L’arancinO
rappresenta la sublimazione del più classico, e forse universalmente più noto,
supplì di riso (perdonatemi la semplificazione banalissima, che non rende
merito a qualcosa di “unico”, ma è soltanto per rendere l’idea). Quando
si gusta un’arancina, si tiene in mano una sorta di fusione di tutte le
culture che hanno dominato la Sicilia nei secoli passati: gli arabi che hanno
portato il riso, oltre che lo zafferano che qualcuno aggiunge al riso stesso,
gli spagnoli che hanno introdotto il pomodoro, portato nella penisola iberica da
Cristoforo Colombo al suo ritorno dalle Americhe, i francesi per il ragù, che
ne costituisce il cuore, e la cultura greca, che ci ha dato il formaggio
canestrato fresco (un dadino di formaggio unito al cuore di ragù dà il classico
nocciolo filante all’arancina), ormai sostituito da formaggi più facilmente
reperibili.
Ne “I viceré”, De Roberto ci spiega
che fino al XIX secolo le arancine erano grosse come angurie, ed erano un “piatto
caratteristico” del convento dei Benedettini di Catania; col passare del
tempo, invece, le arancine si sono “rimpicciolite”, fino ad arrivare alle
dimensioni, più o meno, di un’arancia (appunto!), oltre che ricordarne anche
il colore con la panatura esterna. Sulla forma si potrebbe ancora disquisire.
Nel palermitano, l’arancina al ragù è di forma sferica, iniziando ad
appuntirsi solo per distinguersi in caso di varianti (al burro con prosciutto,
ad esempio). Nella Sicilia orientale, invece, la forma è piriforme o conica,
con una parte superiore che risulta inevitabilmente più croccante dove si trova
solo riso, e una inferiore con il ricco cuore di ragù e formaggio.
Naturalmente,
a Catania le arancine si possono trovare un po’ in ogni rosticceria; quella
che volevo segnalare io ha avuto l’idea di prendere l’arancina “tradizionale”
e trasformarla, dando sfogo alla propria fantasia. Si tratta delle “Arancine
espresse di Serafino”, in via Musumeci 90, a pochi passi da via Etnea e dalla
villa Bellini (vedi mappa allegata). A parte, quindi, la classica arancina al
ragù, si possono trovare le arancine modificate in chiave marinara (arancine al
nero di seppia o ai gamberetti, ad esempio), oppure vegetariane (spinaci e
ricotta o alla norma, con melanzane, anche qui giusto per citarne un paio), fino
alle arancine dolci. E le forme sono le più stravaganti, per poter distinguere
un gusto dall’altro. E così, accanto alle classiche arancine sferiche,
piriformi o coniche, si trovano arancine cilindriche, quasi cubiche, piramidali.
Arancine un po’ per tutti i gusti, quindi; un’ottima occasione per provare
un gusto alternativo a quello tradizionale dell’arancina al ragù o dell’arancina
al burro. Il costo è assolutamente alla portata di tutte le tasche (qualcosa in
più di un euro al pezzo), e la calca che si vede un po’ a qualsiasi ora
durante la sera e la notte rappresenta la migliore garanzia di qualità.
(da
un blog in rete)
Gli
Arabi solevano mangiare delle polpette di carne tritata, mescolata con riso ed
altre erbe tra cui lo zafferano, che anch’essi avevano introdotto in Sicilia.
Gli ingredienti ora menzionati sono gli stessi utilizzati tutt’oggi per la
composizione degli arancini cà carni, pertanto dobbiamo attribuire la nascita
di questa ricetta agli Arabi.
Gli
Arancini sono una delle classiche preparazioni a base di riso nella cucina
tipica siciliana. Possono degnamente sostituire il primo piatto perchè in
definitiva si tratta di un timbaletto di riso. Sono una specialità palermitana,
ma vengono fatte, con qualche variante, in tutta l'isola. Nella Sicilia
orientale, a Messina e a Catania soprattutto, è d'uso prepararli a forma
ovoidale. Nel resto dell'isola, invece, la forma è rotonda, simile ad una
arancia, dalla quale appunto prende il nome per analogia. Diversi anche i
ripieni: con un tocco di formaggio nel catanese, con cipolla e vino bianco nell'ennese
e con cacio, senza zafferano, nel ragusano
Ogni
anno, l'8 settembre, a Ficarazzi (frazione di Acicastello) si svolge la Sagra
dell'Arancino.
Si
possono degustare arancini dal gusto classico (al ragù, al burro, ai
funghi ecc.) e dai gusti più nuovi e stuzzicanti (al pollo, al polpo,
alla nutella, ai peperoni ecc.). Le serate saranno allietate da balletti,
cabaret e animazioni varie.
Ad
appassionare i siciliani più del tifo calcistico è la querelle sulla
giusta denominazione del prelibato manicaretto isolano. Due le scuole di
pensiero: la prima, riconducibile alla Sicilia occidentale, preferisce
declinare il vocabolo con la 'a'. La seconda, tra lo Stretto e le pendici
dell'Etna, attribuisce alla vivanda il genere maschile. Affascinati da
questo mistero culinario e linguistico abbiamo voluto sciogliere una volta
e per tutte l'enigma.
"Arancina
o arancino?". "This is the question". A spaccare
in due la Sicilia, forse più del calcio, anche adesso che il Catania
raggiunge il Palermo in serie A, è l'eterna diatriba
linguistico-alimentare. Qualcuno pensa che non valga la pena affrontare il
problema, mentre altri si infervorano a tal punto da litigare con amici e
fidanzate fuorisede per stabilire quale sia la dicitura più corretta.
Due le scuole di pensiero: la prima, riconducibile alla Sicilia
occidentale, preferisce declinare il vocabolo con la 'a'. La seconda, tra
lo Stretto e le pendici dell'Etna, attribuisce al manicaretto il genere
maschile. Affascinati da questo mistero culinario e linguistico abbiamo
voluto risolvere una volta e per tutte il dilemma.
La
querelle trova spazio anche su Internet: nei forum e nei blog. Cominciamo
da un esempio emblematico. Su un forum Peppe interviene sostenendo che la
corretta dicitura sia 'arancina' perché la gustosa vivanda sarebbe stata
inventata nel capoluogo siciliano, dove appunto prende questo nome
("Qui a Palermo è femmina e visto che l'abbiamo inventata noi
abbiamo il diritto di chiamarla come vogliamo"). Spostandoci sul
forum della Rai troviamo una risposta di un "vero catanese"
(così si definisce) che scrive "arancino (a Catania è 'masculo', a
Palermo, dove credono di avere inventato anche il Padreterno, lo appellano
al femminile)". Insomma, ci troviamo di fronte ad uno scontro sulla
paternità del termine. È quella che abbiamo battezzato "teoria del
copyright": chi l'ha inventata ha il diritto di darle il nome che
vuole. C'è da chiedersi però se si possa stabilire con certezza
l'origine dell'appetitoso manicaretto e in ogni caso se in principio a
Palermo si chiamasse proprio 'arancina'. (ndr:
masculu o fimmina, l'arancino è CATANISI!)
Sempre
sul forum Rai c'è un intervento che va oltre questa spiegazione e che
riportiamo per intero: "Tendo a sottolineare che si chiamano arancine
perché la forma tonda e dorata ricorda l'arancia, quindi si dice arancina
e non arancino (almeno fino a quando non darete all'ottima preparazione la
forma di un albero)". Tutto fila liscio, catanesi e messinesi non ce
ne vogliano: forma e colore sono quelle del frutto dell'arancio che in
italiano si chiama 'arancia', dunque il nome corretto è 'arancina'.
Questa la seconda strada che possiamo percorrere. È la "teoria
dell'origine", l'abbiamo voluta chiamare così perché deriva
dall'etimo della parola.
Adesso
è arrivato il momento di toccare con mano, o meglio, con i denti e andare
al bar a chiedere - senza paura di sbagliare - una bella arancina. Ma,
proprio quando crediamo di aver risolto l'arcano, il dizionario ci
contraddice. Abbiamo consultato due dizionari di siciliano: il Mortillaro
e il Traina, entrambi del diciannovesimo secolo. Tutti e due riportano il
termine 'arancinu', nome che dunque i nostri antenati usavano per indicare
quella palla di riso fritta tanto appetitosa. In italiano diverrebbe
dunque 'arancino'.
In realtà però il nostro dialetto non fa distinzione tra il frutto e
l'albero, indicando entrambi col termine 'aranciu'. 'Arancinu' sta quindi
per "aranciu nicu", cioè "piccola arancia", ovvero 'arancina'.
È
interessante notare, tuttavia, che in nessuno dei dizionari della lingua
italiana consultati sia presente il termine 'arancina' ma solo il suo
corrispettivo maschile. È soprattutto curioso constatare che nello
Zingarelli il secondo significato di 'arancio' è il frutto agrumato. Di
conseguenza alla voce 'arancino' troviamo anche "piccola
arancia".
Insomma,
tirando le somme potremmo dire che, al di là di quanto scrivano i
dizionari, la traduzione più esatta sarebbe 'arancina' mentre in
siciliano 'arancinu' è il termine migliore. Ciononostante non
crocifiggiamo chi si ostina a nominarlo 'arancino', perché anche
l'italiano, come abbiamo visto, fa confusione tra il frutto e l'albero.
Sebbene
adesso ne possiamo avere una visione speriamo più chiara, sembra comunque
che il nodo gordiano sia impossibile da sciogliere e sia destinato a
rimanere confinato eternamente in quel luogo insondabile dove risiedono i
grandi misteri dell'umanità... e della lingua italiana.
Per
dare una soluzione definitiva ai nostri cocenti dubbi abbiamo chiesto
aiuto allo storico palermitano Gaetano Basile, direttore della rivista
"Il Pitrè", esperto di tradizioni popolari e cucina sicilina,
che dopo aver fatto un excursus storico, ha affrontato il problema
linguistico risalendo alle origini etimologiche del termine.
Per
adesso non definiamo il genere, ma limitiamoci alla pietanza. Quando nasce
e come è fatta?
"Si tratta di un piatto della cucina araba, fatto di riso profumato
di zafferano arricchito di verdure, odori e di pezzetti di carne.
Normalmente veniva servito al centro della tavola in un unico vassoio e,
come era consuetudine anche dei nostri contadini, ognuno per mangiarne
allungava le mani. Un giorno per renderlo da asporto gli arabi ne fecero
una palla simile ad una arancia, che impanata e fritta acquistò
consistenza, tanto da resistere al trasporto. Inoltre parliamo di una
vivanda che non va a male rapidamente e si mangia a temperatura
ambiente".
In origine era ripiena di ragù come oggi?
"Era fatta solo di riso, a quel tempo il pomodoro doveva ancora
arrivare dall'America. I primi acquisti della nobiltà siciliana di
pomodoro sono datati 1852. Da quella data l'ortaggio diventò un affare
entrando a pieno titolo nella cucina siciliana, tanto da poter parlare di
un "processo di pomodorizzazione". Infine diventò uno degli
ingredienti principali del ripieno dell’arancina, ma non aveva nulla a
che fare con il piatto originale".
Quindi
c’era la carne ma senza pomodoro?
"Alle origini non c’era un vero e proprio 'dentro' da essere
riempito. L’idea del ripieno nacque parecchio tempo dopo. Una volta ad
una festa ho fatto assaggiare alla gente l’arancina primitiva che fu
trovata deliziosa anche se mancava il ripieno".
Oggi
tra la Sicilia occidentale e la regione orientale dell'Isola c’è
differenza nella forma o nel condimento?
"Sostanzialmente no. Anche se qualcuno per risparmiare sullo
zafferano, soprattutto nel Messinese e in provincia di Catania, usa il
sugo del pomodoro per colorare il riso. In questo modo l’arancina assume
una colorazione e un sapore leggermente diverso. Per quanto riguarda le
dimensioni, non esiste una misura standard, normalmente le arancine
dovrebbe pesare 200 grammi (fanno eccezione quelle del Bar Touring di
Palermo che sono di 280 grammi), ma a onor del vero non è che esista una
regola culinaria che ne indichi il peso".
Bene,
passiamo al nocciolo della nostra intervista.
Si chiama arancina o arancino?
"Anche se qualcuno è ancora convinto del contrario si chiama
arancina. Si tratta di una palla di riso con la forma e il peso
dell'arancia, quindi arancina. Se si fosse scelto il termine arancino
avrebbe avuto la forma dell’arancio (l’albero) o di un ramo. L’Accademia
della Crusca è stata molto chiara in proposito: il frutto va al
femminile, mentre l’albero da cui ha origine va al maschile. Il pero dà
la pera, il melo dà la mela, l’arancio quindi l’arancia".
Ma
consultando i maggiori dizionari italiani, abbiamo scoperto che il termine
corretto sembra essere arancino?
"Ne sono al corrente, ma è comunque un errore".
Ma
come mai diventa arancino, soprattutto nella regione orientale dell’Isola?
"Alcuni col termine arancino non indicano l’arancina di cui stiamo
discutendo, ma quella a forma di pigna, che non si chiama arancino ma
supplì. La storia di questo manicaretto è un’altra. Fu inventato dai
cuochi delle grandi casate per rendere più appetibile il riso ai rampolli
nobiliari che si rifiutavano di mangiarlo. Nasce dal famoso dolce che si
chiama “la fava del re”, un cake che si cucina per l’Epifania dove
veniva nascosta una fava secca, in seguito d’avorio, d'oro o d’argento,
mentre oggi è di ceramica. Il bambino che trovava nella sua fetta la fava
diventava re per un giorno. Insomma una specie di arancina con la
sorpresa, questa sorpresa, surprise, da noi diventò ‘u supplì".
Ma
si può dire che l’arancina è nata a Palermo o comunque nella Sicilia
occidentale?
"Di questo non possiamo essere certi, è un piatto che è nato in
Sicilia nel periodo saraceno, quindi che l'inventore si chiamasse Giuseppe
o Pasqualino o che provenisse da Catania o Agrigento piuttosto che da
Palermo ci è impossibile determinarlo. Era una pietanza popolare, e in
quanto tale non possiede un unico creatore".
Sul
Traina, un dizionario siciliano edito a Palermo nel 1860, troviamo
arancinu. Come si spiega?
"Preciso che il migliore dizionario siciliano è quello di Vincenzo
Mortillaro, che insegnò semiologia della lingua italiana all’Università
di Bologna ai tempi in cui era rettore Carducci. Qui troviamo arancinu. A
quell’epoca infatti non si era chiarito che il frutto andava al
femminile mentre l’albero al maschile. A questo linguaggio ottocentesco
comunque bisogna fare sempre molta attenzione. Ad esempio se cerchiamo il
termine 'melanzana' non lo troviamo perché a quel tempo si chiamava
petronciana".
(da
un'opinione in rete) La pasticceria Savia è stato uno dei primi locali
che ho conosciuto quando ho iniziato la mia vita universitaria a Catania... chiunque parlava, più che dei prodotti dolciari, dei
leggendari arancini di Savia come
qualcosa di imperdibile e di inimitabile... e così mi sono presto
"sacrificata" per verificare in prima persona se questa fosse
solo una leggenda o corrispondesse a verità. Ebbene, era proprio così :)
Obiettivamente, da siciliana che ha assaggiato arancini in decine e decine
di locali e città diverse, devo dire che raramente ne ho gustati di così
buoni! Inanzitutto la richiesta è talmente elevata che è impossibile
vedersi servire un arancino "tenuto in caldo" da diverse ore,
credo che il tempo di vita di queste leccornie non superi mai la decina di
minuti, per cui si ha la garanzia di mangiarli sempre freschissimi,
fumanti e deliziosamente croccanti. Negli anni si è ampiamente estesa
anche la gamma dei gusti disponibili... agli storici e tradizionali
arancini al ragù e al burro, si sono affiancati quelli agli spinaci, al
salmone, al prosciutto, alla catanese (con le melenzane), ecc.. insomma ce
n'è per tutti i palati. Ho iniziato subito a parlarvi degli arancini
perchè sono il prodotto per cui Savia è particolarmente rinomato, ma non
sono da sottovalutare tutti gli altri prodotti di tavola calda, dalle
cartocciate alle bolognesi, dalle pizzette ai patè di riso, e così via.
(Piccola parentesi per i "non addetti": le cartocciate sono una
sorta di focaccia con diversi ripieni..spinaci, melenzane, wurstell,
prosciutto... la bolognese è una focaccia tonda fatta con la pasta
sfoglia e ripiena di pomodoro, mozzarella e prosciutto...insomma piccole
delizie anche queste).
La Pasticceria Savia nasce nel lontanissimo 1897 e, grazie all'eccellente
qualità dei suoi prodotti e all'abilità dei gestori, si afferma sempre
di più nel panorama gastronomico catanese, diventando una tappa
"piacevolmente" obbligata per la maggior parte dei cittadini e
dei turisti.. forte anche della favorevolissima posizione in cui è
collocata. Savia si trova infatti esattamente all'incrocio tra la via
Etnea, via catanese "per eccellenza" e la via Umberto, altra
strada principale.. nonchè di fronte alla Villa Bellini, il "polmone
verde" di Catania, meta imperdibile di giovani, anziani, famiglie,
turisti..insomma siamo proprio nel fulcro delle passeggiate catanesi.
Il locale è stato totalmente rinnovato nel 1997, in occasione del
centenario dell'attività, e si sviluppa su due piani. Al pian terreno
c'è l'angolo bar, ideale per un caffè veloce o una classica colazione a
base di cappuccino e cornetto (o, in estate, granita e brioche), e
l'immenso bancone-vetrina che espone al pubblico l'amplissima scelta di
prodotti di pasticceria, gelateria e gastronomia; al primo piano è stata
invece realizzata una raffinata sala self-service, a disposizione per chi
voglia assaporare con calma e comodamente seduto, le diverse delizie dolci
e salate, ammirando attraverso i balconi il suggestivo scenario della via
Etnea e del giardino Bellini.
Vorrei ancora sottolineare un'iniziativa molto interessante dell'azienda,
intenzionata a varcare i confini di Catania ed estendere il proprio raggio
d'azione... è stato infatti realizzato un sito web, http://www.savia.it,
da cui è possibile acquistare online diversi prodotti di
pasticceria (di cui sono specificati accuratamente dettagli e costi), che
verranno consegnati all'indirizzo indicato, dando anche la possibilità di
specificare un destinario diverso da chi effettua l'ordine, nel caso se ne
voglia approfittare per fare un "goloso" regalo.
Se
proprio volessi sforzarmi di trovare un neo per scalfire questa
valutazione assolutamente positiva, potrei puntare sulla mancanza di
tavoli all'aperto per la bella stagione, quando la Sicilia con le sue
splendide giornate, invita tutti a riversarsi nelle strade e nei locali
all'aperto, a godere della piacevolissima atmosfera e del magnifico sole.
E poi, è praticamente impossibile non trovare confusione all'interno, e
non essere costretti a fare la fila, prima a una delle due casse per lo
scontrino e poi al bancone.. ma posso garantire che l'attesa è
abbondantemente compensata dalla goduria a cui saranno poco dopo
sottoposte le vostre papille gustative..
Ma
non è tutto! Non solo Savia. A Catania, infatti, come in poche altre
città della Sicilia, sono molto diffusi straordinari pezzi di gastronomia
e rosticceria forse conosciuti solo nelle nostre terre. Ad esempio gli
arancini di riso in vari gusti (ragù, spinaci, burro, funghi), le
cartocciate (piccoli calzoni ripieni di pomodoro, formaggio, melanzane o
funghi o wurstel), le cipolline (involtini di pasta sfoglia ripieni di
cipolla, pomodoro e formaggio), le scacciate ripene di tuma, pomodoro, con
vari gusti (prosciutto, cavolfiori, patate, cipolla).
Insomma, c'è tutto quello a cui un golosone non può rinunciare e che
rende difficile una scelta!!!
Purtroppo, l'unica cosa negativa di questo posto che devo evidenziare è
l'ambiente. E' troppo piccolo e angusto per un locale che è sempre super
affollato. Occorrerebbero più posti per sedere e consumare l'ordinazione
e si potrebbe pensare un pò più in grande creando un ambiente più
accogliente! Cmq, resta il fatto che davvero si mangia benissimo e spero
che la mia opinione non venga considerata come quella di una catanese!
Infatti, a Catania numerosi sono i locali come questo ed in quasi tutti si
possono gustare pietanze veramente squisite ma qui vieni attratto dalla
garanzia della fattura tradizionale e dalla risalente esperienza!!! Forza!
Vi invito tutti a gustare per credere!!! Insomma, ne vale veramente la
pena!!
In Sicilia, la prima cosa che si fa è.... ARANCINO! (Maria
Grazia Cucinotta)
Il Guiness World Records per
l’arancino più grande del mondo non poteva che essere conquistato da
Catania. La nostra città, infatti, lo scorso 5 ottobre è stata
premiata per aver realizzato un arancino di proporzioni mai viste
prima. Grande festa in piazza Università, dove anche il sindaco
Salvo Pogliese ha preso parte alla serata.
L’arancino gigante è stato
regolarmente pesato da un giudice riconosciuto, il quale ha
attestato un peso esatto di 32,7 chili. Per friggerlo nella maniera
appropriata sono serviti ben trenta minuti di cottura in olio
bollente.
Gli chef responsabili
dell’impresa sono stati Carlo Cannavò, Orazio Gravagna e Francesco
Spampinato, premiati durante la serata condotta da Mirko Mengozzi,
presentatore radiofonico. Il mega arancino è poi stato donato al
Banco Alimentare.
Su Facebook, il sindaco Pogliese
ha così commentato: “32,7 kg. Tanto pesa l’arancino più grande del
mondo, preparato ieri sera in piazza Università dai tre cuochi
catanesi Carlo Cannavò, Francesco Spampinato e Orazio Gravagna, che
entra nel World Guinness Record battendo il precedente record di 20
kg. Catania si conferma la patria dell’arancino. Diffidate da
repliche e imitazioni!” |
Le
ricette di Camilleri.
I piatti della nonna dentro Montalbano
"E così lei vuole sapere da me la storia degli arancini di
Montalbano, dei suoi polipetti alla napoletana, dei suoi involtini di
tonno arrostito. Vuole farmi arriminare in quella zona della mia memoria
dove sono sarbàti i profumi, gli aromi, i sapori, le atmosfere e i
segreti della tavola del commissario. Cioè della mia. E va bene,
parliamone: questo è un tema che puntualmente spalanca la porta della mia
giovinezza, è un piccolo viaggio nel tempo che faccio con piacere. Ma
sappia che è una storia lunga, che principia quando io - che oggi ho
quasi ottant'anni - ero un
picciliddro che aveva sì e no sette anni. Ha
voglia di sentirla? E allora s'assittasse. Da dove cominciamo? Senza
dubbio da mia nonna Elvira, che era la generalessa della cucina. Vede, la
mia era una famiglia numerosa, nella quale ognuno aveva il suo ruolo
preciso. Mia madre e le sue sorelle, che erano le classiche donne di casa
siciliane, al momento opportuno avevano il compito primario di assistere
mia nonna Elvira.
Una cuoca formidabile, sia chiaro. E non solo: fu lei a
farmi conoscere il mio primo libro, "Alice nel paese delle
meraviglie", leggendomelo capitolo dopo capitolo quando io non avevo
ancora imparato a leggere. Ma il suo regno era la cucina. A essere
precisi, la cucina della casa di campagna. La quale distava dalla casa di
città - stiamo parlando di Porto Empedocle - meno di un chilometro e
mezzo. Un chilometro e mezzo di trazzera, però. Ora, in quella casa c'era
tutto, eppure bisognava portare sempre qualcos'altro: non ho mai capito
perché. Così si andava sulla trazzera col carretto, lentamente, e ogni
volta, puntualmente, mio nonno all'arrivo mormorava: "Mamma mia che
viaggio terribile!".
A mia nonna piaceva fare il pane. Cominciava a
famiare il forno, per portarlo a temperatura, e intanto lavorava l'impasto
con lo scanaturi. Alla fine, perché
venissero ben schiacciate, lei faceva un salto e si sedeva sopra lo
scanaturi, spianando bene tutte le forme prima di infornarle. A me toccava
la scanatedda, un panino meraviglioso, croccante e profumato. Lo aprivo
col coltello, ci mettevo olio, pepe nero e pecorino e lo mettevo nella
pressa del nonno. Così questo panino, sciaff, diventava sottile sottile.
Io mi andavo a sedere sotto un albero di carrubo con la mia scanatedda
spianata e questo, a dieci anni, mi bastava e avanzava per essere felice.
Poi c'era il rito degli arancini. Gli arancini di Montalbano, certo. Mia
nonna diceva che prepararli era lungariusu, ci voleva tanto tempo. Perché
bisognava preparare la carne, tanto di maiale e tanto di vitello,
spezzettandola col tagghiaturi, la mezzaluna. Ci voleva tempo. Si
aggiungevano i piselli, un po' di caciocavallo ragusano e qualche
pezzettino di salame, si impastava tutto in un pugno di riso e si passava
l'arancino nell'uovo, nella farina e nel pangrattato, per l'impanatura. Ma
non si friggevano subito. No, bisognava aspettare una notte, lasciarli
riposare in pace.
E il giorno dopo, a tavola, si vedeva com'erano venuti.
Perché il problema dell'arancino era il dosaggio, che non era mai lo
stesso, e dunque ogni volta mia nonna passava un esame. "Comu vinniru
stavota?" domandava. "Un tanticchia asciutti. L'autra vota erano
megliu" rispondeva mio nonno. Un giorno li fece in un modo davvero
sublime, e io stavo per dirglielo. Mio zio Massimo mi diede un cavuciu
sotto la tavola. "Boniceddu" mi sussurrò. Ma perché?, gli
domandai. "Perché lei deve sempre superare se stessa: se tu le dai
soddisfazione, è finita". Da nonna Elvira ho imparato una ricetta
speciale, un piatto inventato da lei e battezzato "a munnizza".
Il nome è buffo, d'accordo, ma il piatto è fantastico. Anche lei vuole
conoscere questa ricetta? E va bene.
Ci vogliono otto o dieci verdure
diverse, alcune crude e altre cotte. Poi si prendono delle gallette e si
copre il fondo della teglia affinché assorbano l'eccesso di olio e di
aceto. Si comincia con uno strato di verdure cotte, e lo si copre con un
altro strato di verdure crude. Poi ancora cotte, e di nuovo crude. Tanti
strati, insomma, finché non diventa una sorta di panettone coloratissimo.
Che va
condito con olio, aceto e sale e ricoperto con acciughe, fette di
arance amare, capperi, olive verdi, patate, rape e uova sode a fette.
Però bisogna mangiarlo il giorno dopo, quando tutta questa roba si è
amalgamata a dovere.
Ogni
volta che la rifaccio, assaporo il piacere di tornare indietro nel tempo.
Ho provato, le dico la verità, anche a ripetere altre cose meravigliose
della mia infanzia. Come prendere il pane caldo, andare dalla capra e
mungere il latte direttamente sulla fetta. Non ci sono mai riuscito. La
verità è che i sapori del passato sono irripetibili. Una volta, bevendo
l'uovo appena fatto, ti accorgevi subito se la gallina aveva sconfinato
nel campo di trigonella. Oggi... lasciamo stare.
Parliamo d'altro. Del
gelato, per esempio. A Porto Empedocle aveva il suo tempio nel Caffè Castiglione, che aveva un segreto per i pezzi duri. Meravigliosi. Il
giorno che Mussolini passò da lì - fermandosi in tutto 15 minuti - gli
offrirono proprio il gelato del caffè Castiglione. Dopo un po' di tempo
telefonarono da Roma alla capitaneria di porto avvertendo che stava
ammarando un idrovolante per caricare un pozzo di gelato per il duce. Il
gelato del Caffè Castiglione. Da quella volta, ogni sabato si ripeteva
l'operazione. Così, quando Mussolini inaugurò la prima autostrada
italiana, da Roma a Ostia, mio zio Riccardo che era antifascista disse a
mio padre, fascistissimo: "Pippi', lo sai picchì Mussolini fici 'sta
strata? Picchì si scantava ca i gelati c'arrivavunu squagliati". Poi
venne la guerra, e il cibo cominciò a scarseggiare. Non era facile
neanche trovare il pesce. Mio padre una volta riuscì a comprare una
partita di linguate, che sarebbero le sogliole.
Dunque organizzò una
grande cena all'aperto e furono invitati anche gli ufficiali amici suoi.
Capitò che proprio nel momento in cui vennero servite queste magnifiche
linguate, suonò la sirena dell'allarme aereo. Fu un fuggi-fuggi. I
soldati alle mitragliatrici, gli altri nel rifugio. Mio padre non si
mosse, restò davanti alla sua linguata. Papà, gli chiesi mentre correvo
verso il riparo, e gli aerei? "Mi ni futtu" rispose. Quando
uscimmo, lui era ancora lì, e s'era mangiato anche la mia linguata:
"Così impari a scantarti". Dell'arrivo degli americani ho un
ricordo nitidissimo. Mi venni a trovare a Serradifalco, proprio sulla
linea difensiva tedesca. Ogni giorno bombe e cannoneggiamenti. Si
mangiavano due fave cotte e basta. Finché una mattina sentii cantare gli
uccelli. Niente bombe. Mi affacciai e vidi che i tedeschi si erano
ritirati. Ma la cosa che mi terrorizzò fu una specie di casa gigantesca
che avanzava in mezzo alla strada. Non avevo mai visto un carro armato
così grande. Il quale si scansò per far passare una jeep con un soldato
di colore e, accanto a lui, in piedi, un ufficiale con tre stelle
sull'elmetto: era il generale Patton. Fece fermare la jeep proprio davanti
a me, perché aveva visto la tomba di un tedesco con una croce di legno
sopra. Scese, prese la croce e la spezzò. Poi diede un colpo allo
sportello e la jeep ripartì. Io ero pietrificato. E mi trovò così
l'ultimo soldato del gruppo, uno con una ghirlanda di bombe a mano attorno
al collo. "Baciamo la mani paisà" mi disse. "C'avissi pì
casu un poco d'acitu, di chiddu nostru? Aiu a fare l'insalatedda o' mè tenenti. A virduredda di campagna la truvai, e macari
l'olio e il sale. Mi manca l'acitu. Ce l'hai?". Ce l'ho, gli risposi,
e mi misi a piangere. Lo so, venivano a liberarci dal fascismo: ma per me,
in quel momento, quei soldati erano degli invasori. Il soldato tornò dopo
due ore. Io gli diedi l'aceto e poi gli mostrai la croce spezzata da
Patton. Lui capì: "Come generale non ce n'è uguali. Come omo, è 'na
cosa fitusa". Finita la guerra, potemmo tornare alla casa di
campagna. E nonna Elvira riprese il suo posto di comando. Lei era la vera
regina di quella casa, e aveva un rapporto speciale con le cose. Parlava
con gli oggetti, per dire. Una mattina la sentii parlare da sola, e
sbirciai attraverso la porta socchiusa.
Si rivolgeva a una saliera del
'700, una cosa meravigliosa. "Tu sì 'na cosa fitusa" diceva.
"Tu hai vistu mòriri a mè nonnu, hai visto mòriri a mè patri, e
ora si ccà e aspetti che moru io. Ma io ti futtu!". La prese e la
buttò dalla finestra: finì in mille pezzi, quella stupenda saliera. Era
capace di inventarsi parole nuove. "Zùnchisi", per esempio.
Essere "zùnchisi", in quella casa, voleva dire essere noioso,
camurriùso. Gli estranei, ovviamente, non capivano. Cosa che capitò
anche quando arrivò da Milano la zia Franca, la donna che aveva appena
sposato mio zio. Deve sapere che, a Porto Empedocle, muoversi si dice
cataminarsi. Perché il nostro mòviti significa l'opposto: stai fermo.
Ora, la povera zia Franca non poteva immaginarlo. E alla fine del pranzo
di famiglia organizzato per darle il benvenuto, si alzò in piedi
mostrando l'intenzione di dare una mano a sparecchiare. Un gesto di
cortesia, che naturalmente non poteva essere accettato. Così tutti
cominciarono a gridarle: "Mòviti, Franca!", "mòviti!",
"mòviti!". Lei, intimidita, prese qualcosa e corse verso la
cucina. E solo allora scoprì che tutti volevano fermarla, intimandole
"mòviti". Tirò un sospiro di sollievo: "Per un attimo,
confessò, mi sono chiesta dov'ero capitata!". Mia nonna sorrideva,
di queste cose. Era un personaggio unico, che riusciva sempre a catturare
l'attenzione. Quando la portammo in udienza da Papa Giovanni, a un certo
punto lui disse: "O trovate una sedia per questa signora o le do la
mia". Era felice di essere venuta a Roma. Mia moglie la portò a
Tivoli, nella villa di Adriano. Dopo averla vista, lei si appoggiò a una
ringhiera, mormorando: "Tutto questo è bellissimo". E morì.
Sebastiano Messina - La Domenica di Repubblica, 10.7.2005
www.vigata.org
da
Gli arancini di Montalbano: "Gesù, gli arancini di
Adelina ! Li aveva assaggiati solo una volta: un ricordo che sicuramente
gli era trasùto nel Dna, nel patrimonio genetico. Adelina ci metteva due
jornate sane sane a pripararli. Ne sapeva, a memoria, la ricetta: Il
giorno avanti si fa un aggrassato di vitellone e di maiale in parti uguali
che deve còciri a foco lentissimo per ore e ore con cipolla, pummadoro,
sedano, prezzemolo e basilico. Il giorno appresso si prìpara un risotto,
quello che chiamano alla milanisa (senza zaffirano, pi carità !), lo si
versa sopra a una tavola, ci si impastano le ova e lo si fa rifriddàre.
Intanto si còcino i pisellini, si fa una besciamella, si riducono a
pezzettini gna poco di fette di salame e si fa tutta una composta con la
carne aggrassata, triturata a mano con la mezzaluna (nenti frullatore, pì
carità di Dio !). Il suco della carne s'ammisca col risotto. A questo
punto si piglia tanticchia di risotto, s'assistema nel palmo d'una mano
fatta a conca, ci si mette dentro quanto un cucchiaio di composta e si
copre con dell'altro riso a formare una bella palla. Ogni palla la si fa
rotolare nella farina, poi si passa nel bianco d'ovo e nel pane grattato.
Doppo, tutti gli arancini s'infilano in una padeddra d'oglio bollente e si
fanno friggere fino a quando pigliano un colore d'oro vecchio. Si lasciano
scolare sulla carta e alla fine, ringraziannu u Signiruzzu, si mangiano
!".
La barzellletta degli arancini.
Un
cliente entra in un rinomato locale catanese in Via Etnea e chiede un invitante
arancina poggiata al banco della tavola calda!
Arrivato
a metà si accorge di un pelo e chiede di cambiarlo. Nel secondo arancino trova
due peli, nel terzo una matassa arrotolata di peli. Che schifo, dice
l'avventore, voglio parlare con il titolare.
Alle
proteste del cliente, che minaccia di far chiamare l’Ufficio Igiene, il
titolare replica “ma non è possibile, questo è uno storico locale. Venga con
me nel laboratorio le faccio vedere come lavoriamo. Da noi l’igiene e la
sicurezza per la nostra clientela è una cosa di vitale importanza”.
Lo
invita a passare nel retrocucina e vede il che un lavorante, di spalle, che con
la mano prende del riso, mette il ragù, e per arrotolarlo bene e dargli la
forma a palla se lo sbatte con forza sotto l'ascella schiacciandola e
arrotolandola per farle assumere la forma di cono.
A
quella vista, il titolare si mette a gridare “Pazzo, ma che stai facendo? Io
ti licenzio! Che schifo, una scena simile neppure nella peggiore cucina di uno
zoo! Che figura ci fai fare?”
E
il garzone :"Principali, lei si lamenta pi comu staiu facennu
l’arancini…. avissi a vidiri comu fazzu i scorcia ‘de cannoli !!! "
Anche loro lo preferiscono conico.
Luke Martin e Sabrina Davidson sono i titolari del
canale youtube Chopstick Travel in cui pubblicano,
con curiosità e competenza, i loro video durante i
loro tour gastronomici intorno al mondo.
Sì, youtube influencer (si chiamano così?) “mordi e
fuggi” così ce ne sono a centinaia e ognuno fa
vedere quello che ha appreso dai social, però fatti
male, senza fantasia e passione. E poi, nel caso di
Catania, non possono spingersi oltre il centro città
perdendosi parecchi tesori.
Io mi sono imbattuto per caso nel video che questi
due ragazzi hanno dedicato alla loro visita a
Catania. Tutto ben fatto, senza fronzoli e
scegliendo i posti giusti, tranne la Trattoria del
Cavaliere che, oltre a ricordare patti scellerati,
non è il massimo per la carne equina (ghiottoneria
catanese). Inoltre quella in video mi pare
un’entrecote di manzo, disponibile in ogni
steak-house della città.
Altra pecca, il tipo che con la fisarmonica suona la
bellissima musica del Padrino per far capire ai
turisti che si trovano nella terra di Don Vito
Corleone. Se non cambia repertorio, un giorno gliela
spaccherò in piena piazza Duomo.
Comunque, c’è tutto il pieno che ogni catanese
all’estero fa ogni volta che torna in ferie nella
sua Catania, cioè arancini, minnuzze di sant’Agata,
cozzuli da Playa, cannoli, polpette di cavallo,
masculini, occhi di bue e alga Mauro, granita e
brioche, la pasta alla Norma, ecc.. Tutta roba che
ha sognato per un anno ma che, puntualmente, appena
lasciata Catania e oltrepassato lo stretto,
ricomincia a sputarci sopra, da dietro la tastiera:
“dai, ormai la trovi dovunque”; oppure “non mi manca
per niente perché a Londra, Berlino o Amsterdam li
fanno meglio che a Catania”.
Mi dispiace, non è così. Capisco che non vogliono
ammetterlo per orgoglio, ma non è la stessa cosa.
Basta vedere Sabrina alle prese con l’arancino e
quello che c’è intorno a lei mentre cerca di
liberarsi dal laocoontico corteggiamento di quel
monumento a forma di vulcano. L’atmosfera che regna
attorno alle altre specialità che ho elencato non la
descrivo, perché diventerei prolisso.
I ragazzi sono anche qui.
https://www.facebook.com/chopsticktravel
M.R.
dal video CATANIA FOOD TOUR di Sofia, qui:
https://www.youtube.com/watch?v=8bjF6tw3eWQ&t=129s
U N A N T I C O D I L E M M A
La gastronomia orientale che fa la
guerra all'arancino
Si gioca a suon di morsi la
grande sfida tra i "pezzi" di tavola calda della tradizione gastronomica
catanese, guidati dall'arancino, e gli agguerriti avversari orientali,
capitanati dal kebab. A Catania le "fazioni" sono ben definite: gli over 40 si
schierano con i primi mentre i secondi contano sul sostegno dei più giovani,
meno attenti alle radici anche gastronomiche e attratti dalle decine di punti
vendita dai nomi evocativi di sapori da mille e una notte.
«Il kebab è una pietanza di origine turca il cui nome
possiamo tradurre con carne arrostita - ricorda Taoufik Brahmi, addetto in uno
di questi locali "d'importazione" - carne che è di agnello, di manzo o ancora di
pollo e viene aromatizzata con origano, menta, peperoncino, cannella, cumino e
coriandolo. Viene cotta in uno spiedo verticale che gira e messa dentro il pane
arabo, simile a una piadina. Si possono aggiungere salse o verdure di vario
tipo».
Ma ad arancini e pizzette non fa concorrenza soltanto il
kebab: la nostra tavola calda è entrata in competizione anche con il singara
(con patate e arachidi), il felafel (con ceci e lenticchie), lo spring roll (con
verdure e spaghetti di soia), la samosa (con piselli e carne di manzo), l'aloo
chop (crocchette di verdura alla curcuma). Nell'altra "squadra" oltre
all'arancino (al ragù, ma anche ai funghi, al burro, al pistacchio, alla norma,
agli spinaci, ai quattro formaggi, "a punta", rotondo oppure ancora ovale)
difendono la nostra tradizione la cipollina, la cartocciata, la bomba fritta o
al forno, il patè, la pizzetta e la bolognese.
E dunque: cultori della tradizione o innovatori del gusto?
Domenico Costanzo si iscrive tra i primi, lui non cambierebbe un arancino
neanche per due kebab, alla maniera della storica pubblicità del Dash. «Almeno
una volta alla settimana - dice - vado al solito bar a prenderne uno,
rigorosamente al ragù". Sull'altro fronte gli antagonisti giocano le loro carte
vincenti: il konopizza e il kebab alla brace, ultimo grido in fatto di novità
culinarie. Il primo di orientale non ha proprio nulla ma è lo... straniero nella
"squadra": fatto di ingredienti della tradizionale pizza italiana da un impasto
di acqua e farina, viene preparato al momento di fronte al cliente; il secondo
viene cotto al fuoco dei carboni ardenti e la carne è di pollo e tacchino o
pollo e manzo. Gabriel Comisi ne regge a fatica uno gigantesco che metterebbe in
seria difficoltà mandibole molto allenate. «Questo alla brace ha un sapore
secondo me superiore a quello normale, davvero molto gustoso. E' un alimento che
sostituisce sicuramente un pasto completo, da consumare velocemente».
La partita, insomma, si può chiudere in parità, rimandando
tutti al chiosco per il terzo tempo: tamarindo al limone e un pizzico di
bicarbonato, perché, come si dice a Catania, «accussì digirìti macari i scogghi!
».
La Sicilia 28.1.2014 - Alberto Bucchieri
LA RIVENDICAZIONE DI PALERMO:
Amici catanesi, chiamatele
arancine
Lucio Luca
E' femmina e palermitana, fatevene una ragione. L'arancino non esiste, l'ha
inventato Camilleri. Sicuramente per sfregio arancina.
Loro sanno fare meglio i dolci di mandorla. Ma noi mica li chiamiamo per sfregio
dolci di mandorlo. Loro sono i campioni delle granite, che noi rispettosamente
chiamiamo granite, al femminile seppure, a voler essere pillicusi, il ghiaccio
sarebbe maschio e definirli graniti non sarebbe un errore. Loro fanno un pezzo
di rosticceria che manco si può guardare, una volgare imitazione del nostro
calzone al forno, lo chiamano cartocciata e qualche volta ci mettono dentro pure
la mortadella (giuro). Noi quella roba lì nemmeno ci azzardiamo a chiamarla, ma
nel caso useremmo lo stesso la parola cartocciata. E allora, perché dovete
storpiare il nome dell’unica cosa che non sapete fare (ruffiano, non sapete fare
un sacco di cose ma poi dite che sono razzista) e vi ostinate a chiamarla
arancino come quel poliziotto di provincia le cui storie in ciclostile riempiono
ormai da anni librerie e schermi televisivi?
La questione è nota e si ripete ormai ciclicamente. Questa volta ci colpa Le Roi
Nibalì, il campionissimo messinese del Tour de France che tutti paragonano a
Pantani e speriamo che nella vita se la passi un po’ meglio del povero ciclista
romagnolo. Dicono gli inviatoni dei giornali che nelle tre settimane di gare
Vincenzino nostro ha rimpianto soltanto cannoli e arancini. E il web – salve,
sono il popolo del web e non mi faccio mai i fatti miei – è insorto. Passi per i
cannoli, che a Messina non sanno nemmeno cosa sono e quando lo sanno ci mettono
dentro la crema di cioccolato (Dio li perdoni), ma arancini perché? Si dice
arancina, cribbio, perché dovete infierire? Ok, loro – i catanesi – le chiamano
così. Ma solo perché sanno che le abbiamo inventate noi – i palermitani – e
l’unico campo in cui competere resta quello etimologico.
“L’arancina ha una forma rotonda simile ad una arancia di cui la Sicilia è ricca
e dalla quale prende il nome per analogia. E’ questa la forma corretta perché
arancina deriva da arancia ed è femminile”. Oh, lo dice l’Accademia della
Crusca, mica Carlo Conti. E allora? Già fate le arancine a forma di cono, con la
punta che sembra una piramide. In più ci mettete pure l’uovo (Dio li perdoni, ma
con moderazione), quelle abburro le chiamate con prosciutto e ancora avete il
coraggio di ribattere?
Dai, arrendetevi, tenetevi i vostri dolci di mandorle, le
granite e persino le cartocciate (ma tenetevele proprio…) e lasciateci le nostre
arancine. Ascoltate il verbo del maestro Davide Enia, attore e scrittore di
successo: “L’Arancina è con la A. Il resto sono solo minchiate (al plurale, con
la E). Ricorda l’arancia, sferica e piena di sole. L’arancina è femmina. Se da
qualche parte nel mondo qualcuno la vira al maschile, evvabbé, non cambia mica
il mondo, mischini. Che invece si arroghino la paternità (o maternità) del nome,
evvabbé, calarci la testa come ai fùoddi. Ma ciò non toglie che se il popolo
sceglie Barabba, il popolo ha sbagliato. ArancinA-E. Asennò, manciàtivi chìddi
del traghetto, e buon acetòne a cuegghié”.
E comunque, siccome lo so che siete sfriggiusi, almeno su una cosa cerchiamo di
essere d’accordo. Noi siamo in serie A (come arancinA, appunto), e voi in serie
B. Vi aspettiamo presto, nel frattempo ci sfondiamo di arancine accarne, abburro
e come ‘e gghiè. E forza Palermo!
http://www.dipalermo.it/2014/08/02/amici-catanesi-chiamatele-arancine/
Dove non meglio
specificato o dove prive della scritta "mimmorapisarda.it" (se non
ritagliate, ma ormai appese sui profili facebook o sulle pareti
delle rosticcerie di mezza Catania) queste immagini sono da intendersi raccolte in rete, in buona fede.
Il titolare di questo sito
le ha inserite solo per pubblica informazione e sarà ben lieto di
rimuoverle nel caso questo provochi risentimenti al proprietario
delle stesse.
|
LA RISPOSTA DI CATANIA:
I cugini di Palerma e il sesso
degli arancini. Un complesso di inferiorità culinaria
Mattia Serpotta
Un articolo del blog Dipalermo.it è giunto all’amara conclusione che
l’arancino si chiamerebbe in realtà arancina. Una questione che
credevamo risolta da anni, tanto che a Catania il dibattito si è spostato in
avanti, sull’annoso problema se l’arancino vada impugnato dalla base o dalla
punta. Senza pretese di superiorità linguistiche e culinarie, CTzen torna
sulla questione con l’intervento di un noto conoscitore della catanesità.
C’è un modo diverso di sentirsi siciliani: sostanzialmente, un modo
di essere diversamente siciliani.
Non molto lontano da Catania, ad esempio, c’è una città con una
forte tendenza a femminilizzare il mondo che li circonda. É per
questo, probabilmente, che i cugini di Palerma
amano giocare a calcio vestiti con una maglia di color rosella, il colore
preferito da Cristiano Malgioglio. Con una sostituzione
primitiva della O finale con una più discutibile A, i cugini di Palerma
hanno riaperto la questione, in verità da tempo ormai archiviata alle nostre
latitudini, relativa al sesso degli arancini,
femminilizzando così anche ciò che femmina non può essere: l’arancino.
Dopo un interessante intercedere argomentativo, che passa ironicamente in
rassegna le abitudini culinarie catanesi, un articolo apparso nel blog
Dipalermo.it è giunto alla amara conclusione che l’arancino si chiamerebbe
in realtà arancina, il suo nome derivando dall’arancia,
dalla quale mutuerebbe persino la forma sferica in luogo di quella a cono, a
noi conosciuta.
Ho una certa riluttanza epidermica ad accettare insegnamenti etimologici e
linguistici da chi, complice verosimilmente una difficoltà a livello
mandibolare, non è in grado di dire «apri la porta» o «mangiati un cornetto»
e, anche se lo chiudi dentro una stanza al buio e gli dici di ripeterlo, è
sempre lì ossessivamente a dire «rapi la poitta, manciti il coinnetto».
Ho ancora più difficoltà ad accettare insegnamenti culinari da chi, prima ti
prende in giro perché a Catania mangiamo la cartocciata, e poi si ferma per
strada a comprare pane ca’meusa. Ecco, a Catania, giusto per
capirci, la meusa è una donna dei quartieri,
insomma una mammoriana, i cugini di Palerma, invece, la meusa
se la mettono in una vastella imbottita anche con polmone di vitello, il
tutto prima bollito e poi soffritto nella sugna, con olio motore
dell’Iveco. I cugini di Palerma sono fatti così, hanno un
inceneritore nello stomaco, ma non digeriscono la nostra
cartocciata.
Con queste dovute premesse, senza pretese di superiorità linguistiche e
culinarie, vorrei tornare, spero per l’ultima volta, sulla questione del
sesso degli arancini e della loro forma. E’ una questione che credevamo
fosse ormai risolta da anni, tanto che a Catania il dibattito si è
spostato in avanti, concentrandosi sull’annoso problema, ad oggi
irrisolto, se l’arancino vada impugnato dalla base o dalla punta.
I cugini di Palerma sono rimasti invece indietro e, anziché guardare in
avanti, si guardano le dita dei piedi. Si sostiene con forza che la parola
arancina deriverebbe dall’italiano «arancia» e, dunque, la declinazione più
corretta sarebbe al femminile. Il ceppo etnico a cui appartengono i cugini
di Palerma, quello che chiama arancina l’arancino, discende con
molta probabilità dagli austriaci di Salisburgo. Li riconoscete
facilmente per strada, perché sono tutti biondi come gli Abba e guidano il
«motore». E’ gente aristocratica, che mangia le arancine nei salotti e li
tiene in mano con i guanti, per non insivarsi le mani, che poi le
dita scivolano nell’iphone. E’ gente che incontra altra gente per la strada
e l’insulta con un «sei una arancina con i piedi».
In realtà, la questione è semplice, la parola arancino
è l’italianizzazione del siciliano arancinu, che deriva a
sua volta da aranciu. In siciliano, infatti, il frutto si declina
al maschile. Queste cose di solito si sanno. Nel dizionario
siciliano-italiano del palermitano Giuseppe Biundi,
del 1857, si legge infatti solo il lemma arancinu. Nel
dizionario della lingua italiana della Treccani, ancora, non esiste
la voce arancina, ma solo arancino. Persino Camilleri ha scritto
Gli arancini di Montalbano.
Gli arancini hanno la forma di un cono per tradizione. A Palerma, li fanno a
forma di arancia solo per distinguersi. E’ un complesso di
inferiorità culinaria. Se noi li facessimo a forma di arancia, loro
li farebbero più grandi, a forma di cantalupo e li prenderebbero in mano
sentendosi Dini Zoff. Tralascio, infine, la questione sulle
origini, perché ci muoviamo fuori dal campo della realtà. I cugini di
Palerma sostengono, infatti, che l’arancino lo hanno inventato loro. Ma sono
fatti così a Palerma. Tutto passa da loro. Gli metti una matita in
mano e ti dicono che la Gioconda era della Vucciria.
Ho lasciato deliberatamente alla fine di questo articolo lo sfottò
calcistico che ci lanciano gli amici di Palerma. E’ vero,
tocca a noi quest’anno stare in serie B. Ne approfitteremo, alla
domenica, per riguardared il goal di Mascara alla Favorita nel 2009, uno dei
tanti in verità: per intenderci, quello in cui Mascara, singolare femminile
di Mascara, tirò dall’autogrill di Sacchitello. Alcuni cugini di Palerma
sono ancora in analisi.
Con questo, spero di avere messo la parola fina. Volevo dire fine.
Mattia Serpotta
http://ctzen.it/2014/08/07/i-cugini-di-palerma-e-il-sesso-degli-arancini-un-complesso-di-inferiorita-culinaria/ |
Uccio De Santis e Salvo La Rosa
A R A N C I N U
L’arancinu è quell’appetitoso “pezzo di rosticceria” a base
di riso che oggi in Sicilia si trova in tutte gli esercizi che offrono ai
clienti il servizio di “tavola calda”, ma è anche una pietanza che, sempre più,
viene preparata in casa; si torna così, inconsapevolmente, a ripetere i gesti
della preparazione di una antica ricetta culinaria.
Ma antica quanto?
Su questo argomento sono più le leggende che i dati storici.
Quindi il condizionale è d’obbligo perché in realtà le
certezze storiche sull’origine di questo preparato a base di riso sono scarse e
spesso, le poche che possiamo avere, sono ipotizzabili solo per esclusione. Poi
a contribuire alla confusione ci si mette anche il campanilismo fra le maggiori
città dell’Isola che ne rivendicano la paternità: Palermo, Catania, Messina e
Siracusa.
Ovviamente l’arancinu “tradizionale” come lo conosciamo noi
oggi, cioè con il ripieno di sugo, pezzetto di carne, formaggio dolce e piselli,
non ha una storia molto antica; infatti i primi acquisti di pomodoro da parte
della nobiltà siciliana sono datati 1852 e quindi solo a partire da questa data
si può parlare di pomodoro nella cucina siciliana e del sugo di pomodoro che
tanta popolarità darà poi al moderno arancinu.
Ma allora, in precedenza, esisteva qualcosa di simile al
nostro delizioso arancinu?
Le origini di l’arancinu, andando indietro nel tempo e
attraverso modifiche e aggiunte di antiche pietanze, ci fanno risalire
probabilmente fino ai siciliani di cultura saracena.
Se ci riferiamo al solo ingrediente principale possiamo dire
che probabilmente l'arrivo del riso in Sicilia e in altre regioni meridionali è
da attribuire appunto ai Saraceni.
A partecipare alla conquista della Sicilia, a partire
dall’827, oltre agli arabi originari della penisola arabica del Nordafrica,
accorsero anche arabi di Siria, d'Egitto, d'Iran e della penisola iberica
assieme ai Berberi che arabi non erano, ma musulmani sì.
Pare che il riso fosse sconosciuto agli antichi egizi e agli
ebrei. Dal Medio Oriente la coltura del riso giunge in Egitto nel 1° secolo dopo
Cristo. Anche i romani lo conoscevano a mala pena e i più informati della Roma
antica consideravano il cereale decorticato buono soltanto per infusi coi quali
combattere mal di pancia ed altre affezioni intestinali.
Fonti più attendibili e convincenti ci raccontano come, prima
ancora dell'espansione islamica nel bacino del Mediterraneo, che iniziò intorno
al 640 dopo Cristo, il riso fosse fra le merci che passavano attraverso i
fondaci della "Porta del pepe" di Alessandria d'Egitto; ma non come alimento di
base. Il riso era infatti considerato ancora come una spezia o un medicamento o
un ingrediente per dolci, da acquistare comunque dallo speziale a prezzi non
certamente accessibili al popolo.
Nei manoscritti del 550 dopo Cristo si dissertava ampiamente
sugli alimenti e sui metodi di coltivazione arabi, siriani, copti, nubiani,
etiopi, armeni e georgiani.
È probabile quindi che il riso approdò anche in Europa,
portato dai saraceni intorno al 9° secolo dopo Cristo, attraverso la penisola
iberica e la Sicilia. I saraceni portarono il riso, ma non ancora la
risicoltura. A parte qualche tentativo di acclimatazione della pianta nella zona
di Siracusa e nella piana di Lentini, non si va oltre. Ancora per alcuni secoli
i mercanti lo importarono, senza che nessuno riuscisse a coltivarlo in modo
significativo. L'etichetta affibbiata al riso di medicinale o, tutt’al più,
quella d’ingrediente per dolci, continuò ad essere valida fino all'alto
Medioevo.
Ricordando che gli arabi arrivarono in Sicilia nell’827 e che
i normanni iniziarono la loro conquista dell’Isola già nel 1060, la multietnica
popolazione siciliana (anche se l’Emirato di Sicilia era scomparso ormai da
tempo) risentì fortemente, ancora per più di un secolo, della cultura saracena
di cui era stata permeata soprattutto nel Val di Mazzara e nel Val di Noto, ed è
quindi possibile che l’uso del riso, quale complemento di piatti di carne e
verdure, fosse tradizionalmente previsto in ricette etniche anche se
limitatamente ad alcune ricorrenze religiose.
L’agronomo arabo-ispano Ibn al-Awwam scrisse nel 1150 il
Libro di Agricoltura, una monumentale opera in trentuno libri, dove descrive con
minuzia le fasi della coltura del riso.
Ma in realtà bisogna arrivare al 1300 per avere qualche
traccia dell’uso del riso in quantità tali che lo fanno uscire dalle categorie
speziali. Un "Libro dei conti della spesa" dei Duchi di Savoia, datato anno
1300, registra una uscita di 13 imperiali alla libbra per "riso per dolci" e di
8 imperiali per miele.
In Sicilia, oltre ai saraceni, la diffusione del riso si deve
probabilmente anche ai mercanti della serenissima repubblica di Venezia che
commerciavano con il Medio e l'Estremo Oriente importandolo come "spezia che
arrivava dall'Asia, via Grecia". Un altro documento del 1371 colloca il cereale
fra le "spezierie" e merceologicamente lo definisce "Riso d'oltremare" e "Riso
di Spagna". È documentato che anche i monaci Benedettini coltivavano il riso nei
loro orti medici, ma che avevano anche avviato la bonifica delle zone paludose
per la coltivazione estensiva del riso.
Dopo il 1400 saranno le guerre, le epidemie e le carestie,
dovute anche all'esaurimento dei vecchi alimenti destinati alle plebi come il
farro, il miglio, il sorgo, la segale, l'orzo, il frumento turgido a fare
scoprire che il riso poteva diventare un prodotto agricolo altamente produttivo
e capace di sfamare intere popolazioni, come ben sapevano gli orientali.
Quindi il progenitore di l’arancinu è con molta probabilità
un piatto della cucina araba, fatta con riso aromatizzato allo zafferano
arricchito di verdure, odori e di pezzetti di carne. Quest’antica portata veniva
servita al centro della tavola in un unico vassoio e, com’era consuetudine anche
dei nostri contadini, ognuno per mangiarne allungava le mani. Poi si entra nella
leggenda la quale racconta che gli arabi per rendere il riso da asporto ne
fecero una palla simile ad una arancia, che impanata e fritta acquistò
consistenza, tanto da resistere al trasporto. Non sappiamo se già contenesse il
ripieno di sola carne e verdure perché sembra che l’idea del ripieno sia nata
parecchio tempo dopo. Mentre, invece, la tradizione narra che l'invenzione della
panatura viene spesso fatta risalire ai cuochi della corte di Federico II,
quando si cercava un modo per recare con sé la pietanza durante i viaggi e le
battute di caccia. La panatura croccante, infatti, assicurava un'ottima
conservazione del riso e del condimento, oltre ad una migliore trasportabilità.
Anche se oggi è raro trovare chi aromatizza il riso con il
costosissimo zafferano, la colorazione paglierina del riso è molto diffusa (in
sostituzione viene usata l’economica curcuma), ma nel Messinese e in provincia
di Catania (meno in città) si usa il sugo del pomodoro per colorare il riso. In
questo modo l’arancinu assume una colorazione e un sapore leggermente diverso.
Per quanto riguarda le dimensioni, non esiste una misura
standard. Nella Sicilia Occidentale gli
si dà la forma a palla delle dimensioni
di un’arancia; mentre nella parte orientale gli si dà una forma appuntita.
Si chiama arancina o arancino?
Non si dovrebbe chiamare né arancina né arancino, ma arancinu
(come giustamente è riportato sul Traina, un dizionario siciliano edito a
Palermo nel 1860). Il suo nome deriva sì dall’arancia, ma in siciliano non si
fa, e non si faceva, differenza fra aranciu albero e aranciu frutto. Quindi una
“piccola arancia” in siciliano si dice arancinu o araciteddu. L’italianizzazione
di termini del linguaggio dialettale danno origine a storture che deformano la
tradizione, come ad esempio u cannolu che italianizzato diventa “il cannolo”, u
sfinciuni che diventa “lo sfincione”: brutto, no? Se poi ne vogliamo fare una
questione di rivalità campanilistica è un’altra storia.
di Corrado Rubino
Si dice ARANCINU O ARANCINA? Da almeno un secolo ormai questa
diatriba affligge gli abitanti della costa est ed ovest della Sicilia.
A Palermo sembrano non avere dubbi, si dice "Arancina". No si
dice "Arancinu" ribattono i catanesi. Dopo tanti anni di lotte a colpi di
etimologia, la storia sembra dare ragione ai catanesi: anche a Palermo infatti,
durante il Regno delle Due Sicilie, si diceva "arancinu".
E' probabile che nella Sicilia occidentale il termine si
stato storpiato nel corso degli anni, cosa che non sarebbe avvenuta nel
catanese.
Così risulta infatti dal rinvenimento di un dizionario
siciliano del 1857, opera del palermitano Giuseppe Biundi:
http://comitatosiciliano.blogspot.it/2015/03/si-dice-arancino-o-arancina-un.html
tutti i pareri su WIKIPEDIA
https://it.wikipedia.org/wiki/Arancino
Il parere dell’Accademia
della Crusca
Quesito: Sono molti coloro che, scrivendoci in maggioranza
dalla Sicilia e in particolare da Palermo, ma anche da Roma, Rieti, Firenze,
Bologna, ci pongono la stessa domanda a proposito della tipica preparazione
siciliana a base di riso. Si dice arancino o arancina?
Tutti sanno che… il genere del nome che indica la specialità
siciliana a base di riso con la salsa di pomodoro e la carne (o altro) divide in
due l’isola: arancina (rotonda) nella parte occidentale e arancino (rotondo o a
punta, forma che potrebbe essere ispirata dalla figura dell’Etna) nella parte
orientale, con l’eccezione di alcune aree nella zona ragusana e in quella
siracusana. Il gustoso timballo di riso siculo deve il suo nome all’analogia con
il frutto rotondo e dorato dell’arancio, cioè l’arancia, quindi si potrebbe
concludere che il genere corretto è quello femminile: arancina. Ma non è così
semplice, e vediamo perché.
L'arancino dimostra ancora una
volta di aver superato i confini internazionali: l'Oxford English
Dictionary lo ha infatti inserito tra i nuovi termini dell'ultimo
aggiornamento, rigorosamente al maschile.
Il celebre Oxford English
Dictionary esegue degli aggiornamenti dei termini per migliorare il
contenuto dei propri dizionari. Nell’edizione di ottobre sono stati
inseriti diversi vocaboli, perlopiù neologismi e termini della
cultura pop, per esempio tratti dalla saga di Star Wars.
Tuttavia, l’ultimo aggiornamento
del dizionario inglese ha anche una sorpresa per i siciliani, o
almeno per una parte del popolo isolano: l’Oxford English
Dicitionary ha infatti inserito il termine “arancini” tra le sue
parole. La scelta del vocabolo è rigorosamente al maschile e al
plurale, manifestando la preferenza degli inglesi per la versione
catanese del tipico fast food siciliano.
Da lungo tempo va infatti avanti
uno scontro tra le parti dell’isola che usano il femminile e quelle
che usano il maschile per indicare l’iconico piatto siciliano.
Storicamente le due fazioni sono rappresentate dalla provincia
palermitana e da quella catanese, quindi l’inserimento al maschile
del termine in un dizionario straniero è in parte una vittoria per
la città di Catania e per i suoi abitanti.
Il termine è già disponibile sul
sito della Oxford Dictionary, corredato da alcuni esempi e da una
definizione che descrive il piatto tipico siciliano. Nella
descrizione sono infatti inserite le informazioni principali degli
arancini che possano dare un’idea di cosa si tratta a chi ancora non
li conosce. Il tutto con grande orgoglio dei catanesi.
https://catania.liveuniversity.it/2019/10/17/arancini-oxford-dictionary/?fbclid=IwAR1Nnz--nEjLJXCC1rvTeX2XxC83Cj_AX0NiNLQHkM-TzCc09V5dswvkZp0 |
Le origini
Le origini di questa pietanza si vorrebbero far risalire al
tempo della dominazione araba in Sicilia, che durò dal IX all’XI secolo. Gli
arabi avevano l’abitudine di appallottolare un po’ di riso allo zafferano nel
palmo della mano, per poi condirlo con la carne di agnello prima di mangiarlo;
da qui la denominazione metaforica: una pallina di riso con la forma di una
piccola arancia (< ar. nāranj). Come si legge nel Liber de ferculis
di
Giambonino da Cremona (curato da Anna Martellotti, 2001), tutte le polpette
tondeggianti nel mondo arabo prendevano il nome dalla frutta a cui potevano
essere assimilate per forma e dimensioni (arance ma anche albicocche, datteri,
nocciole); il paragone con le arance era naturale in Sicilia dato che l’isola ne
è sempre stata ricca.
In realtà però non ci sono tracce di questa preparazione
nella letteratura, nelle cronache, nei diari, nei dizionari, nei testi
etnografici, nei ricettari e così via prima della seconda metà del XIX secolo:
essa dunque compare in età assai più recente di quanto si potrebbe pensare. Per
di più, si dovrà osservare che nel Dizionario siciliano-italiano di Giuseppe
Biundi (1857), il primo dizionario siciliano che registra la forma arancinu, la
definizione descrive "una vivanda dolce di riso fatta alla forma della
melarancia": dolce, non salata; ma i passaggi dolce/salato non sono infrequenti
nelle varie fasi della gastronomia, se persino la pizza alla napoletana è ancora
per la Scienza in cucina di Pellegrino Artusi (ediz. 1911) un dolce fatto di
pastafrolla e crema (ricetta 609). Nel Nuovo vocabolario siciliano-italiano del
Traina (1868), infatti, dalla voce arancinu si rinvia a crucchè: "specie di
polpettine gentili fatte o di riso o di patate o altro", da confrontare con la
ricetta 199 (Crocchette di riso composte) della Scienza in cucina, che indica
una preparazione certamente salata. Nei repertori prima citati non sono tuttavia
mai menzionati né la carne né il pomodoro, e in effetti è difficile dire quando
questi due ingredienti siano entrati nella ricetta: del pomodoro, tra l’altro,
si sa che cominciò a essere coltivato nel Sud della penisola solo all’inizio
dell’Ottocento. Alla luce di questi fatti il legame tra il supplì siciliano e la
tradizione araba non sembra più così certo, mentre si potrebbe pensare che si
tratti di un piatto nato nella seconda metà del XIX secolo come dolce di riso,
ma che sia stato trasformato quasi subito in una specialità salata.
Inoltre il nome del manicaretto – secondo l’ipotesi
suggerita da Salvatore C. Trovato in A proposito di arancino/arancina ("Archivio
Storico della Sicilia Centro Meridionale", II, 2016) – potrebbe derivare non
solo dalla forma dell’arancia, ma anche dal suo colore: in siciliano infatti le
parole parole che indicano nomi di colori si formano da una base nominale più il
suffisso -inu, quindi arancinu ‘di colore arancio’, come curaḍḍinu‘del colore
del corallo’ o frumintinu ‘che ha il colore del frumento’).
Con la O (Catania)
foto:
www.savia.it
i classici arancini catanesi al ragù, di forma conica.
Le uniche varianti nella forma sferica
in terra etnea
sono quelli al burro e agli spinaci;
in forma ovale quelli alla "catanese" o "alla norma", con melenzane.
Nel dialetto siciliano, come registrano tutti i dizionari
dialettali, il frutto dell’arancio è aranciu e nell’italiano regionale diventa
arancio. Del resto, alla distinzione di genere nell’italiano standard, femminile
per i nomi dei frutti e maschile per quelli degli alberi, si giunge solo nella
seconda metà del Novecento, e molti parlanti di varie regioni italiane – Toscana
inclusa – continuano tuttora a usare arancio per dire arancia.
Al dialettale aranciu per ‘arancia’ corrispondono il
diminutivo arancinu per ‘piccola arancia’, arancino nell’italiano regionale: da
qui il nome maschile usato per indicare il supplì di riso. La prima attestazione
nella lessicografia italiana di arancino si trova nel Dizionario moderno del
Panzini (edizione 1942), che registra la forma maschile, contrassegnandola come
dialettale siciliana. Questa denominazione, dunque, è quella che riportano i
dizionari dialettali, i dizionari italiani (basterà citare il GDLI e il GRADIT),
e che è stata adottata dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e
Forestali nella lista dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali italiani
(arancini di riso: Regione Siciliana, Prodotti della gastronomia, 188); è la
forma che il commissario Montalbano ha portato nei libri e in televisione
(Andrea Camilleri, Gli arancini di Montalbano, 1999) e di conseguenza nella
competenza di tutti gli italiani.
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Con la A (Palermo)
le arancine palermitane, di forma
sferica.
l'arancina: il ragù di lasagne dentro una palla di riso.
I dizionari quindi concordano sul genere di arancino, ma le
indicazioni del genere del nome che indica il frutto dell’arancio sono, come
abbiamo detto, oscillanti: le due varianti arancio e arancia coesistono, con una
prevalenza del femminile nell’uso scritto e una maggior diffusione del maschile
nelle varietà regionali parlate di gran parte della penisola.
Il femminile tuttavia è percepito come più corretto – almeno
nell’impiego formale – perché l’opposizione di genere è tipica nella nostra
lingua, con rare eccezioni, per differenziare l’albero dal frutto. Si può
ipotizzare che il prestigio del codice linguistico standard, verso cui sono
sempre state più ricettive le aree urbane, abbia portato la forma femminile
arancia a prevalere su quella maschile arancio nell’uso dei parlanti
palermitani: essi, avendo adottato la forma femminile per il frutto, l’hanno di
conseguenza usata nella forma alterata anche per indicare la crocchetta di riso:
dunque, arancina. Per la zona ragusana e siracusana potrebbe invece aver
influito il fatto che la forma dialettale più diffusa per indicare il frutto non
è aranciu ma partuallu/partwallu (cfr. AIS, carta 1272): la radicale diversità
dell’esito locale può aver fatto sì che quando si è assunto il termine italiano
per indicare il frutto lo si sia fatto nella forma codificata arancia, da cui
arancina.
Si potrebbe allora concludere che chi dice arancino
italianizza il modello morfologico dialettale, mentre chi dice arancina non fa
altro che riproporre il modello dell’italiano standard. Questa supposizione
troverebbe conferma nell’unica attestazione di arancina che si trova nella
letteratura di fine Ottocento: le "arancine di riso grosse ciascuna come un
mellone" dei Viceré (1894) del catanese Federico De Roberto, che si atteneva a
un modello di lingua di matrice toscana. Alla fine del secolo la variante
femminile è stata poi registrata da Corrado Avolio nel suo Dizionario dialettale
siciliano di area siracusana (un manoscritto inedito della Biblioteca Comunale
di Noto, compilato tra il 1895 e il 1900 circa) e più tardi da Giacomo De
Gregorio nei suoi Contributi al lessico etimologico romanzo con particolare
considerazione al dialetto e ai subdialetti siciliani ("Studi Glottologici
Italiani", VII, 1920, p. 398) che rappresentano l’area palermitana. Arancina è
stata registrata anche dalla lessicografia italiana: dallo ZINGARELLI del 1917,
che la glossa come "pasticcio di riso e carne tritata, in Sicilia", e dal
Panzini nell'edizione del 1927; dopo però non se ne ha più nessuna traccia.
la soluzione in dialetto siciliano: Arancinu!
foto:
www.pasticceriaspinella.it
Al di là di alcune rivendicazioni permeate da inutili
campanilismi, spesso le motivazioni di chi sostiene, contro la registrazione dei
vocabolari, che l’arancina sia fimmina con la -a traboccano di un amore (con la
a-!) per il cibo che altro non è se non amore per la propria terra e per le
proprie tradizioni; per questo basterà citare Davide Enia, attore e scrittore
palermitano: battezzare con correttezza è gesto di umiltà di fronte
all’eccezionalità del piatto, ché noi che le mangiamo le arancine, no, noi non
vogliamo (soltanto) bene all’arancina, palla di sfera che si basta da sé.
No. Noi CELEBRIAMO l’arancina, noi la veneriamo, lei e la sua
tondità solare, sfera a carne o a burro, palla, piccola arancia, fìmmina. Il
resto, non esiste il resto di fronte all’arancinA.
Ma non è tutto. Andrea Graziano, chef e imprenditore
catanese, per unire le due metà dell’isola nel giorno di Santa Lucia (giorno in
cui si festeggia mangiando panelle, cuccìa e arancine) ha proposto nella sua
"bottega sicula" palermitana, gemella di quella catanese, le arancinie: «una
porzione che comprende due arancini a punta preparati con sarde e finocchietto e
due arancine tonde preparate "alla norma" con melanzane fritte, ricotta,
pomodoro e basilico».
Una terra di mezzo in cui convivono gli arancini catanesi
e le arancine palermitane, e si fondono in un’unica specialità dal sapore
inconfondibile, simbolo della sicilianità.
Ai nostri amici possiamo quindi rispondere che il nome delle
crocchette siciliane ha sia la forma femminile sia la forma maschile,
determinata dall’uso diatopicamente differenziato.
Che poi maschio o femmina, a punta o rotonda, è sempre la
fine del mondo!
A cura di Stefania Iannizzotto
Redazione Consulenza Linguistica Accademia della Crusca
http://www.accademiadellacrusca.it/it/lingua-italiana/consulenza-linguistica/domande-risposte/si-dice-arancino-arancina
La richiesta di Mattia Iachino Serpotta
Egregio On. Giuseppe Beretta,
in
considerazione della stima e dell'affetto che a Ella mi lega, ormai da anni,
vengo umilmente con questa mia a pregarla di inoltrare alla Presidenza del
Consiglio dei Ministri e al Ministero delle Politiche Agricole la seguente
interrogazione parlamentare.
"Sig. Presidente, Sig. Ministro,
come le Loro Signorie certamente sapranno, da
circa mezzo secolo, si consuma in Sicilia una sterile disputa etimologica e, più
in generale, sulla declinazione della parola "arancino".
In particolare, a Catania, della cui
circoscrizione mi pregio essere Rappresentante, e invero nel resto della
Sicilia, con la sola eccezione della provincia di Palermo, e in Italia tutta, il
termine si declina al maschile.
Arancino è, infatti, la traduzione italiana
di "arancinu", che significa piccolo aranciu, cioè piccola arancia in siciliano.
Vi sarà certamente noto, infatti, che i nomi dei frutti in dialetto si declinano
al maschile.
Ciò è confermato da tutti i vocabolari della
lingua italiana, le cito il Devoto Oli, il Treccani, il Sabatini Coletti, su
tutti, dove infatti il termine arancina non esiste. Voi lo cercate e, al
femminile, non c'è.
Oltre che in numerose citazioni letterarie,
ancora, il termine "arancinu" si trova nel dizionario siciliano dell'800.
Succede, purtroppo, che a Palermo, e mi avvio
a concludere, civiltà aristocratica, poco incline all'uso del dialetto, dove il
cibo viene mangiato con le forchette di cachemire, un oggetto molto simile
all'arancino, viene chiamato, con chiari intenti omofobi, al femminile,
arancina, termine che, a loro avviso, significherebbe, senza passare dal
dialetto, piccola arancia.
Di tale declinazione, non è sterile
ribadirlo, non vi è traccia alcuna nei vocabolari della lingua italiana.
Ora accade che, interpellata sul punto,
perché ponesse fine a questa sterile polemica, l'Accademia della Crusca ha
legittimato e sdoganato ufficialmente, con la consulenza che qui si allega,
anche l'uso del femminile, del quale, forse apparirò ripetitivo, non c'è traccia
alcuna nei vocabolari della lingua italiana. Voi ne aprite uno a caso e,
"arancia, aranciata, aranciato, aranciera, arancino, arancio", arancina non c'è.
Una decisone che non esito a definire
democristiana, da Prima Repubblica, cui non avrebbe osato neanche Paolo Cirino
Pomicino, ma che mette seriamente in pericolo la lingua italiana, introducendo
il principio che chiunque si alzi al mattino e possa legittimare l'uso di
termini e terminologie che non esistono nel vocabolario della lingua italiana.
Tale strumento dovrebbe, infatti,
rappresentate il confine tra ciò che si può dire e ciò che non si può dire,
secondo l'ovvia regola per cui, apro il vocabolario, la parola c'è, lo posso
dire, apro il vocabolario, la parola non c'è, non lo posso dire, o quantomeno lo
posso dire, per carità, ma non è corretto.
Salvo correggere dal vocabolario il
significato della parola vocabolario, questa regola appare essere ciò che ci
distingue dagli animali, impedendoci di dire parole a caso, solo perché qualcuno
le ha pronunciate; cito esempi a caso quali "frullegiare, sbilicudi o soconetto".
Si chiede di conoscere, pertanto, quali
provvedimenti il Governo intenda adottare per la tutela dell'arancino nel mondo
e per arginare la deriva nell'uso corrente della lingua italiana, impedendo che
qualcuno, domattina, così, sempre a caso, invece che dire ciao, si senta
legittimato a salutare dicendo "Bongo".
Andremo fino a Bruxelles. Prendiamoci
Tremonzelli. Ma facciamolo adesso.
Mattia Iachino Serpotta
https://mattiaserpotta.wordpress.com/
________________________
Il mio parere
Gentile Dott.ssa Iannizzotto, non va proprio
la salomonica
composizione del trittico con la palermitana al centro e i due catanesi ai
lati, per così dire, volemose bene e viva la Sicilia! Tanto sono buone entrambi.
Appiddaveru? E che bisogno c’era di
fare questo casino multimediale? Il web ne è pieno di supposizioni e pareri
volti alla soluzione finale, altrimenti non
avremmo scomodato l'Accademia. Ma quannu mai? E Lei, da buona siciliana, si doveva schierare
da una parte!
Sia in Conca d’Oro (e a Palermo lo sanno ma
fanno finta di niente) sia nella Piana Etnea
il frutto l’hanno sempre chiamato “arancio”, dimenticando soprattutto l'analfabetismo dominante fino ai tempi dei Borboni, in periodi storici in
cui era solo maschile, come lei sottolinea nei testi del Biundi e del Traina.
Ma la pietanza in questione è nata molti
secoli prima. Durante la dominazione musulmana in Sicilia, l'arabo divenne la
lingua ufficiale avendo soppiantato il latino, con l'eccezione della parte
nord-orientale dove si sarebbe continuato a parlare anche il greco (vedi, a
questo punto, come sarebbe dovuta mai nascere l’italianissima “arancina” a
Palermo!)
A quel tempo, si sa, era usanza degli arabi mangiare
piccole quantità di riso allungando le mani su un timballo con verdure e carne di
agnello posto al centro dei commensali, per poi consumarle a bocconi tenendo il
resto nella mano sinistra. Appallottolando quelle mini porzioni in sfere di
riso, capirono che potevano trasportarle anche durante i loro viaggi. Si dice che tempo dopo, per comodità di stoccaggio,
le affusolarono perchè risparmiavano parecchio spazio nelle stive delle carovane; cioè 20
arancini (porzioni pro-capite) a punta capovolti si incastravano in 20 arancini
a punta in alto formando un unico blocco. Cosa impossibile con 40 arancini
sferici che si sarebbero spappolati fra loro. Al momento opportuno venivano
fritti nell’olio bollente, solo con acqua e farina. Siamo intorno al 900 d.C. e
non credo che gli arabi si riferissero al frutto quale arancia, perché il
dialetto siciliano è nato solo dopo la cacciata degli arabi. La lingua italiana
nella nostra Isola, per distinguere la parola arancia da arancio, non era
ancora arrivata.
Fu grazie ai cuochi di Federico II di Svevia
che, durante il suo periodo di vita a Palermo, fu aggiunta al manicaretto la
panatura con mollica di pane di cui andava ghiotto. Il
pomodoro all'interno arrivò solo dopo la scoperta delle Americhe e il ragù con
gli Angionini, che lo portarono nelle cucine siciliane. Qualcuno scrive pure che
la forma di cono consentiva di afferrarlo come un gelato e, quindi, non
sporcarsi le mani.
Comunque, Svevi, Normanni, Spagnoli, Arabi, sferica o a piramide,
nel frattempo i siciliani continuavano a chiamare il nostro frutto
arancio, e non arancia! Se proviamo a chiedere, ancora oggi, ad uno dei
nipoti degli emigrati siciliani in America “mi dai un’arancia?”, quello si
metterà a ridere e risponderà “ahhh? forsi vulevi diri n’aranciu?” Stessa cosa
ai venditori di frutta alla Vucceria.
Questa “inutile” diatriba campanilistica non
l’abbiamo cominciata noi catanesi, bensì i palermitani. Abbiamo sempre
rispettato le loro specialità, siamo consapevoli che le loro cassate sono migliori delle
nostre, così come la pasta con le sarde. Tanto di cappello, però non dicono che le
arancine rotonde le abbiamo anche a Catania, rigorosamente al
burro. Perchè a Palermo le arancine sono nate col solo burro, poi trasformate al
ragù scatenando, di fatto, una guerra infinita per dei "Supplì" un po' più grandi.
Nel capoluogo siciliano non concedono niente perchè vogliono
tutto senza lasciare briciole: settanta, scopa, ori e settebello. Convinti di aver inventato anche
la Sicilia
(cu fu? u Padreterno? .... e cu jè?), soffrono dalla notte dei tempi
di “sindrome da Capitale” e, quindi, pensano che tutto ciò che si tocchi nell'Isola
si intinga di origini palermitane.
Le strisce blu nelle città siciliane? E se
poi i catanesi ne dipingono accanto una di colore rosso? Non sia mai! Le vere strisce (fimmine),
da secoli sono state sempre rosa, su asfalto nero!
Mimmo Rapisarda.
http://www.lasicilia.it/articolo/l-arancina-l-intrusione-di-un-estranea-nel-regno-dell-arancino-alla-catanese
L’arancina, l’intrusione di
un’estranea nel regno dell’arancino alla catanese
di Ernesto Romano Dic 19, 2014
E’ proprio vero che nel mondo globalizzato non esistono più
certezze. Di una cosa, noi catanesi, eravamo sicuri e andavamo fieri:
l’arancino, specialità principe della cucina siciliana, è “maschio”. Nessun
dubbio. Era un modo per affermare la nostra identità e, soprattutto, per
distinguersi dall’altra parte dell’Isola, Palermo per intenderci, che invece lo
declina al femminile: “arancina”. Una materia, quella culinaria, che, oltre agli
altri campanilismi legati al calcio, alla politica, alla cultura, alla musica,
alle tradizioni tout court, rientra nella secolare disputa con i
cugini palermitani. Tutto questo fino a ieri, quando un fatto, se vogliamo
minimo, ha sconvolto abitudini e tradizioni che sembravano inattaccabili.
E’ bastato lo scontrino del bar catanese che fa della
tradizione e della qualità dei propri prodotti un “brand” conosciuto in tutto il
mondo, Savia, per vedere vacillare le nostre certezze. Lo scontrino, che ci è
stato recapitato in redazione da un catanese “deluso”, reca la dicitura
“arancina” in maniera inequivocabile. Inutile dire che è un colpo al cuore per
tutti quelli che, come noi, sono affezionati in maniera quasi morbosa a quel
cono di riso ripieno di ragù e fritto: uno dei simboli della nostra catanesità,
al pari del “Liotru” di piazza Duomo, della Villa Bellini, del Teatro Massimo.
Uno scherzo del destino confezionato (è proprio il caso di dirlo) nel regno
dell’arancino alla catanese o semplicemente un registratore di cassa di chiari
origini palermitane, arrivato a Catania per destabilizzarci? Scherziamo,
ovviamente, ma quel registratore di cassa forse andrebbe corretto per evitare
che le migliaia di scontrini emessi tutti i giorni finiscano nella mani
sbagliate, quelle dei nostri amici-nemici palermitani, che riderebbero di noi
come fanno da alcuni mesi a questa parte commentando le alterne sorti della
nostra amata squadra di calcio...
6 maggio 2017, data storica della gastronomia
catanese.
Savia, paladino dell'arancino, ha finalmente deciso di cambiare la nomenclatura
sulle targhette ai banconi, nonchè quella dei menù e degli scontrini: da
arancina ad arancinu, com'è giusto che sia perchè il termine deriva dalla forma
dialettale e diminutiva di "arancio", usato in Sicilia da secoli senza fare
distinzione fra pianta e frutto. Proprio per questo l'Accademia della Crusca ci
ha dato ragione.
Quindi meglio in dialetto - perchè ha un logico significato - rispetto ad
arancino che non significa quasi niente, ma che viene adottato per comode
indicazioni turistiche. Arancina? Nessun siciliano ha mai chiamato così una
piccola arancia. In tutta la Sicilia il nome di questo agrume è stato sempre al
maschile come per la pianta: aranciu. Lo chiamano così anche a Palermo e glielo
hanno spiegato in tutte le salse (al ragù, al burro, con le melenzane) ma non
vogliono capire o, per un senso di sovranità convinti che Re Federico di Svevia
risieda ancora lì, fanno finta di non capire aggrappandosi ostinatamente alla
lingua italiana ..... per non darla vinta.
Comunque, al di là del sano campanilismo perchè sono ottimi in tutta l'Isola e
Montalbano ne sa qualcosa, questa è una svolta che qui in città aspettavamo da
tempo. Quella A finale era per noi catanesi come un tradimento, consentendo
grasse risate ad ovest del'isola.
No, non potevano continuare ad etichettarli al femminile! L'avesse fatto
diventare "fimmina" un altro locale di Catania, non se ne sarebbe accorto
nessuno.... ma i Savia no. Loro fanno parte della nostra storia; il loro bar
storico, posto sull'angolo di leggendari marciapiedi, appartiene a sipari
racchiusi nella letteratura del Gallismo.
Questa decisione è stata quasi un segno di rispetto verso la catanesità. Grazie
Claudio.
(foto di Luca Giliberti)
ARANCINO O SUPPLI'? NON SCHERZIAMO, PER FAVORE!
Non avrei mai voluto scrivere questo post. Alcune cose
dovrebbero essere note a tutti. Dovrebbero essere considerate Patrimonio
dell’Umanità e dovrebbero essere insegnate a scuola. Purtroppo mi è capitato più
di una volta di sentire persone confondere l’arancino con il supplì o, cosa
ancora peggiore, di sentire dire che sono più o meno la stessa cosa. Scommetto
sia capitato anche a molti di voi (soprattutto se vivete a Roma) e scommetto che
vi siate subito lanciati in strenua difesa del mitico arancino.
Per un Siciliano DOC questa è un’offesa senza pari.
Direste mai ad un romano che il Colosseo è “più o meno” come l’Arena di Verona o
ad un calabrese che la soppressata è “più o meno” alla stregua di un
normalissimo salame piccante? O cosa ancora peggiore direste mai ad un
napoletano che la pizza è “più o meno” come la focaccia romana? Se lo avete
anche lontanamente pensato, fatevelo passare dalla testa. Quel “più o meno” fa
la differenza. D’altronde il diavolo si nasconde nei dettagli e sono proprio i
dettagli che rendono queste specialità uniche e incommensurabili. Confondere
l’arancino con il supplì è una di quelle cose che meriterebbe l’arresto. Senza
un regolare processo si intende. Ok, é vero. Entrambi sono fatti di riso, ragù e
formaggio ma anche una Cinquecento ed una Ferrari sono costruite con un motore,
4 ruote ed un volante. Ecco, più o meno è la stessa cosa. Confondere l’arancino
con il suppli è come confondere una Cinquecento con una Ferrari. Entrambi sono
delle macchine. Ad alcuni piace la Cinquecento ad altri la Ferrari ma,
converrete con me, non sono proprio la stessa cosa. Proviamo allora a spiegare
cos’è un arancino e cos’è un supplì e sgombriamo una volta per tutte il campo da
ogni dubbio.
Al di là degli ingredienti e della preparazione, la prima
cosa da tenere a mente è che, a differenza del supplì, l’arancino possiede
un’anima e un cuore. Non mi riferisco solo al cuore di ragù. Mi riferisco anche
al fatto che in Sicilia viene quasi trattato come un essere vivente. Anzi viene
quasi considerato una divinità. Mangiare un arancino è un rito sacro. Bisogna
trovare quello giusto. Bisogna scegliere la forma adatta, la panatura perfetta.
Nessuno poi si sognerebbe mai di accostarlo ad una pizza o di mangiarlo come
antipastino. L’arancino è un piatto unico che brilla di luce propria e non uno
spuntino che accompagna altro.
Passiamo ora ad un aspetto più profano ma non meno
importante: la preparazione. Avete presente come viene preparato un supplì?
Basta prendere del riso (anche avanzato dal giorno prima) ed impastarlo con ragù
e uova. Plasmarlo fino ad ottenere una poltiglia di forma allungata e porre
all’interno un po’ di mozzarella. Poi bisogna passarlo ancora nell’uovo e nel
pangrattato e friggerlo in olio bollente. Come si può ben notare il supplì è di
veloce preparazione e spesso il suo unico scopo è quello di eliminare gli avanzi
del giorno prima. Preparare l’arancino è tutt’altra storia. Non è esagerato dire
che servono due giorni interi. D’altronde lo dice anche il famoso commissario
Montalbano.
“Adelina ci
metteva due jornate sane sane a pripararli. Ne sapeva, a memoria, la ricetta. Il
giorno avanti si fa un aggrassato di vitellone e di maiale in parti uguali che
deve còciri a foco lentissimo per ore e ore con cipolla, pummadoro, sedano,
prezzemolo e basilico. Il giorno appresso si pripara un risotto, quello che
chiamano alla milanìsa, (senza zaffirano, pi carità!), lo si versa sopra a una
tavola, ci si impastano le ova e lo si fa rifriddàre. Intanto si còcino i
pisellini, si fa una besciamella, si riducono a pezzettini ‘na poco di fette di
salame e si fa tutta una composta con la carne aggrassata, triturata a mano con
la mezzaluna (nenti frullatore, pi carità di Dio!). Il suco della carne s’ammisca
col risotto. A questo punto si piglia tanticchia di risotto, s’assistema nel
palmo d’una mano fatta a conca, ci si mette dentro quanto un cucchiaio di
composta e si copre con dell’altro riso a formare una bella palla. Ogni palla la
si fa rotolare nella farina, poi si passa nel bianco d’ovo e nel pane grattato.
Doppo, tutti gli arancini s’infilano in una padeddra d’oglio bollente e si fanno
friggere fino a quando pigliano un colore d’oro vecchio. Si lasciano scolare
sulla carta. E alla fine, ringraziannu u Signiruzzu, si mangiano!”.
Direi che su questo punto non serve aggiungere altro.
Camilleri ci ha ampiamente illuminato.
Come tutte le cose mitologiche anche la nascita
dell’arancino è circondata da mistero e leggenda. Le origini dell’arancino sono
molto discusse e risulta difficile trovare un riferimento di qualche tipo su
fonti storiche che possano chiarire con esattezza le sue origini. Si pensa che
la sua nascita sia legata alla dominazione araba, periodo in cui si consumava
riso e zafferano condito con erbe e carne. La panatura sarebbe stata introdotta
invece durante la dominazione sveva e fatta risalire alla corte di Federico II.
Infatti in quel periodo si cercava un modo per portare con sè la pietanza
durante le battute di caccia o i viaggi e la panatura assicurava un’ottima
conservazione del riso e una migliore trasportabilità. Secondo altre fonti
l’arancino è nato come dolce, presumibilmente durante le festività luciane, e
solo in seguito è divenuto una pietanza salata. Probabilmente non conosceremo
mai la verità. Ma questo rende la storia ancora più avvincente e leggendaria.
Provate a cercare in rete qualcosa sull’origine del supplì. Assoluto vuoto
cosmico.
L’ultima cosa che voglio sottolineare è l’etimologia del
nome. Nella parte occidentale dell’isola questa specialità è conosciuta come
“arancina”, mentre nella parte orientale è chiamata “arancino”. Scusate se nel
post ho sempre usato il termine arancino ma sono nato e vivo nella parte
orientale dell’isola. Secondo alcuni la pietanza dovrebbe essere indicata al
femminile, in quanto il nome deriverebbe dal frutto dell’arancio, che in lingua
italiana è femminile. Le regole dell’italiano però non valgono per il dialetto
infatti la declinazione al femminile dei frutti non è molto frequente in
siciliano e quindi questa pietanza verrebbe ad essere al maschile.
E voi cosa preferite? Un arancino o un supplì?
http://ilovesicilies.altervista.org/arancino-o-suppli/
«Cari palermitani, arrendetevi: si
dice arancino»
Parola del presidente dell'Accademia
della Crusca
MANLIO MELLUSO 17 MARZO 2016
CULTURA E SPETTACOLI – Francesco Sabatini ha presentato
l'ultima edizione del suo libro, Conosco la mia lingua, all'istituto comprensivo
Buonarroti. Per il professore abruzzese, i diminutivi trasformano il referente
e, quindi, il genere grammaticale. «L'importante, però, non è come si pronuncia
ma che sia buona»
Amanti palermitani dell'arancina, rassegnatevi. Si dice
Arancino. Con la O. La fonte è di quelle che lasciano pochi margini di
discussione, il presidente dell'Accademia nazionale della Crusca Francesco
Sabatini, intervenuto all'istituto comprensivo Buonarroti per presentare
l'ultima edizione del suo libro, Conosco la mia lingua.
Per lui, abruzzese di nascita, trasferitosi a Roma per
frequentare l'università, gli accenti del centro sud non devono essere una
novità. Ma quando si parla del siciliano di fronte a una personalità così
autorevole non ci si può limitare all'analisi delle inflessioni. E allora è
quasi fisiologico ritornare su un tema che le cronache recenti hanno riportato
al centro dell'attualità, quello delle origini dell'idioma nazionale.
Presidente Sabatini, il ritrovamento di alcune poesie di
Giacomo da Lentini e di alcuni scritti di Federico II rimetterebbero in
discussione la paternità della lingua italiana, fino ad adesso universalmente
riconosciuta al fiorentino. Ci dica come stanno le cose.
«C'è stato questo precedente importante, nel 1200, con la
nascita di una lingua letteraria, il siciliano, favorita da Federico II. Questi
testi, successivamente, sono stati trascritti in toscano e hanno fornito un
esempio di poesia lirica, quindi hanno spinto il dialetto fiorentino a diventare
lingua»
Parliamo della diffusione della lingua italiana nella
Penisola: veniamo al suo libro.
«Si tratta di una ricerca di carattere scientifico-didattico
durata trent'anni. Il mio contributo mira a portare l'insegnamento sul binario
di una maggiore scientificità e, di conseguenza, renderlo più semplice, perché
quando le scienze spiegano bene una cosa ne rendono più agevole la
comprensione».
Quale modello di insegnamento propone?
«Per quel che riguarda l'italiano, inteso come lingua prima,
lingua che si apprende nell'ambiente in cui si vive, il modello punta a rendere
efficiente l'uso di ciò che si conosce già e farlo passare dall'orecchio
all'occhio. Questo è il compito affidato alla scuola: far comprendere attraverso
la lettura e la scrittura ciò che già si esprime con la parola»
Professore, tornando ai temi di attualità, non ci si può
esimere dal porle una domanda...
«Non parliamo più di petaloso, per piacere. Si è trattato
solo dello scherzo di un bambino. Tutti, fino a circa sette, otto o nove anni,
inventano parole per varie ragioni: perché sono creativi, perché amano scherzare
o semplicemente perché si allenano a usare la lingua. Si è trattato soltanto
della diffusione di una notizia che ha permesso di riflettere su questi processi
di creazione individuale»
No, professore, c'è stato un equivoco. Stavo parlando di
un'altra cosa: l'annosa questione che in Sicilia, tra isolani d'Oriente e
d'Occidente, è motivo di accese disquisizioni, più del tifo calcistico: si dice
arancino o arancina?
(Ride)
«Propendo per la prima forma, di solito i diminutivi vanno al
maschile. L'arancia è femminile, ma la trasformazione in un'altra cosa dovrebbe
far cambiare il genere grammaticale. So che a Palermo preferite chiamarla al
femminile e allora va bene anche così. L'importante non è come si pronuncia ma
chi lo fa meglio».
http://palermo.meridionews.it/articolo/41563/cari-palermitani-arrendetevi-si-dice-arancino-parola-del-presidente-dellaccademia-della-crusca/
I MIGLIORI ARANCINI DI SICILIA
SECONDO LE CLASSIFICHE DEL WEB E LE RECENSIONI DEI
TURISTI
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Pasticceria Savia, V. Etnea 302/304 –
v. Umberto 2/4/6, Catania Fondata nel 1897 dai coniugi Angelo ed
Elisabetta Savia in quella zona della città anticamente chiamata
Piano di Nicosia, da allora è uno dei punti di riferimento in
materia di cassate, cannoli, torroni e – ovviamente – arancini. Alla
catanese (con ripieno di melanzane fritte, solo per stomaci di
ferro!), al burro, con spinaci, al ragù al prosciutto… non avrete
che l’imbarazzo della scelta, ma attenzione: per non fare la figura
dei turisti e gustarveli al meglio, iniziate a mangiare gli arancini
dalla base tenendoli con la punta verso il basso, così potrete
assaporare meglio la farcitura. |
Pasticceria Spinella, V. Etnea 292/298, Catania Il destino a
volte è beffardo: i due bar più noti di Catania – che si contendono da sempre il
primato dell’arancino perfetto – sorgono uno di fianco all’altro sulla
centralissima via Etnea, e contano delle vere e proprie «tifoserie» che da tempo
immemore disquisiscono su quale sia il migliore. Se siete in città e volete
prendere parte a questo derby del cuore gastronomico, la cosa migliore consiste
forse nel provarli entrambi e decidere poi da che parte schierarvi. |
Rosticceria F.lli Famulari, V. Battisti 143, Messina n questa
famosa rosticceria di fronte all’università, potrete gustare quelli che sono
considerati i migliori arancini messinesi. Preparati con maestria e realizzati
in tantissimi gusti e forme, grazie alla passione del titolare e all’esperienza
maturata negli anni, la cucina ne sforna sempre di nuovi, e ha ormai superato la
soglia dei quaranta tipi diversi: di sicuro non avrete che l’imbarazzo della
scelta. |
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Bar Pasticceria Midolo, C.so Umberto I 86, Siracusa Se si è a
Siracusa, vige l’obbligo moral-gastronomico di passare al bar Midolo: locale
insospettabile all’angolo della strada principale della città, con un bancone
dedicato alla rosticceria, sforna arancini al ragù, alle melanzane, ai carciofi,
al prosciutto, scamorza e spinaci freschissimi, fritti al momento e sempre
caldi. Decisamente da non perdere! |
Arancini in Corso, Piazzetta Leone 2, Taormina Piccolo locale un
po’ nascosto, situato lungo la via principale di Taormina, al primo piano di un
edificio proprio sopra una libreria: la piccola gastronomia è stata ricavata
nella cucina di quello che era un appartamento privato, e – a fronte di una
scelta un po’ più limitata dal punto di vista dei gusti – offre arancini
freschissimi fatti e fritti al momento, in grado di far dimenticare l’attesa
media di dieci minuti. Non temete, ne varrà la pena! |
Bar Sport di Ferlito Mario, P.zza Guglielmo Marconi 46,
Trecastagni (CT) Per chi è a Catania, vale la pena allungarsi fino a Trecastagni solo per assaggiare quelli che – a detta di
moltissimi autoctoni – sono di fatto «i migliori arancini della Sicilia». Nato
come una piccolissima bottega che li sfornava per i pochi fortunati sempre
puntuali, il Bar Sport ora si è ingrandito e li prepara senza attese, mantenendo
intatta l’altissima qualità. Da segnalare quello al ragù, che detiene il primato
assoluto, oltre alle varianti al burro, agli spinaci e alla norma. |
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Si tratta di un piccolo locale
specializzato in arancini,principalmente da asporto visto che hanno
solo un paio di tavolini fuori sotto i portici;ci sono ovviamente
arancini di tutti i tipi,sempre appena fatti e caldi,preparati a
vista; i prezzi sono più che onesti,il servizio è veloce e i due
ragazzi sono molto professionali; |
Accoglientissimo locale in una delle
pricipali vie di Ragusa permette di assaggiare le migliori arancine
in una stragante varieta' di gusti (consiglio vivamente la furia)!!
Altra nota positiva e' l'utilizzo di prodotti di qualita'
rigorosamente GLUTEN FREE e il personale formato da persone
gentilissime. Assolutamente da provare |
Corso Savoia, 24 –
Acireale CT. Uno dei pochissimi luoghi dove gli ingredienti con cui
sono fatti gli alimenti sono freschi esattamente come se quei
prodotti li abbiate comprate voi al supermercato quando fate la
spesa per voi.
Ogni cosa ha un sapore
buonissimo, prodotti freschi, fatti bene, e con tanta scelta. |
LA VERA CLASSIFICA MARCA LIOTRU
.... poi ci sarebbero questi. Pardon, "queste".....
scansatini.
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Pasticceria Oscar, Via Mariano Migliaccio 39, Palermo Si tratta di uno dei bar
di riferimento palermitani: le sue arancine si contraddistinguono per la crosta,
croccante, consistente e con una panatura scura, nonché per il ricco ripieno che
si trova all’interno. Il gusto dato dalla frittura non prevale sul resto, e la
salatura equilibrata le rende di diritto tra le più buone e rinomate della
città.
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Ristorante Angelino, Via Ammiraglio Staiti, Trapani Vera e
propria istituzione trapanese, situata a ridosso del porto, il Ristorante
Angelino dal 1960 sforna arancine – e non solo – della città, forte della
tradizione inaugurata dal suo fondatore Angelo Galati. Il locale è sia tavola
calda, che bar e ristorante, coprendo così tutti i momenti della giornata, dalla
colazione alla cena, passando per un veloce spuntino pomeridiano. |
Antica Pasticceria Bristol, Via Ermenico Amari 28, Palermo È uno
dei bar più famosi di Palermo non solo per l’incredibile pasticceria che offre,
ma anche per le sue arancine, soprattutto quelle alla carne. Come da tradizione,
hanno una forma rotonda, una panatura dorata e croccante, riso cotto a puntino e
un ripieno anche in questo caso molto ricco. |
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Ristorante La Madia, C.so Re Capriata F. 22, Licata (AG) Sarebbe
stato ingiusto non menzionare la versione gourmet dell’arancino con ripieno di
ragù di triglia e finocchietto selvatico, ideata dallo chef stellato Pino
Cuttaia e servita nel suo rinomatissimo ristorante La Madia, il cui nome evoca
appunto i «tesori» gastronomici custoditi nelle madie di Licata, |
Arancini con la
A maiuscola. Spettacolari. Ve lo scrive uno cresciuto a funghi e
polenta..... Gestori e cuoco molto simpatici, disponibili. A noi
hanno fatto gli arancini al momento nonostante fosse orario di
chiusura |
Antico Caffe Spinnato (via Principe di Belmonte, 107
- PA).
Posizione centralissima per uno degli storici bar di Palermo, capace di offrire
arancine prelibate: panatura dorata e compatta e ripieno consistente. Si avverte
un po’ troppo la noce moscata, che potrebbe anche non piacere. |
Addio al re degli arancini
Un fiume di messaggi di cordoglio in memoria
dello storico commerciante della città.
VALVERDE DI CATANIA – Era il “re degli arancini”, così tutti
ricordano Enzo Patanè, l’imprenditore di Valverde di Catania scomparso ieri,
prematuramente, nella sua città. Titolare di una storica attività di
ristorazione, aveva interamente dedicato la sua vita al lavoro. L’annuncio della
morte è comparso nella pagina facebook della città.
“Stamattina – si legge - si è spento un pezzo di storia di
Valverde. È infatti venuto a mancare prematuramente. Il signor Patanè, re
indiscusso da generazioni degli arancini tra i più buoni dell'isola. Lo
ringraziamo per le sue bontà e gli auguriamo di friggere anche lassù così da
rendere più gustosa la permanenza a tutti. I commercianti uniti nel dolore”.
La notizia della scomparsa ha sollevato un’incredibile ondata
di cordoglio da parte di numerosi amici e conoscenti di Enzo. “Persona perbene,
educata; uomo e commerciante di altri tempi. Gran lavoratore. Mi spiace
davvero”, scrive un utente. Un uomo indimenticabile per le sue qualità umane e
imprenditoriali, ma anche per i suoi gustosi arancini che lo avevano reso
celebre. “Con suo padre – scrive un altro amico - e adesso con lui si è spenta
un pezzo della storia gastronomica Valverdese... I loro arancini erano famosi in
tutto l'interand”. E ancora: “Ciao Enzo, dei tuoi arancini, unici in Sicilia, ne
parleremo ad Andrea Camilleri. Chissà se ti dedicherà un suo romanzo”.
12 Agosto 2017
https://m.catania.livesicilia.it/2017/08/12/addio-al-re-degli-arancini-morto-enzo-patane_428547/
Titolare del ristorante "Giovanni's"
a Covent Garden, Pino Ragona, originario di San Michele di Ganzaria, ha
conquistato da tempo l’amicizia e la stima degli inglesi Londra, così lo chef
siciliano Pino supera il lockdown: «Lezioni social di polpette e arancini»
La Sicilia 19/04/2020 - di Martino Geraci
Con il suo tipico carattere a dir poco vulcanico è riuscito a
conquistare, impresa di certo non facile presso un popolo riconosciuto nel mondo
per la sua indifferenza, l’amicizia e la stima degli inglesi, tanto da essere
diventato, dopo tantissimi sacrifici, un punto di riferimento
dell’enogastronomia italiana a Londra. Il suo ristorante “Giovanni’s” è un
piccolo locale di non più di 50 posti che si trova in una viuzza settecentesca
del quartiere chic di Covent Garden, a due passi dalla zona dei teatri. Ogni
giorno è meta di politici, di esponenti della finanza, di giornalisti, di
personaggi dello spettacolo e della televisione, che si mettono tutti
rigorosamente in fila per entrare e gustare così le prelibatezze della cucina
siciliana. La carta vincente giocata dal suo proprietario Pino Ragona,
infatti, è stata proprio quella di catturare i palati degli anglosassoni, e non
solo, con quei piatti cosiddetti “poveri” della tradizione nostrana, ovvero
quelli che preparavano le nostre nonne o le nostre madri nel periodo del secondo
dopoguerra. Così facendo Pino Ragona, 68 anni, originario di San Michele di
Ganzaria, piccolo centro del Calatino, tiene ancora vivi i legami con la sua
terra natia, da cui partì mezzo secolo fa con i fratelli Roberto e Daniele.
La loro è una di quelle tante storie di emigrati che ce
l’hanno fatta, raggiungendo notorietà e successo, perché hanno saputo mettere in
campo sacrificio, competenza, umiltà e anche un pizzico di genialità. La stessa
che sta muovendo in questi ultimi giorni Pino, che, dopo avere chiuso il locale
il 14 marzo per il Lockdown anticoronavirus e non essendo tipo da poltrire sul
divano davanti alla tv, si è inventato una sorta di programma culinario con
tanto di diretta social dalla pagina ufficiale del suo ristorante. Con un
immancabile sottofondo di musica siciliana, si va da “Vitti ’na Crozza” a “Ciuri
Ciuri”, spiega ai suoi clienti come si preparano alcune specialità (dolci e
salate) sicule che fanno leccare i baffi a chiunque: dagli arancini alle
polpette, dalle colombe di Pasqua ai Purceddati.
Con tanta simpatia e con un inglese dall’immancabile accento
siculo, Pino spiega dalla sua cucina in stile vittoriano, con tanto di
dimostrazione pratica, i passaggi per realizzarle, sulla base delle antiche
ricette di nonna Rosa e della zia Concetta. A leggere i commenti esterrefatti e
entusiasti alle sue dimostrazioni, non è difficile immaginare lo stupore degli
inglesi nel vedere quello chef vestito di bianco, con tanto di simbolo della
Sicilia stampato sul braccio destro, impastare riso, carne e farina dolce e poi
trasformarle in oggetti del desiderio. «Ho avuto questa pensata delle dirette -
racconta Pino, che dalla bellissima moglie Claire ha avuto due figli, Virgilio e
Azzurra - sia per non restare a casa a non far nulla e sia per continuare ad
essere ambasciatore della
Sicilia nel Regno Unito. Qui, a Londra, apprezzano tantissimo la nostra
tradizione culinaria, perché fondata su genuinità e spontaneità. Gli inglesi,
che sono un popolo molto curioso, sono attratti in modo particolare dalla bontà
dei nostri ingredienti, che faccio arrivare direttamente dall’Isola, come olio
d’oliva, vino, origano, broccoli, asparagi, fave e ricotta. Però non ci fermiamo
solo all’aspetto gastronomico. Ogni piatto che prepariamo, infatti, diventa per
noi anche occasione per parlare di storia e geografia, perché lo serviamo
spiegando al cliente straniero come e dove nasce, magari associando quel momento
alla recita di una poesia dialettale o alla lettura di un testo. Ho voluto
fortemente che nel mio ristorante ci fossero pile
enormi di libri dei più importanti scrittori e narratori siciliani: da Verga a
Pirandello, da Quasimodo e Sciascia, solo per citarne alcuni. Testi anche
tradotti in inglese, che affascinano coloro che, nell’attesa tra un primo e un
secondo piatto, si fermano a leggerli, anche se per poco tempo. Ciò mi ha
permesso di abbattere tanti luoghi comuni che gli inglesi nutrono verso noi,
come quello sulla mafia».
Poi lo chef Pino ha un pensiero pure per la sua città
putativa, Londra, e ci dice: «La situazione causata dal Covid-19 è tragica. I
numero dei morti e dei contagi aumenta ogni giorno che passa e sono molto
preoccupato per la mia salute e per quella di quanti non si curano. Mi auguro di
riprendere l’attività prima possibile sia per riabbracciare i clienti, con molti
dei quali è nata una vera amicizia, e i miei sette impiegati tutti italiani,
che, nonostante il fermo, continuo a pagare perché padri e madri di famiglia».
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