Sul nome del quartiere del Rotolo ad Ognina, descritto anche da Verga ne I Malavoglia, alcuni sostengono che sia dovuto a un dipinto che raffigura una Madonna che tiene in mano una bilancia che raggiunge un rotolo di peso (trovasi attualmente all’angolo tra Via Messina e Via Galatioto). Ma che il nome sia stato originato dal Rotolo delle Sacre Scritture è confermato da Jacomo Saba "un antico tempietto di Santa Maria del Sacro Rotolo, da alcuni creduta della Lettera dei Messinesi, nei pressi dell’Abbazia brasiliana Santa Maria di Lognina". Insomma, la Madonna teneva in mano le sacre scritture. Tra Via Calipso e Via Ginestra emergono tuttora i ruderi di quel Tempietto, che venne eretto in onore di Sant’agata quando le sue reliquie, arrivate da Costantinopoli, furono date in consegna al Vescovo Maurizio proprio in quella zona.

 

 

 

 

 

OGNINA e il ROTOLO

Dal libro "Viaggio per tutte le antichità della Sicilia"di Ignazio Vincenzo Paternò Castello principe di Biscari

Lo spazio di circa 4 miglia di disagiato cammino divide il Castel di Aci dallo Scaro,comunemente chiamato dell'Ognina,ove troverà il Viaggiatore una Chiesa con una Torre di guardia e poca popolazione. Sebbene il luogo sia meschino e poco sicuro refugio di piccole barche ,pure è molto celebre,credendosi quivi essere stato il gran Porto di Catania,rammemorato e chiamato grande da Omero e Virgilio adottando il medesimo sentimento finse che quivi fosse arrivato Ulisse. ......

Era egli formato e difeso da un'Isola ma poi colle posteriori eruzioni del Monte Etna restò pieno e unissi al continente dell'Isola:in modo che non rimane vesti di questo Porto......

Nel traversare tutto questo litorale,cominciando dalla Real Città di Aci sino a Catania,senza meno andrà il Viaggiatore rammentandosi col suo pensiero le tante greche favole appropriate a questi lidi.Gli verrà a meno esser questa la stanza de'feroci ciclopi;crederà vicino a se la grotta di Polifemo;forse sotto a' suoi sguardi il luogo dello sbarco di Ulisse;l'immenso sasso scagliato dal Ciclope,che oppresse l'afflitto Aci;e forse ancora il sibilo de'venti gli rappresenterà le querule voci della innamorata Galatea.

 

In tali oggetti trattenendo la sua fantasia deluderà la fatica del viaggio,sinche' a poca distanza da questo luogo,traversando un podere chiamato il ROTOLO,sarà richiamata la sua attenzione dalle rovine di un antico edificio,potendone quivi vedere porzione del pavimento ed alcuni pezzi dell'elevazione delle mura.Il piu intero di esse è una specie di gran Tribuna che al capo d'essa esiste intera.Ha questa fabbrica di osservabile che dalla porta di dietro la mentovata Tribuna si osserva un lungo corridore a volta di salda fabbrica,rimasto coperto di antica lava . Può in esso camminare all'impiedi una persona;ma la sua volta va a corrispondere sotto il pavimento della fabbrica.

 

 

 

 

 

 

Ho avuto modo di leggere tempo fa sul sito Facebook nella pagina Obiettivo Catania, l'articolo redatto da Santo Privitera sul tempietto di Sant'Agata al Rotolo.

Per correttezza di informazione e sulla sua storia recente devo chiarire delle imprecisazioni, perché ne conosco bene le sue vicende essendo io nato nel 1949, a pochi passi dallo storico luogo, in cui tutt'ora giacciono sepolti i vetusti ruderi al centro del cortile dell'asilo nido comunale in via Calipso. Sulla verticale di ciò che oggi rimane degli storici reperti, una grata in ferro vi scarica sopra le acque piovane.

Fino al 1969, i resti dell'antica abside, che gli abitanti chiamavano "la grotta di S. Agata", era perfettamente visibile al centro di un'ampia depressione originata dall'innalzamento del piano stradale dovuto alla colata lavica del 1381, che aveva risparmiato il tempietto circondandolo come in un abbraccio. Ciò che le calamità naturali avevano risparmiato nei secoli, fu invece definitivamente cancellato dalla mano dell'uomo nel 1970, la piccola valle fu colmata con una discarica e vi si costruì sopra la scuola materna.

La base circolare che nell'articolo del Privitera è indicata come "resti dell'antica abside" invece non è altro che il bordo superiore di un'antica "gebbia" ormai interrata la quale fu serbatoio d'acqua usato per l'irrigazione degli orti che nei primi anni del 900' lì vi erano numerosi.

La citata lapide scomparsa è quella che da me dettata, nel 1997, il comitato dei festeggiamenti della Madonna di Ognina aveva fatto sistemare a perenne ricordo sopra il punto in cui giacciono sepolti gli antichi ruderi. Per chi volesse saperne di più sulla storia dell'antico edificio, rimando alla pregevole ormai rara dello storico Guglielmo Policastro, dal titolo: nel XVII centenario del martirio di S. Agata, società editrice internazionale Catania 1951.

Mario Strano

 

 

Bagnanti catanesi sulle scogliere del Rotolo. Sembrerebbe una fotografia normale, se non fosse per la data.

 

Se questo edificio desse piu chiari indizi ,che fosse stato un Tempio di alcina Deita',da cui uscivano falsi oracoli,non mancherebbe chi potesse dire che per questo sotterraneo occulto corridore si fossero le persone portate sotto,o dietro il Tempio,ed avessero date per alcuna non vista apertura le risposte dell'Oracolo ai creduli ricorrenti.

Ecco il Viaggiatore quasi arrivato alla Città di Catania e quasi a un miglio da questa distante incontrerà un gran masso di fabbrica che racchiude in esso una Tomba:ma questo senza diligente ricerca sfuggira' i suoi sguardi,restando oggi quasi occulto dalle mura delle nuove clausure.-

 

 

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 la tomba prima delle mura è sicuramente la cosiddetta tomba di Stesicoro. Quanto al primo rudere l'unica cosa che so (che però forse non c'entra niente con questo) è che io ormai parecchi anni fa fotografai i resti di un'abside (poco più che la base) che si trovava all'interno di un piccolo parcheggio pubblico. La costruzione proseguiva sicuramente all'interno delle mura di un giardino di proprietà privata ed ho sempre pensato potesse essere la famosa chiesetta costruita sulle sciare del rotolo in onore di Sant'Agata (da qui passò il corteo che riportave le reliquie in città il 17 agosto 1196). Volevo mettere l'immagine prendendola da google earth....e ho scoperto che non esiste più niente..c'è un bel condominio....santo google hearth... e la mia memoria che dopo 30 e passa anni lascia un po' a desiderare... alla fine l'ho ritrovata questa "traccia" di abside che credo nessuno abbia mai esplorato (oggi al centro fa bella mostra una magnolia). Avevo trovato su qualche libro - ma chissà quale - che qui era la chiesa di Sant'Agata al rotolo ed in memoria di questo edificio non molti anni fa è stata posta una statua di Sant'Agata in via del Rotolo, non molto distante da questo sito ......

Antonio Trovato

 

 

 

 

 

 

Artale I Alagona o d'Alagona (... – Catania, febbraio 1389) fu un tutore della regina Maria di Sicilia e uno dei quattro vicari governatori durante la minore età di quest'ultima.
Artale succedette al padre Blasco II. Gli Alagona erano molto legati alla casa d'Aragona e da questa loro fedeltà riuscirono ad ottenere diversi privilegi, fra cui l'assunzione da parte di Artale I della carica di Maestro Giustiziere con Federico IV d'Aragona; successivamente divenne tutore dei successori Ludovico e Maria. Inoltre essi vantavano vasti possedimenti, specie a Catania. Questa loro potenza, farà degli Alagona la famiglia più influente a Catania e nella Sicilia Orientale del XIV secolo.
Diverse furono le imprese militari compiute da Artale. Nel 1354 assediò Manfredi Chiaramonte, ribelle agli aragonesi a Lentini. La guerra si prolungò e solo nel 1359 Artale riuscì ad occupare la città ed infine il 25 marzo 1360 grazie al tradimento di alcuni soldati a prendere possesso del castello. Nel 1356 il governatore di Messina, Niccolò Cesareo, in seguito a dissidi con Artale, richiese rinforzi a Ludovico d'Angiò, che inviò il maresciallo Acciaiuoli. Le truppe, assistite dal mare da ben cinque galee angioine saccheggiarono nuovamente il territorio di Aci, assediando il castello. Proseguirono in direzione di Catania cingendola d'assedio. Artale uscì con la flotta ed affrontò le galere angioine, affondandone due, requisendone una terza, e mettendo in fuga le truppe nemiche. La battaglia navale, che si svolse fra la borgata marinara di Ognina ed il Castello di Aci, fu detta «Lo scacco di Ognina».
Nel 1357 Federico IV il Semplice incalzato da dagli assalti del conte Enrico Rosso, uno dei signori "latini" avversi agli aragonesi, trovò scampo nel castello di Paternò allora di proprietà di Artale. Il maniero resisterà a diversi assalti tanto da far desistere il conte Enrico Rosso che, fustrato andrà devastare tutte le campagne circostanti.

Il 24 aprile del 1365 Artale Alagona, Gran Giustiziere del Regno, acquistò dalla Regia Corte il contado di Paternò.

 


Artale I assunse la carica di reggente con Maria di Sicilia ed inoltre acquisì vasti possedimenti, specie a Catania. Tuttavia molto forti erano le resistenza delle potenti famiglie siciliane e nel tentativo di portare un po' di stabilità nel regno divise la Sicilia in quattro viceregni, assegnati a Francesco Ventimiglia conte di Geraci, Manfredi Chiaramonte conte di Modica e Guglielmo Peralta conte di Caltabellotta. Questa mossa portò sull'isola un breve periodo di pace, durato tuttavia finché Artale II, non iniziò a pensare al matrimonio della Regina. Gli Alagona erano fortemente interessate a che Maia si unisse in sposa al duca di Milano Giangaleazzo Visconti, ma molto tenace era l'opposizione di alcuni baroni (fra cui i Palizzi ed i Moncada), che preferivano la corte catalana.

 

 

 

LO SCACCO DI OGNINA

Nel 1356 il governatore di Messina, Niccolò Cesareo, in seguito a dissidi con Artale I Alagona, richiese rinforzi a Ludovico d'Angiò, che inviò il maresciallo Acciaiuoli. Le truppe, assistite dal mare da ben cinque galee angioine saccheggiarono il territorio di Aci, assediando il castello. Proseguirono quindi in direzione di Catania cingendola d'assedio. Artale uscì con la flotta ed affrontò le galere angioine, affondandone due, requisendone una terza, e mettendo in fuga le truppe nemiche. La battaglia navale, che si svolse fra la borgata marinara catanese di Ognina ed il Castello di Aci, fu detta «Lo scacco di Ognina» e segnò una svolta definitiva a favore dei siciliani nella guerra del Vespro.

 

Artale morì nel febbraio del 1389, designando a successore la figlia Maria, minore, sotto tutela dello zio Manfredi, fratello di Artale stesso. La potenza di Artale aveva probabilmente salvaguardato il regno di Sicilia, dalle ingerenze della corte di Pietro IV d'Aragona, e solo con la sua scomparsa la fazione catalana in Sicilia ebbe via libera per organizzare le nozze di Maria di Sicilia con Martino I di Sicilia.

http://it.wikipedia.org/wiki/Artale_I_Alagona

 

Ruggiero di Lauria (Lauria, 17 gennaio 1250, o Scalea – Cocentaina, 19 gennaio 1305) è stato un ammiraglio italiano, al servizio dei sovrani aragonesi, fra i più celebri del suo tempo.

È il figlio di Riccardo di Lauria, signore dell'omonimo feudo e fedele servitore di Manfredi di Svevia, e di Donna Bella, nutrice di Costanza di Hohenstaufen e figlia di Guglielmo Amico. Suo padre, Riccardo, possiede feudi in Calabria ed è signore di Scalea nell'anno della sua morte, avvenuta durante la battaglia di Benevento (1266); si racconta, perciò, anche in virtù dei possedimenti terrieri in Calabria, che Ruggiero sia in realtà nato nel castello normanno o nel palazzotto d'Episcopio di Scalea, anziché a Lauria, così come risulterebbe anche da un documento latino conservato, ma mai trovato, negli archivi della Corona d'Aragona (a Barcellona), che lo stesso Ruggiero avrebbe inviato personalmente al re Giacomo II.
Nel 1266, dopo le morti del padre e dell'ultimo re di Sicilia, Manfredi, avvenute nel campo di battaglia di Benevento, la dinastia sveva vive momenti difficili che culmineranno, due anni più tardi, con la decapitazione del sedicenne imperatore Corradino di Svevia per volontà di Carlo I d'Angiò. Si è perciò rifugiato, nel frattempo, a Barcellona con altri esuli siciliani vivendo con la madre Bella alla corte della regina Costanza, consorte dell'infante e futuro re Pietro III d'Aragona, nonché figlia di Manfredi e cugina di Corradino.

 

 

 È armato cavaliere da don Pietro d’Aragona, così come lo è anche Corrado Lancia[2], che parteciperà a molte imprese insieme a Ruggiero e di cui diverrà, più tardi, due volte cognato (entrambi sposeranno l'uno la sorella dell'altro). Nel corso della sua turbolenta esistenza serve i re d'Aragona Pietro III e Giacomo II (rispettivamente re di Sicilia coi nomi di Pietro I e Giacomo I) e il re di Sicilia Federico III, riportando numerose vittorie contro le flotte degli Angioini.
È il 1282 quando viene nominato capo della flotta del regno aragonese di Sicilia, insorta contro gli Angioini durante i Vespri Siciliani.

Nella notte tra il 3 e 4 settembre 1285 sconfigge Filippo III di Francia l'Ardito, che ha mosso ormai da due anni una crociata contro la Corona d'Aragona, nella battaglia navale delle Formiche, presso Roses, in Catalogna.

Nel 1284 e poi nel 1287 nelle battaglie navali del golfo di Napoli si scontra con la flotta angioina comandata da Carlo II d'Angiò lo Zoppo: nella prima battaglia del 5 giugno 1284 viene fatto prigioniero il principe ereditario Carlo che è poi liberato solo nel novembre del 1288; nella seconda battaglia l'ammiraglio sconfigge definitivamente i nemici, sebbene sia dotato solamente di quaranta navi contro le ottanta degli avversari; garantisce così la supremazia della flotta siculo-catalana nel Mediterraneo occidentale.

 Dopo la seconda vittoria, Ruggiero, senza l'autorizzazione del re e solo per avidità, vende una tregua al conte Roberto II d'Artois e al cardinale Gerardo Bianchi da Parma. I siciliani disapprovvano questa tregua perché la ritengono inutile e dannosa; secondo loro, la vittoria, favorita dalla vacanza della Santa Sede, avrebbe scoraggiato definitivamente gli angioini da ulteriori rivendicazioni del loro territorio.
Eletto re di Sicilia nel 1296, Federico III toglie il fondo di Aci ed il relativo castello ai vescovi di Catania e lo concede all'ammiraglio come premio per le sue imprese militari. Però tra il giovane sovrano e Ruggiero si instaura subito un pessimo rapporto e quando quest'ultimo passa dalla parte degli angioini, il re fa espugnare il castello (1297) entro il quale si sono asserragliati i ribelli. Per riuscire nell'impresa il re fa costruire una torre mobile in legno, chiamata cicogna, che è alta quanto la rupe
lavica e che ha un ponte alla sommità per rendere agevole l’accesso al castello. In seguito Ruggiero si trincera a Castiglione di Sicilia, suo feudo e residenza estiva, dove viene assediato e quindi sconfitto. Ruggiero è arrestato, ma fugge da Palermo e abbandona la Sicilia. I suoi numerosi possedimenti in Sicilia, Calabria e Africa sono subito confiscati da parte di Federico III.

 

Ruggiero passa al servizio del re d'Inghilterra Edoardo I per combattere i francesi. Nonostante le sue promesse, non si impegna nella lotta.
Il 4 luglio 1299, a capo di un'armata angioina composta di quaranta galee, rafforzata da altre trenta, inviate da Giacomo II appositamente dalla Catalogna per far fronte agli impegni presi con il papa Bonifacio VIII quattro anni prima nel Trattato di Anagni, sconfigge i siciliani nella battaglia di Capo d'Orlando. Nello scontro periscono e sono catturati più di seimila uomini e ventidue galee della flotta avversaria; nonostante ciò, Federico III riesce a sfuggire alla cattura. Si ritiene molto verosimilmente che la sua fuga sia stata agevolata da Giacomo e da Ruggiero di Lauria, ossia dagli stessi che fin ad allora sono stati suoi nemici in battaglia, per evidenti ragioni affettive del fratello e per la fedeltà riposta nei confronti di quest'ultimo da parte dell'ammiraglio lauriota.
Il 14 giugno 1300, nella battaglia di Ponza, Ruggiero sconfigge la flotta di Federico III, catturando il sovrano e Palmiero Abate. Il re riesce a fuggire, mentre Palmiero muore in prigionia. Il 31 agosto del 1302, con la pace di Caltabellotta che chiude la lunga guerra del Vespro, Ruggiero fa atto di sottomissione a Federico di Sicilia, che perciò gli rende i possedimenti confiscati.
Si ritira nella Catalogna e muore a Cocentaina, presso Valencia, nel gennaio del 1305

http://it.wikipedia.org/wiki/Ruggiero_di_Lauria

 

 

 

 

 

A SPIZIERIA (La spezieria)

Tra l'uscita del porticciolo di S. Giovanni li Cuti e l'attuale piazza del Tricolore, questo grosso scoglio soprannominato "Scugghiazzu" - con tre bellissime grotte annessse - prese il nome di «Spizieria» per la presenza di una piccola fabbrica di prodotti medicinali.  Il sito  è noto per essere il posto di mare privilegiato dalla «spìchira» per il richiamo della riproduzione.

La Spizieria al tramonto

 

veduta aerea della parte iniziale del tratto Lungomare-Rotolo

U JALIUNI (Il Galeone)

Dopo aver lasciato la «Spizieria» e sfiorato uno scoglio in mare, detto «Scugghiazzu», troviamo ora un frangente, chiamato «Jaliuni» (Galeone). Il galeone era un tipo di nave a scafo tondo, che aveva due ponti con castello e cassero molto elevato, quattro alberi, vele quadrate e latine. Durante il XVI secolo dominava i mari ed era impiegato in guerra, quanto per scopi commerciali. Gli antichi ne fecero derivare il nome dal pescespada (chiamato galeota), del quale ritraeva appunto la forma, l'agilità e il rostro.

Ma, ritornando ora al frangente sulla nostra scogliera, diciamo che — per una barca a vela — navigare nei suoi paraggi non doveva essere tanto agevole, visto che è uno dei punti più battuti dai venti di tramontana e di grecale. E se un bastimento, navigando da sud a nord, ai primi segni di cattivo tempo non voleva trovarsi in difficoltà, doveva cercare rifugio nel porto di Catania.

 

 

Quando, invece, per ragioni contingenti (trasporto di animali, di merce deperibile, ecc.) intendeva proseguire il viaggio, doveva necessariamente doppiare lo scoglio anzidetto , chiamato anche «'a Punta 'e Jaliuni».

In prossimità di «Jaliuni» il forte vento di tramontana costringeva gli effettuare una virata per poter navigare con rotta a 30° rispetto alla direzione delle onde, ossia dovevano veleggiare di bolina stretta, in modo da poter stringere il vento. Al largo poi, siccome il vento anzidetto diventa impetuoso, dovevano compiere altre virate.

 

 

Ma la manovra, dipendendo da una serie di circostanze, non sempre dovette riuscire, visto che le testimonianze tramandate ci indicano il frangente come il posto dove non pochi galeoni vi fecero naufragio, cioè «'a Punta 'e Jaliuni».

Quanto successe a taluni innominati galeoni accadde anche - ma con miglior fortuna - ad una nostra barca a vela comandata da Paolo Nania, che il forte vento di grecale scaraventò dentro la cala a sud dello scoglio, la cosiddetta «conca 'e Jaliuni».

Per una circostanza, che riteniamo del tutto fortuita, dei cinque marinai, che componevano l'equipaggio, i primi due riuscirono a balzare sugli scogli; gli altre tre, rimasti sulla barca in secco, furono invece paradossalmente salvati da una grossa ondata («inchitura») di mare vecchio di scirocco che, determinando una potente risacca, li strappò agli scogli assieme all'imbarcazione.

 

 

zona Jailiuni

 

L'INCANNATU (l'incannata)

 Lasciato «Jaliuni», notiamo ora una piccola cala ai piedi di un grande costone di roccia: qui siamo nel posto chiamato «'Ncannatu» , dove i pescatori «catanesi» (siamo già ad Ognina) venivano a circuire i grossi cefali, che stazionavano numerosi durante certe ore del giorno, in modo particolare del pomeriggio, per via delle acque intorbidite dalla risacca delle sciroccate.

Il tipo di pesce di cui parliamo viene chiamato «tracchia», e le sue carni — ci assicurano — hanno il sapore di quelle della spigola; è facilmente riconoscibile per via del corpo molto snello, della testa appuntita e di alcune macchioline dorate sugli opercoli. La colorazione è quella tipica dei cefali.

 

L'incannatu

 

Trattasi del muggine saliens, soprannominato «musino» o «saltatore», di cui il Pitrè così osservava: «Vivissimo di natura e molto forte, il cefalo salta e guizza fuori dell'acqua ad una grande altezza. Questo guizzo è un carattere fisiologico di esso: ed il proverbio ne trae ragione per applicarlo a persona che se ha una data natura non la lascia mai: "S'è mulettu, sàta arreri, e s'è mulettu sataturi, havi a satari tri voti". I pescatori sanno dov'esso stia, e così formano una vasta cinta di reti che posano verticalmente...».

Pertanto, allo scopo di impedire qualsiasi possibilità di fuga, i marinai «inventarono» una specie di trappola detta «'ncannata», che ha dato il nome alla località.

L'insidia era costituita da due reti. Una era la cosiddetta «tònira», che veniva disposta verticalmente; l'altra vi si adattava sull'orlo superiore, distesa orizzontalmente, ed era mantenuta a galla da canne disposte a raggi.

In tal modo il «mulettu», già circuito, che tentava di svignarsela uscendo fuori dalla «tònira», rimaneva ostacolato dalla «'ncannata» che lo intrappolava senza pietà.

 

 

 

U CAVADDAZZU (Cavallaccio)

 «Su sì diavulu, vinci tu; ma su non si diavulu...». Preceduta da queste misteriose parole è ora la nostra visita ad un tratto di scogliera dal nome assai curioso: «Cavaddazzu» , che probabilmente suggerì, ai contrabbandieri che «operavano» sul posto, l'ingegnosa trovata del «fantasma», che faceva sovente la sua apparizione nei pressi della «Ruttazza».

Si sa quanto la suggestione abbia potuto far presa sulla fantasia popolare: in ogni storia locale che si rispetti, infatti, non sono mai mancati folletti benevoli e di indole bizzarra, gnomi, a guardia di tesori («truvaturi»), e fantasmi talvolta malevoli e orridi d'aspetto.

Né a questo fenomeno sono stati estranei altri popoli. Greci, Romani, Cinesi, popolazioni nordiche, ad esempio, hanno sempre immaginato gli senza scrupoli faceva il resto. I primi si divertivano, i secondi tramavano alle spalle di chi in quelle cose credeva e ne traevano vantaggio.

Per lungo tempo, ad esempio, ad Ognina non si parlava d'altro che del fantasma, o spirito, chiamato «Cavaddazzu» di cui si avevano soltanto vaghe notizie perché pochi, del resto, osavano avvicinarsi al luogo, per nulla ameno e rassicurante, in cui compariva. Si diceva che assomigliasse ad un cavallo dondolante che emetteva bagliori sinistri.

 

Prima della Punta do Cavaddazzu, c'è "a testa do Liuni". Famoso punto di antichi tuffi catanesi.

 

Così la leggenda del fantasma prese nel frattempo consistenza, soprattutto tra le madri di famiglia che, essendo le prime a credere in queste cose, impedivano ai loro figliuoli di frequentare quel luogo.

Di giorno stava nascosto tra gli scogli, a ridosso della «Ruttazza». Di notte, intorno alla mezzanotte, faceva la sua fantastica apparizione, spaventando persino i finanzieri che in un luogo non molto distante (la garitta) controllavano la costa allo scopo di reprimere il contrabbando, specialmente di vino e tabacco.

Le sue apparizioni durarono a lungo nel tempo e nessuno ebbe mai il coraggio di avvicinarlo. Fino a quando un sospettoso, quanto deciso, finanziere (questa volta autentico) volle rendersi conto, più da vicino, di quanto accadeva.

 

La scogliera do Cavaddazzu

 

spiriti in modo diverso e seguito dei rituali antichi per propiziarsene i favori o per scacciarli, perché vendicativi per natura e di aspetto terribile.

Ancora agli inizi del '900, in un mondo di fiabe e di leggende, non era difficile sentir parlare di questa o di quella casa, di questo o di quel luogo «abitati» da spiriti cattivi («Spiddi»).

Armato di moschetto, non senza però che le gambe gli facessero «Giacumu-Giacumu» , si avvicinò a quello che doveva essere «'u spiddu» e, dopo essersi fatto il segno della croce, al grido di: «su sì diavulu, vinci tu; ma su è comu ricu iù, vinciu iù!» , sparò sul «ca¬vallo», abbattendolo.

 

Il coraggioso finanziere non sentì, però, alcun lamento d'animale, ma solo un grido d'uomo che lo spaventò al punto da fargli credere ad una disgrazia.

Preso da comprensibile sgomento, corse immediatamente alla vicina caserma per narrare l'accaduto al brigadiere che, assieme allo stesso militare e ad altri (tutti muniti di lanterna), si recò sul posto. Qui, a ridosso di un grosso albero di fico d'India, trovò alcuni fogli sparsi di cartone sagomati a forma di cavallo, un lume a petrolio in frantumi e «l'operatore di scena» sanguinante e piangente, perché ferito.

La notizia dell'abbattimento del «cavallo» venne appresa con grande sollievo dall'intera borgata, specialmente dai ragazzi che, finalmente, poterono rifrequentare il luogo, che era stato loro vietato per lungo tempo, e raccogliere «ficurinia savvaggi» , per farne inchiostro rosso, alberelli di «ferra» , per farne barche e navi in miniatura, ma soprattutto i famosi «fungi d'u Locu» .

  

La scogliera do Cavaddazzu

 

 

 

 

La Punta di Cavaddazzu (Cavallaccio)

Resta ancora misteriosa l'origine del nome Punta Del Cavaddazzu, scoglio conosciutissimo per la sua singolare forma che termina ad arco sul mare. Sempre la tradizione popolare tramanda la leggenda che su questo tratto impervio di scogliera, apparisse un fantasma con le fattezze di un cavallo bianco che al chiarore della luna incuteva terrore. Sicuramente si trattava di una messa in scena architettata dai contrabbandieri di vino e tabacco che nel passato operavano in quel luogo e col fantasma alle spalle potevano intrallazzare indisturbati. Ma anche questa leggenda è da sfatare, perché il nome lo troviamo in una carta nautica del 1500 (ringrazio vivamente il Dott. Sergio Sportelli per avermela concessa) e che allegherò nelle foto. La cartina indica il nome di Punta Del Cavallazzo. Un'altra conferma dell'antichità del nome è confermata nella celebre "Descripicion" redatta nel 1578, dall'architetto militare, Tiburzio Spannocchi che nella sua ricognizione di tutte le fortificazioni lungo il perimetro della Sicilia, include anche la nostra Ognina regalandoci l'immagine più antica del nostro golfo, della primordiale chiesetta con la torre e annota: "dalla Punta Del Cavallazzo inizia il porto di Lognina". L'origine del Cavallazzo come nome è remotissima ma tutt'oggi ne sconosciamo il significato.

Mario Strano

 

 

A RUTTA PIRCIATA (La grotta forata)

 Guardando ora verso l'alto, nella direzione della sommità di una delle tante grotte, ci rendiamo conto del per che la fantasia popolare abbia, da sempre, elaborato modelli di favole e racconti che sopravvivono a lungo.

Ma che la favola non sia troppo lontana dalla realtà, lo si comprende appena ci si avvicina alla «Rutta pirciata» (Grotta perciata o forata), detta dai marinai «Ruttazza», capolavoro e vanto inconsueto delle colate laviche.

A darle l'attuale singolare forma, infatti, è stata la spaventosa eruzione del 1381 che, incuneandosi in corrispondenza di un flusso lavico preistorico, diede corpo ad una delle tante meraviglie della nostra riviera.

 

A dispetto dello pseudo dispregiativo  attribuitole, essa è di una bellezza inconsueta. Non solo per la sua conformazione naturale, ma anche per i colori inebrianti che il mare produce al suo interno, a seconda della trasparenza delle acque, della intensità della luce e del colore del cielo. *

I suoi due ingressi - il più grande sopraflutto e il più piccolo sottoflutto - la rendono utile a pescatori e bagnanti: i primi vi possono trovare rifugio durante gli improvvisi acquazzoni; i secondi, passando attraverso l'ingresso sottoflutto, si possono esibire in evoluzioni subacquee, spostandosi da un lato all'altro della scogliera.

 

 

 

 

Storicamente la «Grotta perciata» è nota perché, oltre ad essere stata messa in luce da due grandi scienziati (Charles Lyell e Carlo Gemmellaro), consentì al fisico catanese Quirino Maiorana di condurre particolari studi sui cosiddetti getti alla riva del Cornaglia. Si ammira dal mare in prossimità della «Jarita» o Garitta spagnola, non lontano da porto Ulisse.

 

 

A "ruttazza"

 

La cosiddetta "ruttazza" o grotta perciata (forata), formatasi in seguito alla colata lavica del 1381, detta del Rotolo.

Storicamente la grotta è stata descritta da due grandi scienziati: Charles Lyell e Carlo Gemmellaro. La sua reversibilità di esposizione foranea ai marosi del largo, offerta dal duplice ingresso (uno sottoflutto e l'altro sopraflutto), aveva consentito al fisico catanese Quirino Majorana di farvi incidere perfino i livelli delle massime escursioni verticali dei cosiddetti "getti alla riva del Cornaglia" (1).

Di tutte le grotte marine della nostra scogliera essa è quella più vicina al borgo di Ognina (a parte le cosiddette "grotte di Ulisse", colmate non da colate laviche ma da colate di cemento nel 1960).

(1) Agatino D'arrigo, Quirino Majorana (23 ottobre 1871 - 31 luglio 1957) in "Nuova Antologia", fas. 1885, gennaio 1958, pp. 89-96. 

Mario Strano

 

 

 

 

Capu Cacatu

Nei primi anni '50, nel porto di Ognina la prima colata di cemento diede inizio alla costruzione del molo foraneo.

Dopo la cosiddetta "Punta di S. Maria" corrispondente alla scogliera antistante la cinquecentesca Jarita (garitta spagnola), poco distante, (verso l'interno) vi era l'aspra scogliera che aveva come sfondo la casa terrana della zia Jannetta. Al centro di questa scogliera, madre natura aveva creato la suggestiva conca lavica che sotterraneamente comunicava con il mare. All'interno di questa naturale piscina, sotto l'azione delle maree ritmava il respiro del mare con il suo perenne innalzamento e abbassamento del pelo dell'acqua. Questo luogo era prescelto dalle donne del borgo che nelle sere d'estate, quando le lampare dei pescatori prendevano il largo, vi si riunivano per fare il bagno (ma di questo ho parlato in un mio precedente post). Poco distante tra gli scogli, scorrevano rivoli cristallini di acque dolci che si perdevano nel mare, queste mitiche acque sotterrane del fiume Longane in epoca remota diedero il nome alla nostra borgata. https://www.mimmorapisarda.it/2023/capoc.jpg

Quello che adesso sto per raccontare di questo luogo, ben conosciuto dagli anziani pescatori, fa parte della storia di Ognina. Tale scogliera dove affluivano le dolci acque, era conosciuta volgarmente con un nome indecente "Capu Cacatu" (cacatoio) (1). Gli scogli come risulta nei registri della Mensa Vescovile di Catania per i secoli XV e XVI, venivano dal Vescovo dati in concessione ai privati per poter esercitare la pesca, tali scogli erano generalmente chiamati "petre di piscari" e ognuno di essi viene indicato con un nome specifico. Il nostro singolare "Capu Cacatu" si conferma ai vertici della popolarità se tra gli inizi del XV e la fine del XVI secolo, venne concesso almeno una decina di volte. Probabilmente la sua posizione strategica in vicinanza del golfo, in presenza di acque tranquille e di una zona più abitata, oltre a fornire abbondanti pescati lo rendeva più sicuro da possibili incursioni esterne. Dai ricordi degli antichi pescatori conosciamo il motivo di tale nome. Pare che nel secolo scorso gli scogli su cui scorrevano i rigagnoli di acqua dolce, venissero usati dagli uomini per le naturali esigenze fisiologiche. Le donne invece usavano ripararsi tra i cespugli presenti nell'entroterra a distanza dagli scogli. Evidentemente, come risaputo fino agli inizi del '900, le povere case non avevano ancora il bagno dentro casa. Alcuni hanno scritto che quegli scogli non dovevano essere particolarmente profumati ma io credo che non ci dovesse essere alcun lezzo, perché il perenne scorrere delle acque cristalline, come tutt'oggi possiamo constatare, ripulivano velocemente gli scogli. Possiamo fare il raffronto con le antiche latrine pubbliche romane dove sotto di esse scorreva continuamente una sorgente d'acqua. Gli storici scogli di "Capu Cacatu" sono ormai definitivamente distrutti dalla banchina del molo foraneo.

(1) ASD Catania, Mensa Vescovile, Carp. 14, fasc. 1, c 59 v. 28 Maggio 1429.

Mario Strano

 

A PUNTA 'E SANTA MARIA (La punta di Santa Maria)

Lo scoglio - già piccolo promontorio interamente proteso in mare - era la punta più prossima al vecchio scalo, quando la diga foranea non era stata ancora costruita, ed era luogo di passaggio per i marinai che, superata la «Jarita», dopo aver calato le reti facevano ritorno a terra. E l'ora del rientro — quella vespertina — coincideva spesso con il suono della campana della chiesa della «Bammina», che faceva sentire i rintocchi dell'Angelus a quanti erano a terra. In tale occasione non pochi erano quelli che dovunque fossero si raccoglievano in preghiera e recitavano: «Angelus Domini nuntiavit Mariae... et concepit de Spiritu Sanato...» — «Ave Maria...».

In mare, invece, l'Angelus non era udibile che dopo la punta anzidetta, perché il rientro delle barche coincideva spesso con le sciroccate pomeridiane che portavano lontano, verso terra, il suono della campana. Superato appena lo scoglio, i rintocchi dell'Angelus si potevano percepire distintamente.

Tale circostanza fu quindi quella che indusse i marinai a dare allo scoglio il nome di «Punta di S. Maria».

 

A punta 'e Santa Maria (versione invernale)

 

A punta 'e Santa Maria (versione estiva)

 

 

La "Jaritara"

La garitta spagnola detta "jarita" è una delle poche antiche vestigia di Ognina, sopravvissute all'incuria del tempo e degli uomini. Fino agli anni '40 dello scorso secolo si stagliava al centro della vasta scogliera nera e inaccessibile, quale punto strategico di osservazione. Fu sul finire di quegli anni che la suggestiva vedetta venne occupata abusivamente da due coniugi (nessuno seppe mai se fossero veramente sposati) provenienti dall'entroterra campestre della piana di Catania. Il marito (un omone grande e grosso) era nullafacente mentre, la signora che il popolo aveva dato il soprannome la "Jaritara", ostentava un pancione che ne indicava la gestazione. L'arredamento della piccola dimora era costituito solo da una misera brandina e accanto l'uscio stava perennemente un braciere di terracotta ("u fucularu"). Questi erano tutti i loro averi, il buon cuore e il pesce dei pescatori di Ognina furono il loro sostentamento. E fu in quel tugurio che la donna partorì un bambino, il quale tra quelle lave trascorse i primi 10 anni della sua vita. Un giorno l'intero borgo fu scosso da una pietosa notizia, il bambino durante la notte era stato aggredito e morso dai topi, ma fu salvato per miracolo.

 

Tutti ne parlavano costernati, ma per quella famiglia di diseredati non cambiò nulla perché continuarono a vivere ancora in quel misero luogo, fino a quando un giorno arrivò l'ordine di sgombro da parte del Comune, in quanto la storica garitta ricadeva nel tracciato del nuovo lungomare. Così mentre l'alta scogliera nera spariva completamente spianata e cancellata, anche la famiglia della "Jaritara" spariva da Ognina e non si seppe mai dove andarono e se mai gli fu assegnata una vera casa. Sotto l'asfalto sparì anche la spettacolare distesa di lava che dall'alto della "jarita" degradava fino a perdersi nel mare. Tra i picchi ruvidi e selvaggi imperava la lava a corde, l'immenso silenzio esaltava ancor più l'arcana bellezza. Lungo il pendio qua e là si aprivano delle suggestive grotte, dove muretti a secco ne delimitavano gli ingressi. Il piano di calpestio interno era composto di terra battuta ricoperta come un tappeto di erbetta verde. Da ragazzini sfidando l'impervio pendio, ci accostavamo incuriositi e timorosi a quelle grotte, ricordando il monito che i nostri genitori ci ripetevano spesso, ovvero di non recarci in quei luoghi perché erano abitati dai morti. Con il passare degli anni compresi che quelle misteriose grotte altro non erano che luoghi di antiche sepolture utilizzate chissà in quale remota epoca.

Mario Strano

 

 

 

 

 

 

 

 

E’ senz'altro da escludersi che in antico il canalotto possa essere stato il virgiliano Portus ab accessu ventorum immotus et ingens Ipse; sed horrificis iuxta totat Aetna ruinis  

 

Il porto del quale dà memoria il poeta è quello calcidico, chiamato dagli scrittori classici Portus Ulyssis, in ricordo del mitico sbarco dell'eroe itachense, e che sap piamo essere stato tanto grande da fare fondo all'armata ateniese di 230 triremi che nel 415 a.C. passava all'assedio di Siracusa. L'approdo del portocanale invece non fu niente di più d'un riparo, appena sufficiente alla modesta attività sicula di scambi con Malta e l'Egeo. Scambi costituiti dall'esportazione della lana e degli ovini, dell'ambra del Simeto e, principalmente, dal legname dell'Etna: indispensabile per le costruzioni navali. Infatti i boschi etnei furono di primaria importanza per l'attività marinara mercantile e militare dei Sicelioti e per la potenza siracusana in particolare, la quale, continuando la tradizione politica corinzia, attentò senza intermissione alla libertà di Katana onde poter trarre legno per le sue triremi. Un vivo ricordo ci ha lasciato Mosco, citato da Ateneo (v. 206-209), accennando all'immensa quantità di legname del bosco etneo occorsa per lo scafo della grande galea oneraria progettata da Archimede e destinata a Tolomeo. I tronchi giungevano per via fluviale alla foce dell'Amenano dove era la darsena, coperta dal neosoiko sotto il quale si dava carena al naviglio in secco: luogo dai Katanoi ben differenziato dal porto, che pare fosse ubicato nel tratto di costa a settentrione della città, tra il Gaito e Lògnina.  

Tucidide (VI, 3‑5) attesta che quattro anni dopo la fondazione di Siracusa (colonizzata nel 734-33 a.C.) i Calcidesi di Theokles fondarono Leontinoì e dopo di essa Katana guidati dell'oikistes Evarcos. I coloni approdarono nell'insenatura formatasi dalle colate laviche oloceniche riversatesi in mare a nord di Lògnina, allo stesso modo che a Naxos, dove le triremi dei primi colonizzatori avevano sbarcato a riparo della punta di lava a mare vomitata dal cratere di Moio nel corso del Mongibello antico, oggi nota come Capo Schisò.

In questa baia di Lògnina in cui trovavano foce le fresche e purissime acque del Lòngon, i Calcidesi di Katana diedero vita ai primi accampamenti, e, come a Naxos, dove avevano edificato un altare ad Apollo Archegetes, eressero un'ara ad Athena Lòngatis, dea dei naviganti, alla quale offrivano sacrifici prima di andare per mare. L'attributo quasi sicuramente è da mettere in relazione con le acque del fiume, le quali furono successivamente sconvolte e sotterrate dalle imponenti eruzioni magmatiche del 425 a.C. e dell'812. 

 

 

 

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Tuttavia la presenza del Lòngon si può rilevare tuttoggi dalle numerose polle d'acqua dolce che affiorano dal fondo marino nel tratto di costa fra la Jarita e la «Punta a' uzza». Le vene più vistose emergono a cominciare dal «biveri», individuabile a meridione del Porto Ulisse ed in cui sopravvive una copiosa fonte; ed appresso, allo «scaru 'ranni» e allo «scaru a farata», che divisi dalla lingua di lava a mare denominata dai marinai «punta ciaccata» formano la marina grande e la marina piccola del porto di Lògnina. Polle ancora più estese affiorano nella fascia costiera settentrionale ad iniziare dall'«acqua 'è palummi», subito dopo la villa Alonzo; e negli scogli successivi, che formano l'insenatura dell'«acqua 'è cafici»; segue la «punta o 'urnazzu» e le lave dello «spagnulettu» con gli scogli bassi dei «vasciuliddi», in cui l'acqua dolce crea visibili ramificazioni in mare; superate le «ruttazze» con la vasta «'rUtta o strambu» il fiume Lòngon risorge alle «rocchi o corvu» e nella «punta di l'acqua pirduta», uno sperone roccioso proteso a mare e noto pure come «punta ro palummaru», o più semplicemente «acqua ruci», dove è rintracciabile il fonte più ampio di foce; le polle dell'«acqua 'è crapí» e la «punta a 'uzza» chiudono il litorale di Lògnina confinante con Aci Castello così come ricorda il Verga.  

Il toponimo latino medievale aquae cassae, sussistente nella stradina che attraversa il litorale settentrionale di Lògnina, attesta la presenza sotterranea di queste falde acquifere. Fino agli inizi del secolo nostro, le acque per innaffiare gli orti della zona venivano estratte dagli ortolani per mezzo di norie da pozzi scavati nella lava. Famoso fu il pozzo della 'gna Maruzza sito ai «vasciuliddi» e l'altro, esistente tuttora, ad occidente della piazza Mancini Battaglia. Nei mesi invernali, dopo abbondanti pioggie, entro quei pozzi si pescavano lunghe e sguizzanti anguille che dalle acque sotterranee discendevano verso il mare.

La costa di Lògnina ricevendo le vene limpide del Lòngon diviene più salmastra, dando maggior rigoglio ad una vegetazione di alghe e zosteracee in cui si ingrassano vasti branchi di polposi spannocchi (ammuru 'mpiriali), un tempo lunghi fino a venti centimetri ed appunto per ciò celebri fin dalla preistoria, tanto che i Calcidesi stabilitisi in quest'area li riprodussero nelle loro monete. Ottima pastura trovano pure le brune castagnole (munaceddi), oggi quasi del tutto scomparse, ma una volta abbondantissime nel tratto di mare fra la villa Pancari e la punta di l'acqua pirduta, dove nel mese di maggio, quando esse si avvicinavano alla costa per depositare le uova, davano occasione ad una intensa pesca che si effettuava con barche armate di «munaciddaru»: enorme gangama larga e profonda circa dieci metri entro la quale viene sospesa l'esca usando pezzetti di pesce.

Al Lòngon medesimo deve nome la contrada a monte dell'arco costiero di Lógnina, detta dai Greci «Nizeti», cioè luogo di lavatura, con riferimento alla pratica di lavaggio della lana che costì si faceva dopo la tosatura delle pecore, dacché il fiume in questo punto veniva allo scoperto, e di cui il toponimo «acqua 'è crapi (abbeveratoio delle capre), che segna il tratto di costa in cui la vena più ampia sfocia in mare, è segno tangibile. Ancora nel sec. XVI in queste acque i produttori di seta erano usi lavare i manganelli.

Dall'era neozoica al medio evo l'arenile sedimentario a settentrione della città è stato sconvolto e molestato da imponenti lave che si sono riversate in mare con violente esplosioni, accavallandosi le une alle altre. La cronistoria di codesta formazìone costiera è senz'altro molto complessa e difficile risulta il rilevamento.

Tuttavia le attività eruttive che hanno realmente caratterizzato questa parte di scogliera sembrerebbero limitate nel numero. Alle effusioni oloceniche che coprirono il lido a nord di Lògnina, seguirono nel 425-26 a.C. le copiose lave fuoriuscite da una bocca apertasi a quota 900 nei pressi di Nicolosi, le quali raggiunsero la spiaggia nel tratto che successivamente venne detto del Rotolo.  

 

 

 

Nel 252-53 scoppiava un'altra eruzione nel medesimo punto, ma 50 metri più in basso, che originava il Monte Peloso e la serie dei conetti e bocche di sprofondamento in direzione nord/sud. Il magma eruttato nel corso di questa effusione formava un braccio lavico con un fronte largo oltre tre chilometri che invadeva la città e raggiungeva il mare, dando forma alla scogliera da S. Giovanni li Cuti a Larmisi. Ancora più tremenda fu l'eruzione laterale che sconcertò la regione catanese nell'agosto del 1381. Dal versante meridionale dell'Etna, nei pressi di Tremestíeri,  Mascalucia e Gravina, si aprì un'imponente squarciatura, nota ai vulcanologi come «frattura dei cavòli», lunga oltre tre chilometri con due centri esplosivi a quota 430 e 370 s.l.m. e che diede origine al più basso sistema eruttivo con i monti Arsi, Civello e Pomiciari di S. Maria. La lava, colata copíosa, nella sua discesa distruttiva bruciò il bosco della Licatia scendendo fino a Lògnina, dove colmò definitivamente quanto restava dell'insenatura, dal Porto Ulisse alla Punta del cavallazzo.

 

 

Profonde modificazioni ha subito la zona dal medio evo ad oggi, massimamente quelle dovute alla costruzione della strada ferrata Catania-Messina, realizzata nel giugno 1866; e, soprattutto, alla perforazione della galleria ferroviaria sotto l'attuale piazza Europa , effettuata negli anni Cinquanta; nonché la successiva sistemazione della zona a mare che, nel 1960‑64, ha dato origine alla litoranea piazza Europa-Lògnina. Sicché la fascia di oltre tre chilometri di sciare risulta affatto sconvolta rispetto al suo antico aspetto. Attualmente comincia con lo sperone di Larmisi, sotto la Stazione Centrale, al quale fanno seguito le tempe dei «trummi» e la piccola «cala del Gajto», riservata oggi arbitrariamente ad approdo privato, a ridosso della quale è il deposito locomotive con a fianco la piazza Europa: inizio del panoramico lungomare. Segue l'insenatura riparata di «S. Giovanni li Cuti», col suo piccolo molo che difende il modesto borgo marinaro dalle traversie.

 Da qui inizia la massiccia scogliera nera del Rotolo, con i basalti scoscesi del «caiccu», seguiti da quelli imponenti della «Spizieria», dove fino a non molti anni or sono era impiantata una fabbrichetta artigiana di sapone. Più avanti sono gli scogli del «galiuni» e «d'u :gannatu», ricchi di grotte e fondali frastagliati e pescosi. Chiude la «punta ro cavaddazzu»: un promontorio alto e scosceso caratterizzato dall'arco e sottostante «rutta pirciata», conosciuta da tutti i marinai quale riparo sicuro alla pioggia improvvisa.

Da questo punto, segnato dalla cinquecentesca «jarita», inizia, come ricorda il Massa. il porto di Lògnina, servito da modesto imbarcadero e minuscolo arsenale.

Il parossismo eruttivo trecentesco che colmò con la sua lava Lògnina privò la città del sicuro e capace porto. Rimasta quindi Catania senza un approdo, il vescovo domenicano Simone del Pozzo cinque anni dopo avviava i lavori di ampliamento del vecchio portocanale dell'Amenano per adattarlo ad imbarcadero. E' questo il porto di cui parla Attanasio di Aci nella sua Cronica, dicendolo minacciato dalle galee francesi al tempo di re Giacomo.  

(Luccjo Cammarata)

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"Ognina", di Padre Mariano Foti;

"Dal Simeto all'Alcantara - Le coste catanesi" - Tringale Editore;

"Vecchie foto di Catania" - vol. I e II - Salvatore Nicolosi - Greco Editore e Tringale editore;

"Miti e Leggende di Sicilia" di Salvino Greco e Dario Flaccovio Editore; 

 

 

 

 

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scene girate in Via Crociferi, Piazza Duomo, Ognina, la Pescheria, Via Cardinale Dusmet e Monastero dei Benedettini, Monti Iblei zona Canalicchio, Via Vincenzo Giuffrida

 

 

IL PAZZO DEL ROTOLO

 -Venne l'autunno del '52 e, sempre in materia di cronaca nera, capitò un fatto insolito, a quei tempi.

Questo fatto inferse ai cronisti della Sicilia, che avevano <<bucato >>la notizia, il primo dispiacere da quando il giornale era nato.Quel caso fu denominato <<del pazzo del Rotolo>>.

Ne fu protagonista, nei primi di settembre del '52 un reporter intraprendente del "Giornale dell'isola ", Enzo Asciolla.Costui andò a scovare in via Del Rotolo 33 un povero demente che dal 1939 i genitori tenevano chiuso in una stanza isolata, di 16 metri quadrati, senza mobili eccetto un pagliericcio, inaccessibile, chiusa a chiave e coi balconi protetti da inferriate. E lì,nudo(poiché, non tollerandoli la sua epidermide supersensibile, si strappava di dosso gli abiti, consumando come una bestia i cibi che la madre gli portava entro infrangibili scodelle di rame smaltato),se ne stava accoccolato sulle gambe rattrappite dalla lunga immobilità. Si chiamava SALVATORE SCALIA,aveva 37 anni, suo padre era ferroviere (e, incidentalmente, figlioccio di Angelo Musco).Quando i carabinieri-e Asciolla, che contemporanea aveva avuto una soffiata-penetrarono nella sua prigione, Salvatore li sbirciò con uno sguardo abbacinato e indifferente. Disavvezzo com'era alla deambulazione e al colloquio, rimase muto, solo lanciando qualche grugnito. La madre fu fermata dai carabinieri per un paio di giorni come unica responsabile di quella carcerazione, e poi rimandata libera.Il padre, che di quella storia era consapevole ma non ne aveva il peso, non ebbe fastidi.

Il primo servizio uscì sul "Giornale dell'isola " il 9 settembre, in pagina di cronaca, con questo titolo, di <<taglio >>,su cinque colonne:<<In via Del Rotolo un "sepolto vivo"-Rinchiuso dalla madre in uno stanzino da ben tredici anni non vede la luce-Si tratta di un ex universitario,che dopo aver perduto la ragione, è stato condannato a vivere come una bestia per "amore materno",col risultato che le gambe gli si sono atrofizzate, la barba gli è cresciuta fino ai piedi e i capelli gli coprono le spalle >>.Era firmato ENAS(Enzo Asciolla).

Scoppiò così un caso che fece rumore. Il quotidiano che, da solo e con enorme rilievo tipografico, diede l'impressionante notizia andò a ruba. Il giorno dopo triplicò le vendite, ma le riperdette quando una settimana dopo sul pazzo non ebbe più niente da raccontare.

Era una storia emblematica e triste sulla condizione dei dementi. A poco a poco ne emersero i retroscena.

Da ragazzo Salvatore aveva frequentato una scuola aristocratica, il Leonardo da Vinci;studiava con impegno, passava i giorni e le notti sui libri;passato all'università, s'era iscritto alla facoltà di medicina e chirurgia;con qualche profitto, pare.Era il 1937,lui indossava la divisa del GUF.Durante le lezioni conobbe una coetanea di ben diversa condizione sociale ed economica, la baronessina ELENA PATERNÒ CASTELLO, e se ne innamorò perdutamente;ma lei non corrispose neanche un poco alla sua corte.

Questa disavventura sentimentale s'unì a una predisposizione che certo egli aveva, scatenando il suo male. Rifiutava i cibi,deperì,divenne inquieto e cominciò a dar segni di squilibrio, cominciò a dire <<Io sono il capitano Morgan >>e ad accusare i genitori di volerlo derubare del suo tesoro.

Lo portarono al reparto psichiatrico del Garibaldi, dove fu ricoverato e preso in cura da un luminare, il prof. VITO MARIA BUSCARINO.Schizofrenia cronica, egli diagnosticò.Dopo tre mesi lo dimise,comunque.

<<Tutto ciò che era possibile fare >>assicurò<<lo abbiamo fatto. Guarire non può, ma se gli farete seguire le prescrizioni resterà inoffensivo >>.Così,se lo riportarono a casa,dove per un po' il ragazzo se ne stette tranquillo. All'improvviso un giorno sparì.Lo ripescò la polizia in Liguria, a Ventimiglia, e lo condusse in questura. Ma quando fu davanti al commissario, Salvatore gli assestò un pugno sul naso.Il funzionario si rese subito conto che si trovava davanti a un matto;per questa ragione, e anche per il fatto che era siciliano come lui,anziché farlo arrestare per oltraggio, si limitò a fare avvertire il padre,che corse a riprenderselo a Ventimiglia.

Dopo pochi giorni passati a Catania senza smanie, Salvatore si produsse in un'altra bravata col barbiere che, a casa,lo stava rasando:urlando, lo inseguì a pedate fino alla porta. Rientrò al reparto, ma trascorso un mese e mezzo di nuovo lo misero fuori. Ai genitori Buscarino raccomandò:<<Tenetevelo a casa, evitate di mandarlo in giro >>.

Fu perciò che, da allora, Salvatore Scalia rimase prigioniero della sua follia.Lo visitarono altri medici, ispettori e l'ufficiale sanitario, per la dichiarazione di inabilità al lavoro e per le pratiche assistenziali. Constatarono che si denudava perché non sopportava il contatto dei vestiti sulla pelle, e che afferrava dal piatto il cibo con la bocca, senza usare le posate;che non leggeva, ed era scomparso in lui ogni barlume di cultura;che stava immerso in un mutismo ottuso. Ma la scienza psichiatrica non aveva cure efficaci per un caso come quello.

<<Non è pericoloso >>confermavano i medici;<<però tenetevelo lo stesso in casa>>.

Era il 1939.In casa egli trascorse gli anni di guerra e altri anni ancora. Ma un giorno di settembre del '52 , dopo tanto lungo ininterrotto abbrutimento, qualcuno fece una confidenza ai carabinieri (e di straforo anche ad Asciolla),che andarono a <<liberare>>quell'abate Faria.

Non si potè far altro che rimandarlo per la terza volta al Garibaldi, dove lui diede spettacolo, ululando e denudandosi.

Quando la si conobbe nei dettagli, quella storia perdette tutto quel che sembrava avere di ripugnante e di granguignolesco. Il poveraccio e i suoi sfortunati genitori furono guardati con occhi diversi.

Alla bestia selvatica e ai suoi <<carcerieri >>andarono così la compassione e la pietà dei catanesi.

L' atmosfera di orrore si dissolse

(Salvatore Nicolosi)

 

 

 

Piazza Franco Battiato

 

Litterio al Luna Park del lungomare

L' altro giorno, sig. La Rosa, ddu zzaurdu di me cucinu Affio si nni nesci ca ni nn'havimu a jri all'una park!

"Bestia" ci dissi "bestia chi ci jemu a fari all'una park ca già sunu i setti i sira, u dici a stissa parola ca si cci a jri a l'una"

"no”  mi dissi iddu, “dda si cci po jri macari e setti'. "bestia"  ci dissi iù  allura u chiamamu setti park,

 "no” mi dissi iddu  "quello si chiama luna tutta una parola, tutto ioncioto luna, senza l'apostolo.

'Nzomma, sig. La Rosa, mi hanno portato 'e setti all'una park, eromo il sottoscritto, CIIICCCIIUUU, Fulippo "peri peri" e ddu zzaurdu di me CUCINU AFFIO, e abbiamo venuti a Catania, a Ognina, alla piazza dell'ammogghio .... dell'arrotolo, do Rotolo, vah....

Miiiili  e chi c'era di cristiani! C'era una folla .... Proprio, chinu chinu di picciriddi, picciriddi ca currevunu, mammi c'assicutavunu i picciriddi ca currevunu, picciuttazzi c'assicutavunu i mammi c'assicutavunu i picciriddi ca currevunu... Era insomma un fuggi fuggi ginirali.

Appoi i giostri, i bancarelli, il tiro inzegno ... ca è praticamente: tu spari n’fino ca non t'insigni ... non t'insigni a sparagnari i soddi inveci di spinnilli in minchiati. Ddocu Fulippu peri peri avvicinandomisici mi dissi: "Madonna chi cunfusioni, mi staiu scantannu ca ni pirdemu"; "ma comu ti perdi tu, ca c’hai questo radari segnalatore fetaiolo di peri morti!!!" Ca questa estate, sig. La Rosa, ce ne siamo andati in campeggio col treno, sopra il vagone si livau i scarpi... appunu a ricoverare tutto il vagoni per avvelenamento al sangue con dasgnosi preservata!

A un certo punto abbiamo visto come una specie di treno ca però camina ndell'aria del cielo... C'era scritto OTTOVOLANTE, noi eromo quattro e non ci pottimo andare; caminando caminando abbiamo visto come una specie di palazzo tutto bello infiorato ma sempri a tipo di giostra e c'era scritto TUNNEL DELL'AMORE; ndella biglietteria si presentau CIICCIIUUU, I' impiegato u taliavu un pocu curiuseddu, ppoi mi fa "prego, signora, si accomodi" .

"a mia signora?”  ci dissi iù  “comu si permettii?' . "ah mi scusi "  mi fa iddu  “Forsi sognorina!"

Iù nda me testa dissi ma chistu che cosa vuoli diri??? Forsi picchi Cicciu havi quel vizietto, ci sembra ca macari sugnu di l'autra sponda.

Comunqui, pi non fari discussioni, u lassai perdiri e trasemu in questo tunnel dell'amore. Acchianamo nda una barchetta ca appoi passavamo del lago, canale.

CIICCIIIUUU si vosi mettiri con me, era una barchetta a 4 posti, l'autri due posti ci acchianaro n'autri due masculi che io non conoscevo, ddocu visti che all'ingresso di questo tunnel c'erano fremmi na pocu assai di individui strani e ntisi un ciauru di mari e pensai forsi è perché siamo vicino al mare delungomari. Ad ogni modo abbiamo partiti con questa specie di barchetta, prima c'erano i lampioni belli grandi che facevano bella luci, poi i lampioncini belli piccoli, poi sempri cchiù nichi quasi al buio e ddocu iù ntisi una voci ca faceva "Beeddu, beeddu ‘cchi capiddi rizzi, lo sai ca sei cchiù beeddu do signor La Rosa?" e sintevo come dei pallini di carta ca mi arrivavano ndo coddu; mi stavo accomincianno a siddiari, e ci facevo "carusi finemila picchì vi abbio ammollo" e chiddi nautra vota "Bedduuu... Beddu, e chi capiddi rizzi, lo sai che sei cchiù intelligenti del signor La Rosa?" e mi arrivavano autri pallini di carta nda testa;

Ddocu iù mi siddiai, in quel momento priciso arrivamu ndel punto del tunnel ca era o' scuru completo e io non ci visti cchiù di l'occhi quanno 'ntisi una mano ca si appoggiava ndella mia spalla o scuru; iù dissi chista m'a vogghiu vidiri tutta e pinsai: sicuramenti sarà un ladro bossaiolo, e intanto dda manu scinneva verso i sacchetti dè causi e iù ddocu capii ca mi voleva furtiri u portafogghiu chi sordi, e mi priparai!

Ero teso e all'improvviso in quello scuro ca si pizziava ntisi a manu ca avevo sopra il petto ca di botto s'avvicino' ai sacchetti, scinnivu verso a panza “ma chistu” dissi nda me testa  “e chi ci paru babbu?” Io ero pronto ppi bloccari i sacchetti di causi; comu a mano si sollevavu iù u capii, dissi "nde sacchetti si stà abbiannu", e mi chiantai in contemporaneo velocissimo i manu ndei sacchetti, e il ladro borsaiolo cchiù lesto ancora di mia mi acchiappau di sotto nei paesi bassi.

Iu ddocu chiantu m’pugnu ccu tutta a me forza... dissi... ora ci fazzu cascari a manu!... il ladro cchiù lesto ancora si livau a manu e .... ntisi un dolore di l'autra munnu... ittai una schigghia ca si 'ntisi oltre mare nei Foracoglioni da Trizza...

Chiddu non era ladru di sordi, era latru di carni... Na vota ca si visti scoperto il ladro ittò un sauto e scappò. Ciiicciuu, per prendere le mie offese cercò d'acchiappallu, si alzò... la barchetta si abbuttò di lato,... Cicciu persi l'equilibrio e cascò 'ndell'acqua, io ci gridai "disgraziato ma chi ti pari il momento di fariti il bagno? e intanto iddu faceva..."glu... glu..." si stava anniando.

Io signor La Rosa, arristai rimminchilonito, pinsai "ma come, un puppu ca non sapi natari?' e subito u trascinai vicinu a banchina del canale; si avvicinaru i cristiani e siccome aveva pigghiato acqua assai ci ficiru a respirazione artificiale; iddu veramente vuleva fatta a respirazione bocca a bocca, ma quelle ci ficiro a respirazione artificali, quella coi bracci all'aria, così accuminciau a jittari acqua da vucca... Ittò quasi trecentoquarantacinquelitri di acqua, cchiù acqua ittava e cchiù acqua tirava, era un mistero!!!

Ci vosi menz'ura ppi capiri picchì... aveva u culo a moddu!!!

 

 

 

 

Un museo del mare sempre più famoso Mare in Italy ha scoperto ad Ognina (Ct.) il meraviglioso “Museo del Mare“ antico scalo marittimo di Catania detto anche il “Porto di Ulisse” rimasto sommerso nel 1381 da una tremenda colata lavica.

Il Museo è diviso in varie sezioni tutte molto interessanti, si inizia con la parte archeologica comprendente reperti di una nave romana naufragata nella zona di mare prospiciente Ognina, per proseguire poi visitando la parte in cui sono esposti attrezzi tipici della pesca, donazioni dei pescatori locali, per finire con la sezione nella quale si trovano reperti naturalistici.

 

 

Il bilancio dei primi tre anni di vita del museo e le intenzioni per i prossimi anni sono stati illustrati dal Sindaco Umberto Scapagnini e dagli assessori al Commercio e Turismo ma in particolar modo da chi ha fortemente voluto questa interessante struttura, padre Antonio Fallico e i responsabili dell’Associazione S. Maria di Ognina.

L’intenzione, è stato ribadito, è quella di fare del museo un importante strumento di apprendimento utile a tutte le fasce di età e cultura nonché naturalmente grande attrazione per tutti gli amanti del mare, facendo uso anche di tecnologie multimediali che riproducano l’ambiente marino reale.

Altro proposito è quello di incontrare alunni e fargli conoscere il fascino dell’ambiente marino sia con la visita al museo sia direttamente con uscite in barca.

Il sindaco ha anche riferito di un piano per la realizzazione di un Parco del Mare, una specie di acquario gigante di cui la parte formativa sarebbe ospitata nel Museo di Ognina. (Luca Coccia)

 

 

 

Ruderi dell'abiside del

tempietto di Sant'Agata

al Rotolo.

 

Francesco Granata nella sua "Catania vecchia e nuova" (edizione Niccolò Giannotta, Catania marzo1973) così scriveva: "Chi pensa alle vestigia del Santuario della Traslazione, al Rotolo, abbandonate senza una lacrima e senza un fiore per incuria soprattutto di chi aveva invece il dovere di onorarle, conservarle e tramandarle?

O Agata, tu sola potresti, tu sola puoi fare il miracolo auspicato dai pochi catanesi che amano Catania come si può amare una donna, ed ai quali sanguina il cuore nel vederla trascurata, mortificata, negletta in tutto ciò che costituisce e rappresenta il suo grande, nobile patrimonio ideale. Ormai (più per l'incuria degli uomini che per le avversità della natura) di quell'antico tempio Agatino non ci rimangono che scarsi ruderi, dei quali ciò che più si conserva è l'abside, notevole per il superstite arco acuto a pietre e mattoni di evidente struttura normanna. Rivolta com'è verso occidente (e non come stranamente scrive lo Sciuto Patti a oriente) essa dimostra chiaramente che la chiesetta guardava la strada dalla quale erano transitate, nel loro viaggio da Messina a Catania, le sacre reliquie. Sulle sporadiche chiazze di intonaco che ancora la rivestono, qua e là si scorgono malgrado l'usura del tempo, tracce di pittura a fresco. Lembi consunti di mura esistono ai lati dell'abside e dietro di essa notansi altresì le rovine di un cunicolo: avanzi, forse, di qualche più antico monumento sul quale e col materiale del quale non è improbabile che sia stato edificato il Santuario della Traslazione; il che si deduce facilmente dalle tracce di antichi monumenti romani rinvenuti nelle cave di lava aperte ai nostri tempi in quella zona".

 

Acquerello di Jean Houel, seconda metà del '700, Ermitage San Pietroburgo.

 

Interessanti le notizie che il Granata ci fa sapere riguardo alle scoperte di monumenti romani tra le cave di lava. Purtroppo tutto è andato perduto.

Ignazio Vincenzo Paternò Castello Principe Del Biscari, nella sua "Relazione Delle Antichità Del Regno Di Sicilia" 1779, così descrive i ruderi del tempietto del Rotolo visibili ai suoi tempi e di cui però stranamente ignora l'epoca e l'avvenimento per il quale fu costruito l'edificio: "Seguendo questa strada si vedono le rovine di un picciolo Edificio, vedendosene porzione del pavimento, e alcuni pezzi di elevazioni delle mura; il più intero di esso è una specie di gran tribuna, che esiste intera. Hà questa Fabbrica di osservabile, che dalla parte di dietro si osserva un lungo Corridoio rimasto coperto da antichissima lava e basso così, che andrebbe a corrispondere sotto il pavimento della fabbrica principale.

Se questo edificio dasse più chiari Indizj, che fosse stato un Tempio di alcuna Deità Carlatana (sta per ciarlatana ndr), non mancherebbe chi potrebbe dire, che per questo sotterraneo Corridore davano gli astuti Sacerdoti le risposte dello oracolo ai creduli ricorrenti: Queste rovine sono in una clausura di D. Francesco Marletta luogo chiamato del Rotulo.

Un miglio in circa di distanza da questo luogo è scaro mal sicuro di picciole barche ricoperto chiamato l'Ognina".

Mario Strano

 

 

 

Località Borgetti al Rotolo, oggi ricordata per il nome di una strada. Dove un tempo esisteva anche un piccolo campetto di calcio ricordato da molti catanesi attempati, c'è una rotonda.

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Un tempo, prima che sorgesse il Lungomare a cento metri da questa piazza, esattamente dove attualmente c'è un chiosco per bibite, un grande cancello con due enormi pini ai lati dava ingresso alla storica villa della signorina Borgetti, zia di Camillo Benso conte di Cavour. Nella cantina troneggiava una statua del famoso conte con gli occhialini rotondi. La villa dava ospitalità ai salesiani che quì venivano a villeggiare d'estate. Questa parte di scogliera vide passeggiare la signorina Borgetti con il suo ombrellino ma tutto sparì sotto le ruspe. Oggi il solo ricordo è in questo rione che ne perpetua il nome. Sic transit gloria Mundi.

(Mario Strano)

 

Litterio al Luna Park del lungomare  

 

L' altro giorno, sig. La Rosa, ddu zzaurdu di me cucinu Affio si nni nesci ca ni nn'havimu a jri all'una park!

"Bestia" ci dissi "bestia chi ci jemu a fari all'una park ca già sunu i setti i sira, u dici a stissa parola ca si cci a jri a l'una"

"no”  mi dissi iddu, “dda si cci po jri macari e setti' "bestia"  ci dissi iù  allura u chiamamu setti park,

 "no” mi dissi iddu  "quello si chiama luna tutta una parola, tutto ioncioto luna, senza l'apostolo.

'Nzomma, sig. La Rosa, mi hanno portato 'e setti all'una park, eromo il sottoscritto, CIIICCCIIUUU, Fulippo "peri peri" e ddu zzaurdu di me CUCINU AFFIO, e abbiamo venuti a Catania, a Ognina, alla piazza dell'ammogghio .... dell'arrotolo, do Rotolo, vah....

Miiiili  e chi c'era di cristiani! C'era una folla .... Proprio, chinu chinu di picciriddi, picciriddi ca currevunu, mammi c'assicutavunu i picciriddi ca currevunu, picciuttazzi c'assicutavunu i mammi c'assicutavunu i picciriddi ca currevunu... Era insomma un fuggi fuggi ginirali.

Appoi i giostri, i bancarelli, il tiro inzegno ... ca è praticamente: tu spari n’fino ca non t'insigni ... non t'insigni a sparagnari i soddi inveci di spinnilli in minchiati. Ddocu Fulippu peri peri avvicinandomisici mi dissi: "Madonna chi cunfusioni, mi staiu scantannu ca ni pirdemu"; "ma comu ti perdi tu, ca c’hai questo radari segnalatore fetaiolo di peri morti!!!" Ca questa estate, sig. La Rosa, ce ne siamo andati in campeggio col treno, sopra il vagone si livau i scarpi... appunu a ricoverare tutto il vagoni per avvelenamento al sangue con dasgnosi preservata!

A un certo punto abbiamo visto come una specie di treno ca però camina ndell'aria del cielo... C'era scritto OTTOVOLANTE, noi eromo quattro e non ci pottimo andare; caminando caminando abbiamo visto come una specie di palazzo tutto bello infiorato ma sempri a tipo di giostra e c'era scritto TUNNEL DELL'AMORE; ndella biglietteria si presentau CIICCIIUUU, I' impiegato u taliavu un pocu curiuseddu, ppoi mi fa "prego, signora, si accomodi" .

 

 

"a mia signora?”  ci dissi iù  “comu si permettii?' . "ah mi scusi "  mi fa iddu  “Forsi sognorina!"

Iù nda me testa dissi ma chistu che cosa vuoli diri??? Forsi picchi Cicciu havi quel vizietto, ci sembra ca macari sugnu di l'autra sponda.

Comunqui, pi non fari discussioni, u lassai perdiri e trasemu in questo tunnel dell'amore. Acchianamo nda una barchetta ca appoi passavamo del lago, canale.

CIICCIIIUUU si vosi mettiri con me, era una barchetta a 4 posti, l'autri due posti ci acchianaro n'autri due masculi che io non conoscevo, ddocu visti che all'ingresso di questo tunnel c'erano fremmi na pocu assai di individui strani e ntisi un ciauru di mari e pensai forsi è perché siamo vicino al mare delungomari. Ad ogni modo abbiamo partiti con questa specie di barchetta, prima c'erano i lampioni belli grandi che facevano bella luci, poi i lampioncini belli piccoli, poi sempri cchiù nichi quasi al buio e ddocu iù ntisi una voci ca faceva "Beeddu, beeddu ‘cchi capiddi rizzi, lo sai ca sei cchiù beeddu do signor La Rosa?" e sintevo come dei pallini di carta ca mi arrivavano ndo coddu; mi stavo accomincianno a siddiari, e ci facevo "carusi finemila picchì vi abbio ammollo" e chiddi nautra vota "Bedduuu... Beddu, e chi capiddi rizzi, lo sai che sei cchiù intelligenti del signor La Rosa?" e mi arrivavano autri pallini di carta nda testa;

docu iù mi siddiai, in quel momento priciso arrivamu ndel punto del tunnel ca era o' scuru completo e io non ci visti cchiù di l'occhi quanno 'ntisi una mano ca si appoggiava ndella mia spalla o scuru; iù dissi chista m'a vogghiu vidiri tutta e pinsai: sicuramenti sarà un ladro bossaiolo, e intanto dda manu scinneva verso i sacchetti dè causi e iù ddocu capii ca mi voleva furtiri u portafogghiu chi sordi, e mi priparai!

 

 

Ero teso e all'improvviso in quello scuro ca si pizziava ntisi a manu ca avevo sopra il petto ca di botto s'avvicino' ai sacchetti, scinnivu verso a panza “ma chistu” dissi nda me testa  “e chi ci paru babbu?” Io ero pronto ppi bloccari i sacchetti di causi; comu a mano si sollevavu iù u capii, dissi "nde sacchetti si stà abbiannu", e mi chiantai in contemporaneo velocissimo i manu ndei sacchetti, e il ladro borsaiolo cchiù lesto ancora di mia mi acchiappau di sotto nei paesi bassi.

Iu ddocu chiantu m’pugnu ccu tutta a me forza... dissi... ora ci fazzu cascari a manu!... il ladro cchiù lesto ancora si livau a manu e .... ntisi un dolore di l'autra munnu... ittai una schigghia ca si 'ntisi oltre mare nei Foracoglioni da Trizza...

Chiddu non era ladru di sordi, era latru di carni... Na vota ca si visti scoperto il ladro ittò un sauto e scappò. Ciiicciuu, per prendere le mie offese cercò d'acchiappallu, si alzò... la barchetta si abbuttò di lato,... Cicciu persi l'equilibrio e cascò 'ndell'acqua, io ci gridai "disgraziato ma chi ti pari il momento di fariti il bagno? e intanto iddu faceva..."glu... glu..." si stava anniando.

Io signor La Rosa, arristai rimminchilonito, pinsai "ma come, un puppu ca non sapi natari?' e subito u trascinai vicinu a banchina del canale; si avvicinaru i cristiani e siccome aveva pigghiato acqua assai ci ficiru a respirazione artificiale; iddu veramente vuleva fatta a respirazione bocca a bocca, ma quelle ci ficiro a respirazione artificali, quella coi bracci all'aria, così accuminciau a jittari acqua da vucca... Ittò quasi trecentoquarantacinquelitri di acqua, cchiù acqua ittava e cchiù acqua tirava, era un mistero!!!

Ci vosi menz'ura ppi capiri picchì... aveva u culo a moddu!!!

 

 

 

 

TAPPETI MARCA LIOTRU. 

Mancano due settimane al primo tuffo, eppure c’e’ ancora maltempo in tutta Italia. Anche qui in Sicilia, stamattina, ci siamo svegliati con tanta sabbia africana dovunque: sui balconi, sui tetti delle case e delle auto.

A Catania, in particolare, è una di quelle giornate dell’anno in cui il Grecale vuol fare il prepotente, infischiandosene del collega Scirocco proveniente dalla Plaja e già lì seduto fin dalla mattina. Ma l’Ellenico fa il gradasso e nel pomeriggio sfida il vento rivale per soffiargli il posto, iniziando un duello turbolento sul mare di Ognina.  I due venti sembrano i valorosi ammiragli Ruggero di Lauria e Artale Alagona in battaglia per difendere le sorti della città e ai quali è dedicato il Lungomare.

Le nuvole cercano di far da pacieri, a “Muntagna” osserva culumbrina perché sa che dopo arriverà il suo turno a dar spettacolo sul mare, mentre i gabbiani ne approfittano raccogliendo quintali e quintali di “ben di Dio” sollevati in superficie da quella Cavalleria Rusticana atmosferica. Bassa pressione e alta pressione salgono e scendono, scendono e salgono, su e giù vorticosamente come le mani di un direttore d’orchestra, mentre quei due se le danno di santa ragione.

Le gocce di sudore della loro lotta si riversano sulla città inerme e spettatrice del loro contendere mentre smuovono quel pezzo di mar Jonico i cui spruzzi, pregni dei loro insulti benedetti dal Dio Eolo, si infrangono sulla nera scogliera catanese senza pietà, sollevandosi in alte fontane d’acque salata sui marciapiedi. Insomma, le lacrime di Lola sul corpo morente di Cumpare Turiddu.

Alla fine lui, il Greco, alzando le braccia al centro del ring, si dichiara vincitore sputando, però, tutto l’odio salmastro accumulato nella sua bocca dopo il feroce combattimento durato ben due ore. Dicendone peste e corna di quell’altro, non sa che più s’incazza, più maledice il rivale ….  e più produce spettacolo! Gli effetti della sua rabbia soffiano fuori da quelle piccole insenature piroclastiche, simili a Geyser, che l’Etna lasciò quale suo testamento nel 1381 quando decise di “disegnare” il Lungomare di Catania e seppellendo per sempre il vecchio Porto Ulisse.

Oggi ero testimone del cruento match. In queste occasioni nessuno, nemmeno chi non è nato qui, può fare a meno di parcheggiare e sentire il vapore del mare addosso sulla pelle, sulle narici, sulle palpebre, trasportato dalle sbuffate che arrivano rapidamente in città, o ammirare quei verdi cavalloni che arrivano galoppanti come un reggimento di Cavalleria.

Eppure lui era lì, tranquillo, come se niente stesse accadendo. Accovacciato sulla ringhiera arrugginita a godersi quella salsedine che gli penetra alle spalle rovinandogli le ossa,  ma che ormai conosce e alla quale si dichiara immune. Anzi, le si arrende. E'  innamorato di questo mare forse più di noi catanesi. Lo conosce a tal punto che sarebbe capace di indovinare a che secondo esatto il moto ondoso arriva a produrre quella più grande, quella che fa dire “ohh!” prima del fuggi fuggi sul marciapiedi, tutti bagnati.

Intendo l’extracomunitario, quello che vende tappeti sul lungomare davanti all’Istituto Nautico. Chiunque, a Catania, lo ha incontrato almeno una volta. E’ quel signore che vende i tappeti a basso costo (molto napoletani e poco persiani); u Tuccu va, quello col pizzetto e con quell’aspetto medio-orientale che ricorda scarpe a punta, turbanti e scimitarre da Mille e una Notte.

Sapevo di lui (non è possibile scansarlo o far finta della sua presenza) ma oggi, visto il momento magico,  mi ci sono messo a parlare. E’ una persona cordiale e intelligente, ed ho capito perché spesso vedo gente che si attarda a parlare con lui, non solo di tappeti. Marocchino, vende tappeti a Catania dal 1982 e quando può, torna dalla sua famiglia dove moglie e figli lo aspettano per l’approvvigionamento. Trent'anni a vivere in quel furgone da rottamare, che vita! Però, con tutte le città italiane che ci sono, ha scelto di rimanere qui. Solo qui.

Oggi se ne stava seduto senza badare ad eventuali colpi di risacca che avrebbero potuto “spostarlo” sulla carreggiata. Ma a lui, il mare, non avrebbe fatto niente. Lo conosce, sono amici da tempo.

Ci siamo messi pure a parlare del suo amico agitato alle sue spalle che conosce a memoria, scoglio per scoglio, onda per onda e, purtroppo, patatina per patatina. Dice di ammirare quel pezzo di mare che vede ogni giorno e di amare soprattutto Catania che considera, lui forestiero, un Paradiso terrestre. Mi ha raccontato che quella forza della natura è uno spettacolo che i suoi occhi non hanno visto in altri luoghi; che noi catanesi siamo degli ingrati a Dio perché non capiamo di vivere in mezzo a una tale fortuna: la scogliera, il sole, quel mare, mentre davanti l’Etna sprigiona fontane di fuoco.

 

“Lo sapete – continuava – che i milanesi, i francesi, i tedeschi, si portano a casa le vostre pietre laviche come souvenir, raccolte in mezzo alla spazzatura che ogni sera lasciate quando passeggiate sul lungomare? Li ascolto quei turisti, mentre si allontanano e dicono ‘Perché? E’ un peccato!'.... Infatti, fratello, perché lo fate?

Avete una città stupenda e la insozzate così. Ogni tanto, al mattino, mi metto a pulire questo tratto di lungomare, ma è tutto inutile perché al sabato sera è di nuovo pieno di  roba che andrebbe, invece, gettata nei cassonetti”.

Imbarazzato, mortificato dalle sue parole e vergognato di certi miei concittadini, quelli che ogni sera lasciano lattine, carta stagnola e quant’altro scambiando la propria città per una pattumiera, gli ho risposto che non siamo tutti così e che cerchiamo di rimediare a questi segni di inciviltà anche con atti di volontariato ripulendo la scogliera, periodicamente. Che potevo dirgli di fronte a tanta amara verità? Non so se ci ha creduto, ma l’ho pure ringraziato per quanto ammirasse Catania perché, in fondo, un tempo è stata anche sua, fin da quando il Normanno Ruggero d’Altavilla, Re di Sicilia, conquistò il Nord d’Africa facendo emigrare in Sicilia maestranze che qui hanno lasciato uno scibile immenso. Sì fratello, questa è stata pure casa tua. Anzi, è casa tua, perché la rispetti più di noi.

Qual è il suo nome non gliel’ho chiesto, non era importante. A questo punto, per me, potrebbe anche chiamarsi Melo, Saretto, Arazio, Cuncetto, Turiddu, Agatino. Lui sì che è un Catanese DOC.

(M.R. - Maggio 2013)

 

IL MONUMENTO AI CADUTI

CATANIA – Tra le opere d’arte più bistrattate, martoriate, abbandonate di Catania vi è ai primi posti il Monumento ai Caduti di Piazza Tricolore, da anni in mano a chi, non comprendendone l’intrinseco valore storico e artistico ne ha fatto scempio.

Disprezzato dai più, definito “brutto” da chi non ha una grandissima familiarità con l’architettura contemporanea, il Monumento ai Caduti si inserisce in un quadro storico-artistico molto complesso e all’interno di un movimento architettonico internazionale definito “Decostruttivismo”, tra massime espressioni artistiche del Novecento.

 Il Decostruttivismo contrapponendosi al Postmoderno e, soprattutto, al razionalismo architettonico, vuole de-costruire ciò che è costruito e in quest’azione estrapola un’architettura “senza geometria” (intesa come geometria euclidea), piani ed assi, con la mancanza di quelle strutture e quei particolari architettonici che sono sempre stati visti come parte integrante di quest’arte. Una non architettura, quindi, che si avvolge e svolge su sé stessa con l’evidenza e la plasticità dei suoi volumi. La sintesi di ciò è una nuova visione dell’ambiente costruito e dello spazio architettonico, dove è il caos, se così si può dire, l’elemento ordinatore.

 

 Le opere decostruttiviste sono caratterizzate da una geometria instabile con forme pure, disarticolate e decomposte, costituite da frammenti, volumi deformati, tagli, asimmetrie e un’assenza di canoni estetici tradizionali. I metodi del decostruttivismo sono indirizzati a “decostruire” ciò che è costruito, una destrutturazione delle linee dritte che si inclinano senza una precisa necessità. Siamo davanti a un’architettura dove ordine e disordine convivono.

 È in quest’ottica che va analizzato il Monumento catanese, cercando di guardarlo al di là degli sfregi che ha subito negli anni, come guardare una bella donna sfigurata nel volto dalle cicatrici di un amore malato.

 l’opera è stata realizzata dall’architetto catanese Giuseppe Marino, prematuramente scomparso alla fine degli anni ’80, che lo progettò con la collaborazione dell’artista professor Salvo Giordano, per la scultura centrale, e dell’artista professor Ugo Giuffrida, per i bassorilievi in ceramica.

 Il progetto, denominato “Vortice”, fu il vincitore del concorso nazionale bandito dal Comune di Catania nel 1971 e fu approvato dalla Sovrintendenza con una nota del 7 aprile del 1979 e con un’altra, successiva, dell’8 agosto 1984.

 

 Ed è un vortice vero e proprio quello ricreato dai movimenti sinuosi nello spazio da queste ali di cemento armato che sembrano esplodere come dopo la deflagrazione di una bomba.

 Non è brutto come molti dicono e c’è persino chi ha proposto una raccolta firme per la sua demolizione ma è arte e come tale va tutelata, valorizzata e comunicata.

 Bisogna educare all’arte in tutte le sue forme perché l’arte è il riflesso della società che l’ha prodotta e cosa meglio di un monumento che esplode con stridente, violenta, aspra forza, per ricordare ai posteri l’atrocità del conflitto bellico.

 L’opera è stata oggetto negli anni passati di un’interrogazione parlamentare (28 maggio 2009) che, dopo gli interventi di manutenzione, ricordava al Comune di Catania e alla Sovrintendenza della provincia etnea che: il monumento ai caduti di tutte le guerre, in piazza Tricolore a Catania, ricade in un’area sottoposta a vincolo paesaggistico e soggetta alle disposizioni della parte terza del decreto legislativo n. 42 del 2004 concernente il “Codice dei beni culturali e del paesaggio”. Quindi, al fine di evitare il pericolo di abbandono e di degrado che, in un prossimo futuro, potrebbe nuovamente verificarsi, si ritiene necessario valorizzare l’opera monumentale come luogo di eventi, ad esempio inaugurando le due sale espositive finora mai utilizzate.

 Tale interrogazione e avvertimento ministeriale sono rimaste lettera morta, poiché basta aggirarsi nel monumento per vedere uno stato di degrado umano, oltre che ambientale, senza pari. Non sono tanto i graffiti, che potrebbero anche essere funzionali all’opera come espressione del tempo, ma escrementi, rifiuti, atti vandali, che rendono il posto non solo poco igenico ma soprattutto poco sicuro per le tante persone che ogni giorno vi transitano.

 

https://newsicilia.it/cultura/monumento-caduti-piazza-tricolore-catania-arte-degrado/89830

 

 

 

 

L’appuntamento è alle 9,30, porticciolo di Ognina di Catania, perché si rinnova, per la quarantanovesima volta, la “San Silvestro a mare”. Tutto è pronto per quella che si prospetta come l’edizione del ricordo, la prima senza Lallo Pennisi, l’ideatore nel 1960 della gara diventata tradizionale appuntamento per i catanesi e non solo. Sarà anche la prima senza la storica pattuglia degli ungheresi, guidata da Geza Garady, costretti a restare in terra magiara.
Mimmo Raffone coordinerà le procedure d’iscrizione. Da 35 anni è una colonna della classica di nuoto. «A Lallo non potevo dire di no - ricorda - mi chiamava una settimana prima della gara. E mi raccomandava di non prendere impegni per il 31 mattina.
Sentirò la sua mancanza, in particolare, nel momento della premiazione».
Raffone non sarà sostenuto quest’anno da Antonio Aventaggiato, altro emblema della San Silvestro, che non potrà essere presente. “Sarà vicino con il cuore”, ricorda Raffone. Ad assistere il decano della San Silvestro quattro ufficiali di gara Fin che presenteranno opera volontaria e Davide Arena del Circolo Canottieri Jonica che sarà il suo braccio destro.
«Il ricordo curioso era quello della partenza - ammette Raffone - gli consegnavo una bandiera per dare il via. Lallo, invece, preferiva usare un protocollo personale, sostituendo la bandiera con il mitico cappellino».

 

 

TUFFATI ANCHE TU PER PER SAPERE MOLTO DI PIU'

 

 

 

QUATTRO ALBERI NELLA STORIA DI CATANIA

 

Forse non tutti sanno che quattro alberi fanno parte della storia di Catania:un carrubbo,un pino,un platano ed una quercia.

Il carrubo da il nome,CARRUBBA,al vasto quartiere che si è sviluppato nel dopoguerra tra Ognina e Cannizzaro. Ha piu' di un secolo e fiorisce nella scuola di via Scogliera 8, sorta nei decenni passati al posto di una casa di campagna. Nel 1968 fu colpito da un fulmine ed incenerito in buona parte,ma i valenti (allora) giardinieri del Comune di Catania riuscirono a salvarlo.

Il pino,da cui prende il nome la contrada PIGNO,si trovava nella proprietà Pulvirenti, all'estrema periferia sud-ovest della città,oltre Zia Lisa. Negli anni '50 dello scorso secolo fu tagliato alla base,ma germoglio' una nuova pianta che fu abbattuta da una tromba d'aria nel 1964.Sembra siano rimaste solo le radici.

Il platano,detto "ARVULU ROSSU",appunto perchè un tempo grande ed ombroso,si trova in via Dusmet,all'angolo con via Porticello,accanto allo sperone del palazzo Arcivescovile.E' ultracentenario e ha dato il nome a quella zona che fu in passato luogo di duelli rusticani ( ! ) e di incontri della malavita.

Dalla quercia,abbattuta circa 50 anni fa,ha preso il nome un quartiere a nord est della città,CERZA,al confine con il Comune di San Gregorio.

 

 

 

 

 

 

 

Palme e chioschi sul lungomare vero.

(Venerdì di Repubblica del 30.7.04) Musica, cocktail e sport.......... Anche a Catania, che il mare ce l'ha, eccome, sono state create aree "artificiali" di svago, sport e relax. Lungo il viale Kennedy, in pieno centro, troviamo la Playa, una spiaggia di sabbia fine e bianca con palme e chioschetti, aree sportive e spazi con la musica. Proprio come le spiagge metropolitane, ma qui, alla fine il mare c'è davvero. Anche in questo caso i vari beach bar la sera si trasformano in locali dove si beve e si ascolta musica. La Cucaracha, il camping internazionale e le Capannine, sono i più e meglio frequentati.

In Piazza Europa ancora una zona centralissima è stata creata una piattaforma sulla scogliera con bar e docce, frequentata da catanesi in pausa pranzo, giusto fuori dalla porta dell'ufficio. San Giovanni Li Cuti è un'altra piccola spiaggia sempre in centro città, con beach bar per aperitvi.

 

 

 

Le palme del Lungomare prima del maledetto Punteruolo Rosso

 

 

 

Fra le pagine dedicate a Ognina, ho conservato qualcosa che pubblicò La Sicilia il giorno prima che la famiglia Spampinato chiudesse i cancelli del Campo Ulisse.

Prima che tutto cadesse nell’oblio, ho voluto chiudere la porta del campo a modo mio, rendendo pubblico un pezzo di storia della città da far ricordare a tutti, per sempre. Non l’avrebbe fatto nessuno, però non avrei mai immaginato che andasse a finire così ingloriosamente: un fatiscente parcheggio per Tir. Che so, pensavo ad una vendita del terreno per costruirci sopra un residence. E invece no.

Leggo molti ricordi e apprendo che un po’ tutti siamo passati da lì, e tutti cominciavamo a distruggere le scarpe nuove sul catrame di Piazza Europa. Non c’era ancora il Viale Africa, al suo posto vecchie colate laviche e di fronte ai portici un grande spiazzo asfaltato dove si giocava. Ogni volta che il pallone andava a finire dentro il Deposito FS era un casino per andarlo a riprendere e di solito toccava a chi aveva sbagliato a tirare. Di pomeriggio arrivavano due gemelli in vespa, già in pantaloncini e scarpette e palleggiavano fra loro per due ore, distanti cento metri l’uno dall’altro.

 

https://www.mimmorapisarda.it/2024/campoulisse.jpg

foto del 2024 (non è cambiato niente)

Il passo successivo della carriera calcistica dei ragazzini di allora era il Campo Ulisse, e lì ci volevano già gli scarpini perché il pallone era di cuoio rispetto al San Siro o al Supersantos usato negli oratori, cuoio che quando si inzuppava di acqua diventava una tonnellata. Il campo Ulisse aveva una leggera salita a Sud e quando pioveva, nella parte nord si creava una pozzanghera che quando ci passava il pallone lo inzuppava facendolo pesare come dicevo, un po’ come la partita di Fantozzi. E d’estate, con la polvere che si sollevava, ..... perché non ho mai capito la composizione di quel terreno. Cos’era? Sabbia, terra, cemento sbriciolato?

Generazioni e generazioni hanno giocato nel mitico campo. I portieri incassavano tanti, troppi gol, ma non avevano colpe perché erano fin troppo distratti: con l'Etna di fronte e il mare a lato, come si poteva rimanere concentrati? Il custode del campo era lo scontroso e sdentato Laudani padre, che cazziava tutti se si rimaneva a giocare qualche minuto in più. Il figlio era più trattabile.

Le docce non funzionavano quasi mai; erano locali spartani, puzzavano maledettamente (sempre meglio di quelli del Turati!) ma quella muffa era così affascinante che ci era addirittura piacevole rimanere seduti su quelle panche sconquassate, e rilassarci avvolti nell'accappatoio fra fumanti vapori di alcol canforato. E chi è non si è mai seduto sulle scalette in cemento all’ingresso degli spogliatoi sorseggiando una gazzosa, con l’affanno e il sudore ancora addosso e il fiato rotto già da tempo? E quella fontanella sulla strada con l'acqua più buona del mondo?

I campionati aziendali estivi? Bellissimi, al sabato pomeriggio attorno al campo c’erano tantissimi spettatori e sovente si era lesti ad alzare i piedi e … le mani! Coppa a "levapilu", soprattutto ai poveri arbitri.

Fra le squadre ricordo il Pollo d’Oro che giocava nei tornei estivi, squadra che non aveva niente a che vedere con quella più blasonata di Angelo Barbagallo (Ersilio, correggimi se sbaglio). Si chiamava così perché era sponsorizzata dalla rosticceria di piazza Mancini Battaglia gestita dal fratello di Angelo e che si chiamava, appunto, Pollo d’Oro quale succursale di quella di piazza Jolanda. Il pizzaziolo era Ciccio, napoletano DOC  e in squadra ci giocava una fortissima ala che oggi vende frutti di mare e ..... che tutti chiamano Nitto! E poi i fratelli Maugeri, detti i Vichinghi, figli del mitico bagnino ai Bagni Ulisse del barone Castorina.

Straordinario il campo Ulisse. Avete notate quante volts si nomina il re di Itaca, per via della leggenda che lo vuole sbarcato ad Ognina durante la sua Odissea? Qui tutto riporta a lui, dalle strade ai ristoranti, dalle palestre ai campi di calcio.

Ai vent'anni, a volte arrivavo a  fine guardia ancora in divisa e coi calzettoni sotto i pantaloni, pronto a cambiarmi. Avevo sempre la borsa in macchina, pronta per l’occorrenza. Quando volevo giocare, mi fermavo lì davanti alla recinzione e li contavo. Se erano 14 me ne andavo, ma se da una parte vedevo 7 panze che correvano rischiando l’infarto e altre 6 dall’altra, fra svolazzanti riporti alla Bobby Charlton, mi dicevo “Ma non è giusto!”.

Così, quando ormai il punteggio era 8 a 3, mi avvicinavo alla mitica rete metallica e ….chiedevo “siete uno in meno, posso giocare?”. E dall’altra parte: “si spugghiassi!”. E Laudani: "Brigaderi, parcheggiassi cca" (ah ah ah!).

Alla fine, a 12 a 14 (questi i risultati simili al rugby); c’era chi mi diceva “ma non era megghiu ca non vineva?” oppure chi “che fa, torna la prossima settimana?”.

Che tempi!

(M.R.)

 

 

foto del 2016

E anche il CAMPO ULISSE viene consegnato alla storia della nostra' citta.un altro capitolo della nostra gioventu ormai passata che se ne va.chi ha figli raccontera' loro di partite epiche.dove gattuso sarebbe stato il buono.....e pasquale bruno solo uno dei tanti.non era ancora il tempo delle partite virtuali.niente fifa niente pes.solo polvere fango sudore e graffi.la doccia a volte si spesso no dipendeva dalla caldaia.e poi panino dal carrozzone e gassosse gli integratori erano ancora nella mente del signore.per quelli come me che amano il calcio CAMPO ULISSE ha significato vivere le stesse emozioni di una finale di coppa.perche in fondo il calcio e' lo sport piu bello del mondo per questo.una finale sia che la giochi al nou camp o al campo ulisse e' sempre una finale!

Alessandro Restuccia

Il campo Ulisse lascia il posto al cemento

La Sicilia del 14 Agosto 2013

 Chiude i battenti dopo 44 anni di onorata carriera il campo Ulisse. A nulla è valso l'accorato appello di qualche cittadino catanese per salvare e riqualificare l'impianto. Storico campo sportivo con fondo rigorosamente in terra battuta, non omologato per le gare ufficiali e di proprietà della famiglia Spampinato, per oltre quattro decenni ha attirato i catanesi amanti del calcio. Troppo vecchia la struttura, troppo incalzante la moda del calcio a 5 o a 7 praticato sull'erba sintetica. Sicchè per il vecchio, obsoleto campetto dietro il porticciolo di Ognina è arrivata l'ora dell'addio. Così come passano nell'album dei ricordi più cari il gelato, la bibita o la granita consumata dal mitico Laudani al termine delle accese ed entusiasmanti partite. «Gli spogliatoi andavano totalmente ripristinati - spiega Alfio Spampinato, che da annni gestiva il campo - i servizi igienici dovevano obbligatoriamente essere messi a nuovo, l'impianto di riscaldamento dell'acqua funzionava a singhiozzo, i fari ormai non illuminavano bene il campo, poi le porte, le reti, il fondo in terra, troppe le spese da sostenere a fronte di entrate ormai irrisorie. Con i 3 euro a persona per le poche partite che ormai si svolgevano non riuscivamo a sostenere i costi, inoltre non sarebbe stato possibile apporre sul terreno un manto sintetico di ultima generazione a causa della porosità del sottosuolo, insomma, non c'erano a nostro malincuore le premesse per continuare».

I giovani oggi preferiscono giocare sui campetti in erba sintetica, il campo Ulisse insomma non era più gettonato come un tempo, a parte i non più giovanissimi "irriducibili" che il giovedì continuavano a giocare da anni il match tra scapoli e ammogliati, capelloni contro calvi, partite bellissime, ma ormai sporadiche nel campetto di Ognina.

L'ultima gara giocata il 26 luglio va dunque ricordata come l'ultima dello storico, mitico Campo Ulisse?

«Sì, una data che ho segnato nel calendario posto ancora dentro gli spogliatoi. Si conclude un'epoca, un modo di vivere il calcio amatoriale a Catania, i tornei giocati qui sono indelebili nella memoria di tutti; era un modo non solo di fare sport e divertirsi, ma di socializzare, ma «pi ogni cosa c'è u so'tempu», chiosa Alfio Spampinato in dialetto catanese e il tempo del campo Ulisse non tornerà più. Lì dove c'è quel che resta del campo (lunedì le ruspe e i camion hanno portato via i fari e le vecchie porte) sorgeranno delle moderne palazzine, essendo il terreno edificabile.

C'è chi è cresciuto su questo campo, bucava la rete per giocarci di notte, adesso è li a guardare quel che ne resta, porta a casa qualche pietra, i palloni, le fotografie. Oggetti da conservare tra i ricordi più cari, che si portano nel cuore sempre, frammenti di spensieratezza e semplicità che oggi è raro trovare nella gente e nella vita di tutti i giorni. Alfio Spampinato chiude il cancelletto stile ranch fine anni ‘50 del campo Ulisse, e chiude per sempre un pezzo di storia della città, e un pezzo di vita di centinaia di catanesi ormai da tempo maggiorenni…

Andrea Rapisarda

«Calci al pallone e spensieratezza quei tornei restano nel cuore»

La Sicilia del 14 Agosto 2013

 Nelle foto, a cominciare dall´alto, tre "protagonisti" del campo Ulisse, Antonio Falco, ... Quelli che giocavano al campo Ulisse. Sono stati in tanti, tantissimi, generazioni e generazioni, non soltanto quelli del quartiere Ognina - Picanello, ma ragazzi, e non solo ragazzi - e questo è stato il bello di questo piccolo impianto sportivo - provenienti da tutti i quartieri della città.

Professionisti, manager, impiegati, calciatori con un buon passato agonistico, attori, senza nessuna distinzione, tutti o quasi nella "carusanza" gli amanti del calcio sono passati dal campo Ulisse.

Sì perché fino a una ventina d'anni fa mica c'erano i campetti in erba sintetica di ultima generazione, al calcio tra amici si giocava al Cabanuca, al Turati, nella zona della Plaia, o appunto al campo Ulisse.

Il giorno preferito per disputare avvincenti partite era il giovedì, ma anche le serate del lunedì e della domenica pomeriggio, rigorosamente dopo aver visto "Novantesimo minuto" condotto dal mitico e indimenticato Paolo Valenti, perché allora il calcio in televisione non occupava come oggi tutti gli orari possibili, e c'era così il tempo di indossare in prima persona pantaloncini e scarpette. Poi ci si ritrovava al campo, correndo dietro al pallone e lasciando a casa pensieri e stress della vita quotidiana. Quel terreno polveroso, del resto, è stato calcato da potenziali campioncini come da perfette schiappe, ma sempre lasciando il cancello aperto a tutti.

Oggi i ragazzini giocano sui campetti in erba sintetica, in club privati, bevono gli integratori salini dopo la partitella.

Al campo Ulisse dopo la partitella si beveva l'acqua della vicina fontanella o una fresca gazzosa, must delle serate estive durante i mitici tornei.

Antonio Falco, storico portiere di tante e tante partite spiega: «Ho giocato per la prima volta al campo Ulisse 30 anni fa, avevo soltanto 15 anni, sono tantissimi i ricordi soprattutto dei tornei estivi negli anni ‘90, per noi ragazzi era un qualcosa di veramente emozionante, aspettavamo con ansia i giorni del torneo, tutte le sere un'attrazione, un'emozione, poi, negli anni in cui c'erano i mondiali, tutto bellissimo, campo allestito con bandiere dai ragazzi del quartiere, tutto fermo quando scendeva in campo l'Italia, poi nelle altre serate eravamo noi sul campo ad emulare le gesta dei nostri beniamini». Angelo Corsaro con amarezza ci racconta: «E ora? Dove andremo a giocare? Al campo "31 "Maggio, ma non sarà mai la stessa cosa, che tristezza, nessuno poteva intervenire per salvare il campo? Un pezzo di storia della città di Catania? Sono molto amareggiato, ci rimangono i ricordi, tanti, tantissimi. Ci ricorderemo di quelli che…giocavano al campo Ulisse».

 

 

Pino Zingherino al campo Ulisse ha dato i primi calci al pallone. Poi una discreta carriera tra i dilettanti prima da giocatore e poi ancora oggi da allenatore, con la soddisfazione di avere sfidato al Franchi la Fiorentina allora di Cesare Prandelli, con il suo Giarre (allora in serie D) in una storica partita di Coppa Italia. Prandelli oggi allenatore della Nazionale, fece allora i complimenti a Zingherino per il suo modulo spregiudicato e per la velocità della sua squadra. «Posso dire allora dal campo Ulisse all'Artemio Franchi di Firenze…a parte gli scherzi, mi spiace tanto per la chiusura del campo. Ricordo con piacere anche la scuola calcio tantissimi anni fa con Memo Prenna ed Enzo D'Amico, poi cercammo di continuare io e Nino Battiato, ma senza fortuna».

Anche Eduardo Saitta, attore catanese di teatro e Gino Astorina, noto artista catanese, furono tra coloro i quali calcarono il campo Ulisse collezionando risate, pestoni e tanto tanto divertimento. «Davvero ricordi piacevoli - spiega il buon Gino Astorina - anni, ricordi ed emozioni indelebili di un tempo passato durante il quale il campo Ulisse era una vera e propria istituzione: mi spiace davvero per la chiusura della struttura, la porteremo nel nostro cuore tra i ricordi più belli». Dello stesso avviso Eduardo Saitta: «Quanti ricordi - esordisce l'attore catanese - che spensieratezza, che calci al pallone e che calci alle caviglie. Ci dilettavamo con ardore e impegno, ridendo, scherzando e ironizzando, scompare un pezzo di storia della Catania sportiva, quel pezzo di storia che mai dimenticheremo».

Andrea Rapisarda

 

 

Nati tra fuoco e mare (di Santo Catarame) (dedicato ai poeti del mar Jonio)

I campi di calcio dei"buggetti", ancora li possiamo vedere vicino a via porto Ulisse, e ancora si gioca a pallone come cinquant'anni fa. Un tempo non c'erano le docce. Sudati, tanta buona volontà e il bagno lo facevamo "nda rutta". "A rutta" ovvero la grotta si trova ancora oggi. E' una cavità profonda vicino al mare. La lava dell'Etna ne fa di tutti i colori avvicinandosi all'acqua marina.
"Acqua e focu dacci locu". Acqua e fuoco governali con saggezza, sono pericolosi entrambi. La lava che s'incontra con l'acqua del mare, uno spettacolo che si è ripetuto dalle nostre parti, dall'inizio del mondo al 1669.

Panico e stupore. La lava ha creato grotte, ponti lavici, alte scogliere, piattaforme. Un lido rimasto nella scogliera del lungomare è montato ancora sopra "a rutta". Il vantaggio di spogliarsi nella "rutta" era che potevamo cambiarci senza essere visti. Di sera era un buon nascondiglio per amanti che non volevano godere solo il rumore amico del mare jonio. Una volta là vicino c'era il Club della Stampa e la prua della finta nave che sorgeva su quel tratto di scogliera si vede ancora ancora oggi. Oggi è un luogo abbandonato, se volete ritrovare "a rutta" andate nei due lidi che si ricostruiscono d'estate nel lungomare di Catania.

 

 

Prima della speculazione edilizia degli anni sessanta, la ferrovia statale passava sopra le lave del Rotolo. Bisognava attraversare i binari, rompersi le scarpe tra le pietre nere e qualche ciuffo di ginestra. Eravamo ragazzi, adolescenti, di "primu pilu, facevamo tuffi spericolati dalle alture di lava sul mare. L'emozione del volo arrivava dai piedi alle gambe, alte scogliere che ancora oggi si ammirano passeggiando.

Poi a Catania c'è la plaja, o come dicono ancora i catanesi: A praja. Non c'è più il lido Elsi e neanche il lido Casabianca. Sparito anche il bellissimo lido Spampinato con la sua architettura "gotica", maestosa, quasi aggressiva. Un prospetto incredibile dinanzi il mare, uno scenario che confermava Catania città d'arte. Romantiche sere passate a guardare il porto, il molo di Levante.

 

 

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IL LUNGOMARE LIBERATO

Cesare La Marca

 

Il sogno di una domenica di inizio estate potrebbe essere molto più vicino alla realtà di tutti i giorni, se la viabilità prevedesse le alternative necessarie, che non ci sono ancora, e che aprono anche non poche incognite su questa giornata che si prospetta comunque indimenticabile, con il Lungomare libero dall'assedio del traffico e dello smog. Perché su questo Lungomare, anche la domenica, transitano decine di migliaia di auto, e perché comunque vada la giornata odierna può segnare l'avvio di un percorso mirato a incentivare tutte le scelte legate alla mobilità sostenibile; e può servire anche a "spingere" l'iter per ultimare un'opera bloccata ormai da circa otto anni, proprio mentre i lavori erano giunti nella fase conclusiva, e che basterebbe a dare "ossigeno" al Lungomare, alleggerendolo dal traffico grazie all'apertura, a monte di esso, del tratto "Rotolo-Ognina" del cosiddetto "nuovo viale De Gasperi".

 

 

Incompiuta ormai storica, appaltata dall'ex Ufficio speciale per l'emergenza traffico e la sicurezza sismica, che proprio oggi avremo modo di rimpiangere, essendo stata allora progettata proprio per garantire un asse viario interno parallelo al Lungomare, utile anche come via di fuga. Invece la strada si interrompe bruscamente davanti alla sciara adiacente al cantiere del raddoppio ferroviario di Ognina, e resta ancora da posizionare il viadotto che rappresenterà lo sbocco del nuovo asse viario sul tratto finale del viale Ulisse, poco prima di piazza Mancini Battaglia. Qui erano già stati collocati i piloni che dovranno sorreggere il viadotto che non è però mai arrivato in cantiere, così le travi sono da quasi otto anni in "attesa" del nuovo ponte, e adesso rappresentano questa incompiuta, lasciata così per esaurimento delle risorse proprio quando si attendeva l'ultima e decisiva fase dei lavori. «Venerdì scorso insieme al sindaco Bianco abbiamo incontrato il direttore della Protezione civile regionale ingegnere Calogero Foti - afferma l'assessore ai Lavori pubblici Luigi Bosco - e abbiamo sollecitato i fondi necessari per il completamento del viadotto di viale De Gasperi, infrastruttura che riteniamo strategica, e che apre ampi orizzonti per il nostro Lungomare». I fondi in questione ammontano a 1,8 milioni, che il Comune integrerebbe con proprie risorse per 260mila euro, per completare un'infrastruttura rimasta per troppi anni in questa condizione. Anche perché le travi rimaste da così lungo tempo senza il viadotto che avrebbero dovuto sostenere - rileva stavolta da "tecnico" l'ingegnere Bosco - non rappresentano il massimo per la sicurezza, e comunque non possono restare così all'infinito.

Sarà necessario un nuovo appalto per realizzare l'ultima e decisiva fase dei lavori, consistenti in gran parte nella fornitura e messa in opera del viadotto di un centinaio di metri da collocare sopra i piloni rimasti "monchi" alle spalle di piazza Mancini Battaglia, oltre a una serie di rifiniture necessarie per mettere in esercizio la strada.

Il problema è anche quello che col trascorrere degli anni sono intanto aumentati esponenzialmente i costi dei materiali e del lavoro, rispetto al progetto che non venne ultimato nel 2006.

Oltre ai piloni senza il loro ponte, un secondo simbolo di cemento ricorda quest'incompiuta storica nel cuore di Ognina, da piazza del Rotolo al viale Ulisse: il ponte su via Acireale, anch'esso dal lontano 2006 in attesa del transito della prima auto. Anche per questo, chiudere il Lungomare al traffico per un'intera domenica sarà anche un'avventura secondo molti un po' folle, che avrà di certo un suo prezzo, ma è pure una scelta che può aprire lo scenario di una città diversa.

 

Cesare La Marca - 01/06/2014

clicca per il photo report di Salvo Puccio

 

foto di Andrea Campo

 

 

Un tempo si poteva anche dormire di notte nella cabina di legno. La gente si portava i fornelli a gas, oggi non è più possibile. Sulle ampie terrazze dei lidi, la sera c'erano gli spettacoli. Nel lido Spampinato si esibì pure Pippo Baudo, ancora incerto laureando di Giurisprudenza.
Gli innamorati, invece, sono sempre gli stessi. Quando le ragazze si sottraevano alla vigilanza di padri e fratelli, li potevate ritrovare con il fidanzato "ammucciuni" non solo vicino al mare ma, "senza dari all'occhiu", sulla sabbia, all'ombra o al buio di sera sotto le terrazze di legno che si costruivano per rialzare le cabine del lido. Al mare c'era l'acchiappo; in altre parole, si corteggiavano le ragazze senza tregua.

Belli i bagni. Belli se il bagnante che non sapeva nuotare era sostenuto sull'acqua da spaziose camere d'aria di camion. Sì, proprio quelli dei camion. In queste cinture di salvataggio c'entrava un'intera famiglia.

 


La mattina la sciabica tirata dai pescatori attirava la curiosità di noi bambini se per caso, solo per caso, c'eravamo alzati prestissimo. I cuzzulari e i pescatori con la sciabica sono immagini che ci facevano sognare e guardavamo la linea d'orizzonte con la speranza, un giorno, di navigare verso un paese lontano. "La Grecia dopo l'orizzonte c'è la Grecia" diceva un pescatore che raccoglieva cozzuli ddà praja. Ancora oggi raccolgono cozze lungo la costa fino al Simeto.
I tornei di tamburelli. L'elezione di miss lido creava qualche difficoltà ai genitori bacchettoni di una volta. La Sicilia è stata fino a quaranta anni fa di tradizioni islamiche pur essendo cattolica, apostolica e romana. "Me figghia non è comu i culumbrini ccà sfilunu cche cosci all'aria e u pettu tisu!.". Se la figlia culumbrina (civetta), per sbaglio, vincendo le resistenze della madre, riusciva a sfilare e vinceva il concorso di miss bellezza, allora era il caso di pensare seriamente a sposarla con un uomo "posizionato", di solito un avvocato. Gli avvocati siciliani, una volta, quante belle ragazze si sono godute! Probabilmente l'inflazione di legali e studi legali a Catania ha una giustificazione sentimentale.

Si ritornava con il filobus, che anche allora faceva servizio estivo per i lidi; oppure disperati perattesa, si ritornava con un'occasionale carrozzella tirata da un docile cavallo. Bisognava mettersi d'accordo prima col cocchiere, viaggiare in carrozza era un lusso.

 

Si ritornava guardando il porto, il gazometro, u mulinu di Santa Lucia, fischiava il treno sopra l'acchi ddà marina. Pensavamo quando saremmo ritornati a praja, l'indomani oppure l'estate prossima.
Pensavamo pure che Catania sarebbe diventata la Milano del sud (così diceva mio padre), ammiravamo i "palazzuni" che crescevano, mentre sventravano l'antico San Berillo. Sventrare!
Un termine perfetto per indicare un orribile delitto: Catania sconvolta urbanisticamente! Il foglio di via è stato imposto ai protettori delle prostitute di Via Maddem e dintorni. Strade e stradette che non ci sono più, e dove si aspettava di vedere a pianterreno: "Maria accupu" in mutandine e reggiseno o la "bolognese", che forse non era di Bologna, ma solo una sfortunata donna di qualche povero paese siciliano che si dava "l'aria del continente". Protettori politici e mafiosi subentravano ad occupare i posti "ddè ricuttari ppè fimmini" Il nostro avvenire assicurato? Senza più emigrare? Allora ci godevamo il mare e tanti sogni.
La corsa dell'Etna partiva da Piazza Duomo. Pure i "nuri", i divuteddi, di Sant'Alfio partivano da Piazza Duomo. Cosa ci mancava? Nulla! Eravamo giovanissimi, quasi adolescenti. Nel lido della praja c'era già qualche ragazzetta smorfiosa che ci aspettava, domani, forse ci stava.
Bella vita!
(Santo Catarame - Corrieredaristofane.it)

 

   

 

 

 

 

 

 

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