Artale
I Alagona o d'Alagona (... – Catania, febbraio
1389) fu un tutore della regina Maria di Sicilia
e uno dei quattro vicari governatori durante la
minore età di quest'ultima.
Artale succedette al padre Blasco II. Gli
Alagona erano molto legati alla casa d'Aragona e
da questa loro fedeltà riuscirono ad ottenere
diversi privilegi, fra cui l'assunzione da parte
di Artale I della carica di Maestro Giustiziere
con Federico IV d'Aragona; successivamente
divenne tutore dei successori Ludovico e Maria.
Inoltre essi vantavano vasti possedimenti,
specie a Catania. Questa loro potenza, farà
degli Alagona la famiglia più influente a
Catania e nella Sicilia Orientale del XIV
secolo.
Diverse furono le imprese militari compiute da
Artale. Nel 1354 assediò Manfredi Chiaramonte,
ribelle agli aragonesi a Lentini. La guerra si
prolungò e solo nel 1359 Artale riuscì ad
occupare la città ed infine il 25 marzo 1360
grazie al tradimento di alcuni soldati a
prendere possesso del castello. Nel 1356 il
governatore di Messina, Niccolò Cesareo, in
seguito a dissidi con Artale, richiese rinforzi
a Ludovico d'Angiò, che inviò il maresciallo
Acciaiuoli. Le truppe, assistite dal mare da ben
cinque galee angioine saccheggiarono nuovamente
il territorio di Aci, assediando il castello.
Proseguirono in direzione di Catania cingendola
d'assedio. Artale uscì con la flotta ed affrontò
le galere angioine, affondandone due,
requisendone una terza, e mettendo in fuga le
truppe nemiche. La battaglia navale, che si
svolse fra la borgata marinara di Ognina ed il
Castello di Aci, fu detta «Lo scacco di Ognina».
Nel 1357 Federico IV il Semplice incalzato da
dagli assalti del conte Enrico Rosso, uno dei
signori "latini" avversi agli aragonesi, trovò
scampo nel castello di Paternò allora di
proprietà di Artale. Il maniero resisterà a
diversi assalti tanto da far desistere il conte
Enrico Rosso che, fustrato andrà devastare tutte
le campagne circostanti.
Il
24 aprile del 1365 Artale Alagona, Gran
Giustiziere del Regno, acquistò dalla Regia
Corte il contado di Paternò.
Artale I assunse la carica di reggente con Maria
di Sicilia ed inoltre acquisì vasti
possedimenti, specie a Catania. Tuttavia molto
forti erano le resistenza delle potenti famiglie
siciliane e nel tentativo di portare un po' di
stabilità nel regno divise la Sicilia in quattro viceregni, assegnati a Francesco Ventimiglia
conte di Geraci, Manfredi Chiaramonte conte di
Modica e Guglielmo Peralta conte di
Caltabellotta. Questa mossa portò sull'isola un
breve periodo di pace, durato tuttavia finché
Artale II, non iniziò a pensare al matrimonio
della Regina. Gli Alagona erano fortemente
interessate a che Maia si unisse in sposa al
duca di Milano Giangaleazzo Visconti, ma molto
tenace era l'opposizione di alcuni baroni (fra
cui i Palizzi ed i Moncada), che preferivano la
corte catalana.
LO
SCACCO DI OGNINA
Nel
1356 il governatore di Messina, Niccolò Cesareo,
in seguito a dissidi con Artale I Alagona,
richiese rinforzi a Ludovico d'Angiò, che inviò
il maresciallo
Acciaiuoli. Le truppe, assistite dal mare da ben
cinque galee angioine saccheggiarono il
territorio di Aci, assediando il castello.
Proseguirono quindi in direzione di Catania
cingendola d'assedio. Artale uscì con la flotta
ed affrontò le galere angioine, affondandone
due, requisendone una terza, e mettendo in fuga
le truppe nemiche. La battaglia navale, che si
svolse fra la borgata marinara catanese di
Ognina ed il Castello di Aci, fu detta «Lo
scacco di Ognina» e segnò una svolta definitiva
a favore dei siciliani nella guerra del Vespro.
Artale morì nel febbraio del 1389, designando a
successore la figlia Maria, minore, sotto tutela
dello zio Manfredi, fratello di Artale stesso.
La potenza di Artale aveva probabilmente
salvaguardato il regno di Sicilia, dalle
ingerenze della corte di Pietro IV d'Aragona, e
solo con la sua scomparsa la fazione catalana in
Sicilia ebbe via libera per organizzare le nozze
di Maria di Sicilia con Martino I di Sicilia.
http://it.wikipedia.org/wiki/Artale_I_Alagona
Ruggiero di Lauria (Lauria, 17 gennaio 1250, o
Scalea – Cocentaina, 19 gennaio 1305) è stato un
ammiraglio italiano, al servizio dei sovrani
aragonesi, fra i più celebri del suo tempo.
È il
figlio di Riccardo di Lauria, signore
dell'omonimo feudo e fedele servitore di
Manfredi di Svevia, e di Donna Bella, nutrice di
Costanza di Hohenstaufen e figlia di Guglielmo
Amico. Suo padre, Riccardo, possiede feudi in
Calabria ed è signore di Scalea nell'anno della
sua morte, avvenuta durante la battaglia di
Benevento (1266); si racconta, perciò, anche in
virtù dei possedimenti terrieri in Calabria, che
Ruggiero sia in realtà nato nel castello
normanno o nel palazzotto d'Episcopio di Scalea,
anziché a Lauria, così come risulterebbe anche
da un documento latino conservato, ma mai
trovato, negli archivi della Corona d'Aragona (a
Barcellona), che lo stesso Ruggiero avrebbe
inviato personalmente al re Giacomo II.
Nel 1266, dopo le morti del padre e dell'ultimo
re di Sicilia, Manfredi, avvenute nel campo di
battaglia di Benevento, la dinastia sveva vive
momenti difficili che culmineranno, due anni più
tardi, con la decapitazione del sedicenne
imperatore Corradino di Svevia per volontà di
Carlo I d'Angiò. Si è perciò rifugiato, nel
frattempo, a Barcellona con altri esuli
siciliani vivendo con la madre Bella alla corte
della regina Costanza, consorte dell'infante e
futuro re Pietro III d'Aragona, nonché figlia di
Manfredi e cugina di Corradino.
È armato
cavaliere da don Pietro d’Aragona, così come lo
è anche Corrado Lancia[2], che parteciperà a
molte imprese insieme a Ruggiero e di cui
diverrà, più tardi, due volte cognato (entrambi
sposeranno l'uno la sorella dell'altro). Nel
corso della sua turbolenta esistenza serve i re
d'Aragona Pietro III e Giacomo II
(rispettivamente re di Sicilia coi nomi di
Pietro I e Giacomo I) e il re di Sicilia
Federico III, riportando numerose vittorie
contro le flotte degli Angioini.
È il 1282 quando viene nominato capo della
flotta del regno aragonese di Sicilia, insorta
contro gli Angioini durante i Vespri Siciliani.
Nella notte tra il 3 e 4 settembre 1285
sconfigge Filippo III di Francia l'Ardito, che
ha mosso ormai da due anni una crociata contro
la Corona d'Aragona, nella battaglia navale
delle Formiche, presso Roses, in Catalogna.
Nel
1284 e poi nel 1287 nelle battaglie navali del
golfo di Napoli si scontra con la flotta
angioina comandata da Carlo II d'Angiò lo Zoppo:
nella prima battaglia del 5 giugno 1284 viene
fatto prigioniero il principe ereditario Carlo
che è poi liberato solo nel novembre del 1288;
nella seconda battaglia l'ammiraglio sconfigge
definitivamente i nemici, sebbene sia dotato
solamente di quaranta navi contro le ottanta
degli avversari; garantisce così la supremazia
della flotta siculo-catalana nel Mediterraneo
occidentale.
Dopo la seconda vittoria, Ruggiero,
senza l'autorizzazione del re e solo per
avidità, vende una tregua al conte Roberto II
d'Artois e al cardinale Gerardo Bianchi da
Parma. I siciliani disapprovvano questa tregua
perché la ritengono inutile e dannosa; secondo
loro, la vittoria, favorita dalla vacanza della
Santa Sede, avrebbe scoraggiato definitivamente
gli angioini da ulteriori rivendicazioni del
loro territorio.
Eletto re di Sicilia nel 1296, Federico III
toglie il fondo di Aci ed il relativo castello
ai vescovi di Catania e lo concede
all'ammiraglio come premio per le sue imprese
militari. Però tra il giovane sovrano e Ruggiero
si instaura subito un pessimo rapporto e quando
quest'ultimo passa dalla parte degli angioini,
il re fa espugnare il castello (1297) entro il
quale si sono asserragliati i ribelli. Per
riuscire nell'impresa il re fa costruire una
torre mobile in legno, chiamata cicogna, che è
alta quanto la rupe lavica e che ha un ponte
alla sommità per rendere agevole l’accesso al
castello. In seguito Ruggiero si trincera a Castiglione di Sicilia, suo feudo e residenza
estiva, dove viene assediato e quindi sconfitto.
Ruggiero è arrestato, ma fugge da Palermo e
abbandona la Sicilia. I suoi numerosi
possedimenti in Sicilia, Calabria e Africa sono
subito confiscati da parte di Federico III.
Ruggiero passa al servizio del re d'Inghilterra
Edoardo I per combattere i francesi. Nonostante
le sue promesse, non si impegna nella lotta.
Il 4 luglio 1299, a capo di un'armata angioina
composta di quaranta galee, rafforzata da altre
trenta, inviate da Giacomo II appositamente
dalla Catalogna per far fronte agli impegni
presi con il papa Bonifacio VIII quattro anni
prima nel Trattato di Anagni, sconfigge i
siciliani nella battaglia di Capo d'Orlando.
Nello scontro periscono e sono catturati più di
seimila uomini e ventidue galee della flotta
avversaria; nonostante ciò, Federico III riesce
a sfuggire alla cattura. Si ritiene molto
verosimilmente che la sua fuga sia stata
agevolata da Giacomo e da Ruggiero di Lauria,
ossia dagli stessi che fin ad allora sono stati
suoi nemici in battaglia, per evidenti ragioni
affettive del fratello e per la fedeltà riposta
nei confronti di quest'ultimo da parte
dell'ammiraglio lauriota.
Il 14 giugno 1300, nella battaglia di Ponza,
Ruggiero sconfigge la flotta di Federico III,
catturando il sovrano e Palmiero Abate. Il re
riesce a fuggire, mentre Palmiero muore in
prigionia. Il 31 agosto del 1302, con la pace di
Caltabellotta che chiude la lunga guerra del
Vespro, Ruggiero fa atto di sottomissione a
Federico di Sicilia, che perciò gli rende i
possedimenti confiscati.
Si ritira nella Catalogna e muore a Cocentaina,
presso Valencia, nel gennaio del 1305
http://it.wikipedia.org/wiki/Ruggiero_di_Lauria
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A SPIZIERIA (La spezieria)
Tra l'uscita del
porticciolo di S. Giovanni li Cuti e l'attuale
piazza del Tricolore, questo grosso scoglio
soprannominato "Scugghiazzu" - con tre
bellissime grotte annessse - prese il nome di «Spizieria»
per la presenza di una piccola fabbrica di
prodotti medicinali. Il sito è noto per essere il posto di mare
privilegiato dalla «spìchira» per il richiamo
della riproduzione. |
La Spizieria
al tramonto
veduta aerea della parte
iniziale del tratto Lungomare-Rotolo
U JALIUNI (Il Galeone)
Dopo aver
lasciato la «Spizieria» e sfiorato uno scoglio
in mare, detto «Scugghiazzu», troviamo ora un
frangente, chiamato «Jaliuni» (Galeone). Il
galeone era un tipo di nave a scafo tondo, che
aveva due ponti con castello e cassero molto
elevato, quattro alberi, vele quadrate e latine.
Durante il XVI secolo dominava i mari ed era
impiegato in guerra, quanto per scopi
commerciali. Gli antichi ne fecero derivare il
nome dal pescespada (chiamato galeota), del
quale ritraeva appunto la forma, l'agilità e il
rostro.
Ma, ritornando
ora al frangente sulla nostra scogliera, diciamo
che — per una barca a vela — navigare nei suoi
paraggi non doveva essere tanto agevole, visto
che è uno dei punti più battuti dai venti di
tramontana e di grecale. E se un bastimento,
navigando da sud a nord, ai primi segni di
cattivo tempo non voleva trovarsi in difficoltà,
doveva cercare rifugio nel porto di Catania.
Quando, invece,
per ragioni contingenti (trasporto di animali,
di merce deperibile, ecc.) intendeva proseguire
il viaggio, doveva necessariamente doppiare lo
scoglio anzidetto , chiamato anche «'a Punta 'e
Jaliuni».
In prossimità
di «Jaliuni» il forte vento di tramontana
costringeva gli effettuare una virata per poter
navigare con rotta a 30° rispetto alla direzione
delle onde, ossia dovevano veleggiare di bolina
stretta, in modo da poter stringere il vento. Al
largo poi, siccome il vento anzidetto diventa
impetuoso, dovevano compiere altre virate.
Ma la manovra,
dipendendo da una serie di circostanze, non
sempre dovette riuscire, visto che le
testimonianze tramandate ci indicano il
frangente come il posto dove non pochi galeoni
vi fecero naufragio, cioè «'a Punta 'e Jaliuni».
Quanto successe
a taluni innominati galeoni accadde anche - ma
con miglior fortuna - ad una nostra barca a vela
comandata da Paolo Nania, che il forte vento di
grecale scaraventò dentro la cala a sud dello
scoglio, la cosiddetta «conca 'e Jaliuni».
Per una
circostanza, che riteniamo del tutto fortuita,
dei cinque marinai, che componevano
l'equipaggio, i primi due riuscirono a balzare
sugli scogli; gli altre tre, rimasti sulla barca
in secco, furono invece paradossalmente salvati
da una grossa ondata («inchitura») di mare
vecchio di scirocco che, determinando una
potente risacca, li strappò agli scogli assieme
all'imbarcazione.
zona Jailiuni
L'INCANNATU (l'incannata)
Lasciato «Jaliuni»,
notiamo ora una piccola cala ai piedi di un
grande costone di roccia: qui siamo nel posto
chiamato «'Ncannatu» , dove i pescatori
«catanesi» (siamo già ad Ognina) venivano a
circuire i grossi cefali, che stazionavano
numerosi durante certe ore del giorno, in modo
particolare del pomeriggio, per via delle acque
intorbidite dalla risacca delle sciroccate.
Il tipo di
pesce di cui parliamo viene chiamato «tracchia»,
e le sue carni — ci assicurano — hanno il sapore
di quelle della spigola; è facilmente
riconoscibile per via del corpo molto snello,
della testa appuntita e di alcune macchioline
dorate sugli opercoli. La colorazione è quella
tipica dei cefali.
L'incannatu
Trattasi del
muggine saliens, soprannominato «musino» o
«saltatore», di cui il Pitrè così osservava:
«Vivissimo di natura e molto forte, il cefalo
salta e guizza fuori dell'acqua ad una grande
altezza. Questo guizzo è un carattere
fisiologico di esso: ed il proverbio ne trae
ragione per applicarlo a persona che se ha una
data natura non la lascia mai: "S'è mulettu,
sàta arreri, e s'è mulettu sataturi, havi a
satari tri voti". I pescatori sanno dov'esso
stia, e così formano una vasta cinta di reti che
posano verticalmente...».
Pertanto, allo
scopo di impedire qualsiasi possibilità di fuga,
i marinai «inventarono» una specie di trappola
detta «'ncannata», che ha dato il nome alla
località.
L'insidia era
costituita da due reti. Una era la cosiddetta «tònira»,
che veniva disposta verticalmente; l'altra vi si
adattava sull'orlo superiore, distesa
orizzontalmente, ed era mantenuta a galla da
canne disposte a raggi.
In tal modo il
«mulettu», già circuito, che tentava di
svignarsela uscendo fuori dalla «tònira»,
rimaneva ostacolato dalla «'ncannata» che lo
intrappolava senza pietà.
U CAVADDAZZU (Cavallaccio)
«Su sì diavulu,
vinci tu; ma su non si diavulu...». Preceduta da
queste misteriose parole è ora la nostra visita
ad un tratto di scogliera dal nome assai
curioso: «Cavaddazzu» , che probabilmente
suggerì, ai contrabbandieri che «operavano» sul
posto, l'ingegnosa trovata del «fantasma», che
faceva sovente la sua apparizione nei pressi
della «Ruttazza».
Si sa quanto la
suggestione abbia potuto far presa sulla
fantasia popolare: in ogni storia locale che si
rispetti, infatti, non sono mai mancati folletti
benevoli e di indole bizzarra, gnomi, a guardia
di tesori («truvaturi»), e fantasmi talvolta
malevoli e orridi d'aspetto.
Né a questo
fenomeno sono stati estranei altri popoli.
Greci, Romani, Cinesi, popolazioni nordiche, ad
esempio, hanno sempre immaginato gli senza
scrupoli faceva il resto. I primi si
divertivano, i secondi tramavano alle spalle di
chi in quelle cose credeva e ne traevano
vantaggio.
Per lungo
tempo, ad esempio, ad Ognina non si parlava
d'altro che del fantasma, o spirito, chiamato «Cavaddazzu»
di cui si avevano soltanto vaghe notizie perché
pochi, del resto, osavano avvicinarsi al luogo,
per nulla ameno e rassicurante, in cui
compariva. Si diceva che assomigliasse ad un
cavallo dondolante che emetteva bagliori
sinistri.
Prima della
Punta do Cavaddazzu, c'è "a testa do Liuni".
Famoso punto di antichi tuffi catanesi.
Così la
leggenda del fantasma prese nel frattempo
consistenza, soprattutto tra le madri di
famiglia che, essendo le prime a credere in
queste cose, impedivano ai loro figliuoli di
frequentare quel luogo.
Di giorno stava
nascosto tra gli scogli, a ridosso della «Ruttazza».
Di notte, intorno alla mezzanotte, faceva la sua
fantastica apparizione, spaventando persino i
finanzieri che in un luogo non molto distante
(la garitta) controllavano la costa allo scopo
di reprimere il contrabbando, specialmente di
vino e tabacco.
Le sue
apparizioni durarono a lungo nel tempo e nessuno
ebbe mai il coraggio di avvicinarlo. Fino a
quando un sospettoso, quanto deciso, finanziere
(questa volta autentico) volle rendersi conto,
più da vicino, di quanto accadeva.
La scogliera do Cavaddazzu
spiriti in modo
diverso e seguito dei rituali antichi per
propiziarsene i favori o per scacciarli, perché
vendicativi per natura e di aspetto terribile.
Ancora agli
inizi del '900, in un mondo di fiabe e di
leggende, non era difficile sentir parlare di
questa o di quella casa, di questo o di quel
luogo «abitati» da spiriti cattivi («Spiddi»).
Armato di
moschetto, non senza però che le gambe gli
facessero «Giacumu-Giacumu» , si avvicinò a
quello che doveva essere «'u spiddu» e, dopo
essersi fatto il segno della croce, al grido di:
«su sì diavulu, vinci tu; ma su è comu ricu iù,
vinciu iù!» , sparò sul «ca¬vallo»,
abbattendolo.
Il coraggioso
finanziere non sentì, però, alcun lamento
d'animale, ma solo un grido d'uomo che lo
spaventò al punto da fargli credere ad una
disgrazia.
Preso da
comprensibile sgomento, corse immediatamente
alla vicina caserma per narrare l'accaduto al
brigadiere che, assieme allo stesso militare e
ad altri (tutti muniti di lanterna), si recò sul
posto. Qui, a ridosso di un grosso albero di
fico d'India, trovò alcuni fogli sparsi di
cartone sagomati a forma di cavallo, un lume a
petrolio in frantumi e «l'operatore di scena»
sanguinante e piangente, perché ferito.
La notizia
dell'abbattimento del «cavallo» venne appresa
con grande sollievo dall'intera borgata,
specialmente dai ragazzi che, finalmente,
poterono rifrequentare il luogo, che era stato
loro vietato per lungo tempo, e raccogliere «ficurinia
savvaggi» , per farne inchiostro rosso,
alberelli di «ferra» , per farne barche e navi
in miniatura, ma soprattutto i famosi «fungi d'u
Locu» .
La scogliera do Cavaddazzu
La Punta di Cavaddazzu
(Cavallaccio)
Resta ancora misteriosa l'origine
del nome Punta Del Cavaddazzu, scoglio conosciutissimo per la sua
singolare forma che termina ad arco sul mare. Sempre la tradizione
popolare tramanda la leggenda che su questo tratto impervio di
scogliera, apparisse un fantasma con le fattezze di un cavallo
bianco che al chiarore della luna incuteva terrore. Sicuramente si
trattava di una messa in scena architettata dai contrabbandieri di
vino e tabacco che nel passato operavano in quel luogo e col
fantasma alle spalle potevano intrallazzare indisturbati. Ma anche
questa leggenda è da sfatare, perché il nome lo troviamo in una
carta nautica del 1500 (ringrazio vivamente il Dott. Sergio
Sportelli per avermela concessa) e che allegherò nelle foto. La
cartina indica il nome di Punta Del Cavallazzo. Un'altra conferma
dell'antichità del nome è confermata nella celebre "Descripicion"
redatta nel 1578, dall'architetto militare, Tiburzio Spannocchi che
nella sua ricognizione di tutte le fortificazioni lungo il perimetro
della Sicilia, include anche la nostra Ognina regalandoci l'immagine
più antica del nostro golfo, della primordiale chiesetta con la
torre e annota: "dalla Punta Del Cavallazzo inizia il porto di
Lognina". L'origine del Cavallazzo come nome è remotissima ma
tutt'oggi ne sconosciamo il significato.
Mario Strano |
A RUTTA PIRCIATA (La grotta forata)
Guardando ora
verso l'alto, nella direzione della sommità di
una delle tante grotte, ci rendiamo conto del
per che la fantasia popolare abbia, da sempre,
elaborato modelli di favole e racconti che
sopravvivono a lungo.
Ma che la
favola non sia troppo lontana dalla realtà, lo
si comprende appena ci si avvicina alla «Rutta
pirciata» (Grotta perciata o forata), detta dai
marinai «Ruttazza», capolavoro e vanto
inconsueto delle colate laviche.
A darle
l'attuale singolare forma, infatti, è stata la
spaventosa eruzione del 1381 che, incuneandosi
in corrispondenza di un flusso lavico
preistorico, diede corpo ad una delle tante
meraviglie della nostra riviera.
A dispetto
dello pseudo dispregiativo attribuitole, essa è
di una bellezza inconsueta. Non solo per la sua
conformazione naturale, ma anche per i colori
inebrianti che il mare produce al suo interno, a
seconda della trasparenza delle acque, della
intensità della luce e del colore del cielo. *
I suoi due
ingressi - il più grande sopraflutto e il più
piccolo sottoflutto - la rendono utile a
pescatori e bagnanti: i primi vi possono trovare
rifugio durante gli improvvisi acquazzoni; i
secondi, passando attraverso l'ingresso
sottoflutto, si possono esibire in evoluzioni
subacquee, spostandosi da un lato all'altro
della scogliera.
Storicamente la
«Grotta perciata» è nota perché, oltre ad essere
stata messa in luce da due grandi scienziati
(Charles Lyell e Carlo Gemmellaro), consentì al
fisico catanese Quirino Maiorana di condurre
particolari studi sui cosiddetti getti alla riva
del Cornaglia. Si ammira dal mare in prossimità
della «Jarita» o Garitta spagnola, non lontano
da porto Ulisse.
A
"ruttazza"
La
cosiddetta "ruttazza" o grotta perciata (forata), formatasi in seguito alla
colata lavica del 1381, detta del Rotolo.
Storicamente la grotta è stata descritta da due grandi scienziati: Charles Lyell
e Carlo Gemmellaro. La sua reversibilità di esposizione foranea ai marosi del
largo, offerta dal duplice ingresso (uno sottoflutto e l'altro sopraflutto),
aveva consentito al fisico catanese Quirino Majorana di farvi incidere perfino i
livelli delle massime escursioni verticali dei cosiddetti "getti alla riva del
Cornaglia" (1).
Di tutte
le grotte marine della nostra scogliera essa è quella più vicina al borgo di
Ognina (a parte le cosiddette "grotte di Ulisse", colmate non da colate laviche
ma da colate di cemento nel 1960).
(1)
Agatino D'arrigo, Quirino Majorana (23 ottobre 1871 - 31 luglio 1957) in "Nuova
Antologia", fas. 1885, gennaio 1958, pp. 89-96.
Mario Strano |
Capu
Cacatu
Nei
primi anni '50, nel porto di Ognina la prima colata di cemento diede inizio alla
costruzione del molo foraneo.
Dopo la cosiddetta "Punta
di S. Maria" corrispondente alla scogliera antistante la cinquecentesca Jarita
(garitta spagnola), poco distante, (verso l'interno) vi era l'aspra scogliera
che aveva come sfondo la casa terrana della zia Jannetta. Al centro di questa
scogliera, madre natura aveva creato la suggestiva conca lavica che
sotterraneamente comunicava con il mare. All'interno di questa naturale piscina,
sotto l'azione delle maree ritmava il respiro del mare con il suo perenne
innalzamento e abbassamento del pelo dell'acqua. Questo luogo era prescelto
dalle donne del borgo che nelle sere d'estate, quando le lampare dei pescatori
prendevano il largo, vi si riunivano per fare il bagno (ma di questo ho parlato
in un mio precedente post). Poco distante tra gli scogli, scorrevano rivoli
cristallini di acque dolci che si perdevano nel mare, queste mitiche acque
sotterrane del fiume Longane in epoca remota diedero il nome alla nostra
borgata.
Quello che adesso sto per
raccontare di questo luogo, ben conosciuto dagli anziani pescatori, fa parte
della storia di Ognina. Tale scogliera dove affluivano le dolci acque, era
conosciuta volgarmente con un nome indecente "Capu Cacatu" (cacatoio) (1). Gli
scogli come risulta nei registri della Mensa Vescovile di Catania per i secoli
XV e XVI, venivano dal Vescovo dati in concessione ai privati per poter
esercitare la pesca, tali scogli erano generalmente chiamati "petre di piscari"
e ognuno di essi viene indicato con un nome specifico. Il nostro singolare "Capu
Cacatu" si conferma ai vertici della popolarità se tra gli inizi del XV e la
fine del XVI secolo, venne concesso almeno una decina di volte. Probabilmente la
sua posizione strategica in vicinanza del golfo, in presenza di acque tranquille
e di una zona più abitata, oltre a fornire abbondanti pescati lo rendeva più
sicuro da possibili incursioni esterne. Dai ricordi degli antichi pescatori
conosciamo il motivo di tale nome. Pare che nel secolo scorso gli scogli su cui
scorrevano i rigagnoli di acqua dolce, venissero usati dagli uomini per le
naturali esigenze fisiologiche. Le donne invece usavano ripararsi tra i cespugli
presenti nell'entroterra a distanza dagli scogli. Evidentemente, come risaputo
fino agli inizi del '900, le povere case non avevano ancora il bagno dentro
casa. Alcuni hanno scritto che quegli scogli non dovevano essere particolarmente
profumati ma io credo che non ci dovesse essere alcun lezzo, perché il perenne
scorrere delle acque cristalline, come tutt'oggi possiamo constatare, ripulivano
velocemente gli scogli. Possiamo fare il raffronto con le antiche latrine
pubbliche romane dove sotto di esse scorreva continuamente una sorgente d'acqua.
Gli storici scogli di "Capu Cacatu" sono ormai definitivamente distrutti dalla
banchina del molo foraneo.
(1) ASD Catania,
Mensa Vescovile, Carp. 14, fasc. 1, c 59 v. 28 Maggio 1429.
Mario Strano |
A PUNTA 'E SANTA MARIA (La punta di Santa Maria)
Lo scoglio -
già piccolo promontorio interamente proteso in
mare - era la punta più prossima al vecchio
scalo, quando la diga foranea non era stata
ancora costruita, ed era luogo di passaggio per
i marinai che, superata la «Jarita», dopo aver
calato le reti facevano ritorno a terra. E l'ora
del rientro — quella vespertina — coincideva
spesso con il suono della campana della chiesa
della «Bammina», che faceva sentire i rintocchi
dell'Angelus a quanti erano a terra. In tale
occasione non pochi erano quelli che dovunque
fossero si raccoglievano in preghiera e
recitavano: «Angelus Domini nuntiavit Mariae...
et concepit de Spiritu Sanato...» — «Ave
Maria...».
In mare,
invece, l'Angelus non era udibile che dopo la
punta anzidetta, perché il rientro delle barche
coincideva spesso con le sciroccate pomeridiane
che portavano lontano, verso terra, il suono
della campana. Superato appena lo scoglio, i
rintocchi dell'Angelus si potevano percepire
distintamente.
Tale
circostanza fu quindi quella che indusse i
marinai a dare allo scoglio il nome di «Punta di
S. Maria».
A punta 'e
Santa Maria (versione invernale)
A punta 'e
Santa Maria (versione estiva)
La "Jaritara"
La garitta spagnola detta "jarita" è una
delle poche antiche vestigia di Ognina, sopravvissute all'incuria del tempo e
degli uomini. Fino agli anni '40 dello scorso secolo si stagliava al centro
della vasta scogliera nera e inaccessibile, quale punto strategico di
osservazione. Fu sul finire di quegli anni che la suggestiva vedetta venne
occupata abusivamente da due coniugi (nessuno seppe mai se fossero veramente
sposati) provenienti dall'entroterra campestre della piana di Catania. Il marito
(un omone grande e grosso) era nullafacente mentre, la signora che il popolo
aveva dato il soprannome la "Jaritara", ostentava un pancione che ne indicava la
gestazione. L'arredamento della piccola dimora era costituito solo da una misera
brandina e accanto l'uscio stava perennemente un braciere di terracotta ("u
fucularu"). Questi erano tutti i loro averi, il buon cuore e il pesce dei
pescatori di Ognina furono il loro sostentamento. E fu in quel tugurio che la
donna partorì un bambino, il quale tra quelle lave trascorse i primi 10 anni
della sua vita. Un giorno l'intero borgo fu scosso da una pietosa notizia, il
bambino durante la notte era stato aggredito e morso dai topi, ma fu salvato per
miracolo.
Tutti ne parlavano costernati, ma per quella famiglia di diseredati
non cambiò nulla perché continuarono a vivere ancora in quel misero luogo, fino
a quando un giorno arrivò l'ordine di sgombro da parte del Comune, in quanto la
storica garitta ricadeva nel tracciato del nuovo lungomare. Così mentre l'alta
scogliera nera spariva completamente spianata e cancellata, anche la famiglia
della "Jaritara" spariva da Ognina e non si seppe mai dove andarono e se mai gli
fu assegnata una vera casa. Sotto l'asfalto sparì anche la spettacolare distesa
di lava che dall'alto della "jarita" degradava fino a perdersi nel mare. Tra i
picchi ruvidi e selvaggi imperava la lava a corde, l'immenso silenzio esaltava
ancor più l'arcana bellezza. Lungo il pendio qua e là si aprivano delle
suggestive grotte, dove muretti a secco ne delimitavano gli ingressi. Il piano
di calpestio interno era composto di terra battuta ricoperta come un tappeto di
erbetta verde. Da ragazzini sfidando l'impervio pendio, ci accostavamo
incuriositi e timorosi a quelle grotte, ricordando il monito che i nostri
genitori ci ripetevano spesso, ovvero di non recarci in quei luoghi perché erano
abitati dai morti. Con il passare degli anni compresi che quelle misteriose
grotte altro non erano che luoghi di antiche sepolture utilizzate chissà in
quale remota epoca.
Mario Strano |
E’
senz'altro da escludersi che in antico il
canalotto possa essere stato il virgiliano
Portus
ab accessu ventorum immotus et ingens
Ipse; sed
horrificis iuxta totat Aetna ruinis
Il porto del
quale dà memoria il poeta è quello calcidico,
chiamato dagli scrittori classici Portus
Ulyssis, in ricordo del mitico sbarco
dell'eroe itachense, e che sap piamo essere
stato tanto grande da fare fondo all'armata
ateniese di 230 triremi che nel 415 a.C. passava
all'assedio di Siracusa. L'approdo del
portocanale invece non fu niente di più d'un
riparo, appena sufficiente alla modesta attività
sicula di scambi con Malta e l'Egeo. Scambi
costituiti dall'esportazione della lana e degli
ovini, dell'ambra del Simeto e, principalmente,
dal legname dell'Etna: indispensabile per le
costruzioni navali. Infatti i boschi etnei
furono di primaria importanza per l'attività
marinara mercantile e militare dei Sicelioti e
per la potenza siracusana in particolare, la
quale, continuando la tradizione politica
corinzia, attentò senza intermissione alla
libertà di Katana onde poter trarre legno per le
sue triremi. Un vivo ricordo ci ha lasciato
Mosco, citato da Ateneo (v. 206-209), accennando
all'immensa quantità di legname del bosco etneo
occorsa per lo scafo della grande galea oneraria
progettata da Archimede e destinata a Tolomeo. I
tronchi giungevano per via fluviale alla foce
dell'Amenano dove era la darsena, coperta dal
neosoiko sotto il quale si dava carena al
naviglio in secco: luogo dai Katanoi ben
differenziato dal porto, che pare fosse ubicato
nel tratto di costa a settentrione della città,
tra il Gaito e Lògnina.
Tucidide (VI,
3‑5) attesta che quattro anni dopo la fondazione
di Siracusa (colonizzata nel 734-33 a.C.) i
Calcidesi di Theokles fondarono Leontinoì e dopo
di essa Katana guidati dell'oikistes
Evarcos. I coloni approdarono
nell'insenatura formatasi dalle colate laviche
oloceniche riversatesi in mare a nord di
Lògnina, allo stesso modo che a Naxos, dove
le triremi dei primi colonizzatori avevano
sbarcato a riparo della punta di lava a mare
vomitata dal cratere di Moio nel corso del
Mongibello antico, oggi nota come Capo
Schisò.
In questa
baia di Lògnina in cui trovavano foce le fresche
e purissime acque del Lòngon, i Calcidesi di
Katana diedero vita ai primi accampamenti, e,
come a Naxos, dove avevano edificato un altare
ad Apollo Archegetes, eressero un'ara ad Athena
Lòngatis, dea dei naviganti, alla quale
offrivano sacrifici prima di andare per mare.
L'attributo quasi sicuramente è da mettere in
relazione con le acque del fiume, le quali
furono successivamente sconvolte e sotterrate
dalle imponenti eruzioni magmatiche del 425 a.C.
e dell'812.
Tuttavia la
presenza del Lòngon si può rilevare tuttoggi
dalle numerose polle d'acqua dolce che affiorano
dal fondo marino nel tratto di costa fra la
Jarita e la «Punta a' uzza». Le vene più vistose
emergono a cominciare dal «biveri»,
individuabile a meridione del Porto Ulisse
ed in cui sopravvive una copiosa fonte; ed
appresso, allo «scaru 'ranni» e allo
«scaru a farata», che divisi dalla lingua di
lava a mare denominata dai marinai «punta
ciaccata» formano la marina grande e la marina
piccola del porto di Lògnina. Polle ancora più
estese affiorano nella fascia costiera
settentrionale ad iniziare dall'«acqua 'è
palummi», subito dopo la villa Alonzo; e negli
scogli successivi, che formano l'insenatura
dell'«acqua 'è cafici»; segue la «punta o
'urnazzu» e le lave dello «spagnulettu» con gli
scogli bassi dei «vasciuliddi», in cui
l'acqua dolce crea visibili ramificazioni in
mare; superate le «ruttazze» con la vasta
«'rUtta o strambu» il fiume Lòngon risorge alle
«rocchi o corvu» e nella «punta di l'acqua
pirduta», uno sperone roccioso proteso a mare e
noto pure come «punta ro palummaru», o più
semplicemente «acqua ruci», dove è
rintracciabile il fonte più ampio di foce; le
polle dell'«acqua 'è crapí» e la «punta a 'uzza»
chiudono il litorale di Lògnina confinante
con Aci Castello così come ricorda il Verga.
Il toponimo latino medievale
aquae cassae, sussistente nella stradina
che attraversa il litorale settentrionale di
Lògnina, attesta la presenza sotterranea di
queste falde acquifere. Fino agli inizi del
secolo nostro, le acque per innaffiare gli orti
della zona venivano estratte dagli ortolani per
mezzo di norie da pozzi scavati nella lava.
Famoso fu il pozzo della 'gna Maruzza
sito ai «vasciuliddi» e l'altro,
esistente tuttora, ad occidente della piazza
Mancini Battaglia. Nei mesi invernali, dopo
abbondanti pioggie, entro quei pozzi si
pescavano lunghe e sguizzanti anguille che dalle
acque sotterranee discendevano verso il mare.
La costa di
Lògnina ricevendo le vene limpide del Lòngon
diviene più salmastra, dando maggior rigoglio ad
una vegetazione di alghe e zosteracee in cui si
ingrassano vasti branchi di polposi spannocchi
(ammuru 'mpiriali), un tempo lunghi fino a venti
centimetri ed appunto per ciò celebri fin dalla
preistoria, tanto che i Calcidesi stabilitisi in
quest'area li riprodussero nelle loro monete.
Ottima pastura trovano pure le brune castagnole
(munaceddi), oggi quasi del tutto
scomparse, ma una volta abbondantissime nel
tratto di mare fra la villa Pancari e la punta
di l'acqua pirduta, dove nel mese di maggio,
quando esse si avvicinavano alla costa per
depositare le uova, davano occasione ad una
intensa pesca che si effettuava con barche
armate di «munaciddaru»: enorme gangama larga e
profonda circa dieci metri entro la quale viene
sospesa l'esca usando pezzetti di pesce.
Al Lòngon
medesimo deve nome la contrada a monte dell'arco
costiero di Lógnina, detta dai Greci «Nizeti»,
cioè luogo di lavatura, con riferimento alla
pratica di lavaggio della lana che costì si
faceva dopo la tosatura delle pecore, dacché il
fiume in questo punto veniva allo scoperto, e di
cui il toponimo «acqua 'è crapi (abbeveratoio
delle capre), che segna il tratto di costa in
cui la vena più ampia sfocia in mare, è segno
tangibile. Ancora nel sec. XVI in queste acque i
produttori di seta erano usi lavare i
manganelli.
Dall'era
neozoica al medio evo l'arenile sedimentario a
settentrione della città è stato sconvolto e
molestato da imponenti lave che si sono
riversate in mare con violente esplosioni,
accavallandosi le une alle altre. La cronistoria
di codesta formazìone costiera è senz'altro
molto complessa e difficile risulta il
rilevamento.
Tuttavia le
attività eruttive che hanno realmente
caratterizzato questa parte di scogliera
sembrerebbero limitate nel numero. Alle
effusioni oloceniche che coprirono il lido a
nord di Lògnina, seguirono nel 425-26 a.C. le
copiose lave fuoriuscite da una bocca apertasi a
quota 900 nei pressi di Nicolosi, le quali
raggiunsero la spiaggia nel tratto che
successivamente venne detto del Rotolo.
Nel 252-53
scoppiava un'altra eruzione nel medesimo punto,
ma 50 metri più in basso, che originava il Monte
Peloso e la serie dei conetti e bocche di
sprofondamento in direzione nord/sud. Il magma
eruttato nel corso di questa effusione formava
un braccio lavico con un fronte largo oltre tre
chilometri che invadeva la città e raggiungeva
il mare, dando forma alla scogliera da S.
Giovanni li Cuti a Larmisi. Ancora più
tremenda fu l'eruzione laterale che sconcertò la
regione catanese nell'agosto del 1381. Dal
versante meridionale dell'Etna, nei pressi di
Tremestíeri, Mascalucia e Gravina, si aprì
un'imponente squarciatura, nota ai vulcanologi
come «frattura dei cavòli», lunga oltre tre
chilometri con due centri esplosivi a quota 430
e 370 s.l.m. e che diede origine al più basso
sistema eruttivo con i monti Arsi, Civello e
Pomiciari di S. Maria. La lava, colata copíosa,
nella sua discesa distruttiva bruciò il bosco
della Licatia scendendo fino a Lògnina, dove
colmò definitivamente quanto restava
dell'insenatura, dal Porto Ulisse alla Punta del
cavallazzo.
Profonde
modificazioni ha subito la zona dal medio evo ad
oggi, massimamente quelle dovute alla
costruzione della strada ferrata
Catania-Messina, realizzata nel giugno 1866; e,
soprattutto, alla perforazione della galleria
ferroviaria sotto l'attuale piazza Europa ,
effettuata negli anni Cinquanta; nonché la
successiva sistemazione della zona a mare che,
nel 1960‑64, ha dato origine alla litoranea
piazza Europa-Lògnina. Sicché la fascia di oltre
tre chilometri di sciare risulta affatto
sconvolta rispetto al suo antico aspetto.
Attualmente comincia con lo sperone di Larmisi,
sotto la Stazione Centrale, al quale fanno
seguito le tempe dei «trummi» e la piccola «cala
del Gajto», riservata oggi arbitrariamente ad
approdo privato, a ridosso della quale è il
deposito locomotive con a fianco la piazza
Europa: inizio del panoramico lungomare.
Segue l'insenatura riparata di «S. Giovanni
li Cuti», col suo piccolo molo che difende
il modesto borgo marinaro dalle traversie.
Da qui
inizia la massiccia scogliera nera del
Rotolo, con i basalti scoscesi del
«caiccu», seguiti da quelli imponenti della
«Spizieria», dove fino a non molti anni
or sono era impiantata una fabbrichetta
artigiana di sapone. Più avanti sono gli scogli
del «galiuni» e «d'u :gannatu»,
ricchi di grotte e fondali frastagliati e
pescosi. Chiude la «punta ro cavaddazzu»:
un promontorio alto e scosceso caratterizzato
dall'arco e sottostante «rutta
pirciata», conosciuta da tutti i marinai
quale riparo sicuro alla pioggia improvvisa.
Da questo
punto, segnato dalla cinquecentesca «jarita»,
inizia, come ricorda il Massa. il porto di
Lògnina, servito da modesto imbarcadero e
minuscolo arsenale.
Il parossismo
eruttivo trecentesco che colmò con la sua lava
Lògnina privò la città del sicuro e
capace porto. Rimasta quindi Catania senza un
approdo, il vescovo domenicano Simone del Pozzo
cinque anni dopo avviava i lavori di ampliamento
del vecchio portocanale dell'Amenano per
adattarlo ad imbarcadero. E' questo il porto di
cui parla Attanasio di Aci nella sua Cronica,
dicendolo minacciato dalle galee francesi al
tempo di re Giacomo.
(Luccjo Cammarata)
_____________________
"Ognina", di Padre
Mariano Foti;
"Dal Simeto all'Alcantara - Le
coste catanesi" - Tringale Editore;
"Vecchie
foto di Catania" - vol. I e II - Salvatore
Nicolosi - Greco Editore e Tringale editore;
"Miti e Leggende di Sicilia" di Salvino Greco e
Dario Flaccovio Editore;
scene girate in Via Crociferi, Piazza
Duomo, Ognina, la Pescheria, Via Cardinale Dusmet e Monastero dei
Benedettini, Monti Iblei zona Canalicchio, Via Vincenzo Giuffrida
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IL PAZZO DEL ROTOLO
-Venne l'autunno del '52 e, sempre in materia
di cronaca nera, capitò un fatto insolito, a quei tempi.
Questo fatto inferse ai cronisti della
Sicilia, che avevano <<bucato >>la notizia, il primo dispiacere da quando il
giornale era nato.Quel caso fu denominato <<del pazzo del Rotolo>>.
Ne fu protagonista, nei primi di settembre
del '52 un reporter intraprendente del "Giornale dell'isola ", Enzo Asciolla.Costui
andò a scovare in via Del Rotolo 33 un povero demente che dal 1939 i genitori
tenevano chiuso in una stanza isolata, di 16 metri quadrati, senza mobili
eccetto un pagliericcio, inaccessibile, chiusa a chiave e coi balconi protetti
da inferriate. E lì,nudo(poiché, non tollerandoli la sua epidermide
supersensibile, si strappava di dosso gli abiti, consumando come una bestia i
cibi che la madre gli portava entro infrangibili scodelle di rame smaltato),se
ne stava accoccolato sulle gambe rattrappite dalla lunga immobilità. Si chiamava
SALVATORE SCALIA,aveva 37 anni, suo padre era ferroviere (e, incidentalmente,
figlioccio di Angelo Musco).Quando i carabinieri-e Asciolla, che contemporanea
aveva avuto una soffiata-penetrarono nella sua prigione, Salvatore li sbirciò
con uno sguardo abbacinato e indifferente. Disavvezzo com'era alla deambulazione
e al colloquio, rimase muto, solo lanciando qualche grugnito. La madre fu
fermata dai carabinieri per un paio di giorni come unica responsabile di quella
carcerazione, e poi rimandata libera.Il padre, che di quella storia era
consapevole ma non ne aveva il peso, non ebbe fastidi.
Il primo servizio uscì sul "Giornale
dell'isola " il 9 settembre, in pagina di cronaca, con questo titolo, di
<<taglio >>,su cinque colonne:<<In via Del Rotolo un "sepolto vivo"-Rinchiuso
dalla madre in uno stanzino da ben tredici anni non vede la luce-Si tratta di un
ex universitario,che dopo aver perduto la ragione, è stato condannato a vivere
come una bestia per "amore materno",col risultato che le gambe gli si sono
atrofizzate, la barba gli è cresciuta fino ai piedi e i capelli gli coprono le
spalle >>.Era firmato ENAS(Enzo Asciolla).
Scoppiò così un caso che fece rumore. Il
quotidiano che, da solo e con enorme rilievo tipografico, diede l'impressionante
notizia andò a ruba. Il giorno dopo triplicò le vendite, ma le riperdette quando
una settimana dopo sul pazzo non ebbe più niente da raccontare.
Era una storia emblematica e triste sulla
condizione dei dementi. A poco a poco ne emersero i retroscena.
Da ragazzo Salvatore aveva frequentato una
scuola aristocratica, il Leonardo da Vinci;studiava con impegno, passava i
giorni e le notti sui libri;passato all'università, s'era iscritto alla facoltà
di medicina e chirurgia;con qualche profitto, pare.Era il 1937,lui indossava la
divisa del GUF.Durante le lezioni conobbe una coetanea di ben diversa condizione
sociale ed economica, la baronessina ELENA PATERNÒ CASTELLO, e se ne innamorò
perdutamente;ma lei non corrispose neanche un poco alla sua corte.
Questa disavventura sentimentale s'unì a una
predisposizione che certo egli aveva, scatenando il suo male. Rifiutava i
cibi,deperì,divenne inquieto e cominciò a dar segni di squilibrio, cominciò a
dire <<Io sono il capitano Morgan >>e ad accusare i genitori di volerlo derubare
del suo tesoro.
Lo portarono al reparto psichiatrico del
Garibaldi, dove fu ricoverato e preso in cura da un luminare, il prof. VITO
MARIA BUSCARINO.Schizofrenia cronica, egli diagnosticò.Dopo tre mesi lo
dimise,comunque.
<<Tutto ciò che era possibile fare
>>assicurò<<lo abbiamo fatto. Guarire non può, ma se gli farete seguire le
prescrizioni resterà inoffensivo >>.Così,se lo riportarono a casa,dove per un
po' il ragazzo se ne stette tranquillo. All'improvviso un giorno sparì.Lo
ripescò la polizia in Liguria, a Ventimiglia, e lo condusse in questura. Ma
quando fu davanti al commissario, Salvatore gli assestò un pugno sul naso.Il
funzionario si rese subito conto che si trovava davanti a un matto;per questa
ragione, e anche per il fatto che era siciliano come lui,anziché farlo arrestare
per oltraggio, si limitò a fare avvertire il padre,che corse a riprenderselo a
Ventimiglia.
Dopo pochi giorni passati a Catania senza
smanie, Salvatore si produsse in un'altra bravata col barbiere che, a casa,lo
stava rasando:urlando, lo inseguì a pedate fino alla porta. Rientrò al reparto,
ma trascorso un mese e mezzo di nuovo lo misero fuori. Ai genitori Buscarino
raccomandò:<<Tenetevelo a casa, evitate di mandarlo in giro >>.
Fu perciò che, da allora, Salvatore Scalia
rimase prigioniero della sua follia.Lo visitarono altri medici, ispettori e
l'ufficiale sanitario, per la dichiarazione di inabilità al lavoro e per le
pratiche assistenziali. Constatarono che si denudava perché non sopportava il
contatto dei vestiti sulla pelle, e che afferrava dal piatto il cibo con la
bocca, senza usare le posate;che non leggeva, ed era scomparso in lui ogni
barlume di cultura;che stava immerso in un mutismo ottuso. Ma la scienza
psichiatrica non aveva cure efficaci per un caso come quello.
<<Non è pericoloso >>confermavano i
medici;<<però tenetevelo lo stesso in casa>>.
Era il 1939.In casa egli trascorse gli anni
di guerra e altri anni ancora. Ma un giorno di settembre del '52 , dopo tanto
lungo ininterrotto abbrutimento, qualcuno fece una confidenza ai carabinieri (e
di straforo anche ad Asciolla),che andarono a <<liberare>>quell'abate Faria.
Non si potè far altro che rimandarlo per la
terza volta al Garibaldi, dove lui diede spettacolo, ululando e denudandosi.
Quando la si conobbe nei dettagli, quella
storia perdette tutto quel che sembrava avere di ripugnante e di
granguignolesco. Il poveraccio e i suoi sfortunati genitori furono guardati con
occhi diversi.
Alla bestia selvatica e ai suoi <<carcerieri
>>andarono così la compassione e la pietà dei catanesi.
L' atmosfera di orrore si dissolse
(Salvatore Nicolosi)
Piazza Franco Battiato
Litterio
al Luna Park del lungomare
L'
altro giorno, sig. La Rosa, ddu
zzaurdu di me cucinu Affio si nni
nesci ca ni nn'havimu a jri all'una
park!
"Bestia" ci dissi "bestia chi ci
jemu a fari all'una park ca già sunu
i setti i sira, u dici a stissa
parola ca si cci a jri a l'una"
"no”
mi dissi iddu, “dda si cci po jri
macari e setti'. "bestia" ci dissi
iù allura u chiamamu setti park,
"no” mi dissi iddu "quello si
chiama luna tutta una parola, tutto
ioncioto luna, senza l'apostolo.
'Nzomma,
sig. La Rosa, mi hanno portato 'e
setti all'una park, eromo il
sottoscritto, CIIICCCIIUUU, Fulippo
"peri peri" e ddu zzaurdu di me
CUCINU AFFIO, e abbiamo venuti a
Catania, a Ognina, alla piazza dell'ammogghio
.... dell'arrotolo, do Rotolo, vah....
Miiiili e chi c'era di cristiani!
C'era una folla .... Proprio, chinu
chinu di picciriddi, picciriddi ca
currevunu, mammi c'assicutavunu i
picciriddi ca currevunu,
picciuttazzi c'assicutavunu i mammi
c'assicutavunu i picciriddi ca
currevunu... Era insomma un fuggi
fuggi ginirali.
Appoi
i giostri, i bancarelli, il tiro
inzegno ... ca è praticamente: tu
spari n’fino ca non t'insigni ...
non t'insigni a sparagnari i soddi
inveci di spinnilli in minchiati.
Ddocu Fulippu peri peri
avvicinandomisici mi dissi: "Madonna
chi cunfusioni, mi staiu scantannu
ca ni pirdemu"; "ma comu ti perdi
tu, ca c’hai questo radari
segnalatore fetaiolo di peri
morti!!!" Ca questa estate, sig. La
Rosa, ce ne siamo andati in
campeggio col treno, sopra il vagone
si livau i scarpi... appunu a
ricoverare tutto il vagoni per
avvelenamento al sangue con dasgnosi
preservata!
A un
certo punto abbiamo visto come una
specie di treno ca però camina ndell'aria
del cielo... C'era scritto
OTTOVOLANTE, noi eromo quattro e non
ci pottimo andare; caminando
caminando abbiamo visto come una
specie di palazzo tutto bello
infiorato ma sempri a tipo di
giostra e c'era scritto TUNNEL
DELL'AMORE; ndella biglietteria si
presentau CIICCIIUUU, I' impiegato u
taliavu un pocu curiuseddu, ppoi mi
fa "prego, signora, si accomodi" .
"a
mia signora?” ci dissi iù “comu si
permettii?' . "ah mi scusi " mi fa
iddu “Forsi sognorina!"
Iù
nda me testa dissi ma chistu che
cosa vuoli diri??? Forsi picchi
Cicciu havi quel vizietto, ci sembra
ca macari sugnu di l'autra sponda.
Comunqui, pi non fari discussioni, u
lassai perdiri e trasemu in questo
tunnel dell'amore. Acchianamo nda
una barchetta ca appoi passavamo del
lago, canale.
CIICCIIIUUU si vosi mettiri con me,
era una barchetta a 4 posti, l'autri
due posti ci acchianaro n'autri due
masculi che io non conoscevo, ddocu
visti che all'ingresso di questo
tunnel c'erano fremmi na pocu assai
di individui strani e ntisi un
ciauru di mari e pensai forsi è
perché siamo vicino al mare
delungomari. Ad ogni modo abbiamo
partiti con questa specie di
barchetta, prima c'erano i lampioni
belli grandi che facevano bella
luci, poi i lampioncini belli
piccoli, poi sempri cchiù nichi
quasi al buio e ddocu iù ntisi una
voci ca faceva "Beeddu, beeddu ‘cchi
capiddi rizzi, lo sai ca sei cchiù
beeddu do signor La Rosa?" e sintevo
come dei pallini di carta ca mi
arrivavano ndo coddu; mi stavo
accomincianno a siddiari, e ci
facevo "carusi finemila picchì vi
abbio ammollo" e chiddi nautra vota
"Bedduuu... Beddu, e chi capiddi
rizzi, lo sai che sei cchiù
intelligenti del signor La Rosa?" e
mi arrivavano autri pallini di carta
nda testa;
Ddocu
iù mi siddiai, in quel momento
priciso arrivamu ndel punto del
tunnel ca era o' scuru completo e io
non ci visti cchiù di l'occhi quanno
'ntisi una mano ca si appoggiava
ndella mia spalla o scuru; iù dissi
chista m'a vogghiu vidiri tutta e
pinsai: sicuramenti sarà un ladro
bossaiolo, e intanto dda manu
scinneva verso i sacchetti dè causi
e iù ddocu capii ca mi voleva
furtiri u portafogghiu chi sordi, e
mi priparai!
Ero
teso e all'improvviso in quello
scuro ca si pizziava ntisi a manu ca
avevo sopra il petto ca di botto
s'avvicino' ai sacchetti, scinnivu
verso a panza “ma chistu” dissi nda
me testa “e chi ci paru babbu?” Io
ero pronto ppi bloccari i sacchetti
di causi; comu a mano si sollevavu
iù u capii, dissi "nde sacchetti si
stà abbiannu", e mi chiantai in
contemporaneo velocissimo i manu
ndei sacchetti, e il ladro borsaiolo
cchiù lesto ancora di mia mi
acchiappau di sotto nei paesi bassi.
Iu
ddocu chiantu m’pugnu ccu tutta a me
forza... dissi... ora ci fazzu
cascari a manu!... il ladro cchiù
lesto ancora si livau a manu e ....
ntisi un dolore di l'autra munnu...
ittai una schigghia ca si 'ntisi
oltre mare nei Foracoglioni da
Trizza...
Chiddu non era ladru di sordi, era
latru di carni... Na vota ca si
visti scoperto il ladro ittò un
sauto e scappò. Ciiicciuu, per
prendere le mie offese cercò d'acchiappallu,
si alzò... la barchetta si abbuttò
di lato,... Cicciu persi
l'equilibrio e cascò 'ndell'acqua,
io ci gridai "disgraziato ma chi ti
pari il momento di fariti il bagno?
e intanto iddu faceva..."glu... glu..."
si stava anniando.
Io
signor La Rosa, arristai
rimminchilonito, pinsai "ma come, un
puppu ca non sapi natari?' e subito
u trascinai vicinu a banchina del
canale; si avvicinaru i cristiani e
siccome aveva pigghiato acqua assai
ci ficiru a respirazione
artificiale; iddu veramente vuleva
fatta a respirazione bocca a bocca,
ma quelle ci ficiro a respirazione
artificali, quella coi bracci
all'aria, così accuminciau a jittari
acqua da vucca... Ittò quasi
trecentoquarantacinquelitri di
acqua, cchiù acqua ittava e cchiù
acqua tirava, era un mistero!!!
Ci
vosi menz'ura ppi capiri picchì...
aveva u culo a moddu!!! |
Un museo del mare sempre più famoso
Mare
in Italy ha scoperto ad Ognina (Ct.) il
meraviglioso “Museo del Mare“ antico scalo
marittimo di Catania detto anche il “Porto di
Ulisse” rimasto sommerso nel 1381 da una
tremenda colata lavica.
Il
Museo è diviso in varie sezioni tutte molto
interessanti, si inizia con la parte
archeologica comprendente reperti di una nave
romana naufragata nella zona di mare
prospiciente Ognina, per proseguire poi
visitando la parte in cui sono esposti attrezzi
tipici della pesca, donazioni dei pescatori
locali, per finire con la sezione nella quale si
trovano reperti naturalistici.
Il
bilancio dei primi tre anni di vita del museo e
le intenzioni per i prossimi anni sono stati
illustrati dal Sindaco Umberto Scapagnini e
dagli assessori al Commercio e Turismo ma in
particolar modo da chi ha fortemente voluto
questa interessante struttura, padre Antonio
Fallico e i responsabili dell’Associazione S.
Maria di Ognina.
L’intenzione, è stato ribadito, è quella di fare
del museo un importante strumento di
apprendimento utile a tutte le fasce di età e
cultura nonché naturalmente grande attrazione
per tutti gli amanti del mare, facendo uso anche
di tecnologie multimediali che riproducano
l’ambiente marino reale.
Altro proposito è quello di incontrare alunni e
fargli conoscere il fascino dell’ambiente marino
sia con la visita al museo sia direttamente con
uscite in barca.
Il
sindaco ha anche riferito di un piano per la
realizzazione di un Parco del Mare, una specie
di acquario gigante di cui la parte formativa
sarebbe ospitata nel Museo di Ognina. (Luca
Coccia)
Ruderi
dell'abiside del
tempietto di Sant'Agata
al Rotolo.
Francesco Granata nella sua "Catania vecchia
e nuova" (edizione Niccolò Giannotta, Catania marzo1973) così scriveva: "Chi
pensa alle vestigia del Santuario della Traslazione, al Rotolo, abbandonate
senza una lacrima e senza un fiore per incuria soprattutto di chi aveva invece
il dovere di onorarle, conservarle e tramandarle?
O Agata, tu sola potresti, tu sola puoi fare
il miracolo auspicato dai pochi catanesi che amano Catania come si può amare una
donna, ed ai quali sanguina il cuore nel vederla trascurata, mortificata,
negletta in tutto ciò che costituisce e rappresenta il suo grande, nobile
patrimonio ideale. Ormai (più per l'incuria degli uomini che per le avversità
della natura) di quell'antico tempio Agatino non ci rimangono che scarsi ruderi,
dei quali ciò che più si conserva è l'abside, notevole per il superstite arco
acuto a pietre e mattoni di evidente struttura normanna. Rivolta com'è verso
occidente (e non come stranamente scrive lo Sciuto Patti a oriente) essa
dimostra chiaramente che la chiesetta guardava la strada dalla quale erano
transitate, nel loro viaggio da Messina a Catania, le sacre reliquie. Sulle
sporadiche chiazze di intonaco che ancora la rivestono, qua e là si scorgono
malgrado l'usura del tempo, tracce di pittura a fresco. Lembi consunti di mura
esistono ai lati dell'abside e dietro di essa notansi altresì le rovine di un
cunicolo: avanzi, forse, di qualche più antico monumento sul quale e col
materiale del quale non è improbabile che sia stato edificato il Santuario della
Traslazione; il che si deduce facilmente dalle tracce di antichi monumenti
romani rinvenuti nelle cave di lava aperte ai nostri tempi in quella zona".
Acquerello di Jean Houel, seconda
metà del '700, Ermitage San Pietroburgo.
Interessanti le notizie che il Granata ci fa
sapere riguardo alle scoperte di monumenti romani tra le cave di lava. Purtroppo
tutto è andato perduto.
Ignazio Vincenzo Paternò Castello Principe
Del Biscari, nella sua "Relazione Delle Antichità Del Regno Di Sicilia" 1779,
così descrive i ruderi del tempietto del Rotolo visibili ai suoi tempi e di cui
però stranamente ignora l'epoca e l'avvenimento per il quale fu costruito
l'edificio: "Seguendo questa strada si vedono le rovine di un picciolo Edificio,
vedendosene porzione del pavimento, e alcuni pezzi di elevazioni delle mura; il
più intero di esso è una specie di gran tribuna, che esiste intera. Hà questa
Fabbrica di osservabile, che dalla parte di dietro si osserva un lungo Corridoio
rimasto coperto da antichissima lava e basso così, che andrebbe a corrispondere
sotto il pavimento della fabbrica principale.
Se questo edificio dasse più chiari Indizj,
che fosse stato un Tempio di alcuna Deità Carlatana (sta per ciarlatana ndr),
non mancherebbe chi potrebbe dire, che per questo sotterraneo Corridore davano
gli astuti Sacerdoti le risposte dello oracolo ai creduli ricorrenti: Queste
rovine sono in una clausura di D. Francesco Marletta luogo chiamato del Rotulo.
Un miglio in circa di distanza da questo
luogo è scaro mal sicuro di picciole barche ricoperto chiamato l'Ognina".
Mario Strano |
Località Borgetti al Rotolo, oggi
ricordata per il nome di una strada.
Dove un tempo esisteva anche
un piccolo campetto di calcio ricordato da molti
catanesi attempati, c'è una
rotonda.
Un tempo, prima che sorgesse il Lungomare a
cento metri da questa piazza, esattamente dove
attualmente c'è un chiosco per bibite, un grande
cancello con due enormi pini ai lati dava
ingresso alla storica villa della signorina
Borgetti, zia di Camillo Benso conte di Cavour.
Nella cantina troneggiava una statua del famoso
conte con gli occhialini rotondi. La villa dava
ospitalità ai salesiani che quì venivano a
villeggiare d'estate. Questa parte di scogliera
vide passeggiare la signorina Borgetti con il
suo ombrellino ma tutto sparì sotto le ruspe.
Oggi il solo ricordo è in questo rione che ne
perpetua il nome. Sic transit gloria Mundi.
(Mario Strano)
Litterio
al Luna Park del lungomare
L'
altro giorno, sig. La Rosa, ddu
zzaurdu di me cucinu Affio si nni
nesci ca ni nn'havimu a jri all'una
park!
"Bestia" ci dissi "bestia chi ci
jemu a fari all'una park ca già sunu
i setti i sira, u dici a stissa
parola ca si cci a jri a l'una"
"no” mi dissi iddu,
“dda si cci po jri macari e setti'
"bestia" ci dissi iù allura u
chiamamu setti park,
"no” mi dissi iddu "quello si
chiama luna tutta una parola, tutto
ioncioto luna, senza l'apostolo.
'Nzomma, sig. La Rosa, mi hanno
portato 'e setti all'una park, eromo
il sottoscritto, CIIICCCIIUUU,
Fulippo "peri peri" e ddu zzaurdu di
me CUCINU AFFIO, e abbiamo venuti a
Catania, a Ognina, alla piazza
dell'ammogghio .... dell'arrotolo,
do Rotolo, vah....
Miiiili e chi c'era di cristiani!
C'era una folla .... Proprio, chinu
chinu di picciriddi, picciriddi ca
currevunu, mammi c'assicutavunu i
picciriddi ca currevunu,
picciuttazzi c'assicutavunu i mammi
c'assicutavunu i picciriddi ca
currevunu... Era insomma un fuggi
fuggi ginirali.
Appoi
i giostri, i bancarelli, il tiro
inzegno ... ca è praticamente: tu
spari n’fino ca non t'insigni ...
non t'insigni a sparagnari i soddi
inveci di spinnilli in minchiati.
Ddocu Fulippu peri peri
avvicinandomisici mi dissi: "Madonna
chi cunfusioni, mi staiu scantannu
ca ni pirdemu"; "ma comu ti perdi
tu, ca c’hai questo radari
segnalatore fetaiolo di peri
morti!!!" Ca questa estate, sig. La
Rosa, ce ne siamo andati in
campeggio col treno, sopra il vagone
si livau i scarpi... appunu a
ricoverare tutto il vagoni per
avvelenamento al sangue con dasgnosi
preservata!
A
un certo punto abbiamo visto come
una specie di treno ca però camina
ndell'aria del cielo... C'era
scritto OTTOVOLANTE, noi eromo
quattro e non ci pottimo
andare; caminando caminando abbiamo
visto come una specie di palazzo
tutto bello infiorato ma sempri a
tipo di giostra e c'era scritto
TUNNEL DELL'AMORE; ndella
biglietteria si presentau
CIICCIIUUU, I' impiegato u taliavu
un pocu curiuseddu, ppoi mi fa
"prego, signora, si accomodi" .
"a mia signora?” ci dissi iù “comu
si permettii?' . "ah mi scusi " mi
fa iddu “Forsi sognorina!"
Iù nda me testa dissi ma chistu che
cosa vuoli diri??? Forsi picchi
Cicciu havi quel vizietto, ci sembra
ca macari sugnu di l'autra sponda.
Comunqui, pi non fari discussioni, u
lassai perdiri e trasemu in questo
tunnel dell'amore. Acchianamo nda
una barchetta ca appoi passavamo del
lago, canale.
CIICCIIIUUU si vosi mettiri con me,
era una barchetta a 4 posti, l'autri
due posti ci acchianaro n'autri due
masculi che io non conoscevo, ddocu
visti che all'ingresso di questo
tunnel c'erano fremmi na pocu assai
di individui strani e ntisi un
ciauru di mari e pensai forsi è
perché siamo vicino al mare
delungomari. Ad ogni modo abbiamo
partiti con questa specie di
barchetta, prima c'erano i lampioni
belli grandi che facevano bella
luci, poi i lampioncini belli
piccoli, poi sempri cchiù nichi
quasi al buio e ddocu iù ntisi una
voci ca faceva "Beeddu, beeddu ‘cchi
capiddi rizzi, lo sai ca sei cchiù
beeddu do signor La Rosa?" e sintevo
come dei pallini di carta ca mi
arrivavano ndo coddu; mi stavo
accomincianno a siddiari, e ci
facevo "carusi finemila picchì vi
abbio ammollo" e chiddi nautra vota
"Bedduuu... Beddu, e chi capiddi
rizzi, lo sai che sei cchiù
intelligenti del signor La Rosa?" e
mi arrivavano autri pallini di carta
nda testa;
docu iù mi siddiai, in quel momento
priciso arrivamu ndel punto del
tunnel ca era o' scuru completo e io
non ci visti cchiù di l'occhi quanno
'ntisi una mano ca si appoggiava
ndella mia spalla o scuru; iù dissi
chista m'a vogghiu vidiri tutta e
pinsai: sicuramenti sarà un ladro
bossaiolo, e intanto dda manu
scinneva verso i sacchetti dè causi
e iù ddocu capii ca mi voleva
furtiri u portafogghiu chi sordi, e
mi priparai!
Ero teso e all'improvviso in quello
scuro ca si pizziava ntisi a manu ca
avevo sopra il petto ca di botto
s'avvicino' ai sacchetti, scinnivu
verso a panza “ma chistu” dissi nda
me testa “e chi ci paru babbu?” Io
ero pronto ppi bloccari i sacchetti
di causi; comu a mano si sollevavu
iù u capii, dissi "nde sacchetti si
stà abbiannu", e mi chiantai in
contemporaneo velocissimo i manu
ndei sacchetti, e il ladro borsaiolo
cchiù lesto ancora di mia mi
acchiappau di sotto nei paesi bassi.
Iu ddocu chiantu m’pugnu ccu tutta a
me forza... dissi... ora ci fazzu
cascari a manu!... il ladro cchiù
lesto ancora si livau a manu e ....
ntisi un dolore di l'autra munnu...
ittai una schigghia ca si 'ntisi
oltre mare nei Foracoglioni da
Trizza...
Chiddu non era ladru di sordi, era
latru di carni... Na vota ca si
visti scoperto il ladro ittò un
sauto e scappò. Ciiicciuu, per
prendere le mie offese cercò
d'acchiappallu, si alzò... la
barchetta si abbuttò di lato,...
Cicciu persi l'equilibrio e cascò
'ndell'acqua, io ci gridai
"disgraziato ma chi ti pari il
momento di fariti il bagno? e
intanto iddu faceva..."glu...
glu..." si stava anniando.
Io signor La Rosa, arristai
rimminchilonito, pinsai "ma come, un
puppu ca non sapi natari?' e subito
u trascinai vicinu a banchina del
canale; si avvicinaru i cristiani e
siccome aveva pigghiato acqua assai
ci ficiru a respirazione
artificiale; iddu veramente vuleva
fatta a respirazione bocca a bocca,
ma quelle ci ficiro a respirazione
artificali, quella coi bracci
all'aria, così accuminciau a jittari
acqua da vucca... Ittò quasi
trecentoquarantacinquelitri di
acqua, cchiù acqua ittava e cchiù
acqua tirava, era un mistero!!!
Ci vosi menz'ura ppi capiri
picchì... aveva u culo a moddu!!!
|
TAPPETI MARCA LIOTRU.
Mancano due
settimane al primo tuffo, eppure c’e’ ancora
maltempo in tutta Italia. Anche qui in
Sicilia, stamattina, ci siamo svegliati con
tanta sabbia africana dovunque: sui balconi,
sui tetti delle case e delle auto.
A Catania,
in particolare, è una di quelle giornate
dell’anno in cui il Grecale vuol fare il
prepotente, infischiandosene del collega
Scirocco proveniente dalla Plaja e già lì
seduto fin dalla mattina. Ma l’Ellenico fa
il gradasso e nel pomeriggio sfida il vento
rivale per soffiargli il posto, iniziando un
duello turbolento sul mare di Ognina.
I
due venti sembrano i valorosi ammiragli
Ruggero di Lauria e Artale Alagona in
battaglia per difendere le sorti della città
e ai quali è dedicato il Lungomare.
Le
nuvole cercano di far da pacieri, a
“Muntagna” osserva culumbrina perché sa che
dopo arriverà il suo turno a dar spettacolo
sul mare, mentre i gabbiani ne approfittano
raccogliendo quintali e quintali di “ben di
Dio” sollevati in superficie da quella
Cavalleria Rusticana atmosferica. Bassa
pressione e alta pressione salgono e
scendono, scendono e salgono, su e giù
vorticosamente come le mani di un direttore
d’orchestra, mentre quei due se le danno di
santa ragione.
Le gocce di
sudore della loro lotta si riversano sulla
città inerme e spettatrice del loro
contendere mentre smuovono quel pezzo di mar
Jonico i cui spruzzi, pregni dei loro
insulti benedetti dal Dio Eolo, si
infrangono sulla nera scogliera catanese
senza pietà, sollevandosi in alte fontane
d’acque salata sui marciapiedi. Insomma, le
lacrime di Lola sul corpo morente di Cumpare
Turiddu.
Alla fine
lui, il Greco, alzando le braccia al centro
del ring, si dichiara vincitore sputando,
però, tutto l’odio salmastro accumulato
nella sua bocca dopo il feroce combattimento
durato ben due ore. Dicendone peste e corna
di quell’altro, non sa che più s’incazza,
più maledice il rivale …. e più produce
spettacolo! Gli effetti della sua rabbia
soffiano fuori da quelle piccole insenature
piroclastiche, simili a Geyser, che l’Etna
lasciò quale suo testamento nel 1381 quando
decise di “disegnare” il Lungomare di
Catania e seppellendo per sempre il vecchio
Porto Ulisse.
Oggi ero
testimone del cruento match. In queste
occasioni nessuno, nemmeno chi non è nato
qui, può fare a meno di parcheggiare e
sentire il vapore del mare addosso sulla
pelle, sulle narici, sulle palpebre,
trasportato dalle sbuffate che arrivano
rapidamente in città, o ammirare quei verdi
cavalloni che arrivano galoppanti come un
reggimento di Cavalleria.
Eppure lui
era lì, tranquillo, come se niente stesse
accadendo. Accovacciato sulla ringhiera
arrugginita a godersi quella salsedine che
gli penetra alle spalle rovinandogli le
ossa, ma che ormai conosce e alla quale si
dichiara immune. Anzi, le si arrende. E'
innamorato di questo mare forse più di noi
catanesi. Lo conosce a tal punto che sarebbe
capace di indovinare a che secondo esatto il
moto ondoso arriva a produrre quella più
grande, quella che fa dire “ohh!” prima del
fuggi fuggi sul marciapiedi, tutti bagnati.
Intendo
l’extracomunitario, quello che vende tappeti
sul lungomare davanti all’Istituto Nautico.
Chiunque, a Catania, lo ha incontrato almeno
una volta. E’ quel signore che vende i
tappeti a basso costo (molto napoletani e
poco persiani); u Tuccu va, quello col
pizzetto e con quell’aspetto medio-orientale
che ricorda scarpe a punta, turbanti e
scimitarre da Mille e una Notte.
Sapevo di
lui (non è possibile scansarlo o far finta
della sua presenza) ma oggi, visto il
momento magico, mi ci sono messo a parlare.
E’ una persona cordiale e intelligente, ed
ho capito perché spesso vedo gente che si
attarda a parlare con lui, non solo di
tappeti. Marocchino, vende tappeti a Catania
dal 1982 e quando può, torna dalla sua
famiglia dove moglie e figli lo aspettano
per l’approvvigionamento. Trent'anni a
vivere in quel furgone da rottamare, che
vita! Però, con tutte le città italiane che
ci sono, ha scelto di rimanere qui. Solo
qui.
Oggi se ne
stava seduto senza badare ad eventuali colpi
di risacca che avrebbero potuto “spostarlo”
sulla carreggiata. Ma a lui, il mare, non
avrebbe fatto niente. Lo conosce, sono amici
da tempo.
Ci siamo
messi pure a parlare del suo amico agitato
alle sue spalle che conosce a memoria,
scoglio per scoglio, onda per onda e,
purtroppo, patatina per patatina. Dice di
ammirare quel pezzo di mare che vede ogni
giorno e di amare soprattutto Catania che
considera, lui forestiero, un Paradiso
terrestre. Mi ha raccontato che quella forza
della natura è uno spettacolo che i suoi
occhi non hanno visto in altri luoghi; che
noi catanesi siamo degli ingrati a Dio
perché non capiamo di vivere in mezzo a una
tale fortuna: la scogliera, il sole, quel
mare, mentre davanti l’Etna sprigiona
fontane di fuoco.
“Lo sapete
– continuava – che i milanesi, i francesi, i
tedeschi, si portano a casa le vostre pietre
laviche come souvenir, raccolte in mezzo
alla spazzatura che ogni sera lasciate
quando passeggiate sul lungomare? Li ascolto
quei turisti, mentre si allontanano e dicono
‘Perché? E’ un peccato!'.... Infatti,
fratello, perché lo fate?
Avete una
città stupenda e la insozzate così. Ogni
tanto, al mattino, mi metto a pulire questo
tratto di lungomare, ma è tutto inutile
perché al sabato sera è di nuovo pieno di
roba che andrebbe, invece, gettata nei
cassonetti”.
Imbarazzato, mortificato dalle sue parole e
vergognato di certi miei concittadini,
quelli che ogni sera lasciano lattine, carta
stagnola e quant’altro scambiando la propria
città per una pattumiera, gli ho risposto
che non siamo tutti così e che cerchiamo di
rimediare a questi segni di inciviltà anche
con atti di volontariato ripulendo la
scogliera, periodicamente. Che potevo dirgli
di fronte a tanta amara verità? Non so se ci
ha creduto, ma l’ho pure ringraziato per
quanto ammirasse Catania perché, in fondo,
un tempo è stata anche sua, fin da quando il
Normanno Ruggero d’Altavilla, Re di Sicilia,
conquistò il Nord d’Africa facendo emigrare
in Sicilia maestranze che qui hanno lasciato
uno scibile immenso. Sì fratello, questa è
stata pure casa tua. Anzi, è casa tua,
perché la rispetti più di noi.
Qual è il
suo nome non gliel’ho chiesto, non era
importante. A questo punto, per me, potrebbe
anche chiamarsi Melo, Saretto, Arazio,
Cuncetto, Turiddu, Agatino. Lui sì che è un
Catanese DOC.
(M.R. -
Maggio 2013)
IL MONUMENTO AI CADUTI
CATANIA – Tra le opere
d’arte più bistrattate, martoriate,
abbandonate di Catania vi è ai primi posti
il Monumento ai Caduti di Piazza Tricolore,
da anni in mano a chi, non comprendendone
l’intrinseco valore storico e artistico ne
ha fatto scempio.
Disprezzato dai più,
definito “brutto” da chi non ha una
grandissima familiarità con l’architettura
contemporanea, il Monumento ai Caduti si
inserisce in un quadro storico-artistico
molto complesso e all’interno di un
movimento architettonico internazionale
definito “Decostruttivismo”, tra massime
espressioni artistiche del Novecento.
Il Decostruttivismo
contrapponendosi al Postmoderno e,
soprattutto, al razionalismo architettonico,
vuole de-costruire ciò che è costruito e in
quest’azione estrapola un’architettura
“senza geometria” (intesa come geometria
euclidea), piani ed assi, con la mancanza di
quelle strutture e quei particolari
architettonici che sono sempre stati visti
come parte integrante di quest’arte. Una non
architettura, quindi, che si avvolge e
svolge su sé stessa con l’evidenza e la
plasticità dei suoi volumi. La sintesi di
ciò è una nuova visione dell’ambiente
costruito e dello spazio architettonico,
dove è il caos, se così si può dire,
l’elemento ordinatore.
Le opere
decostruttiviste sono caratterizzate da una
geometria instabile con forme pure,
disarticolate e decomposte, costituite da
frammenti, volumi deformati, tagli,
asimmetrie e un’assenza di canoni estetici
tradizionali. I metodi del decostruttivismo
sono indirizzati a “decostruire” ciò che è
costruito, una destrutturazione delle linee
dritte che si inclinano senza una precisa
necessità. Siamo davanti a un’architettura
dove ordine e disordine convivono.
È in quest’ottica che
va analizzato il Monumento catanese,
cercando di guardarlo al di là degli sfregi
che ha subito negli anni, come guardare una
bella donna sfigurata nel volto dalle
cicatrici di un amore malato.
l’opera è stata
realizzata dall’architetto catanese Giuseppe
Marino, prematuramente scomparso alla fine
degli anni ’80, che lo progettò con la
collaborazione dell’artista professor Salvo
Giordano, per la scultura centrale, e
dell’artista professor Ugo Giuffrida, per i
bassorilievi in ceramica.
Il progetto,
denominato “Vortice”, fu il vincitore del
concorso nazionale bandito dal Comune di
Catania nel 1971 e fu approvato dalla
Sovrintendenza con una nota del 7 aprile del
1979 e con un’altra, successiva, dell’8
agosto 1984.
Ed è un vortice vero
e proprio quello ricreato dai movimenti
sinuosi nello spazio da queste ali di
cemento armato che sembrano esplodere come
dopo la deflagrazione di una bomba.
Non è brutto come
molti dicono e c’è persino chi ha proposto
una raccolta firme per la sua demolizione ma
è arte e come tale va tutelata, valorizzata
e comunicata.
Bisogna educare
all’arte in tutte le sue forme perché l’arte
è il riflesso della società che l’ha
prodotta e cosa meglio di un monumento che
esplode con stridente, violenta, aspra
forza, per ricordare ai posteri l’atrocità
del conflitto bellico.
L’opera è stata
oggetto negli anni passati di
un’interrogazione parlamentare (28 maggio
2009) che, dopo gli interventi di
manutenzione, ricordava al Comune di Catania
e alla Sovrintendenza della provincia etnea
che: il monumento ai caduti di tutte le
guerre, in piazza Tricolore a Catania,
ricade in un’area sottoposta a vincolo
paesaggistico e soggetta alle disposizioni
della parte terza del decreto legislativo n.
42 del 2004 concernente il “Codice dei beni
culturali e del paesaggio”. Quindi, al fine
di evitare il pericolo di abbandono e di
degrado che, in un prossimo futuro, potrebbe
nuovamente verificarsi, si ritiene
necessario valorizzare l’opera monumentale
come luogo di eventi, ad esempio inaugurando
le due sale espositive finora mai
utilizzate.
Tale interrogazione e
avvertimento ministeriale sono rimaste
lettera morta, poiché basta aggirarsi nel
monumento per vedere uno stato di degrado
umano, oltre che ambientale, senza pari. Non
sono tanto i graffiti, che potrebbero anche
essere funzionali all’opera come espressione
del tempo, ma escrementi, rifiuti, atti
vandali, che rendono il posto non solo poco
igenico ma soprattutto poco sicuro per le
tante persone che ogni giorno vi transitano.
https://newsicilia.it/cultura/monumento-caduti-piazza-tricolore-catania-arte-degrado/89830
L’appuntamento è alle 9,30,
porticciolo di Ognina di Catania,
perché si rinnova, per la
quarantanovesima volta, la “San
Silvestro a mare”. Tutto è pronto
per quella che si prospetta come
l’edizione del ricordo, la prima
senza Lallo Pennisi, l’ideatore nel
1960 della gara diventata
tradizionale appuntamento per i
catanesi e non solo. Sarà anche la
prima senza la storica pattuglia
degli ungheresi, guidata da Geza
Garady, costretti a restare in terra
magiara.
Mimmo Raffone coordinerà le
procedure d’iscrizione. Da 35 anni è
una colonna della classica di nuoto.
«A Lallo non potevo dire di no -
ricorda - mi chiamava una settimana
prima della gara. E mi raccomandava
di non prendere impegni per il 31
mattina.
Sentirò la sua mancanza, in
particolare, nel momento della
premiazione».
Raffone non sarà sostenuto
quest’anno da Antonio Aventaggiato,
altro emblema della San Silvestro,
che non potrà essere presente. “Sarà
vicino con il cuore”, ricorda
Raffone. Ad assistere il decano
della San Silvestro quattro
ufficiali di gara Fin che
presenteranno opera volontaria e
Davide Arena del Circolo Canottieri
Jonica che sarà il suo braccio
destro.
«Il ricordo curioso era quello della
partenza - ammette Raffone - gli
consegnavo una bandiera per dare il
via. Lallo, invece, preferiva usare
un protocollo personale, sostituendo
la bandiera con il mitico
cappellino».
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TUFFATI
ANCHE TU PER PER SAPERE MOLTO DI PIU'
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