisabetta
si rivolge direttamente ai Beatles con una domanda banale: «Da quanto
tempo siete insieme?». I quattro si guardano per qualche secondo l'un
l'altro senza spiaccicare parola, mentre la regina, con un sorriso
educato stampato in volto attende paziente la risposta. Alla fine
l'imbarazzante silenzio viene rotto dalla voce di Ringo Starr che, con
voce impastata, risponde «Da quarant'anni!» mentre i suoi compagni
sghignazzano divertiti. Per evitare ulteriori incidenti la cerimonia si
avvia rapidamente alla fine. I Beatles escono dal palazzo reale
esibendosi per i fotografi in una serie di divertenti gags. La loro
eccitazione appare un po' troppo sopra le righe e qualche giornalista
avanza il dubbio che non sia "naturale", ma nessuno lancia
aperte accuse. A togliere ogni dubbio ci penseranno gli stessi Beatles
che, qualche tempo dopo, riveleranno di aver fumato marijuana «per
rilassarsi e vincere l'emozione prima della cerimonia» nei gabinetti di
Buckingham Palace
|
Nonostante
la loro luminosa ascesa in Gran Bretagna - dove la stampa aveva appena
coniato il neologismo “Beatlemania” per descrivere l’entusiasmo
intorno al complesso - alla fine dell’anno i Beatles ancora non
avevano sfondato in America. Né i loro singoli, né l loro album Please
Please Me (una versione ridotta dell’omonimo album uscito in Europa)
avevano raggiunto le classifiche statunitensi. Ma nel gennaio 1964, con
l’uscita del singolo I Want To Hold Your Hand («Congratulazioni,
signori: Avete appena finito di registrare il vostro primo vero n. 1»,
disse George Martin al termine dell’incisione di I Want To Hold Your
Hand), la Beatlemania colpì l’America: due settimane dopo l’arrivo
nei negozi il disco aveva venduto più di un milione di copie. Ma per
una curiosa coincidenza, il brano era stato anticipato per radio già
dalla fine del 1963: un d.j. americano ricevette in regalo una copia del
45 giri dalla sua fidanzata inglese, una hostess della BOAC. Il 27
dicembre 1963 così gli americani udirono nell’etere la canzone che
avrebbe messo l’America ai piedi dei Beatles. In febbraio i Beatles
fecero la loro prima apparizione negli Stati Uniti. Parteciparono al
famoso
Ed Sullivan Show, che quella sera fu visto da 73 milioni di
spettatori, con circa il sessanta per cento di share. Alla fine di
febbraio i quattro erano, di fatto, i padroni
assoluti della classifica Billboard. Oltre a detenere il primo posto
nella classifica dei 45 giri, avevano altri quattro singoli nella Top 10
e tre album (incluso Meet The Beatles, una versione ridotta per il Nord
America dell’europeo With The Beatles e che occupava il posto n° 1)
nella Top 10 dei 33 giri. Nei due anni immediatamente successivi essi
ebbero, inoltre, ventisei singoli nella Top 40, con dieci dischi al
primo posto, per un totale di 38 settimane in testa su 104, nonché
sette 33 giri al primo posto. In aggiunta a questa marcia trionfale,
essi intrapresero un tour mondiale, che li portò a conquistare i
pubblici del Giappone, dell’Australia, del Nord America (56.000
spettatori allo Shea Stadium di New York, 15 agosto 1965) e ovviamente
dell’Europa (famosi in Italia i sei concerti del giugno 1965, due
ciascuno al velodromo Vigorelli di Milano, al Palazzetto dello Sport di
Genova e al Teatro Adriano di Roma). Per finire girarono anche due film:
A Hard Day’s Night e Help!.
Il
33 giri che i Beatles fecero uscire nel dicembre del 1965, Rubber Soul,
fu, fino a quel momento, il loro album più sonoro ed elaborato, che non
tradì la stanchezza che essi indubbiamente avvertivano dopo due anni
vorticosi. In esso, sotto l’influsso di Bob
Dylan e dei Byrds e l’avvento
del folk-rock, si trovavano testi introspettivi e grande importanza agli
strumenti acustici, tra cui il sitar, in canzoni come Drive My Car,
Michelle e soprattutto Norwegian Wood (This Bird Has Flown). Nello
stesso giorno in cui uscì in Gran Bretagna Rubber Soul uscì anche un
45 giri con due canzoni inedite, Day Tripper e We Can Work It Out, due
facce A, come si diceva di canzoni della stessa importanza su un 45 giri
(ormai il 45 è il ricordo del tempo che fu, e pure il 33 si avvia a
sparire del tutto). Entrambi furono un successo. Quello stesso anno,
complici le “delicate” pressioni dell’allora primo ministro
laburista Harold Wilson, la regina Elisabetta concesse ai quattro il
titolo di Baronetti di Sua Maestà e l’onore di farsi chiamare “Sir”,
ufficialmente per i meriti artistici che avevano dato lustro al Paese,
ufficiosamente per il contributo non indifferente che i Beatles avevano
dato alla traballante industria britannica.
Revolver
uscì nell’agosto del 1966, e fu concepito come un’esplicita
risposta a Pet Sounds dei Beach Boys, che Paul McCartney considerava
«Il miglior album di sempre». A sua volta, lo stesso Pet Sounds, del
resto, era stato concepito come una replica a Rubber Soul e bisogna dire
che Brian Wilson aveva dato il meglio di sé. Infatti Paul McCartney er a
convinto che bisognasse fare meglio di quanto si fosse fatto fino a quel
momento per superare Pet Sounds. E i Beatles ci riuscirono appunto con
Revolver che conteneva succosi brani come Tomorrow Never Knows, Taxman,
Eleanor Rigby, Here, There And Everywhere e Got To Get You Into My Life,
brano questo che risente dell'influenza della musica nera della Motown.
Vista la caratura artistica che avevano dimostrato, il 1966 costituì
per i Beatles un anno di svolta, sia professionale che personale. George
Harrison fu il terzo della band a sposarsi, e Paul, l’ultimo scapolo
rimasto, intrecciò una relazione con l’attrice Jane Asher. Sul fronte
artistico, i quattro, stanchi di sballottare in giro per il mondo,
decisero di interrompere il loro tour estivo negli Stati Uniti. Poco
prima che il tour iniziasse, peraltro, la rivista per adolescenti
Datebook ristampò un’intervista concessa a un’analoga rivista
britannica, nel corso della quale John Lennon ebbe a dire: «Adesso
siamo più popolari di Gesù Cristo. Non se sia più importante il
rock-n-roll o il cristianesimo». Queste parole provocarono un terremoto
negli Stati Uniti del sud, più bigotti, dove i dischi dei Beatles
furono bruciati, John Lennon ricevette minacce di morte e i fan furono
obbligati a disertare i concerti del complesso inglese. Probabilmente
nessuno saprà mai il senso esatto delle parole di John Lennon, fatto
sta che a Chicago, il giorno prima che il tour iniziasse, un John
visibilmente scosso dalle polemiche tentò di scusarsi per le sue
parole, spiegando che lui non aveva intenzione di mettere a paragone la
statura dei Beatles con quella di Gesù Cristo. Ma non servì a nulla,
tanto che le minacce di morte continuarono, finché, al termine del
concerto di Candlestick Park, San Francisco, il 29 agosto 1966, ne
ebbero abbastanza.
ESTATE
1966 - IL TOUR NEGLI USA. "E' fatta, è finita. Ma da
questo momento non sono più un Beatle".
Parole di George Harrison, registrate a caldo subito dopo
l'ultimo concerto ufficiale nella storia dei Beatles. Accadeva
quarant'anni fa, il 29 agosto 1966, al Candlestick Park di San
Francisco. Lì, davanti a venticinquemila fan urlanti, sotto i
riflettori dello stadio dei Giants, i quattro di Liverpool, che
solo due anni prima avevano
conquistato gli Stati Uniti con il beat veloce e accattivante
delle loro canzoni, consumavano l'ultima loro apparizione dal
vivo. Con la voglia di dare una svolta alla loro carriera, di
non fare più tournée, di dedicarsi solo al lavoro in studio di
registrazione per far sbocciare idee che già da qualche mese,
sotto l'influsso di droghe e di nuovi impulsi artistici,
covavano in gran segreto. Niente più folle oceaniche, viaggi
massacranti, fan impazziti pronti ad adorarli solo per il loro
aspetto di bravi ragazzi: i quattro non erano più i musicisti
"yeah yeah" che il mondo conosceva. Erano cambiati,
erano diventati ormai artisti maturi, sacerdoti pop desiderosi
di sperimentare nuove strade. San Francisco non fu quindi
semplicemente "the last concert", ma il punto di
svolta nell'immagine e nella filosofia del gruppo: da quel
momento in poi i Beatles sarebbero stati un'altra cosa. E per
cambiare, era necessario dare un taglio netto al passato.
L'idea di mollare i tour, a dire il vero, prese forma però
molto prima di quel 29 agosto. "Nel 1966 viaggiare stava
diventando decisamente noioso e noi stavamo raggiungendo un
livello di saturazione davvero impensabile. Nessuno ascoltava i
nostri concerti. Questo ci andava bene all'inizio, ma arrivammo
al punto di fregarcene e suonare veramente male", spiegò
anni dopo Ringo Starr. Uno dei motivi per cui vennero
abbandonate le esibizioni dal vivo fu perciò il gap musicale
che all'improvviso divise i quattro dai loro fan. Basti dire che
Revolver , il disco che i Beatles pubblicarono in concomitanza
proprio con la tournée americana dell'agosto '66, non venne
neppure inserito nella scaletta dei concerti, tanto le canzoni
avevano ormai assunto la forma di elaborate composizioni rock,
impossibili da suonare dal vivo. Ma c'era anche un altro
fattore, che riguardava ancora più da vicino John, Paul, George
e Ringo. Ed era legato alla loro incolumità. In quell'estate
'66, infatti, incapparono in vari guai. Tutto cominciò durante
il tour in Giappone, dove vennero contestati perché i loro show
alla Budokan Hall di Tokyo, riservata sino a quel momento solo a
incontri di arti marziali, urtò la sensibilità di movimenti
conservatori giapponesi. Una settimana più tardi, nelle
Filippine, rifiutando l'invito a un party in loro onore
organizzato dal presidente Ferdinando Marcos e da sua moglie
Imelda, vennero addirittura quasi linciati all'aeroporto, prima
di imbarcarsi per il ritorno. Ma il fatto più eclatante capitò
quando la stampa americana, alla vigilia del tour statunitense,
pubblicò l'intervista in cui Lennon asseriva "che erano
più
famosi di Gesù Cristo". Molte stazioni radio nel Sud degli
Stati Uniti bandirono le loro canzoni e organizzarono falò con
i loro dischi, mentre gruppi di religiosi oltranzisti li
minacciarono di morte. "A un certo punto, durante il
concerto di Memphis - ricordò una volta Lennon, - membri del Ku
Klux Clan cominciarono a picchettare fuori dallo stadio. Poi
scoppiò un petardo e d'istinto, durante l'esecuzione di un
brano, smettemmo di suonare per guardarci in faccia. Pensavamo
davvero che uno di noi fosse stato colpito da un
proiettile".
Così, quel 29 agosto, quando alle 20, preceduti dai Remains,
dai Cyrkle e dalle Ronettes, i Beatles sbucarono sul campo del
Candlestick Park sicuri nel loro completo estivo con camicie a
fiori, molti dei fan radunati sulle gradinate, senza saperlo,
stavano per assistere a un evento. Paradossalmente, proprio
perché alla fine del tour, la giornata aveva assunto toni
particolari sin dal mattino, quando i quattro erano arrivati a
San Francisco con un volo charter proveniente da Los Angeles.
Poi, si erano recati quasi subito allo stadio, per dare una
conferenza stampa e incontrare amici nei camerini. Verso sera,
ricevettero anche la visita di Joan Baez. Infine, poco prima di
avviarsi verso il palco montato sulla seconda base del campo di
gioco, scortati anche da guardie del corpo, tra cui alcuni
giocatori dei Giants, McCartney si procurò una macchina
fotografica e un piccolo registratore per catturare le loro
ultime canzoni dal vivo. Durante l'esecuzione di Baby's in black
, un gruppo di ragazze riuscì per un momento persino a rompere
il cordone di polizia e a correre verso di loro. Ma poi la
musica riprese e i Beatles eseguirono nell'ordine Rock and roll
music, She's a Woman, If I needed someone, Day tripper, Baby's
in black, I feel fine, Yesterday, I wanna be your man, Nowhere
man, Paperback writer mentre per il finale, al posto di I'm
down, con cui solitamente chiudevano i live, scelsero come
omaggio alle loro radici Long tall Sally di Little Richards, la
canzone con cui invece terminavano gli spettacoli quando ancora
suonavano ad Amburgo. Harrison prima di staccare la chitarra,
improvvisò una strofa da In my life, un brano di Rubber soul. E
poi, dando le spalle alla gradinate, posarono tutti insieme per
una foto con l'autoscatto. Suonarono per 33 minuti, per un
compenso lordo di 25mila dollari. Una cifra notevole per
l'epoca. Ma mentre lasciavano lo stadio sull'ennesimo furgone
blindato, con le orecchie assordate dalle urla dei fan, erano
ben altre i traguardi che andavano sognando. E San Francisco, a
quel punto, era già definitivamente l'ultima volta.
di Massimiliano Leva (29 agosto 2006) |
L’abbandono
capitò in tempo. Ormai i loro concerti erano diventati happening
durante i quali gli urli dei fan coprivano l’acustica, mentre al
contrario i loro lavori in studio diventavano sempre più affascinanti e
raffinati. Il citato Revolver uscì appunto durante il tour americano.
Tutti unanimamente riconobbero che le sonorità del quartetto erano
affatto nuove, e che si stava configurando un cambio di stile. Infatti
da quel momento per i Beatles nulla fu più come prima.
Il
resto del 1966 fu un periodo di grande crescita personale del gruppo.
Mentre Ringo trovò finalmente il tempo per stare un po’ con la sua
famiglia, Paul si immerse nell’ambiente della Londra underground e
compose la colonna sonora del film The Family Way, registrata dalla
George Martin Orchestra. George andò in India a completare gli studi di
sitar, yoga e cultura indiana e John andò in Germania (allora)
Occidentale e in Spagna per dirigere il film How I Won The War (Come
vinsi la guerra), nel quale interpretava un ruolo importante.
Alla
fine dell’anno i quattro si riunirono negli studi EMI per il loro
nuovo album. La prima canzone a essere tagliata fu Strawberry Fields
Forever, un capolavoro scritto da John sotto l’influsso di droghe, che
racconta della sua infanzia da orfano di madre a Liverpool. La canzone
fu infine inserita in un 45 giri di cui il lato B era un altro ricordo d’infanzia,
questa volta di Paul: Penny Lane, che parlava di un vicolo che Paul,
orfano di madre anch’egli, frequentava da bambino.
L’album
che ne seguì, nel 1967, Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, un
altro capolavoro, continuava su quel filone, alternando gemme di Paul (Getting
Better, Fixing A Hole e When I’m Sixty-Four) e follìe psichedeliche
di John (Lucy In The Sky With Diamonds e Being For The Benefit Of Mr.
Kite!). I loro sempre più disparati approcci sonori si fusero nell’ultima
canzone dell’album, A Day In The Life, che fu il combinato di due
progetti incompiuti di John e Paul, riuniti in un sorprendente collage
acustico.
Su
consiglio di George Martin il disco fu registrato come una suite e,
mentre in realtà non esisteva un filo logico che unisse le varie
canzoni, la critica lo interpretò come un concept album. Dal punto di
vista musicale il disco superava di gran lunga ogni altro esperimento
musicale mai tentato prima, e divenne presto il massimo successo di
critica e di pubblico di tutti i tempi, balzando al 1° posto delle
classifiche di Billboard per un periodo record di 15 settimane. Brian
Wilson, che già stava facendo sforzi sovrumani per dare una degna
risposta a Revolver, quando apparve Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club
Band sprofondò in crisi creativa e non si riprese mai più. Altri
artisti rimasero impressionati da un disco di tal fatta, e lo
ascoltavano con rispetto e forse anche devozione. Qualcuno arrivò a
dire che Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band costituì un punto di
svolta per la cultura occidentale. Non sappiamo se questo sia vero o
meno. Di certo ha costituito un punto di non ritorno nella storia della
musica occidentale, uno di quei classici momenti-spartiacque, prima dei
quali la musica è una cosa, dopo dei quali è totalmente altra cosa e
dai quali non si può prescindere.
Tuttavia,
mentre Sgt. Pepper’s… segnava un nuovo punto massimo per i Beatles,
ne anticipava e costituiva le premesse per il prossimo scioglimento. Non
più uniti come prima, ognuno dei quattro intraprendeva percorsi
artistici autonomi. La situazione peggiorò nell’agosto del 1967,
quando Brian Epstein morì per un overdose. Brian aveva sempre tenuto in
mano la gestione economica del gruppo, lasciando che i quattro si
concentrassero sul lavoro. Quindi, dopo la morte di Brian, essi presero
direttamente in mano la loro gestione, fondarono un’etichetta
autonoma, la Apple Records, distribuita dalla EMI, e una boutique d’abbigliamento,
anch’essa chiamata Apple. Iniziarono inoltre a studiare con il
Maharishi Mahesh Yogi, che insegnava meditazione trascendentale e altre
forme di spiritualità indiana. Nei primi mesi del 1968 i quattro
seguirono il loro maestro in India. Ringo tornò dopo appena dieci
giorni, Paul cinque settimane, George e John almeno due mesi (per
puntiglio, credo, non per altro), finchè anche loro non si
allontanarono definitivamente dal Maharishi, dopo aver udito le voci che
parlavano di un suo tentativo di seduzione nei confronti dell’attrice
Mia Farrow. Dichiaratosi disilluso, John firmò la canzone Maharishi il
cui titolo fu però, infine, cambiato in Sexy Sadie: «Sexy Sadie, what
have you done? / You’ve made a fool of everyone» («Sexy Sadie, cos’hai
fatto? Hai preso in giro tutti»).
Furono
momenti di confusione per il gruppo, confusione che si riflettè nel
successivo lavoro, Magical Mystery Tour, un film-TV di un’ora
trasmesso dalla BBC nel dicembre 1967 e da cui fu tratto l’album
omonimo. Scialbo e pasticciato, fu il loro primo insuccesso di critica,
nonostante il film contenesse ottimi brani come I Am The Walrus e The
Fool On The Hill. Si rifecero con Hey Jude, una ballata di Paul che
durava più di sette minuti. Uscì come 45 giri il cui lato B era
Revolution, scritta da John.
Alla
metà del 1968 i Beatles fecero uscire un 33 giri doppio, dal titolo The
Beatles e dalle copertine e il frontespizio completamente bianchi. Per
ovvii motivi esso è universalmente conosciuto come l’Album Bianco.
Fatto di grandi canzoni, il disco abbandona le pretese concettuali in
favore del più diretto rock-n-roll e folk. Troviamo infatti brani come
Back In The U.S.S.R. e Blackbird di Paul, I’m So Tired e Happiness Is
A Warm Gun di John, While My Guitar Gently Weeps di George. Ormai i
Beatles erano tre solisti, ognuno dei quali usava gli altri come
session-man. Ringo lasciò il complesso per qualche giorno, esasperato
dalle critiche di Paul (ragion per cui la versione di Back In The
U.S.S.R. che tutti conosciamo vede alla batteria Paul McCartney); George
chiamò Eric Clapton per registrare la chitarra solista in While My
Guitar Gently Weeps e il nuovo amore di John Lennon, Yoko Ono, era una
presenza costante in studio, cosa che infastidiva gli altri. Una
settimana dopo l’uscita dell’Album Bianco, l’appena divorziato
John pubblicò Two Virgins, un album di banalità
musicali e vocali
registrato durante la prima notte insieme con Yoko. La copertina, una
foto di John e Yoko nudi, provocò vasto scompiglio, specie negli Stati
Uniti, dove essa fu sequestrata perché giudicata pornografica.
Al
tempo in cui i Beatles si riunirono negli studi cinematografici di
Twickenham, nel gennaio del 1969, Paul aveva una nuova compagna. Aveva
rotto, l’estate precedente, la sua relazione con Jane Asher e ne aveva
intrapresa una nuova con Linda Louise Eastman (ma il cui vero cognome di
famiglia era, per combinazione, Epstein), una fotografa rock americana,
figlia di un importante avvocato di New York, più anziana di lui di un
anno. A differenza di John, tuttavia, Paul non fu così ossessionato
dalla relazione con Linda da arrivare al punto da lasciare al suo
destino il resto della band. Anzi, si sforzò con determinazione di
cercare di mantenere unito il gruppo. Il lavoro di Twickenham riguardava
la realizzazione di un film di stile documentaristico, che mostrasse i
Beatles al lavoro. Il lavoro avrebbe dovuto chiamarsi Get Back, come il
loro 45 giri che era uscito in quei giorni («Get Back» vuol dire
«torna indietro», ma anche «vattene». Narra una storia, se non vera,
quantomeno verosimile, che Paul, durante la registrazione del brano,
sottolineasse la frase «Get back to where you once belonged» con
particolare enfasi, guardando Yoko Ono. Il senso della frase in effetti
è «Vattene [o tornatene] da dove sei venuto [o venuta]». Molto
probabilmente l’arrivo di Yoko Ono non è stato la causa della rottura
del gruppo. Forse ne è stato solo l’acceleratore. La rottura era
questione di due o tre anni, ma sarebbe avvenuta inevitabilmente. Si
può ritenere che Paul considerasse Yoko responsabile del deterioramento
dei rapporti personali di John con lui e gli altri del gruppo, più che
di quelli artistici. Ma questo bisognerebbe domandarlo a Paul che,
tuttavia, non ha mai imputato a Yoko nulla del genere).
In
ogni modo, la lavorazione del film andò male, ma i quattro non se ne
andarono, anche se quella volta fu George a minacciare l’abbandono.
Nonostante il loro scatenato e divertente concerto sulla terrazza del
palazzo della loro compagnia, la Apple, i nastri per i previsti film e
disco furono temporaneamente archiviati.
Il
12 marzo 1969 Paul e Linda si sposarono, imitati otto giorni più tardi
da John e Yoko. Ai due matrimoni non presenziò nessuno degli altri tre
elementi della band. Mentre il matrimonio di Paul fu volutamente
sottotono, quello di John fu l’occasione per trasformare la sua luna
di miele in una serie di eventi, ivi inclusi il bed-in di una settimana
ad Amsterdam per protestare contro la guerra in Vietnam e una conferenza
stampa a Vienna nella quale John e Yoko si mostrarono sdraiati insieme
dentro un grande sacco bianco. La stampa britannica reagì con disprezzo
alle bizzarrie dei due. Il Daily Mirror riassunse le reazioni di
condanna a John lamentando che «…tale incomparabile talento pare
esser diventato pazzo». John sembrò averli presi in parola, visto che
ad aprile uscì The Ballad Of John & Yoko, un disco pazzo e ilare
registrato insieme a Paul, nel quale i due suonano tutti gli strumenti (George
e Ringo erano occupati altrove).
In
estate i Beatles si riunirono alla EMI per registrare il loro ultimo
album di materiale originale, Abbey Road (nel corso della registrazione,
e questo sorprenderà molti, muoveva i primi passi come assistente
ingegnere del suono-factotum un giovanissimo Alan Parsons). Finalmente
le prove furono prive di intoppi e litigi che avevano caratterizzato le
registrazioni dell’Album Bianco e di Get Back. La musica fu splendida.
La prima parte fu caratterizzata da una manciata di brani di rock-pop
aspro, tra cui Come Together di John, Oh! Darling di Paul e Something di
George, in parte rovinata dalla molle I Want You (She’s So Heavy) di
John, in chiusura. La seconda parte fu registrata come una suite, aperta
da Here Comes The Sun, sempre di George; perfino Ringo ebbe il suo
momento di gloria, visto che l’album contiene anche una sua canzone,
Octopus’s Garden. Comunque la suite del lato B fu il miglior risultato
sonoro e musicale mai realizzato dal gruppo.
Purtroppo,
nonostante il nuovo, travolgente successo di Abbey Road, l’unità del
gruppo continuava a perdere inesorabilmente pezzi. Problemi d’affari
indussero John a cercare Allen Klein, allora manager dei Rolling Stones,
per offrirgli la gestione dei Beatles, mentre Paul avrebbe preferito
affidarne la gestione a suo cognato, l’avvocato Lee Eastman. La scelta
di John, tuttavia, trovò d’accordo George e Ringo, ma è tuttora
controverso se essi effettivamente si divisero su questo punto (nel
mentre nascevano le voci della morte di Paul e della sua sostituzione da
parte di un non meglio identificato William Campbell, voci smentite
dallo stesso Paul McCartney e di cui parliamo in altra parte).
Infine,
fu Paul ad annunciare il definitivo scioglimento della band in un’autointervista
inclusa nel suo primo album da solista, McCartney, pubblicato nell’aprile
del 1970. Un mese più tardi uscì il lavoro di Get Back, con il nome
Let It Be, ma Paul lo disconobbe, in quanto frutto di remix e di
sovrapposizioni non autorizzate ad opera di Phil Spector e del suo
famigerato Wall of sound. C’è da dire, per amor di verità, che i
brani che Phil Spector prese in mano erano poco più che abbozzi e che
soltanto con un pesante lavoro di editing avrebbero potuto essere
pubblicabili. Ma non costava nulla chiamare i musicisti per reincidere i
vari strumenti. Comunque, al momento dell’uscita del disco, i Beatles
non erano più. Significativamente, toccò a George Harrison, il 1°
aprile 1970, incidere in studio l’ultima canzone dei Beatles, I Me
Mine, un blues amaro e disincantato che perfettamente testimoniava la
chiusura di un capitolo della vita, sua e dei suoi compagni. E All
Things Must Pass fu il primo lavoro da solista di George…
Sappiamo
la storia dei quattro dopo lo scioglimento. In ogni caso si continua a
parlare di loro, sia come singoli sia come gruppo. Ringo si è visto
poco in questi anni, ma ha continuato a lavorare come attore oltre che
come batterista. Ha superato problemi fisici e adesso pare nuovamente in
forma. Negli ultimi anni della sua vita George si è dedicato alla
filosofia orientale, ma ha avuto anche buoni successi di vendita;
purtroppo il cancro l’ha portato via ancora giovane, nemmeno
cinquantottenne, alla fine del 2001. John è entrato nella leggenda suo
malgrado, perché fu ucciso a New York nel dicembre del 1980 da un fan
deluso. Paul invece è quello che ha avuto il maggior successo: quattro
tour mondiali, l’ultimo nel 1993, una quindicina di album di successo,
un paio di colonne sonore e ultimamente pure un’opera rappresentata
nella sua città natale, il Liverpool Oratorio. Inoltre collaborazioni
con Stevie Wonder, Michael Jackson e altri show-man di successo.
Insomma, un seguito di grosse soddisfazioni, offuscato però dal dolore
per la perdita di Linda, morta di cancro al seno nell’aprile del 1998.
Nel
1994 Paul, George e Ringo si ritrovarono in studio per registrare alcune
tracce abbozzate negli anni ’60 e rimaste inedite. Collaborò con loro
Julian Lennon, il figlio di John e della prima moglie Cynthia, e Zak
Starkey, il figlio di Ringo, diede una mano al papà alla batteria. Da
questa riunione di famiglia nacquero Free As A Bird e Real Love, che
uscirono nel 1995 e fecero parte delle canzoni incluse nella serie di CD
Anthology di cui si parlava all’inizio. Ciò permise ai tre di vincere
tre Grammy Awards e di far conoscere a nuove generazioni di fan la loro
musica. Più di quarant’anni dopo il primo fatidico incontro di John e
Paul nessuno dubita del loro posto nella storia, e non solo musicale:
essi hanno dato vita al più grande complesso della storia del rock e
sono stati i più importanti musicisti e compositori del secolo: a
ennesima dimostrazione del loro intramontabile successo, se mai ve ne
fosse ulteriore bisogno, basti vedere l’ultima uscita del gruppo: l’album
1 (One), composto di tutti i singoli (45 giri) che raggiunsero la vetta
delle classifiche USA e Gran Bretagna: da Love Me Do a Get Back, tutta
la loro storia. Uscito nel novembre 2000, raggiunse il primo posto di
vendita in Gran Bretagna scalzando gruppi che al momento andavano per la
maggiore (Blur e Oasis su tutti) e il nono posto in Italia a due
settimane dalla sua uscita; era stato il pubblico più giovane, nato
molto dopo lo scioglimento dei Quattro, che aveva decretato il successo
di tale raccolta. Si può quindi veramente dire che il fenomeno-Beatles
non fu legato a una moda, ma è inter-generazionale e la loro produzione
costituisce un punto fermo e imprescindibile nella storia del pop e
rock.
(dafflitto.com)

L'impatto
dei Beatles sul mondo è stato davvero devastante. Ancora più di Elvis
Presley, Marylin Monroe e James Dean, il gruppo ha portato il divismo a
vette fino allora inesplorate. Complice la storia, forse, perché i
giovani degli anni sessanta si ritrovarono con molti più soldi in tasca
dei loro fratelli maggiori. Complice la tecnica, forse, perché le
comunicazioni interplanetarie della musica e delle immagini conobbero
proprio in quel periodo una crescita verticale. Complice la politica,
forse, perché in quegli anni i giovani cominciarono finalmente a
decidere in prima persona del loro presente e del loro futuro. Ma per
quanti fattori si possano indicare, resta comunque un alone di mistero
attorno all'affermazione di un mito popolare del nostro secolo che è
pari solo a quello di John Fitzgerald Kennedy o di papa Giovanni.
Questo mistero che lo rende ancora vivo e affascinante a trenta e più
anni di distanza dalla sua nascita. Vediamo di esaminarne alcuni
aspetti, partendo dal retroterra.
Alla base della musica dei Beatles si possono rintracciare diverse
influenze: il rock and roll di Elvis Presley, Chuck Berry, Little
Richard, Carl Perkins, Buddy Holly; il Motown sound di Smokey Robinson e
degli Isley Brothers; le armonie vocali di gruppi femminili come le
Marvelettes e le Supremes e quelle doo wop dei gruppi di colore; il pop
collegiale degli Everly Brothers; le ballate di Tiri Pari Alley, quelle
di Goffin & King, di Leiber & Stoller; la musica da ballo in
voga all'epoca, come la bossanova e il calypso; il vaudeville inglese
degli anni trenta. Sul piano dei testi è evidente all'inizio
un'impronta anarchica e surreale, riflessa nel tono fortemente
scanzonato che caratterizza le loro creazioni. La vocazione al nonsense
dei Beatles è debitrice della tradizione umoristica inglese, da Lewis
Carrol a Edward Lear, su su fino ad arrivare a Peter Sellers e agli show
televisivi degli anni cinquanta. Le molte interviste rilasciate dai
quattro musicisti durante i primi anni di attività lasciano trapelare
un atteggiamento fortemente anticonformista, burlone, sfacciato e
irriverente.
I Beatles scrivevano da soli le loro canzoni, e questa novità assoluta
nel campo della musica leggera servì da stimolo agli altri gruppi a
venire. E poi, appunto, erano un gruppo. Quattro individualità
riassunte in un'entità più grande che faceva più della semplice
somma
algebrica. In precedenza c'erano stati solo cantanti solisti,
accompagnati da un gruppo, o dall'orchestra. I musicisti occupavano una
posizione di secondo piano e rimanevano quasi sempre anonimi. Inoltre
quei cantanti eseguivano per lo più un repertorio altrui, o costruito
apposta per loro.
La produzione dei Beatles può essere suddivisa grossomodo in tre fasi
principali: il periodo beat, che comincia con Please Please Me (1962) e
giunge fino a Help! (1965); il periodo della maturazione in senso
artistico, che va da Rubber Soul (1965) a Sgt. Pepper (1967), e infine
il periodo dell'eclettismo, che da The Bealles (l'album
"bianco", 1968).
La seconda fase è caratterizzata dall'emancipazione del gruppo
dall'influenza del rock corrente. La scuola è finita e loro ne fondano
una per proprio conto. Il tempo per concepire e realizzare un intero
album si dilata enormemente: Sgt.Pepper richiede ai quattro settecento
ore di studio, quando ne erano bastate dodici per portare a termine
l'album dell'esordio. Dall'uso delle quattro piste in Rubber Soul ai
cori con cento voci in Sgi.Pepper, i Beatles sperimentano tutto ciò che
era disponibile nella tecnologia della registrazione. A Day in the Life,
ad esempio, termina con accordi casuali eseguiti da quaranta elementi
orchestrali.
Suonavano le loro canzoni con chi gli pareva. Ma dopo i Beatles scompare
per alcuni anni, se escludiamo il caso rappresentato negli Stati Uniti
dal folksinger Bob Dylan, la figura dell'artista singolo. La musica la
si crea tutti assieme e i vari componenti del gruppo non hanno alcuna
necessità di emergere individualmente.
Il loro beat riusciva a gettare un ponte tra il continente europeo, con
la sua armonia classica e le sue regole ferree nel costruire canzoni, e
il continente afroamericano, con le infinite potenzialità contenute nei
timbri vocali e chitarristici e il richiamo travolgente esercitato dal
ritmo. L'assolo di chitarra di Can't Buy Me Love, ad esempio, ha un
sapore indiscutibilmente blues, ma resta in ogni caso disciplinato dalla
forma melodica e dalla logica della canzone tradizionale, che prevede
uno sviluppo lineare.
L'ultimo
concerto dei Beatles
Let it Be è il titolo, oltre che del brano e dell'album
omonimo, anche del film che fissa nella storia della musica
contemporanea e nell'immaginario collettivo di milioni di fan
quello che fu l'ultimo concerto dei Beatles, o comunque l'ultima
esibizione artistica con il nome di Beatles del quartetto di
Liverpool.
L'evento
ebbe luogo poco dopo mezzogiorno del 30 gennaio 1969 sul tetto
del loro quartiere generale, la Apple, al numero 3 di Savile Row,
a Londra, e durò appena una quarantina di minuti. La
registrazione cinematografica integrale della session servì per
la distribuzione di un film, Let it Be (di fatto l'ultimo della
relativamente esigua filmografia del gruppo inglese) che
prendeva il titolo dalla omonima canzone.
Non
si sa quanto i quattro scarafaggi fossero consapevoli del fatto
che quello sarebbe stato il loro ultimo concerto; sta di fatto
che ad assistere a quell'ultima esibizione furono solo poche
decine di persone le quali, approfittando della pausa pranzo,
lasciarono il posto di lavoro per salire sul tetto - forse
ignari di essere prossimi ad assistere ad un evento poi
diventato storico - attirati dal suono della musica. Alla base
dello stabile, intanto, andava radunandosi una folla di fan che
in qualche modo era venuta a conoscenza dell'evento.
I
Beatles avevano registrato da poco le ultime canzoni composte:
Let it Be, The Long and Winding Road, For You Blue, I Me Mine,
oltre a parecchi standard del rock and roll e ad alcune
differenti versioni di Get Back, I've Got a Feeling e The One
After 909. Soltanto alcuni giorni prima, il 17 gennaio, era
uscito il loro album Yellow Submarine.
Sul
terrazzo della Apple tutto fu filmato, dai preparativi, alle
prove del suono, al concerto vero e proprio, fino al per molti
versi grottesco epilogo. Il concerto (quarantadue minuti circa
di musica) sarà infatti interrotto dal sopraggiungere dei
poliziotti londinesi, chiamati a contenere gli schiamazzi
provocati nella zona dai numerosi fan presenti lungo le vie di
accesso a Savile Row.

Alla
fine il materiale girato in quella fatidica giornata comprendeva
l'esecuzione delle seguenti canzoni:
Get
Back (come prova del suono, non verrà inclusa nel film che
sarà distribuito in seguito) Get Back Don't Let Me Down I've
Got a Feeling One After 909 Dig a Pony I've Got a Feeling
(versione differente, non inclusa nel film) Don't Let Me Down
(versione differente, non inclusa nel film) Get Back
La riproposizione di quest'ultimo brano, un'ennesima reprise di
Get Back, viene interrotta nella parte finale dall'arrivo della
polizia, chiamata da alcuni inquilini dello stabile. Lo storico
Road Manager (ed ormai dirigente Apple) Neil Aspinall inizia a
confabulare con George, che smette di suonare, mentre John
prosegue a strimpellare la sua chitarra, prima di fermarsi a sua
volta ed esclamare: "Bene. Grazie a tutti da parte mia e
del gruppo, e speriamo proprio di aver superato questo
provino!".
Nello
stesso anno 1969, il 20 marzo John Lennon avrebbe poi sposato
Yoko Ono e il 26 settembre sarebbe uscito Abbey Road, l'ultimo
album inciso dai Beatles (fatta eccezione per Let it Be,
appunto, registrato prima ma diffuso successivamente nel 1970,
l'anno del definitivo scioglimento).
Sulla
Via dell'Abbazia (che a conti fatti molto somiglia nella
simmetrica profondità al Vicolo della desolazione di dylaniana
memoria) la vicenda artistica dei quattro baronetti, come gruppo
musicale, lasciava così la cronaca per entrare nella storia
della pop music. Il mito gli appassionati lo stanno inseguendo
ancora sulle liverpooliane sponde del fiume Mersey, fra le
bottegucce della Penny Lane o in mezzo agli Strawberry Fields:
sicuramente una base ideale per una ipotetica ed immaginaria
toponomastica beatlesiana.
L'Esibizione dei Beatles
sul tetto dell'Apple, Londra
(30 gennaio 1969)
La celebre esibizione dei
Beatles sul tetto della Apple è la realizzazione di un'idea
concepita il 26 gennaio nel corso di una riunione. Fu la prima
delle due "esibizioni" consecutive dei Beatles con Billy Preston
che conclusero il progetto Get Back: la seconda si sarebbe
svolta il giorno successivo nello studio del seminterrato.
L'esibizione di quel giorno è
passata alla storia come l'ultima del vivo dei Beatles, anche se
non fu un vero e proprio concerto. Lo show durò 42 minuti (se ne
vede circa metà nel sensazionale film Let it be) e incominciò
all'ora di pranzo, come un'esplosione nel vento gelido - mai
saliti su un tetto a Londra in gennaio? - che paralizzò parte
della capitale fino all'arrivo della polizia, che interruppe lo
spettacolo.
Gran parte dei 42 minuti sul
tetto fu sfruttata commercialmente, nel film Let It Be e negli
album GET BACK (inedito) e LET IT BE. Quella che segue è una
descrizione dettagliata del repertorio eseguito, desunta dai
nastri a otto piste presenti alla EMI (tra parentesi è indicato
se i vari brani furono poi usati su film o dischi).

1. Ultimi preparativi.
Michael Lindsay-Hogg grida "A tutti gli operatori: vai con la
prima!". Si comincia con la prova di Get Back, seguita da un
applauso educato che evidentemente ricorda a Paul una partita di
Cricket perchè il bassista si ravvicina al microfono e mormora
qualcosa su Ted Dexter (un giocatore di allora che militava
nelle file del Sussex e della nazionale). John dice: "Ci è
giunta una richiesta da Martin Luther".
2. Altra versione di Get Back
(nel film Let It Be c'è un riuscito montaggio di quelle due
versioni). Alla fine del brano, John dice: "...arrivata
richiesta per Daisy, Morris e Tommy".
3. Don't
Let Me Down (film Let It Be) seguita a ruota da...
4. I've Got A Feeling (film
Let It Be e LP Let It Be), al termine della quale John dice:
"Oh, anima mia..." (applausi) "...è proprio dura". A parte
qualche verso di I've Got A Feeling, George non canta mai, per
tutta l'esibizione sul tetto.
5. The One After 909, al
termine della quale John cita sarcasticamente un verso dello
standard del 1913 Danny Boy (film Let It Be, LP Let It Be e Get
back).
6. Dig A Pony, con una falsa
partenza: "Uno, due, tre, aspetta!" (John si soffia il naso).
"Uno, due tre." Al termine, John dice: "Grazie fratelli....mani
troppo fredde per suonare gli accordi" (film Let It Be e LP Let
It Be, anche se sull'album il produttore Phil Spector avrebbe
tagliato il verso iniziale e finale "All I want Is"): Prima
dell'inizio, sul nastro a otto piste c'è anche una breve prova
della canzone e la voce di John che chiede il testo. Nel film si
vede infatti un assistente che si inginocchia davanti a lui con
il testo applicato su una cartelletta.
7. L'assistente di sala Alan
Parsons cambia nastro perchè il primo è pieno. Nell'attesa i
Beatles e Billy Preston cominciano a strimpellare una breve
versione dell'inno nazionale britannico, God Save The Queen. Il
nuovo nastro ne coglie gli ultimi secondi, mai pubblicati
sull'album nè inseriti nel film.
8. I've Got A feeling,
seconda versione sul tetto (assente dal disco e dal film).

9. Don't Let Me Down, seconda
versione sul tetto (assente dal disco e dal film), seguita a
ruota da...
10. Get Back, terza versione
sul tetto, un pò disturbata dall'arrivo della polizia che cerca
di sospendere lo spettacolo. La canzone viene quasi interrotta
ma riesce ad arrancare fino alla conclusione, con Paul che
improvvisa: "Avete suonato un'altra volta sui tetti e lo sapete
che alla mamma non piace! Ora vi farà arrestare!". Alla fine
Paul rivolge un "Grazie, Mo!" alla moglie di Ringo, Maureen, per
l'applauso e le acclamazioni entusiastiche; poi John si
riavvicina al microfono per aggiungere, con un che di
gigionesco: "Vorrei dirvi grazie a nome del gruppo e di tutti
noi e spero che abbiamo passato l'audizione!" (Le parole
pronunciate da Paul e John - ma non quella versione della
canzone - sarebbero state inserite sull'LP inedito GET BACK.
Sull'album LET IT BE, un'abile dissolvenza incrociata tra la Get
Back incisa il 28 gennaio per il 45 giri e quelle parole fa
sembrare che anche la canzone provenga dall'esibizione sul
tetto. L'unica documentazione reale della Get Back, con il
finale barcollante è dunque quella del film Let It Be, con tanto
di commenti di John e Paul.
La scarna documentazione di
studio dice che alcuni brani (imprecisati) furono mixati
provvisoriamente in stereo da Glyn Johns tra le 19.30 e le 22 di
quella stessa sera agli Olympic Sound Studios di Barnes. Fatto
ciò, Johns fece trasferire di propria iniziativa i mixaggi su
acetati che consegnò ai Beatles.
All'uscita del 45 giri Get
Back / Don't Let Me Down, la Apple ricavò dal materiale girato
da Michael Lindsay-Hogg due filmati promozionali (a colori, 16
millimetri) che distribuì alle emittenti televisive. Non furono
però usate le riprese effettuate in studio il 28 gennaio durante
le registrazioni del 45 giri ma altri materiali (diversi da
quelli poi inseriti nel film Let It Be) sincronizzati con le
versioni del disco: per Get Back furono sfruttate le immagini
dell'esibizione sul tetto e per Don't Let Me Down una
combinazione tra queste e i ciak di Twickenham.
In Gran Bretagna andò in onda
solo Get Back: in bianco e nero in quattro diverse puntate di
TopOf the Pops (BBC, giovedì 24 aprile, 8 maggio, 15 maggio e 22
maggio 1969, 19.30-20) e a colori nella prima parte di Top Of
The Pops '69, trasmessa nel giorno di Natale (14.15-15). Negli
Stati Uniti furono invece presentati entrambi i filmati,
all'interno del programma The Glenn Campbell Goodtime Hour (CBS,
mercoledì 30 aprile 1969, 19.30-20.30).
Da "La grande storia dei
Beatles" (EMI - GIUNTI) di Mark Lewisohn.
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La terza fase è segnata dall'eclettismo delle quattro personalità,
ormai destinate a seguire strade individuali. Soprattutto il doppio
album "bianco" a testimoniare un eccesso di creatività che
non era più possibile tenere assieme. L'album contiene e pisodi di pura
avanguardia, come quello rappresentato da Revolution 9, perche McCartney
seguiva i concerti londinesi del compositore Luciano Berio e Lennon
subiva l'influsso della compagna, la giapponese Yóko Ono, artista
sperimentale del gruppo Fluxus (mixed media, artivisive, performance ...
). Ci sono ballate folk (Mother Naturès Son) e country (Bun galow B114;
ci sono blues (Yer Blues) e vecchi swing (Honey Pie); ci sono brani hard
rock più tardi riesumati dal punk (Helter Sketter), riff impareggiabili
(Birthday), filastrocche per bambini (Cry Baby Gry) e persino canzoni
del Far West (Rocky Raccoon). Questo album può essere con siderato alla
stregua di una vera e propria enciclopedia della musica popolare del
ventesimo secolo, cui seguiranno episodi stilisticamente più omogenei
come Abbey Road e Let It Be. Ma anche qui le sorprese non vengono
risparmiate, come dimostra il lungo medley che alterna canzoncine di
brevissima durata; quell'Her Majesty di venti secondi, non annunciata in
copertina, che spunta quando ormai il disco sembra
irrimediabilmente finito.
Il
viaggio nel mito dei Beatles può continuare con un ricordo di Paul
McCartney sugli esordi del gruppo: Quando i Beatles nacquero, io e John
scrivemmo circa cinquanta canzoni, delle quali l'unica a essere
pubblicata fu Love Me Do. Non si trattava di canzoni particolarmente
belle perché noi stavamo cercando il nuovo beat, il nuovo sound. Il New
Musical Express, che a quel tempo era un giornale tra i più seguiti,
parlava del calypso e di come il rock latino stava per diventare il
nuovo fenomeno musicale. Nel momento stesso in cui ci fermammo per
trovare quel nuovo beat i giornali cominciarono a dire che eravamo noi e
capimmo di aver scoperto il nuovo sound senza neanche averci provato».
Può
essere interessante anche conoscere l'opinione che i Beatles avevano dei
loro colleghi. Ecco, per esempio, come John Lennon ricorda i Rolling
Stones, storici rivali del gruppo: «Noi e gli Stones eravamo molto
amici. Mi sono reso conto che erano davvero bravi, fin dalla prima volta
che li ho visti al Crawdaddy di Richinond. Eravamo tutti alle prime armi
e ci piaceva girare per le strade di Londra con le nostre macchine,
incontrarci e parlare di musica fino a notte fonda con gli Animals ed
Eric (Burdon).
Sempre di John Lennon è questo ricordo, che stavolta riguarda
Dylan:
Quando
era a Londra veniva spesso a casa mia, a Kenwood, ed io non sapevo mai
che cosa dovevo fare, in quella sorta di vita borghese che conducevo,
preferivo magari andare io al suo albergo. Mi piaceva in contrarlo, lui
mi piaceva e mi piacevano molto le sue canzoni, quelle che allora si
chiamavano "canzoni di protesta". I testi erano molto belli.
Ogni tanto arrivava con qualche nuovo pezzo e mi diceva: 'Senti questa
John, ti piacciono le parole?' lo gli rispondevo che le parole erano
belle ma non erano fondamentali, era tutto l'insieme che contava: non c'è
bisogno di ascoltare quello che dice Dylan, ma come lo dice».

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