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Il mare di Catania è quello che Omero scelse per raccontare di Ulisse e dei Ciclopi. Quello che Verga scelse per "I Malavoglia" e Visconti per "La Terra Trema". Un mare dove si intrecciano da sempre storie e leggende, e dove la movida catanese trova i suoi punti di appoggio, tra granite, pesce e borghi marinari.

Il mare bagna Catania da oriente e presenta due scenari naturali molto diversi, separati dal porto e da una zona demaniale con la stazione e le linee della ferrovia. A sud le spiagge di fine sabbia dorata fino all'Oasi del Simeto e, oltre, fino al borgo di Agnone. A nord le lave nere della scogliera che si spinge per 30 chilometri fino a Fiumefreddo, in vista di Taormina. Così i catanesi si dividono in due fazioni: i fautori della sabbia e quelli degli scogli.

 

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Verso sud, a partire dal faro Biscari, si svolge la grande "Plaia" costellata di stabilimenti balneari dove il mare diventa un fatto sociale e culturale, un mondo estivo di conoscenze, scambi e vicinato. Più ci si avvicina all'Oasi naturalistica gestita dalla Lipu e più ci si trova a contatto con la natura.  

Il mare di scoglio verso nord lo si incontra a piazza Europa e, poco più avanti, nei due antichi, deliziosi borghi marinari di San Giovanni Li Cuti e di Ognina, con chiesetta, porticciolo e ristoranti con vista sullo Jonio. A partire dalla primavera sul mare luccicano le lampare, piccole barche, dotate di luci, per la pesca notturna di polipi e calamari.

Lasciano il molo insieme ai pescherecci più grandi che escono a caccia di pesce azzurro e pescespada. Sulla strada che costeggia la scogliera nata dall'emersione di lave basaltiche, i grandi alberghi si alternano a lidi balneari, ristoranti e complessi residenziali.

(Toto Roccuzzo)

 

 

I Siculi non costruirono grandi città; allora l’isola era una terra coperta di boschi, e i Siculi una popolazione silvana, dispersa in villaggi. Molto poco sappiamo di loro e della loro civilhttps://www.mimmorapisarda.it/2024/ULISSE110.JPGtà: del resto, la storia fu scritta dai Greci, e così le vicende dei Siculi restano nell’ombra di secoli oscuri. Sappiamo che nel loro pantheon c’era un dio chiamato Adrano, raffigurato con l’elmo e la lancia; era un dio del fuoco, tanto che i Greci lo assimilavano a Efesto.

I suoi santuari sorgevano in vari luoghi, ma verso il 400 a.C. il tiranno Dionisio di Siracusa costruì, vicino al corso del Simeto, alle falde dell’Etna, una città che portava il nome del dio, di cui restano inglobate nella città moderna parti del muraglione di cinta.

Da qualche parte nell’abitato sorgeva il suo tempio, che era custodito da mille cani: il cane, infatti, era l’animale sacro dei Siculi ed è spesso raffigurato sulle monete. Questi cani accoglievano scodinzolando i pellegrini che andavano a rendere onore al dio; se poi qualcuno nella notte smarriva la strada, o era ubriaco e non riusciva a trovare la via di casa, i cani sacri di Adrano lo guidavano amichevolmente e lo accompagnavano a destinazione.

Però, quando per un loro istinto capivano di avere a che fare con un furfante, lo assalivano e lo mordevano, sino a sbranarlo. Probabilmente, la razza autoctona di cane che ancora esiste in quella zona, il Cirneco dell’Etna, è un lontano discendente dei cani sacri di Adrano. Degli dèi siculi conosciamo anche il nome di Ibla, una dea della fecondità, che diede il suo nome a varie città sicule, non bene identificabili oggi oltre che alla catena dei Monti IbleI.

Quando sbarcarono i Greci, i Siculi furono progressivamente spinti verso l’entroterra e in parte sottomessi: si formò così una situazione in cui le coste erano greche, mentre il centro dell’isola rimase ai Siculi. Ma non dobbiamo pensare a spietate guerre coloniali e a stermini di massa; in qualche modo le due popolazioni iniziarono ad avvicinarsi sin dai tempi antichi e i Siculi assorbirono dai Greci molta della loro superiore civiltà. I coloni greci che venivano dalla madrepatria e fondavano le loro città sulla costa erano prevalentemente maschi; le donne, le trovarono spesso sul posto, sicché sin dall’inizio dovette esserci una certa percentuale di matrimoni misti. Del resto, i Greci di Sicilia finirono per definire se stessi “Sicelioti” per distinguersi da quelli della Magna Grecia, che erano “Italioti”, e da quelli della madrepatria, i veri e propri “Elleni”.»

“La sicilia degli Dei” di G. Guidorizzi e S. Romani – Raffaello Cortina Editore

 

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Per questo motivo, molte cose come ristoranti, alberghi e attività commerciali di

questa borgata catanese vengono intitolate all'Odìsseo.

 

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Brevi accenni sul borgo. Famosissimo fin dall’antichità, il porto di Ulisse fu per tanti secoli lo scalo ufficiale dell’antica Catania, fino a quando, nel 1381, venne sepolto definitivamente da un fiume di lava scaturito da una fessura eruttiva apertasi tra i comuni etnei di Mascalcia, Tremestieri e Gravina.

L'immane colata lavica cancellò anche il borgo e lasciò una piccola insenatura che forma oggi un delizioso golfo.

Lo splendido mare, la vetusta chiesa di S. Maria, la torre di guardia, le casa dei pescatori, le stradine della borgata, la vecchia garitta e le vecchie barche da pesca costituiscono le tessere di un prezioso mosaico chiamato Ognina.

 

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           I vecchi Bagni Ulisse in piazza Mancini Battaglia

 

Già nota agli storiografi antichi, era  così conosciuta da far scrivere tante pagine di storia e ispirare perfino poeti. Per più di quattro secoli, scomparso il vecchio Porto di Ulisse, rappresentò un importante scalo marittimo la cui borgata divenne uno dei principali centri dei commerci via mare tra la provincia catanese e i luoghi dove i prodotti erano destinati, di conseguenza non poteva che detenere anche il primato nella costruzione di imbarcazioni. Infatti, fino al finire degli anni '50, i maestri d'ascia di Ognina erano considerati i migliori della costa orientale etnea.

E’ necessario distinguere tra l’antica Ognina e quella nuova. Il suo non è un nome proprio ma un nome comune: da Lògnina o Longone, un termine che indicava i porti provvisti di pietre forate per l’approdo delle navi. I Longoni erano le bitte d’ormeggio delle banchine portuali, infatti troviamo Ognina a Siracusa, in Sardegna e all’Isola d’Elba.

 

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Sul nome del quartiere del Rotolo ad Ognina, descritto anche da Verga ne I Malavoglia, alcuni sostengono che sia dovuto a un dipinto che raffigura una Madonna che tiene in mano una bilancia che raggiunge un rotolo di peso (trovasi attualmente all’angolo tra Via Messina e Via Galatioto). Ma che il nome sia stato originato dal Rotolo delle Sacre Scritture è confermato da Jacomo Saba "un antico tempietto di Santa Maria del Sacro Rotolo, da alcuni creduta della Lettera dei Messinesi, nei pressi dell’Abbazia brasiliana Santa Maria di Lognina". Insomma, la Madonna teneva in mano le sacre scritture. Tra Via Calipso e Via Ginestra emergono tuttora i ruderi di quel Tempietto, che venne eretto in onore di Sant’agata quando le sue reliquie, arrivate da Costantinopoli, furono date in consegna al Vescovo Maurizio proprio in quella zona.

Durante la guerra dei Vespri, più volte il mare di Lognina conobbe le vicende degli urti fra i D’Angiò e gli Aragona. I grandi ammiragli catanesi Ruggero di Lauria e Artale Alagona si distinsero per valore e strategie ed a loro venne intitolato il lungomare catanese, un tempo teatro delle loro vittorie navali in difesa dei catanesi.

Ad Ognina esisteva un vecchio castello, l’Italion, che attraverso i secoli subì le molteplici traversie. Sui suoi ruderi nel 1548 venne eretta la Torre cilindrica, tutt’ora a fianco della chiesa.

Dopo l’eruzione del 1669 Lognina esisteva ancora grazie all’opera di ricostruzione del Duca di Camastra, del Duca Uzeda e della Famiglia Mancini Battaglia, ai quali è intitolato lo spazio antistante il porto.

Di recente in una grotta spagnola, chiamata Gran Dolina, sono stati scoperti dei reperti che, studiati, hanno portato il paleontologo Eduard Carbonell ha dire che "erano cannibali i primi europei".
Poiché - ha ribadito il paleontologo - questi resti sono tra i piu antichi tra i nostri progenitori, possiamo affermare dire che siamo discendenti di cannibali".
Tra i popoli che in Europa hanno praticato il cannibalismo c'è stato quello dei Lestrigoni, che secondo diverse teorie, che oggi hanno trovato un riscontro, abitarono nell'età del bronzo (2000 a.C.) la località di Valsavoia, territorio di Lentini.
Ad ipotizzare che i Lestrigoni fossero un popolo realmente esistito fu lo storico Sebastiano Pisano Baudo, nato a Lentini nel 1840. Uno dei capi dei Lestrigoni fu Antifate, personaggio omerico che viene menzionato nell'Odissea, allorché Ulisse nel suo peregrinare lungo il mare Mediterraneo approda nella Lestrigonia, terra abitata da un popolo antropofago.

Ed Omero, a tal proposito narra di un compagno di Ulisse che fu divorato dal re Antifate. In epoche successive i Lestrigoni, sempre secondo l'ipotesi di Sebastiano Baudo si sarebbero evoluti e si sarebbero chiamati Sicani che, oltre alla pastorizia, si sarebbero dedicati all'agricoltura.

La ricostruzione di Sebastiano Pisano Baudo, però, non era supportata da alcuna evidenza archeologica o storiografica, e ben presto fu ritenuta destituita da fondamento.

Altri archeologi nel secolo scorso, fra cui Paolo Orsi e Luigi Bernabò Brea , tentarono, con i loro scavi archeologici a Valsavoia, località che si estende sulle basse colline di roccia calcarea, nelle vicinanze del Biviere di Lentini, e precisamente nei pressi della masseria Cattivelle, di rinvenire qualche reperto che potesse confermare la presenza dei Lestrigoni in quel territorio. Non ci riuscirono.

Soltanto negli anni Ottanta del secolo scorso, come ricorda Francesco Valenti, direttore del museo archeologico di Lentini, durante alcuni scavi in Valsavoia eseguiti dall'archeologo Umberto Spigo, attuale direttore della sezione archeologia della Sovrintendenza ai Beni culturali di Catania, venne rinvenuto quell'anello di congiunzione per dimostrare che questa zona della Sicilia fu abitata dai Lestrigoni, popolo antropofago.

 

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Questo anello di congiunzione tra la località Valsavoia e i Lestrigoni è dato dal rinvenimento di un tipo di ceramica della facies Vallelunga, sito archeologico della provincia di Caltanissetta. In questo sito, come fa rilevare l'archeologo Francesco Valenti vennero rinvenuti da un gruppo di archeologi, caso unico sino ad ora in Sicilia, una serie di teschi umani, disposti in cerchi, lungo il perimetro di una capanna. Inoltre, altri teschi erano ammonticchiati in un'area dove doveva, verosimilmente, sorgere un villaggio.

I dati archeologici contenuti in uno studio che venne presentato durante un convegno svoltosi a Palermo, hanno escluso che si potesse trattare di sepolture. Mentre, era evidente che quei teschi venissero utilizzati, così come avviene tra i cacciatori di teste del Borneo o di altre aree dove tuttora si pratica il cannibalismo, per uso magico e ornamentale.

Una specie di culto proprio di un popolo antropofago. Se il popolo che abita la zona di Vallelunga era antropofago, era anche antropofago il popolo che abita Valsavoia. Ad unire la località del Calatino a quella del Siracusano c'è il tipo di ceramica che è stata rinvenuta in entrambi i siti archeologici. Alla luce di questa scoperta vengono in mente i Lestrigoni ed i racconti omerici sui popoli antropofagi della Sicilia. Infatti, se molti reperti archeologici di ceramica della cultura di Vallelunga, si associano a quelli della cultura dei Lestrigoni diventa piu di un'ipotesi che la città degli antropofagi dalle larghe porte, di cui parla Omero nell'Odissea, sia localizzata nell'area del Lentinese di Valsavoia, unico sito tra quelli conosciuti nella zona del Siracusano ad averci restituito ceramiche della facies culturale di Vallelunga.

PAOLO MANGIAFICO (Lasicilia.it)

 

 

Zoppicante della pernice in onore del dio Hephaistas zoppo, s'abbinavano i baccanali dionisiaci per affermare la superiorità del vino inebriante sopra ogni altra bevanda. Euripide ricorda come in onore di Hephaistas si celebrassero gare podistiche con fiaccola in mano; manifestazione che si ritrova nella festa di sant'Alfio nel centro vinicolo etneo di Trecastagni, dove nella corsa dei nudi che recano torce al santuario dei tre martiri è da rintracciare un frammento dell'antica sagra della vendemmia così come la solennizzavano i coltivatori sicelioti. Del resto glì stessi miracolosi santi patroni sembrerebbero essere una trasposizione cristiana dei Paliki, giacché l'autenticità del terzo, san Filadelfio, non va immune da gravi sospetti, avendo egli tutta l'apparenza di un epiteto trasformatosi in persona. Né diversa origine hanno Gisliberto e Goselino, gli armigeri bizantini che compirono l'impresa santa del trafugamento delle reliquie di sant'Agata, portandole da Costantinopoli a Catania.

In occasione dei baccanali ad Hephaistas, le vendemmiatrici siceliote accompagnavano il ritmo cadenzato dei pigiatori con movimenti frenetici della persona e urla sfrenate. I vignaioli col viso imbrattato di mosto e celato sotto maschere grottesche, inscenavano rustiche rappresentazioni cantando inni in onore del dio. Sulle vigne e nei palmenti spesso si disputava il cottabo, consistente nel lanciare in aria il vino da un boccale a facendolo ricadere nello stesso recipiente. In epoca alessandrina la comunità isiaca di Catania al seguito della principessa Teoxena, solennizzava i riti metallurgici sostituendo ad Hephaistas il dio egizio Ptah, creatore ed artista,patrono degli operai e degli artigiani. Un frammento marmoreo di naoforo d'epoca romana, rinvenuto anticamente in città, ne conferma il culto e le solennità.   (Luccjo Cammarata)

 

 

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La Sicilia terra dell'eccesso e dell'abnorme, entro cui confinare inciviltà, arbitrio, violenza, non storia, appare irredimibile e (tradendo quelle vere) le «buone intenzioni» di Germi di modificarne il corso s'infrangono nella sequenza in cui il maresciallo copre l'isola con il palmo della mano sulla cartina geografica, augurandosi che un' esplosione atomica la spazzi via.

Il dittico del sanguigno Germi darà così la stura a quella fortunatissima e sconfinata iterazione di opere isolane, pencolanti tra pecoreccio e vilipendio, che hanno contribuito a diffondere nel mondo l'immagine della «diversità» siciliana, ormai assioma caratteriale.

Sfuggendo comodamente all'ammissione del fallimento storico nei confronti del Sud, con «Divorzio all'italiana» e «Sedotta e abbandonata» lo Stato italiano, la Bell'Italia - unico paese europeo in cui si sia sviluppato un razzismo interno - recupera certezza d'alterità a danno del meridione, autogratificandosi per ritrovare modelli di civiltà da contrapporre alla barbarie siciliana gabellata a spettatori divertiti (e atterriti), subdolamente sospinti verso un naturale meccanismo di rifiuto.

Marcello Mastroianni ad Ognina. Alle sue spalle, l'attrice catanese Sara Micalizzi.

 

 

 

Il porticciolo di San Giovanni Li Cuti è un piccolo gioiello incastonato nel golfo e quello antichissimo di Ognina un ritrovo per i buongustai del pesce, che vanno a comprarlo appena pescato. Famoso anche perchè comprende quella spiaggetta sempre ripresa dalle TV nazionali che fa vedere i primi bagni degli italiani. 

E' uno dei tratti della costa più belli ed affascinanti, ove il nero della costa lavica spicca nel contrasto con l'azzurro vivido del mare e del bianco delle onde.

 

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Il porto di San Giovanni li Cuti (cuti: pietre, ciottoli) è un porticciolo da pesca della città di Catania sito in corrispondenza della frazione marinara omonima. Si trova in corrispondenza di una insenatura della scogliera lavica che si estende a nord-est della città di Catania in località San Giovanni li Cuti.

Un tempo periferico e circondato da casette di pescatori a partire dagli anni sessanta, in seguito all'eliminazione della cintura di ferro costituita dal tratto della ferrovia Catania-Messina che venne interrato proprio a quel tempo, è stato circondato da costruzioni d'ogni genere, lidi balneari e locali di ritrovo che ne hanno profondamente alterato la rustica bellezza.

 

Oggi è molto frequentato per l'adiacente spiaggetta nera creata artificialmente con sabbia vulcanica di riporto sull'acciottolato naturale precedente.

Si tratta di un approdo per barche da pesca protetto da un molo della lunghezza di circa 80 m all'interno del quale trovano ricovero un piccolo numero di barche da pesca locali e piccole imbarcazioni con pescaggio limitato in quanto i fondali a malapena superano i 2 metri in qualche punto; non è consentito l'ormeggio di imbarcazioni da diporto.

 

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Il borghetto si raggiunge imboccando una stradina che scende giù fino al porticciolo e alla caratteristica spiaggia di sabbia nera derivante dalla roccia lavica.

Le barche colorate dei pescatori e i bar e ristoranti dislocati intorno al porticciolo e lungo la strada fanno di San Giovanni Li Cuti una meta particolarmete apprezzata sia dalla gente del luogo che dai turisti che scoprono, a pochi passi dal ritmo frenetico di Catania, quest'angolo di quiete dove gustare le sfiziose granite al limone.

Nel periodo estivo, il borgo si anima di un via vai di gente che da mattina a sera popola la caratteristica spiaggetta. D'inverno l'atmosfera cambia e San Giovanni Li Cuti diventa ancora più suggestivo, soprattutto se si cena in uno dei ristoranti della piazzetta da cui si gode della vista del mare attraverso ampie vetrate.

Fonti: wikipedia e paesi online

 

 

In tutti gli studi geologici, a partire dal secolo scorso, viene presentata come dato certo la presenza di un ampio e profondo golfo compreso tra i due promontori del Gaito (all'altezza di piazza Europa) e del Rotolo (piazza Nettuno), in seguito riempito, insieme con parte del settore meridionale del golfo di Ognina, dalla imponente colata lavica del 5 agosto 1381. L'attuale assetto della linea costiera in corrispondenza dell'odierno porticciolo di S. Giovanni Li Cuti sarebbe il risultato ultimo di questi avvenimenti geologici. In realtà l'utilizzazione a fini portuali anche di questa zona è assai probabile, per le caratteristiche del profondo golfo, certamente adatto ad offrire un approdo ed un sicuro ancoraggio per le imbarcazioni.

Probabile che di tale sistema portuale facesse anche parte la rada di Ognina, la cui funzione di scalo marittimo è da tempo riconosciuta e che viene generalmente identificata, come è già stato sottolineato, con il Portus Ulixis citato da Plinio. Anche Ognina venne interessata dalla colata lavica del 1381, ma, a differenza del golfo di S. Giovanni Li Cuti, completamente colmato dalla lava, le variazioni della linea di costa di età classica sono limitate ad una piccola porzione del settore meridionale della rada.

- estratto da "Il porto di Catania in età greca e romana" - Edoardo Tortorici

 

 

 

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https://www.mimmorapisarda.it/2024/ULISSE117.JPGL'Odìsseo lo chiamavano Ulisse perché era il nome più diffuso del nostro amico. Era il primo viaggiatore e esploratore di cui tutti conoscono le avventure.

Noi tutti sappiamo la sua storia. Partì da Troia e vagò per tutto il mare Mediterraneo occidentale, cioè quello che era meno conosciuto perché il mare Egeo, fin da millenni, era solcato da navi, ma in occidente pochi c'erano stati.

Incontrò mostri, dei, maghe, il ciclope e e poi alla fine tornò nella sua Itaca ad abbracciare la moglie, il figlio e anche un vecchio cane fedele.

Ma nell'antichità tutti si chiedevano quali erano i luoghi in cui Ulisse viaggiò? Anche per motivi turistici, erano tantissimi luoghi che venivano indicati come tappe del suo viaggio. Per esempio il golfo di Napoli, lesirene erano collocate lì in tre scoglietti che adesso vengono chiamati LiGalli e il Ciclope dov'era? Secondo alcuni in Campania, secondo altri in Sicilia, dove un grande occhio si apre nella terra ed è il cratere dell'Etna.

E i lotofagi? cioè questa popolazione pacifica e anche un po' fatta di droga che mangiavano oppio? Dove erano? Si pensa nell'isola di Djerba, alcuni dicevano a Malta.

Insomma, i viaggi di Ulisse però documentano che all'epoca, cioè in cui fu scritto il poema che gli viene dedicato, cominciavano ad affluire invece notizie, anche favolose, su questo misterioso Occidente del Mediterraneo, dove cominciavano a essere fondate colonie e a svilupparsi attività commerciali.

Ulisse fu l'esploratore di questo mondo e le sue avventure rappresentano la traduzione fantastica di un grande viaggio di esplorazione.

(Giulio Guidorizzi)

 

 

 

Demitizzare Ulisse Ulisse, in greco Odisseo (il nome latino Ulixes risulta preso da una forma dialettale), è l'eroe più celebre di tutta l'antichità e il più celebrato negli ultimi 27 secoli.  

Tutti i manuali scolastici presentano l'Odissea come un poema in cui viene narrato il ritorno avventuroso in patria di uno degli eroi della guerra di Troia. In realtà le vicende di Ulisse sono solo il pretesto per raccontare una storia che di avventuroso ha assai poco rispetto al motivo di fondo che la domina e che è eminentemente tragico, come è tragico il suo eroe principale.  https://www.mimmorapisarda.it/2024/ulisse118.jpg

Tra la fine dell'VIII sec. a. C. e l'inizio del VII furono messi per iscritto, in lingua greca, l'Iliade e l'Odissea, approdo finale di una tradizione orale risalente, probabilmente, all'età dei greci micenei, la cui civiltà era crollata verso il 1200-1100 a. C. Fu nel momento in cui, verso il VII sec. a. C., molti greci cominciarono a migrare verso occidente, portando con sé le loro memorie, che qualcuno mise per iscritto i due poemi. 

Secondo un'antica tradizione leggendaria Ulisse è un bisnipote di Ermes, il dio delle trasformazioni, che si contrappone ad Apollo, dio semplice, chiaro, unico. E infatti per Omero Ulisse è al vertice delle capacità umane, complessivamente intese: è dotato d'incredibile perspicacia e intuito (polymetis), sa adattarsi alle più inattese emergenze della sua tumultuosa esistenza (polytropos), ha una grandissima astuzia (polymechanos), è capace di mille pensieri (polyphron) ed è in grado di sopportare le più terribili sofferenze (polytlas), è insomma un uomo di mondo, rotto, anzi "navigato" a tutte le esperienze (polyplanes).   

E' il personaggio più moderno perché il più umano, non ovviamente nel senso "cristiano" o "laico" in cui oggi intendiamo la parola "umano" o l'espressione "senso dell'umanità", poiché Ulisse era anche capace di efferate crudeltà e terribili vendette 1, ma semplicemente perché incarna tutte le caratteristiche dell'uomo moderno, ed infatti egli è figlio di una grande civiltà antagonistica: passione militare, volontà di comando, astuzia politica e diplomatica, affabulazione e capacità di persuasione, relativismo etico 2, licenza sessuale (note sono le sue amanti: Circe, Nausicaa, Calipso ecc.), coraggio nell'affrontare le avventure, patriottismo 3 e senso di superiorità etnica, di stirpe 4, di civiltà, spirito di sacrificio 5, curiosità intellettuale 6, rispetto formale della religione. 

Ulisse in realtà non è mai esistito, se non nella fantasia di un redattore o di più redattori, che volevano convogliare in un individuo isolato quei valori che tutti insieme non realizzarono né avrebbero potuto realizzare alcun ideale sociale, di convivenza pacifica e democratica. 

L'Iliade infatti è il fallimento di una civiltà, quella micenea, rappresentata da una polis che vince un'altra polis, senza per questo migliorare il proprio destino, è cioè il simbolo dell'impossibilità di una coesistenza in nome degli ideali e dei comportamenti che furono di molti eroi troiani e greci e che in Ulisse si sommano stupendamente (sul piano artistico delle letteratura) in un'unica persona, che però appare come eroe isolato, i cui compagni di sventura sono soltanto delle comparse. 

L'Odissea è la sconfitta dell'Iliade, ma in forma sublimata, accentuando al massimo l'umanità di un eroe di carta, che nella realtà non può esistere, perché nessun uomo può essere tutte quelle cose insieme. Lo stesso Omero afferma che oltre il Peloponneso esiste solo l'irrealtà. 

L'Iliade infatti, trattando il tema della guerra in nome di un ideale di giustizia, suggeriva l'idea che entro certi limiti era possibile sospendere le esigenze della democrazia, in attesa della conclusione del conflitto. Ma l'Odissea è il tentativo di mascherare il fallimento di quegli stessi ideali vissuti in tempo di pace.  https://www.mimmorapisarda.it/2024/ULISSE96.JPG

Ulisse viene fatto vivere in una dimensione surreale proprio perché non sarebbe stato in grado di vivere un'esistenza normale, nella vita reale, nella prosaicità di una vita pacifica, senza conflitti sociali o bellici.  

La sua personalità è in fondo quella di un disadattato sociale, analoga a quella dei reduci militari di qualunque sporca guerra, di uno che non può avere amici che non siano i propri commilitoni, e che quindi andrebbe rieducato a una vita sociale normale, dedicata al lavoro, al rispetto delle regole di una convivenza civile. 

E' raro nella nostra civiltà, che nella sostanza rispecchia molti di quei valori omerici, nonostante i duemila anni di cristianesimo, vedere qualcuno criticare il mito di Ulisse, ovvero riprendere le critiche di Sofocle (Filottete) ed Euripide (Ecuba), e anche di Filostrato (Eroico), approfondendole ulteriormente.  

Eppure l'umanità di Ulisse è un inganno e dovremmo liberarcene, cioè non dovremmo lasciarci più sedurre dalla sua personalità accattivante, come lui non si lasciava sedurre dal canto delle sirene, perché Ulisse non è un modello da imitare, ma un cattivo esempio per chi vuole fuoriuscire dall'antagonismo sociale. Le sue disavventure non possono più indurci a giustificare il suo egocentrismo, il suo maschilismo, e tutte le debolezze connesse a questi vizi capitali, che dalla cultura della sua civiltà si sono introiettati nel comportamento della sua persona. 

Ulisse è un personaggio invivibile, è quello che ogni maschio vorrebbe essere e che se vi riuscisse renderebbe impossibile la vita di società. Egli rappresenta il tentativo di voler sopravvivere a se stessi, nonostante le contraddizioni impongano una svolta verso il recupero di una dignità umana autentica. 

Neppure Penelope è in grado di riconoscerlo (e come avrebbe potuto dopo dieci anni di guerra contro i troiani e dopo altri dieci di peregrinazioni?) e ha bisogno di un segno tangibile, che però, guarda caso, è un'altra prova di abilità: il letto scavato nell'ulivo, mentre a tutti gli altri dovrà dare l'ennesima prova di forza. Ulisse non viene riconosciuto come uomo, ma come artigiano e come militare. La sua personalità di uomo è da tempo scomparsa. 

Penelope è in fondo la vera eroina (anch'essa molto irreale) che ha sopportato per vent'anni l'egocentrismo del marito, solo che il suo atteggiamento non fa storia, o meglio, non fa il "romanzo d'avventura", non stimola la fantasia, non fa evadere nei sogni irreali. La sua figura non appare chiaramente come un'alternativa a Ulisse, ma piuttosto come una forma di ripiego.    https://www.mimmorapisarda.it/2024/ulisse70.jpg

Ulisse torna a casa non perché vuole rivedere la moglie e il figlio, ma perché è stanco delle sue avventure. Torna a casa da vecchio, come se avesse bisogno di farsi compatire o perdonare. La strage dei Proci non è forse servita a tale scopo? Il suo modo di dimostrare la propria utilità è stato, ancora una volta, quello di usare le armi e seminare morte e terrore.

S'è fatto perdonare e nel contempo ha fatto capire chi comanda di nuovo a Itaca: di tutti i pretendenti e molestatori di Penelope sono due personaggi minori avranno salva la vita. E così ha dato l'impressione d'essere tornato per rivendicare una proprietà minacciata, di cui moglie e figlio costituivano un mero accessorio. 

In realtà Ulisse non può essere riscattato dal suo ritorno in patria, dalla fedeltà coniugale affermata solo in ultima istanza, dall'amore dimostrato nei confronti di un figlio che è cresciuto all'ombra della sola madre. Non lo riscatta tutto ciò e neppure lo riscattano tutte le sue disavventure, che lui in fondo ha cercato per dare un senso alla sua vita errabonda, vana e vacua, e neppure il fatto ch'egli abbia dimostrato una indipendenza di giudizio nei confronti della religione ufficiale: Ulisse ha un atteggiamento troppo opportunista nei confronti degli dèi pagani falsi e bugiardi.  

La vita di un uomo non può essere riscattata dalle disgrazie che avrebbe potuto tranquillamente evitare, se avesse vissuto una vita più normale, o peggio dagli ultimi cinque minuti in cui l'ha vissuta, accanto alla moglie e al figlio, da vero marito e da vero padre, perché non saranno questi minuti a porre le basi per un senso alternativo di umanità. Non a caso una leggenda lo fa morire oltre le colonne d'Ercole, alla ricerca di nuove avventure e giustamente Dante lo condanna all'Inferno (canto XXVI), non solo come consigliere fraudolento, ma anche come uomo folle ed egoista che porta alla rovina i suoi compagni, raggirati col miraggio d'una conoscenza illimitata (che nella Commedia appare fine a se stessa, ma che nella realtà storica diverrà occasione di saccheggi e devastazioni coloniali da parte dell'Europa borghese).   

Ulisse deve smettere d'esserci simpatico. Uno che non ha imparato altro che a uccidere e mentire, uno che odia la cultura perché conosce solo l'uso della forza e dell'astuzia quando la forza non basta, uno che maschera dietro una serietà formale la propria superficialità, per quale motivo deve occupare un posto centrale nella cultura del nostro tempo e soprattutto nella cultura classica delle nostre scuole? 

 Per esempio: scannò Polissena, figlia di Priamo, sulla tomba di Achille per esaudire un desiderio postumo di costui. Una delle cose più vergognose che fece fu quella di far credere a Clitennestra che Achille voleva sposare sua figlia Ifigenia; invece ne aveva bisogno il padre Agamennone per sacrificarla ad Artemide.; Ulisse aveva un senso etico così relativo che quando ebbe necessità di trafugare i cavalli di Reso e il Palladio, promise al soldato troiano catturato, Dolone, un'alta ricompensa se li avesse aiutati, ma subito dopo aver ottenuto quanto cercava chiese la testa di Dolone e le sue spoglie le appese alla prua della sua nave.

 

 

Nella stessa occasione, quasi pugnalò a tradimento il compagno Diomede, che era riuscito a mettere le mani sul Palladio prima di lui. Tuttavia Ulisse quando si trattò di entrare in guerra contro Troia, onorando così lo stesso patto che lui aveva richiesto di firmare, si finse pazzo, e mentre stava arando la sabbia, Palamede tolse dalle braccia di Penelope il piccolo Telemaco e lo adagiò davanti all'aratro, costringendo Ulisse a fermarsi. Fu in quell'occasione ch'egli promise di vendicarsi di Palamede, riuscendo a farlo lapidare proprio durante la guerra troiana, dopo averlo fatto passare per un traditore (cfr Filostrato, Eroico). A dir il vero esiste una versione sulla nascita di Ulisse che vede non in Laerte ma in Sisifo suo padre, il quale, per vendicarsi dei furti di bestiame che subiva da parte del nonno di Ulisse, Autolico, violentò la figlia di quest'ultimo, Anticlea, mettendola incinta. Fu proprio Autolico che mise a Ulisse il nome di Odisseo, che in greco significa "l'odioso". Però volle a tutti i costi le armi di Achille, che invece sarebbero dovute spettare ad Aiace Telamonio, che era riuscito a trascinare il corpo e le armi di Achille dietro le linee. Aiace, umiliato da Ulisse, impazzì e si suicidò. Attenzione che in Ulisse la curiosità intellettuale non coincide propriamente con l'esperienza culturale. Ulisse è refrattario alla cultura (p.es., fece di tutto per eliminare Palamede, figlio di Nauplio, molto più colto e geniale di lui). Non dimentichiamo che Ulisse voleva sposare Elena, messa all'asta da suo padre Tindaro, e che sposò Penelope solo perché squattrinato. Fu in quell'occasione che chiese a tutti i principi Achei di firmare un patto di alleanza per difendere l'onore di Elena anche dopo il matrimonio; e da qui nascerà, formalmente, la guerra di Troia.

http://www.homolaicus.com/storia/antica/grecia/ulisse/ulisse.htm

 

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Odisseo, forse non molto alto, ma dal fisico atletico, con i capelli biondi e la carnagione olivastra, viene descritto di bell’aspetto e quindi anche virtuoso e buono: secondo il modo di pensare del mondo greco, infatti, la bellezza esteriore è specchio di quella interiore. L’eroe dimostra la sua forza fisica in numerose occasioni, quando combatte contro i mostri o contro il mare infuriato o, ancora, quando affronta i prepotenti e arroganti Proci, ma dà anche prova di una grande forza interiore nell’affrontare le avversità che gli riserva il difficile ritorno a Itaca.

Nell’Iliade Odisseo è un uomo saggio, astuto, d’azione e, soprattutto, è un guerriero, ma non è l’unico: è un valoroso tra valorosi; nell’Odissea, invece, è l’unico protagonista dei fatti narrati, non usa armi se non quando deve difendersi dai Ciconi, all’inizio del suo viaggio di ritorno, e quando compie la sua vendetta sui Proci. In questo poema la personalità dell’eroe viene delineata con particolare attenzione ai sentimenti: Odisseo è anzitutto un «uomo», capace di mostrare il suo enorme coraggio ma anche tutta la sua fragilità, cui trova conforto grazie alla protezione della dea Atena, all’ospitalità dei Feaci e all’assoluta fedeltà della sua famiglia. Odisseo non si vergogna nemmeno di piangere quando, prigioniero della ninfa Calipso, teme di non potere più prendere il mare per ritornare in patria e quando, finalmente giunto a Itaca, incontra il figlio Telemaco e gli svela la sua identità, o ancora quando riconosce l’amato Argo, vecchio e malandato.

 

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L’eroe appare comunque determinato a raggiungere il suo scopo, che è quello di ritornare ad ogni costo alla cara Itaca e di ricongiungersi ai suoi familiari. A tal fine fa appello a tutte le sue facoltà di viva intelligenza, genialità, coraggio, ma anche di notevole senso pratico e abilità, quando affronta il ciclope Polifemo, le Sirene e quando costruisce da solo la zattera per lasciare l’isola di Ogigia, oltre che di abile navigatore, quando sopravvive ai mostri Scilla e Cariddi.

Ma ciò che colpisce di più in Odisseo è la curiosità di conoscere, che si manifesta in diverse occasioni. Tale dote, se in alcuni casi può essere considerata positiva, perché rappresenta uno spunto di arricchimento, spesso è stata anche fonte di grossi guai e lutti per lui e per i suoi uomini; basti pensare alla vicenda di Polifemo e dei Ciconi. D’altra parte, proprio alcuni suoi compagni di sventura, non ascoltando le sue raccomandazioni, aprono l’otre dei venti e mangiano le vacche sacre del dio Sole, pagando tale disobbedienza con la loro stessa vita.

In generale, però, l’atteggiamento di Odisseo nei confronti dei suoi uomini non è quello autoritario di un comandante bensì di un amico con una maggior esperienza alle spalle che impartisce ordini perché è necessario, ma che sa anche dispensare consigli, incoraggiare, che li chiama «amici», «compagni», che li toglie dai guai quando può, come accade con la maga Circe, e che piange con loro e per loro quando vengono uccisi.

In ogni caso Odisseo riesce a mantenere la sua identità anche quando è costretto a rinnegarla o camuffarla, il coraggio dell’eroe quando è circondato dal mistero, dalla magia, dall’orrore dei mostri, l’orgoglio della sua stirpe quando si rivela a Polifemo e quando infine si spoglia degli abiti da mendicante e appare nella sua regalità ai Proci.

Odisseo piace per la sua umanità, perché le sue virtù e i suoi difetti sono quelli di tutti e, proprio per queste sue caratteristiche, ha suscitato interesse in molti scrittori dei secoli successivi, tra i quali ricordiamo Dante Alighieri, Ugo Foscolo, Giovanni Pascoli.

F. Sessi, Il racconto dell’Odissea © 2013 RCS Libri S.p.A. – Milano

 

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Nella parte meridionale dell'abitato sono state individuate opere di fortificazioni megalitiche in tutto simili a quelle rinvenute al Mendolito, poste a difesa dell'insediamento nel punto in cui l'Amenano sboccava in mare. La dedalica costruzione consisteva in tre filari di grossi blocchi calcarei collocati a secco per una lunghezza d'una ventina di metri, poggiata sulle alluvioni di spiaggia del Mongibello recente, ed innalzata sul lato sud occidentale della foce, corrispondente all'attuale via Zappalà.

Gemelli, nell'aria dell'Indirizzo, punto in cui il fiume faceva un piccolo porticciolo riparato dai venti, ed appunto per questo necessitoso di una sicura difesa in quanto più esposto alle possibili incursioni esterne, principalmente da parte dei pirati micenei e nordafricani e degli schiavisti che già razziavano nel Mediterraneo. Queste difese furono mantenute e migliorate dai colonizzatori greci ed assolvettero la loro funzione di riparo fino a metà Cinquecento, epoca in cui vennero totalmente ristrutturate per ordine vicereale di Juan de Vega, il quale, per timore delle incursioni barbaresche  impose alla città il pesante onere di conchiudere prontamente la cortina. Fu in questa occasione che vennero costruite le garitte d'avviso lungo il litorale che va da Porto Ulisse alla scomparsa punta di Sciara Biscari, delle quali rimangono presentemente due esemplari impiantati sopra la colata lavica del Rotolo.

 

Il popolo le chiama vedette turche, ma non sa che invece furono costruite proprio per difendersi dai Saraceni.

Era stato l’imperatore Carlo V a dare disposizioni al Vicerè di Sicilia Giovanni Vega, per fortificare l’isola nei punti strategici e per difendere la popolazione dall’incubo degli sbarchi musulmani.

 

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Come funzionava la torre? Le sentinelle delle garitte in pietra lavica che si ammirano ancor oggi, una sul lungomare vicino al porto di Ognina e l’altra sulle lave di Piazza Europa, (le chiamano garitte arabe, ma arabe non lo sono mai state perché furono costruite per difendersi proprio da loro), quando avvistavano i galeoni musulmani che si avvicinavano alla costa , attraverso una torcia accesa davano il segnale ai soldati di guardia nella Torre i quali, a loro volta, lanciavano l’allarme al popolo suonando una campana.

Il suono della campana veniva avvertito anche al campanile-fortezza del Duomo di Catania. Quindi, da tutti i quartieri della città  era un accorrere di gente per apprestare la più tenace difesa alla loro terra.

 

Al di là della ciclopica fortificazione, un tratto di lastricato lavico d'epoca imprecisabile, inciso da profondi solchi longitudinali, indicava un antichissimo sito sparso alla foce dell'Amenano. Lo Spirito di questo torrentello era onoratissimo dagli Etnei, che a sentir Claudiano lo ritenevano uno dei geni al seguito di Persefone nell'ascesa dall'Avemo. La spiegazione sta nei suoi eccessi di magra, in taluni periodi prolungati, per poi irrompere con furia improvvisa straripando nei terreni all'intorno e fertilizzandoli dei detriti trascinati per oltre 60 miglia di misterioso tragitto, fluttuando sotterra senza potersene localizzare né il corso né la sorgente. Un circuito sacro bagnato dalle acque benefattrici prossime alla foce, può immaginarsi collegato fin d'allora strettamente con la vita religiosa e sociale della tribù, che in esso purificava l'impurità fisica con bagni e riti lustrali. Recinto divenuto in epoca imperiale romana un vastissimo complesso termale, impropriamente nominato Terme Achilliane, sopra il quale poggia in parte l'ecclesia munita di Ansgerio.

 

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Piazza Europa (foto Mimmo Rapisarda)

 

Sullo sbocco settentrionale, in quella che fu poi la darsena aragonese, è stata riesumata a circa otto metri sul livello del mare un'armatura foranea attraversante l'impianto lavico del 252-53 che lascia presumere l'esistenza di un porto-canale naturale scavato nel basalto, simile a quello dell'antica Trotilon, presso Brucoli, inciso a parete verticale nelle vive rocce ove sfocia il torrente Polcheria: l'antico Pantakias, ch'era di portata molto maggiore rispetto a quella dei nostri giorni. Con l'ingegnoso procedimento del portocanale dell'Amenano, realizzato nel punto più impetuoso di massima traversia, si creava un setto che, come è stato osservato dall'ingegnere D'Arrigo, rifletteva le onde incidenti senza farle frangere e respingeva al largo le alghe e le torbide sedimentarie fluitate dai flutti. Funzionava altresì da impluvio durante le piene piovane che d'inverno scorrevano impetuose dalle chine etnee, defluendo le acque alte nell'estuario.

 

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Nel portocanale, che doveva svilupparsi con andamento meandriforme ed appunto per ciò chiamato dal popolo la «petra pirduta», trovavano rifugio le imbarcazioni durante l'infuriare del mare in traversia sciroccale. Ancora nel medio evo la struttura sopravviveva in buona parte e per la sua configurazìone ebbe nome di canalotto. Sembra avesse l'entrata a orìente lungo la Costa del Salvatore, in corrispondenza del Porto Puntone, nei pressi della piazza dei Martiri, percorreva le attuali vie S. Tommaso e Anzalone giungendo al piano degli Amalfitani, il quale si specchiava nella darsena aragonese col Porto Saraceno, oggi colmati artificialmente. In epoca primitiva si può ragionevolmente ipotizzare che il canale proseguisse verso occidente, dove al Chianu riceveva le acque dell'Amenano; curvava per via Pardo; toccava l'Indirizzo e sboccava in mare. La stretta lingua di terra isolata che il portocanale formava fu dagli Arabi chiamata z'iz'eri (giseri), ossia budello, ricordata tuttora dalla toponomia cittadina. Al tempo di re Alfonso lungo il lato settentrionale del canalotto si affacciavano le terrazze di numerose ville baronali che godevano il privilegio dello sbocco a mare, prova ne sono le tribune delle case Bonajuto e Platamone.

(LuccIo Cammarata)

 

 

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Dal XIII al IX sec. a C. in Grecia si ebbe un boom demografico e le condizioni di vita divennero difficili. Le stesse Polis facilitavano l'emigrazione fornendo imbarcazioni e vettovaglie. Il viaggio era di sola andata, il rientro era vietato. Gli emigranti erano tutti maschi, solo il capo, che di solito era un aristocratico, poteva portare la propria donna. Le donne, con metodi spesso violenti le trovavano in Sicilia. Nell'arco di poche generazioni si è realizzato un meticciato greco-siculo intraprendente e culturalmente vivace. I Greci chiamavano questi lontani concittadini Sicelioti. I rapporti tra Sicelioti e Siciliani non furono affato semplici La prima colonia fu Naxos (l'odierna Giardini) nell VIII sec. in seguito sorsero altre 20 colonie che a loro volta fondarono sub colonie.

I Greci si stabilirono in una fertile fascia costiera che non superava i 50 Km di profondità. A differenza dei Romani, degli Arabi e dei Normanni che si distribuirono su tutta l'Isola, si fermarono per quasi cinque secoli in questa fascia lasciando l'interno alle popolazioni indi gene. Nel 600 a. C. le coste della Sicilia orientale risultano punteggiate da città-stato greche, spesso in guerra non solo fra di loro ma anche con la madrepatria di queste lotte i Siciliani subivano le atroci conseguenze.

La Sicilia continuò ad attirare Greci dalla madre patria. Plutarco ci informa che Timoleonte facilitò l'immigrazione in Sicilia di 60.000 uomini in parte provenienti dalla penisola italiana ed in maggioranza dal vecchio mondo greco e dal mediterranco orientale.

La Sicilia nel 400 a.C secondo le osservazioni di Karl Julius Beloch («Sulla popolazione della Sicilia antica. Riv di filologia e d'istruzione classica 1873-74), raggiungeva un milione e mezzo di abitanti, di cui il 10% di estrazione greca. Se si pensa che le città di origine greca, confinate in una fascia costiera, erano le più popolate, Siracusa aveva 250.000 abitanti, non è azzardato ipotizzare che i sicelioti superassero di gran lunga il 10% della popolazione siciliana. La Sicilia rimarrà greca anche sotto la devastante dominazione romana. Guy de Maupassant nel suo Viaggio in Sicilia (Vittoretti, Palermo 1998) ebbe a scrivere "Tanti poeti hanno cantato la Grecia, si che ciascuno di noi ne porta in sé l'immagine, ciascuno crede di conoscerla un pò, ciascuno la vede in sogno quale la desidera. Per me la Sicilia ha realizzato questo sogno, mi ha rivelato la Grecia".

I primi coloni Greci, come tutti gli emigranti, avevano avuto per compagna la povertà e una cucina semplice e povera In Sicilia trovarono un popolo, non di guerrieri, ma di ottimi agricoltori, allevatori, pescatori, artigiani, gentili, dediti a scambi commerciali e una cucina evoluta.

 

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I Siciliani fin dalla preistoria "apparecchiavano la tavola" come dimostrano i reperti archeologıcı di arredi da tavola e di cucina. La parsimoniosa cucina greca si sviluppò rapidamente nelle colonie della fertile Sicilia.

I Greci trovarono il fico. Il frutto insieme al pane d'orzo e al formaggio caprino costituivano il pasto del popolo greco. Anche gli aristocratici ne erano ghiotti e per legge ne proibirono l'esportazione. Vi era un fiorente mercato nero, spesso denunciato dai sicofanti. Per i greci e i siciliani, in seguito lo sarà per i Romani, il fico era un frutto sacro. Paolo Orsi trovò nella necropoli del Fusco, risalente al IV sec a.C., alcuni fichi in terra cotta imitanti il vero in modo sorprendente». Si tratta di offerte rituali a Demetra che aveva regalato il fico all'umanità ed era venerata come portatrice di frutti (malophoros).

Alla periferia di Siracusa vi era una località denominata Suke (fica) dove venivano coltivati i fichi sacri a Demetra. I fichi erano considerati afrodisiaci, gli ateniesi e i siracusanı chiamavano i genitali femminili sycon (fica), termine ancora in uso in Sicilia.

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Fonte: SPIGOLATURE STORICHE SULLA CUCINA DI SICILIA – Gino Schilirò – Aracne editrice 2019 - © tutti i diritti riservati - esclusiva concessione del Prof. Schilirò per  il sito web mimmorapisarda.it

 

 

 

 

 

 

 

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La cucina catanese. Nonostante si possa affermare che quella siciliana è una cultura gastronomica iscritta nella tradizione mediterranea, è anche ricca di prodotti, spezie e profumi che testimoniano le tante dominazioni della Sicilia.

Non e' possibile parlare di cucina siciliana come di un'unica entità: le diversità originate dalle numerose influenze culturali si sono incrociate con quelle determinate dalla differenza tra cucina della costa e dell'interno. La cucina della regione che circonda l'Etna, e più specificamente quella di Catania è una delle più ricche e gustose della Sicilia.

Il pesce, vista la posizione geografica della regione, è un' ingrediente base di molti piatti. Famosissima è l'insalata di mare con polpi, gamberi e occhi di bue (molluschi tipici di questo mare) bolliti; altrettanto diffusi sono i masculini marinati (alici del mare Ionio marinate in olio e limone), le acciughe salate, gli occhi di bue crudi conditi con limone o arrostiti sul carbone, la pepata di cozze soffritte, con pepe abbondante, limone e prezzemolo tritato, u mauru, un'alga cruda condita con limone.

Tra i primi piatti un posto preminente lo occupa la popolarissima pasta alla Norma con salsa di pomodoro, melanzane fritte, basilico e abbondante ricotta salata grattugiata.

 Altre pietanze di spicco sono la pasta con il nero delle seppie, con l'estratto di pomodoro, seppie e il nero di questi gustosi molluschi;  la pasta con i masculini (alici fresche in un soffritto di cipolla, piselli e finocchietto rizzu); la pasta 'ncaciata, condita con cavolfiori cucinati in un soffritto di cipolla e insaporiti con acciughe salate, olive e, come vuole la tradizione, passata in un teghttps://www.mimmorapisarda.it/2024/ULISSE117.JPGame a fuoco vivace con abbondante caciocavallo grattugiato; la pasta con le uova di ricci, le linguine al cartoccio o all'acqua di mare (con pesce e molluschi), la pasta con il muccu (pesciolini neonati), u maccu (fave bollite e setacciate).

Anche tra i secondi il pesce è in primo piano. Molto diffusi sono la frittura di pesce, che viene preparata con i pesci tipici della costa come triglie, aguglie, pettini, masculini e opi di ognina, il pesce arrostito sulla carbonella (orate, saraghi, dentici, luvari, àiole ecc.), sparacanaci (triglie neonate fritte, mangiate assieme alla cipolla calabrese), u muccu (frittata di neonate), le sarde a beccafico.

Non mancano certo i dolci, molto influenzati dal gusto orientale e arabo. Primeggiano i cannoli di ricotta, la cassata siciliana, la frutta martorana o pasta reale, le crispelle di riso, le paste di mandorla, le olivette di Sant'Agata.

Una terra generosa e ricca di minerali regala prodotti davvero unici. La coltivazione della vite rappresenta una delle attività più conosciute di questi posti. Molto apprezzati sono i vini rossi doc dell'Etna.

 

 

 

Porto Ulisse non esiste sulle carte geografiche: è un villaggio di pescatori che sorge sulla riva di Ognina alla periferia di Catania.

Qui, secondo le leggende locali, approdò Ulisse per cercare riparo, anche se questa storia non trova conferma esplicita nelle scritture di Omero. La cronaca di una giornata a Porto Ulisse è contrassegnata dall'assoluta immobilità: uno dei pochi segni di vita del paese è l'approdo di una barca, che può generare, addirittura, felicità e commozione. Quando il pericolo di una tempesta incombe, l'attesa nel paese è smorzata dalla pesca con lo "specchio", che richiede grande pazienza e concentrazione.

L’attesa - del sole, della pioggia, del vento, di barche che tornano o che si perdono per il mare - è la vera "disperazione" di Porto Ulisse. Alle pendici dell'Etna i treni che passano offrono i piaceri di beate evasioni nel sogno: gli abitanti del villaggio stanno sul molo, circondati dal mare, nel loro isolamento, con il fumo del treno che passa sullo sfondo, lontano e irraggiungibile per uomini legati così indissolubilmente al mare.

Tra gli splendidi paesaggi gli scogli neri creati dalla lava dell'Etna risaltano particolarmente: questo è lo scenario ideale per le passioni degli abitanti, per le lotte col tridente che, nei secoli passati, avevano spesso esiti drammatici; ma sono la cornice adatta anche alle storie d'amore.

Ai margini, Aci Castello ed Acitrezza addolciscono la "riviera dei ciclopi" con le loro spiagge di sassi. Le immagini finali della tempesta che si abbatte sulle coste del piccolo borgo marittimo ci riportano, invece, verso una condizione di instabilità, nella quale il paesaggio assume toni quasi tragici, con le onde che si infrangono ossessivamente sugli scogli neri.

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dal Documento Film “Porto Ulisse” – regia e commento di Enzo Nasso del 1954 – Cineteca di Bologna

https://www.youtube.com/watch?v=CrDpTfrGluc

 

 

 

Citato da Cicerone, Plinio e Tolomeo, è rinomato in quanto luogo leggendario in cui approdò l'eroe omerico durante il suo errare per il Mar Mediterraneo. Virgilio, nell’Eneide, ce lo descrive ampio, dal calmo specchio acqueo interno e dalla imboccatura ridossata dai venti di traversia: "Portus ab accessu ventorum immotus et ingens ipse".

Generato dalle lave del 425 a.C., si estendeva fino a San Giovanni Li Cuti con un fiordo così profondo da arrivare fino al quartiere Picanello di oggi. Il fiordo, che per numerosi studiosi sarebbe il vero Porto Ulisse, fu coperto in gran parte dall'Etna dall’eruzione del 1169 lasciandone solo l'ingresso, cioè la baia in basso soprannominata dai pescatori "A vanedda 'a rina" (il vicolo della rena) perchè dopo appena due cento metri gli scogli subacquei lasciano il posto alla sabbia.

Secondo gli storici, quello che portava il nome del Re di Itaca era un porto capace di accogliere anche una potente flotta come quella ateniese, giunta in Sicilia con 230 navi, dove trascorse l’inverno del 413 a.C. prima di salpare alla volta di Siracusa dove fu sconfitta dalla potente colonia della Magna Grecia alla foce del fiume Assinaro, per poi far ritorno in patria per sempre. 

La zona portuale veniva collegata alla città tramite la Via per l'Ognina, ancora esistente e detta Via Vecchia Ognina, che arriva ancora oggi fino alla zona Fera o luni (piazza Bovio) e poi a porta Aci. E' l'unica strada catanese a non essere retta ma obliqua e dal suo percorso si capisce la linea di confine tra la zona urbana e quella portuale di quel tempo.

Al tempo dell'eruzione del 1169 Catania viveva sotto la dominazione Normanna del giovane Re Guglielmo II. Fu un anno infausto; mentre il 4 febbraio si celebrava Sant’Agata, un terremoto del VIII grado distrusse la nuova Cattedrale e tutte le case di Catania, causando 15.000 morti. In concomitanza (qui non ci facciamo mancare niente), dalla Fossa dei cavòli dove adesso c'è l'ASP Gravina in Via Monti Arsi, partì un’immensa eruzione che si spinse a Sant’Agata Li Battiati, Leucatia e quindi scese a Catania lungo l’attuale circonvallazione, distruggendo le terre circostanti e dando vita alle cosiddette Lave del Rotolo.

Mentre un'immensa striscia di fuoco continuava a nord, costruendo la zona del Carabiniere e di Cannizzaro e arrivando addirittura ad Aci Castello unendo il maniero alla terraferma, nel frattempo ad Ognina il magma coprì anche l'antichissimo fiume Longane. Infatti, la denominazione della odierna via Acque Casse deriva da Acquae cassae (che significa acque coperte) testimoniando la presenza del pozzo che si è venuto a creare a seguito delle colate laviche che coprirono il fiume. Nell’immane catastrofe, per fedeltà al Liotru, l'Etna risparmiò quell'amata baia di sabbia tanto amata dai catanesi (a secunna Rina, appena 150 metri) sotto piazza Mancini Battaglia, quasi una grazia del vulcano essendo questo uno dei pochissimi arenili risparmiati dalla violenza del Mongibello.

La distruzione dell'ambiente fu tale che nel "De Rebus Siculis" Tommaso Fazello scriveva "non vedendosi più alcuna traccia esterna ci fu chi credette che la tanto celebrata esistenza di questi siti incantevoli fosse stata solo una creazione poetica, irreale, leggendaria". Scompariva così il «magniflico porto» citato dal geografo arabo al-Edrisi nel Nuzhat almushtàq.

L'altra eruzione dell'Etna del 1381 è stata da sempre definita la causa della fine del Porto Ulisse e chiamata del Crocifisso, e  in base alla scarna fonte di Simone da Lentini nel suo Chronicon (nel quale non c’è riferimento ad una colata che abbia raggiunto la costa nei pressi di Catania) raggiunse Ognina dando il colpo di grazia al porto fino alla punta del Cavadazzu ma soprattutto al fiordo di Li Cuti coprendolo con una colata da Nord. In realtà questa colata non è stata ancora identificata, è stata addirittura retrodatata perché sepolta da altre colate successive e il percorso indicato collimerebbe con quello datato1169. Quindi, o si tratta della stessa colata oppure una sovrapposizione sulla precedente. Ancora oggi si cerca di fare chiarezza sulla effettiva datazione con indagini geologiche al radiocarbonio.

Ecco oggi quel che rimane di quel mitico porto, o dei due porti secondo alcune supposizioni (uno per il commercio e l'altro per il riparo delle navi a Li Cuti).

Oggi ci passeggiamo sopra con un cono gelato in mano o per prendere l'aperitivo, ci facciamo jogging, ma immaginate la scena apocalittica durante la costruzione del lungomare da parte di madre Natura, con fronti lavici pieni di fuoco e alti trenta metri che si gettavano a mare. Ricordiamoci sempre che con quel vulcano alle nostre spalle, le eruzioni avvenute tanti secoli fa, fuoriuscite dal vulcano in bassissime zone collinari, possono ripetersi anche adesso. E non c’è tecnologia che tenga per poterle arrestare.

Di seguito, vecchie relazioni, racconti, ipotesi e supposizioni ancora in essere o smontate da recenti studi paleotopografici. Insomma, come diciamo qui.... addivittitivi!

Mimmo Rapisarda

 

 

Portus Ulyssis.

Porto Ulisse ha conferito sempre a Lògnina una inconfondibile fisionomia di mito. Da antichissima data i nostri lidi sono rimasti legati alle vicende omeriche dell'Odissea e sono stati sempre additati come leggendari massi lanciati da Polifemo accecato, contro il fuggente Ulisse, i Faraglioni di Acitrezza.

A dimostrare che Lògnina è stata sempre indicata come Porto di Ulisse, possiamo addurre l'autorevolissima conferma di Plinio il Vecchio ( 23-79 a.C.) che, nella sua qualità di ammiraglio della flotta romana, doveva certamente essere ben informato in materia di topografia marittima. L'esistenza di Porto Ulisse è provata da tutta la realtà storico-scientifica. Per assicurarsene, basterebbe leggere i "Brevi cenni sulla topografia dell'antico Porto Ulisse", scritti dal celebre vulcanologo Carlo Gemmellaro nel 1835, e l'importantissimo studio sul Porto di Catania greco-romana pubblicato nel 1914 dal Casagrandi.

Virgilio ce lo descrive ampio, dal calmo specchio acqueo interno e dalla imboccatura ridossata dai venti di traversia: "Portus ab accessu ventorum immotus et ingens ipse", iniziata intorno al 1139, fu ultimata nella prima decade del gennaio 1154, parlando di Catania, ammira in Lògnina, che egli in arabo chiama Al'ankinah il "bel porto".

Il più grande storico siciliano, Tommaso Fazello, elogiando la eccezionale ampiezza e la fama di Porto Ulisse, lo dice " ingentem Portum, cuius Homerus, Virgilius et Pli-nius nemirenunt".

Fu nel 263 a.C. che da Lògnina salpò alla volta della Capitale la nave che trasportava il primo orologio solare trovato a Carina da Valerio Messalla che, senza pensarci due volte, lo rapinò e lo fece collocare a Roma nel foro.

A Lògnina intanto, anche dopo l'eruzione del 1381 che seppellì Porto Ulisse, troviamo uno Scalo - come confermano gli "Atti dell'antico Senato Catanese".

La zona di Lògnina, sin dai tempi antichissimi, denominava di sé un importante fiume, detto precisamente Lòngane che rimase poi coperto dalle lave del 1381. Secondo le più attendibili prospezioni geofisiche, scaturiva presso la collina di Santa Sofìa a Cifali e, dopo aver dilagato per la campagne circostanti, piegava a est, raggiungendo Lògnina.

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- tratto da "C'era una volta Ognina" - Giuseppe Anfuso - Montorte Editore

 

Il Porto Ulisse.

Prima che l'eruzione del 135 a.C. e parecchie altre successive venissero a modificare notevolmente la fisionomia di Katina, un'ampia insenatura dello Ionio (partendo dall'attuale scogliera del Castello di Aci) tracciava un'arco costiero frastagliatissimo che snodandosi per alcuni chilometri, raggiungeva la linea di spiaggia detta sin d'allora Leucatea - Fasanum. La doppia qualifica è dovuta alla presenza sul posto di un tempio Leucateano, con relativo lucus (bosco sacro) e delle acque fasane, così chiamate - da fac sanum (1) perché allora stimate molto salutari. Secondo le informazioni del Solanus, la particolarità di configurazione del luogo era costituita da "una striscia di mare che si inoltrava per qualche tratto nel territorio a Nord-Est formando un canaletto dai bordi molto vicini e dalle acque profonde che i Latini chiamarono Canaliculus". A fianco di esso si ergeva a picco un faraglione di basalto che, dal vicino tempio Leucateano, era detto "scoglio di Leucade".

 

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 Da Canaliculus è chiara l'etimologia del toponimo Canalicchio. Paolo Orosio (sec. IV-V d. C.) che scrisse "Historiarum Adversus paganos libri VII" ci fa sapere che nell'eruzione del 135 a.C. il torrente incandescente scese dalla Licatia. La nostra città ne rimase invasa specialmente nella parte orientale e una paurosa pioggia di ceneri roventi cadde sui tetti facendoli crollare. I danni furono così gravi che il Senato romano condonò ai catanesi le decime per 10 anni. La linea di spiaggia Leucatea - Fasanum scomparve; il Canaliculus rimase sepolto sotto le coltri laviche divenute poi sempre più spesse nel fluire dei secoli per il sovrapporsi di nuove colate, tra le quali gravissime quella del 1381 d.C. che superato e ampliato il precedente tracciato, si estese sino a Lognina, coprendo il classico porto di Ulisse celebrato da Omero, Virgilio e Plinio.

Nello stesso anno 1381, identico percorso fu seguito da altro magma sgorgato addirittura dai vicinissimi "Colli Arsi" sotto Tremestieri (3). La distruzione dell'ambiente fu tale che in tempi posteriori il Fazello così scriveva "non vedendosi più alcuna traccia esterna ci fu chi credette che la tanto celebrata esistenza di questi siti incantevoli fosse stata solo una creazione poetica, irreale, leggendaria" (4).

Mario Strano

 

(1) Federico Cuprio "De Veterebus rebus" stamperia di Francesco Valenza, Palermo 1743 p. 25.

(2) Ettore Solanus, "Istorie sicule", toip. Bisagni, Catania 1682 p.14

(3) Domenico Andronico, "l'Etna" scuola Salesiana del libro Catania - Barriera, 1967, p.46.

(4) T. Fazzello, "De Rebus Siculis", Palermo 1558.

 

Con l'espandersi della Magna Grecia nel Mediterraneo, Atene cominciò a preoccuparsi relativamente al controllo del Mediterraneo ad opera degli esuli che cacciò via ma che stavano, a poco a poco, trasformandosi in un grande Stato. Il porto catanese, cosiddetto Ulisse, fu utilizzato da Atene come una grande base navale per raggiungere il suo, invano, scopo.

 

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TRIREMI, LA NAVE DA GUERRA GRECA.

La trireme era chiamata così perché dotata di tre ordini di remi a scalare, per favorire una rematura più efficace. Era una nave lunga e stretta che poteva imbarcare un’equipaggio di circa 200 uomini, di cui 170 erano rematori.

I marinai venivano reclutati tra i cittadini più poveri e percepivano uno stipendio.https://www.mimmorapisarda.it/2024/ULISSE109.JPG

La disposizione dei rematori su tre file, su entrambe le fiancate dello scafo, assicurava una velocità di 10-12 chilometri all’ora. I rematori della fila superiore erano quelli che faticavano di più perché manovravano i remi più lunghi, ma erano anche gli unici che vedevano il mare. Le file inferiori infatti erano all’interno dello scafo e remavano “alla cieca”.

La trireme greca era anche dotata di un’ampia vela quadrata, ma durante la battaglia si spostava unicamente a forza di remi.

Lo scafo era costruito con legno di pino e abete, e per questo molto manovrabile; era lungo 35-40 metri e largo solo 6-7. La parte anteriore era munita di un robusto rostro, che costituiva il punto di forza della nave greca. Si trattava di uno sperone di metallo appuntito che permetteva di affondare, mediante urto, le navi nemiche.

I due occhi dipinti ai lati avevano invece lo scopo di tenere lontana la malasorte.

Le triremi venivano allestite grazie al finanziamento dello Stato (polis). Il comando della nave era affidato al cittadino più ricco, che si assumeva l’onere di pagare l’equipaggiamento e la manutenzione dell’intera imbarcazione.

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I CAPRICCI DELL'ETNA

Virgilio (111, 643‑44) con puntigliosa precisione ci riferisce che gli orribili Ciclopi vivevano in caverne sparse per le curve coste ed erravano sugli alti monti. E realmente, per opportunità geologica gli Etnicoli di Castelluécio abitavano per lo più le lunghe grotte di scorrimento lavico, poste in prossimità di vene d'acqua e feracità di terreno; in luoghi terrazzati ed ertissimi, di facile difendibilità contro attacchi venienti dal mare. La genesi di queste grotte tubolari è assai controversa, pare probabile possano essere dovute al correre del magma fluido sul terreno in pendenza anche dopo il cessare dell'alimentazione, quando in superfice la lava si consolida e fa la crosta, mentre all'interno la pressione idrostatica ne accellera il deflusso svuotando il ramo lavico e causando le estese cavità. Abbondanti indizi d'abitazioni trogloditiche si hanno in tutto l'arco alpestre del suburbio cittadino dal colle di Santa Sofia a Nizeti. Notevoli le caverne scoperte lungo la grande scarpata di basalti pliocenici del Monte d'Oro, nella strada che da S. Gregorio porta verso il mare in prossimità della fonte di Casalrosato, località in cui continuano gli ingrottamenti abitativi. Più a ponente, nella vicina Barriera del Bosco, si trovarono parecchie altre gallerie visitate e descritte dall'Orsi, che ne disegnò accuratamente la topografia e oggi quasi tutte scomparse in conseguenza della costruzione di nuovi edifici.

L'archeologo esplorò sette tunnel di scorrimento, ognuno lungo da venti a sessanta metri circa, tutti comunicanti e con unica grande apertura. Numerosi erano pure gli antri che si aprivano a S. Giovanni Galermo, dove nell'isola di lave plioceniche a levante dell'abitato sopravvive presso la Matrice la celebre caverna di San Giovanni, menzionata da Pietro Carrera, in cui un tempo scorreva all'interno un rigagnolo torrentizio. In direzione del Fasano sono a rutta du Marranu e quella della regina Bianca. In basso a levante verso il mare, considerevoli insediamenti si avevano a Santa Sofia presso la sorgiva di Cifali; al Borgo; a Monserrato; alla Calvana e al Canalicchio. L'ultima importante scoperta fatta nel 1945 occasionalmente è la grotta di Novalucello 1, situata nella dàgala di lave del 122 a.C., presso il cortile del nuovo Seminario arcivescovile in via V. E. Dabormida. La galleria ha uno sviluppo complessivo di poco più di 200 metri e presenta diverse ramificazioni di minore lunghezza. All'interno, fra concrezioni stalattitiche, infiltrazioni d'acqua ed erosioni meteoriche, si avverte mancanza d'aria e temperatura ed umidità costante nel tempo, che favoriscono il formarsi d'una nebbiolina irrespirabile che avvolge i tunnel.  

 

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L'estratto dalla rivista Incontri.

La coltre lavica, che ha generato l’attuale configurazione del golfo, risale alla colata di Monti Arsi di S. Maria (a. 1160 ± 20) che ricoprì in parte quella preistorica di Ognina. Il magma si versò in mare fra la piazza e la chiesa abbaziale. La lava restrinse il porticciolo confinandolo fra questa colata e quella preistorica che chiude da levante l’insenatura del golfo.

Nonostante la colata avesse ridotto l’ampiezza della insenatura, questa non avrebbe avuto comunque la capienza per essere identificata con il celebre “porto Ulisse”, legato all’epopea omerica e ricordato da diverse fonti storiche. Un porto capace di accogliere una flotta potente come quella ateniese, giunta in Sicilia per interrompere l’egemonia di Siracusa nel Mediterraneo occidentale. In quel sicuro approdo, 230 triremi trascorsero l’inverno del 415 a.C., prima di salpare, la primavera successiva, alla volta di Siracusa dove gli Ateniesi diedero addio ai loro sogni egemonici sulle colonie greche siciliane, in seguito alla disfatta subita alla foce del fiume Assinaro.

Di questo porto sarebbe rimasta una modesta traccia nel golfo compreso fra piazza Europa e S. Giovanni li Cuti. Posto all’interno di una profonda insenatura, generata da lave di epoca preistorica, l’ampio e profondo bacino sarebbe stato colmato dalle lave di Monti Arsi di S. Maria che, nel 1160, si riversarono in mare colmando quasi del tutto la presunta rada.

(Elio Miccichè)

 

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L'antico porto di Catania fu sepolto dalle colate laviche medievali?

L'antica città di Katane (l'odierna Catania) fu fondata nell'VIII secolo aC da colonie calcidesi, in basso versante meridionale dell'Etna, sui voli fluviali del Pleistocene terrazzi ai margini della piana del fiume Simeto

Catania ha una storia lunga e complessa; tuttavia, noi riportiamo qui solo testimonianze riferite al porto.

Fonti storiche (Tucidide, VI, 3, 3) documentano che l'Armata navale calcidica, sotto il comando di Euarchos, sbarcò nel territorio catanese nell'VIII secolo a.C. Nel periodo classico (415 a.C.), l'armata ateniese guidata da Alcibiade si fermò nel porto di Catania e occupò la città. Tucidide (VI, 71) lo menziona a metà della quinta

secolo aC, il porto di Catania ospitò l'armata navale ateniese per il periodo invernale. Inoltre, Diodoro Siculo, greco storico del I secolo a.C., riferisce che nel 396 a.C. Himilco arrivò a Catania e riparò le navi lungo il costa, mentre nel 278 a.C. Pirro sbarcò con l'intero armata navale.

Nonostante la sua natura prevalentemente militare, Catania aveva tutto le caratteristiche di una colonia greca dal punto di vista commerciale ed economico centro, soprattutto per quanto riguarda le attività marittime. Nel itinerarium maritimum (rotta marittima; Miller 1887), il porto di Catania è menzionato come scalo per le navi mercantili proveniente dalla Grecia. È quindi probabile che il commercio fosse uno dei i pilastri più importanti dell’economia catanese. La sua posizione sulla sponda ionica era strategica anche per il trasporto delle merci.

Tra le città siciliane, Catania fu governata dalla Repubblica Romana nel 263 aC e divenne colonia augustea

nel 21 a.C. Strabone (V, 3, 19) cita Catania come una delle più importanti città costiere della Sicilia. Gaio Plinio Secondo (III, 89) riportati sui siti costieri della Sicilia orientale, tra cui Scopuli tres Cyclopum, portus Ulixis.

In particolare, abbiamo preso in considerazione le colate laviche avvenute nel tempo storico e i dati geomorfologici disponibili.

Inoltre, indagini storiche e archeologiche, insieme con informazioni cartografiche, sono stati raccolti per ritrovare descrizioni o indicazioni di porti o approdi a Catania a partire dall’epoca greco-romana (V sec a.C.-II secolo d.C.).

Catania si trova lungo la costa ionica della Sicilia, sulla pedemontana di un sistema di faglie oblique del tardo Quaternario che si estende tra le Isole Eolie e l’offshore siciliano orientale (Bousquet e Lanzafame 2004; De Guidi et al. 2013 e riferimento in esso). La città moderna è costruita principalmente su risorse antropiche depositi e prodotti vulcanici dell'Etna. Si è formato uno stratovulcano basaltico composito alto 3.330 mt. Il vulcano si trova nella parte anteriore della Sicilia. Successioni argillose dell'avanfossa, deformate da pieghe di distacco legato alla recente migrazione frontale della cintura di spinta, come a risposta alla regione compressiva approssimativamente N – S.

Il terremoto del 1169 colpì tutta la Sicilia Orientale provocando gravi danni. Numerosi fenomeni sismo-indotti,

quali liquefazioni, frane e fratture del terreno, sono stati osservati in una vasta area dalla costa ionica al Sicilia interna. Uno tsunami ha colpito Messina e il Simeto Fiume nei pressi della città di Catania, completamente rovinato (Guidoboni et al. 2007). Le fonti storiche riportano brevemente che nessuna casa era rimasta in piedi dopo l'evento sismico e morirono circa 15.000 persone (Azzaro et al. 1999).

Il terremoto ha prodotto ingenti danni a Catania: chiese e i monasteri furono gravemente danneggiati; molti edifici crollarono e altri dovevano essere rafforzati. Un intero quarto nella parte occidentale della città fu completamente rovinata, ma solo sei furono uccise persone (Cronaca Siciliana XVI secolo).

 

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Tutto il contemporaneo. Le fonti riferiscono che dopo i terremoti l'abitato assunse un aspetto come un ammasso di rovine, con pochi edifici ancora in piedi. Il il bilancio delle vittime fu enorme: da 11.000 a circa 23-27.000 abitanti (Azzaro et al. 1999).

Per ricostruire la paleotopografia del catanese costa, le colate laviche storiche raggiungono e modificano bisogna tenere conto dell'antico litorale. La costiera la morfologia riflette un'evoluzione geologica complessa così com'è caratterizzato da scogliere basaltiche irregolari nella parte nord-orientale settore, dove alcune lave sfociavano in mare, ed un settore lineare spiaggia sabbiosa a sud, dove si trova la pianura alluvionale catanese si estende. I cambiamenti apportati dalla sovrapposizione di colate di lava, insieme alla serie di disastri che colpirono la città a seguito di numerosi terremoti distruttivi e inondazioni e le successive ricostruzioni, portano ad una dura distinzione dei le varie colate laviche, soprattutto ora che la città si è espansa a nord-est. Diversi autori a partire da Waltershausen (1848–1861) e Sciuto Patti (1873) fino a Romano et al. (1979) a Monaco et al. (2000) e Branca et al. (2011a) hanno redatto carte geologiche dell'Etna e dei suoi dintorni. Numerose colate laviche di origine greca.

Il Medioevo ha epoche incerte e, recentemente, alcune eruzioni sono stati ridatate utilizzando l'archeomagnetismo e date le incertezze che riguardano queste misurazioni, crediamo che la datazione debba essere attentamente utilizzati insieme ad altre informazioni, come quelle stratigrafiche dati e rapporti storici. Pertanto, in questo lavoro, noi abbiamo utilizzato informazioni storiche, dati geologici e assoluti per ottenere una visione complessiva della storia eruttiva del basso versante orientale del vulcano nel Medioevo.

Nel settore meridionale colpisce la strada nord-sud lunga 20 km. La spiaggia della Plaia è il risultato della deposizione costiero-alluvionale dell'eruzione del 1169.

 

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Un'eruzione potrebbe essersi verificata nel 1169 prima del forte terremoto che distrusse Catania. Anche se questo è discusso da diversi autori (ad esempio Tanguy et al. 2007; Branca et al. 2011b), fonti storiche contemporanee a quell’evento sismico non menzionano alcuna eruzione ma si riferiscono solo agli effetti indotti dal sisma, come l’ipotizzata frana sul versante NE dell'Etna (Falcandus, XII secolo; cfr Guidoboni et al. 2014). L'interpretazione fuorviante del resoconto storico probabilmente ha portato alcuni storici a supporre che un l'eruzione avvenne nel 1169 (Fazelli 1558; Carrera 1639).

L'eruzione del 1224 o 1225. Una seconda eruzione è segnalata in due fonti attendibili della tredicesima secolo: la Continuatio Funiacensis (XIII secolo, in Waitz 1872), una cronaca monastica scritta in latino, e La composizione del mondo con le sue cascioni (1282, in Narducci, 1859), trattato scritto da Restoro d'Arezzo in italiano volgare. I resoconti non datavano l'eruzione, ma i retroscena storici portano a pensare che sia avvenuto nel

1224 o nel 1225 (Guidoboni e Ciuccarelli 2008; Guidoboni et al. 2014), quando si aprirono numerosi crateri sul versante orientale fianco dell'Etna e la lava fuoriuscì in diverse direzioni.

Tre colate laviche distrussero un vasto territorio e bruciarono bosco per una lunghezza totale di 4,5 km (secondo la Continuatio Funiacensis) o 7,5 km (secondo Restoro d'Arezzo 1282). Le colate laviche erano larghe circa 1,5 km e raggiunse il mare dove danneggiò un numero imprecisato di vasi. Le navi potrebbero essere state distrutte dalla lava, anche se la lenta colata lavica verso il mare avrebbe ceduto tempo di allontanare i vasi, o dall'elevata temperatura del acqua di mare che ha sciolto l'impermeabilizzazione della pece.

 

 

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 Il terremoto di Catania del 1169 è uno degli eventi più antichi per il quale sia possibile una (pur se parziale) ricostruzione storica degli effetti. L'area maggiormente interessata è quella della Sicilia orientale e della Calabria meridionale, dove sono stati registrati rilevanti danni. Le notizie disponibili sono spesso incerte e confuse, non solo circa i danni prodotti e l'esatta estensione dell'area colpita, ma finanche sull'ora esatta in cui si è verificata la scossa principale. Sembra verosimile che la scossa più violenta sia avvenuta poco dopo il tramonto, come testimonierebbe il fatto che un gran numero di persone rimaste uccise si trovava all'interno della cattedrale di Catania. Il numero complessivo di morti nella sola città di Catania oscilla tra 15.000 e 20.000.

I villaggi più importanti e le città della Val di Noto, Piana di Catania e Val Demone sono stati tutti seriamente danneggiati. Catania, Lentini e Modica, quest'ultima nel ragusano, sono state totalmente distrutte. Rilevanti danni sono stati prodotti a castelli e villaggi posti tra Catania e Piazza Armerina. La città di Messina è stata raggiunta da un maremoto, prodotto all'evento sismico, e l'onda di marea ha inoltre risalito per 6 km il corso del fiume Simeto distruggendo totalmente il villaggio di Casal Simeto, che non venne mai più ricostruito.

L'intensità massima stimata è circa dell'XI grado della scala MCS, e risulta confrontabile con quella del terremoto avvenuto nella stessa area nel 1693. L'epicentro, così come nel terremoto del 1693, è posto verosimilmente in mare, lungo la costa tra Catania e Siracusa; il fatto è indirettamente confermato dai maremoti registrati in ambedue i casi.

 Il terremoto del 4 febbraio 1169, che distrusse Catania e provocò migliaia di morti, causò il crollo delle volte di Sant’Agata la Nuova sotto le quali perirono il vescovo Giovanni Aiello e la maggior parte dei monaci e dei fedeli presenti in chiesa per la festa di Sant’Agata. Il prospetto principale della basilica, che in più parti subì varie lesioni, nel periodo svevo venne poi arricchito di un nuovo portale. Nella fase di ricostruzione, il vescovo Roberto (1170-1179) scelse di lasciare sul posto le macerie delle volte, che perciò provocarono un rialzamento del pavimento di circa 1 m. Per evitare il ripetersi della tragedia causata dal sisma, la nuova copertura fu realizzata con più leggere capriate di legno. Così, diminuendo il carico sulle colonne di sostegno, le quali inoltre furono rinforzate con pilastri murari, si pensò di assicurare alla fabbrica una maggiore stabilità. Dopo i restauri del terremoto, la basilica subì altri danni nel 1197, quando Enrico VI fece incendiare la città per punire il vescovo Ruggero e i catanesi, che avevano partecipato alla rivolta contro di lui.

http://www.iccd.beniculturali.it/medioevosiciliano/brochure/scheda_15.pdf

 

Sebbene non ci siano documenti scritti che riportino l'esatto punto in cui la lava raggiungeva il mare, il riferimento al vasi bruciati suggeriscono chiaramente che la lava abbia raggiunto il mare vicino ad un porto o ad un ormeggio.

Il porto Saraceno. Il porto di Catania, chiamato Il porto saraceno potrebbe essere escluso perché la lava lo avrebbe raggiunto solo dopo aver causato gravi danni danni e distruzioni nell'area urbana; quindi, questa distruzione sarebbe ancora ricordato nei resoconti contemporanei. A quel tempo, infatti, il porto saraceno era di discrete dimensioni ormeggio per dimensioni ed importanza, situato a il molo naturale dalle mura esterne di fortificazione al Cittadella vescovile (la cosiddetta Civita), nell'area oggi occupata da Via Porticello e Piazza Borsellino. L'eruzione del 1224 durò 15 giorni. La Continuazione Fucensis paragona probabilmente questa eruzione a falangi armate riferendosi alle nuvole di cenere, o al fumo denso causato dal incendio di boschi invasi da colate laviche o da altre colate vulcaniche materiali.

Al-Idrisi (1100–1165, 1880) descrive la città di Catania senza specificare l’ubicazione del porto: ‘Bello questa Catania, conosciuta come la città dell'Elefante famoso. Si trova sul mare e ha dei mercatini, magnifici palazzi, moschee, chiese, terme, hotel e un bellissimo porto. I viaggiatori vengono a Catania da tutte le parti; esporta tutto tipi di merci. Catania ha molti giardini e vasti terreni agricoli. Attinge l'acqua dai fiumi vicini ed è dotata di abbondanti fontane.

Il suo fiume principale è l'Amenano, che da alcuni anni lo è così pieno d'acqua che funzionano i mulini, negli altri anni è così secco che non c’è nemmeno una goccia d’acqua da bere’. Probabilmente corrispondeva solo a un approdo non eccezionale all'area oggi occupata da Villa Pacini. Le fonti menzionavano il porto di Catania come punto di carico per il grano.

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Sciuto Patti (1896) individua il porto in un'insenatura presso il foce dell'Amenano e ne associa la presenza ad alcuni resti di un muro in opus incertum (di forma irregolare e pietre grezze in malta) rinvenute in via Zappalà–Gemelli. Vicino a questo sito, vicino alla chiesa di Santa Maria dell’Indirizzo sono stati portati altri resti di mura luce, probabilmente parte di una grande cinta muraria cittadina. Una tale costruzione alla foce dell'Amenano può appartenere al porto di Catania in epoca storica.

In accordo con gli autori precedenti, Arcifa (2001) ed Castagnino Berlinghieri e Monaco (2010) hanno sostenuto che il il porto di Catania era situato alla foce dell'Amenano Fiume nell'area oggi occupata da Villa Pacini e Piazza Duomo. Una pietra recante un'iscrizione, di datazione tarda periodo imperiale e registrando il restauro di un porto danneggiato da una violenta tempesta costiera, è stato ritrovato in questo zona (Manganaro 1959). Inoltre, sono stati scoperti gli antichi resti in Via Zappalà-Gemelli sono stati interpretati come costruzioni puntellare le sponde dell'Amenano ed avere stata attribuita al porto saraceno (Castagnino Berlinghieri e Monaco 2010). Tuttavia, queste strutture sembrano troppo lontani dal suddetto porto.

Di conseguenza il porto Saraceno venne ampliato e rinforzato, sebbene Catania non disponga da molto tempo di una vera cassaforte porto, ma uno sbarco in cui le navi erano “in pericolo”.

La terza eruzione avvenne probabilmente il 6 agosto 1381. Questa eruzione è rievocata in un seguito anonimo di cronaca di Simone da Lentini (Guidoboni et al. 2014). Alcuni suggeriscono che il porto fosse situato alla foce dell’Amenano (oggi ricoperta dalla colata lavica del 1669) nel Porto Saraceno, mentre altri sostengono che l'antico il porto era situato nella bocca di Ognina e/o nel porto di S. Baia Giovanni Li Cuti.

Nel XIII secolo esisteva anche un piccolo porto a Ognina, che offriva un approdo nei pressi di Catania (Arcifa 2001). Ognina era collegata a Catania da una secondaria strada fin dal XII secolo, utilizzata per gli spostamenti locali, che è probabilmente l'attuale via denominata Via Vecchia Ognina.

La baia di Ognina offriva ai piccoli un approdo alternativo al Porto Saraceno, che non aveva possibilità di espansione (Arcifa 2001, 2009). Quindi, è probabile che il piccolo porto di Ognina era più frequentata delle altre darsene situate a nord di Catania.

Amico-Statella (1740) identifica il porto di Catania nel porto di Ulisse menzionato da Gaio Plinio Secondo. Cavallari (1879) individua questo porto nell'approdo naturale nella frazione Ognina, ancora oggi in uso, anche se in gran parte ricoperta dalla lava nel 1381. Casagrandi (1914) suggerisce che il porto era situato tra i promontori di Gaito e Ognina, un'insenatura ricoperta dalla lava ancora visibile nel borgo di S.Giovanni Li Cuti. D’Arrigo (1947) identifica il porto in un'insenatura naturale tra Larmisi ed Ognina dalla presunta lava del 1381.

A differenza di altri studiosi, Massa (1709) lo riporta nella sua opera una descrizione molto interessante dell'antico porto di Ognina detta ‘Lognina di Catania’ o Portus Ongia, in base al resoconti di autori precedenti come Malaterra (XI secolo), Bembo (1495) e Carrera (1639). Lo afferma, era un noto porto sulla costa nord-orientale del posto, c'era un grande anello di ferro usato in epoca classica per ormeggiare le navi. Questo porto aveva due bocche, una situata a Ognina e quella situata a Gaito. Tra i due alle bocche del porto, c'era un'isola considerevole.

 

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L'analisi delle fonti letterarie e storico-iconografiche documentazione, unita a quella archeologica, geologica, dati sulle eruzioni e sui terremoti, getta nuova luce su una serie di questioni cruciali riguardanti la topografia antica del costa catanese. Ciò ha permesso di formulare una nuova ipotesi sull'evoluzione delle antiche aree militari e commerciali del sistema portuale di Catania. Il porto menzionato da diversi le fonti potrebbero essere localizzate a nord di Catania lungo la tratto di costa tra Gaito e Ognina, come riportato da Carrera (1639) e Massa (1709). Inoltre, probabilmente era collegato al sobborgo di S. Giovanni Li Cuti, dove alcuni sono state rinvenute cave (Castagnino Berlinghieri 1994). Come un approdo, lungo 2 miglia, era abbastanza largo da ospitare l’Armata navale ateniese alla metà del V secolo a.C. Il porto saraceno, invece, non ha la stessa capacità e pescaggio sufficiente per la nave greca come la trireme, che erano lunghe 36 m e larghe 5-6 m e con un pescaggio di circa 1,5 m (Höckmann 1988). Anche un il porto della città sarebbe stato troppo esposto non solo al venti ma anche ad eventuali invasioni.

Sciuto Patti (1873) individuò due colate laviche appartenenti alle lave del Rotolo e del Crocefisso, a nord-est di Catania tra il Promontorio di Gaito e il borgo di Ognina; li datò entrambi 1381. Queste due colate laviche sono considerate come una singola unità nelle moderne carte geologiche di Monaco et al. (2000) e Branca et al. (2011a).

In particolare la lava inferiore (Rotolo), che copre una superficie più ampia zona dal Promontorio del Gaito a Ognina (Sciuti Patti, 1873), potrebbe essere correlato alla colata lavica del 1224 che raggiunse il mare,

Inoltre sono stati scoperti alcuni pozzi sotto il Rotolo e Ognina scorre contemporaneamente la lava livello delle cave di S. Giovanni Li Cuti (Sciuto Patti 1873).

Ciò fa supporre che un tempo, prima che le due colate laviche si unissero a copertura dei pozzi e delle cave, vi era un'insenatura ad Ognina proteso verso S. Giovanni Li Cuti. Inoltre, l'antico porto aveva un deposito sabbioso, ancora osservabile nel Ognina e nelle baie di S. Giovanni li Cuti. Recentemente, a volte, una ricerca subacquea al largo di Ognina ha permesso di rilevare a burrone tra le due colate laviche canalizzando acqua dolce con densità diversa rispetto all'acqua di mare nel mare. Questo burrone potrebbe essere correlato al fiume Ecate descritto da Massa (1709), che confluiva nella parte più interna dell'insenatura ed oggi è ricoperto dalle colate laviche.

Vicino all'attuale porto di Ognina, esiste una zona denominata “Acque casse”, il cui nome deriva da Acquae cassae (che significa acqua coperta), con la presenza di sorgenti naturali formatesi sotto la copertura del lavica e coerente con le attuali sorgenti della Timpa Lecautia. Dopo le colate laviche del 1224 e del 1381 lo è

probabile che il porto di Ulisse si trovi tra Ognina e Gaito venne notevolmente ridotto, e reso non identificabile.

 

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Conclusioni

La questione circa l'esistenza di un antico porto a Catania è oggetto di dibattito tra studiosi antichi e moderni. Finora non sono state trovate informazioni decisive, anche se in letteratura sono state proposte numerose ipotesi. Fin dal V secolo aC gli storici documentano lo sbarco nel porto di Catania di numerose flotte navali. Tuttavia l'attuale morfologia della costa catanese non presenta alcuna insenatura protetta che potesse offrire riparo a centinaia di navi. Partendo dalle descrizioni storiografiche del porto catanese e delle diverse colate laviche avvenute a partire dal 2500 aC, si è cercato di dedurre la zona di approdo più probabile. A tale scopo sono state raccolte e analizzate fonti letterarie e documentazione storico-iconografica, abbinate a dati geologici e testimonianze archeologiche, al fine di verificare se i documenti storici fossero coerenti con la paleotopografia dell'area. L'analisi suggerisce che il porto principale di Catania era probabilmente situato a nord-est della città, tra l'insenatura di S. Giovanni Li Cuti e la baia di Ognina, prima di essere riempito da alcune colate laviche medievali (durante il 1100-1400 d.C.). L'apparente silenzio delle fonti storiche locali sulla distruzione del porto potrebbe essere messo in relazione con il terremoto del 1169 che devastò Catania (causando 15.000 vittime) e gran parte della Sicilia orientale. È quindi probabile che i pochi sopravvissuti prestarono poca attenzione alla colata lavica che invadeva il porto.
 

Fonte “L'antico porto di Catania (Sicilia, Italia meridionale) fu sepolto dalle colate laviche medievali?” Ottobre 2018 Scienze Archeologiche e Antropologiche

Autori:

Dott.ssa Carla Bottari, ricercatore dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia di Catania

Prof.ssa Maria Serafina Barbano, docente dell’Università di Catania

https://www.researchgate.net/publication/316362758_Was_the_ancient_harbour_of_Catania_Sicily_southern_Italy_buried_by_medieval_lava_flows

 

 

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IL VECCHIO FIUME LONGANE

Famosissimo fin dall'antichità, il porto di Odisseo fu per tanti secoli lo scalo ufficiale dell'antica Catania, fino a quando, nel 1381, non venne sepolto definitivamente da un fiume di lava scaturito da una fessura eruttiva, apertasi tra i comuni di Mascalcia, Tremestieri e Gravina.

L'immane colata lavica cancellò anche il borgo e lasciò una piccola insenatura che forma oggi il nostro delizioso golfo, tra villa Pàncari e la "Punta del Cavallazzo". Lo splendido seno di mare, la vetusta chiesa di S. Maria, la torre di guardia, le case dei pescatori, le stradine della borgata e la vecchia garitta costituivano le tessere di un prezioso mosaico chiamato Ognina che, profondamente trasformata negli ultimi anni, non ha potuto sottrarsi al diffuso scempio ambientale e conservare intatta la sua autentica fisionomia di borgo marinaro.

Ognina - scomparso il cosiddetto Porto di Ulisse - rappresentò un importante scalo marittimo. Di conseguenza la borgata divenne uno dei principali centri dei commerci via mare. Olio, vino frumento cereali veniva custodito in magazzini sorti ai margini dell'attuale via Marittima e poi imbarcato sugli antichi bastimenti.

Se vogliamo trovare il vero motivo di tanta fama, ci dobbiamo necessariamente rifare ad alcune autorevoli testimonianze storiche. In merito abbiamo non pochi importantissimi contributi: Tucidide, Plutarco, Omero Virgilio, Plinio, Massa, Amico, Fazello, Villabianca, Gemmellaro, Vigo, Castorina.

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- tratto da "C'era una volta Ognina" - Giuseppe Anfuso - Montorte Editore

 

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DA "OGNINA", DI PADRE MARIANO FOTI, N'PARRINU CCA NOCCA!

Nella zona di Lognina scorre un fiume antichissimo, il Longane, che scaturiva dalle colline di Santa Sofia, passando per Cibali e nei sottosuoli ricchi di acqua, la cui abbondanza è confermata dal nome della vichttps://www.mimmorapisarda.it/2024/vo.jpgina località ogninese "Nizeti", derivante dal greco "nizo" che significa lavo. Ad Ognina il fiume arriva ancor oggi con vere risorgeze sottomarine facendoci ricordare la sua perenne presenza, seppur nascosto  dall’eruzione del 1381. La denominazione della vicina zona Acque Casse deriva da Acquae cassae (che significa acque coperte) testimonia la presenza del grande pozzo naturale che si è venuto a creare a seguito delle colate laviche che coprirono il fiume.

La vecchia Lognina partiva dalla Porta di Aci (l’attuale Piazza Stesicoro), dove finiva la città e arrivava fino all’attuale porticciolo. Poi i confini di Catania si estesero oltre la Porta di Aci invadendo Lognina e a ricordarne l’antico sito rimase soltanto il nome di una strada detta anche oggi Via Vecchia Ognina, che arriva fin quasi alla chiesa di S. Maria di Betlem, allora punto di confine con la città, unica strada catanese a non essere retta e dal suo percorso si capisce che era una linea di confine tra due zone.

L’Ognina di Catania era chiamata Porto Ulisse (o calcidico). Un grandissimo porto costruito dai Calcidesi nel VIII sec. a.C. che poi subì altre occupazioni fra le quali quella dei greci di Gerone e quella dei Romani.

Porto Ulisse costituiva lo scalo ufficiale dell’antica Katane. La sua felice posizione geografica lo faceva punto d’incontro quasi obbligato delle vie marittime mediterranee. Poteva contenere quasi 250 navi ma scomparve sotto l’eruzione lavica del 1381. Quel che è rimasto del grande Porto Ulisse (oggi sepolto sotto il lungomare di Catania) e che arrivava fino alla zona del Gaito, è l’attuale porticciolo di Ognina.

Virgilio, nell’Eneide, ce lo descrive ampio, dal calmo specchio acqueo interno e dalla imboccatura ridossata dai venti di traversia: "Portus ab accessu ventorum immotus et ingens ipse".

 Aveva anche un porto ausiliario ad Agnone, sito all’inizio della piana di Catania. I terreni della Piana, per i loro pregiatissimi prodotti erano chiamati dai greci Elysia perché paragonati ai mitici campi Elisi, i giardini di eterna primavera e di infinita delizia riservati nell’oltretomba ai giusti. I Romani, per far risaltare  di più il loro dominio in quella zona prosperosa (chiamata Horreum Romae – "Il granaio di Roma"), premisero l’aggettivo "latia" (da latius che significa "appartenente ai latini") sicchè quella denominazione si mutò in "Latia Elysia". Il passaggio da Latia Elysia a La Zia Lisa fu facile. Oggi indica la zona d’inizio della Piana di Catania.

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tratto da "Ognina", di Mariano Foti

 

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LA COSTA CATANESE FRA MITO, LEGGENDA E STORIA

Il mare è da sempre anche sinonimo di morte. Lo sapevano bene Ulisse, Enea, gli Argonauti e tutti gli eroi mitologici che hanno dovuto combattere contro le furie di Poseidone. Anche se le vie del mare sono state in passato sempre preferite a quelle terrestri, molti erano i fattori che rendevano pericolose le rotte marittime. La navigazione a lunga percorrenza in età preistorica e protostorica, si svolgeva, per quanto possibile, soprattutto nella buona stagione, di giorno e quando l'esperienza faceva prevedere vento e condizioni del mare favorevoli; al tramonto le navi trovavano rifugio (tirate in secca su una spiaggia riparata o alla foce di un fiume) e all'alba venivano rimesse in mare; numerosi erano quindi gli scali intermedi, anche perché era necessario il rifornimento d'acqua dolce e di viveri freschi.

Ma certamente la costa catanese nell'antichità non aveva l'aspetto che ha oggi . Gli studiosi (quelli veri) ritengono che una rotta piuttosto antica univa l'area dello stretto di Messina con Malta. La rotta dell'ossidiana, lungo la costa ionica della Sicilia, era stata utilizzata dai primi coloni del neolitico che, provenienti dalla penisola italiana, si erano spinti fino all'isola di Malta. È probabile quindi che nel tratto di costa catanese esistessero almeno due insediamenti a partire dal Neolitico medio. L'avvento dei metalli e dei loro manufatti fecero incrementare i commerci lungo le rotte che toccavano la costa ionica. È proprio a questo periodo che viene attribuita la nascita di un insediamento umano a ridosso dell'attuale area urbana di Catania.

Arriviamo al periodo culturale (facies) di Castelluccio, che viene datato dagli studiosi tra il 2300 e il 1400 prima di Cristo. Ora gli insediamenti umani si fanno più numerosi e coprono quasi tutta l'area di Catania fino alle falde dell'Etna. Molti dati provengono dalla zona alta della città, soprattutto nella fascia che va da Barriera del Bosco a Canalicchio. E probabile che questi nuclei abitativi preistorici, situati in posizione dominante ma piuttosto interna, utilizzassero un vicino centro costiero oggi scomparso che poteva collocarsi tra l'attuale porticciolo di San Giovanni li cuti e quello di Ognina. L'antico approdo di Ognina fu certamente attivo durante la successiva media età del bronzo (facies di Thapsos) assieme agli scali catanesi già accennati.

 

La zona di Via Acque casse, cosiddetta "U Carubbineri".

 

 

L'insediamento di Canalicchio, con il suo approdo nel porto di Ognina, continuarono a persistere per tutta l'età del bronzo fino alla prima età del ferro. In età arcaica e classica (per intenderci l'età dell'arrivo dei coloni calcidesi), la linea di costa non era più la stessa dell'era preistorica. I siculi, i greci e i romani, ebbero una visione della costa catanese completamente diversa dall'attuali. Le poche fonti letterarie antiche hanno alimentato, come sappiamo, molte leggende, storie false e documenti apocrifi. L'Odissea e l'Eneide hanno certamente influenzato gli eruditi e gli studiosi dal 16° secolo in poi. Così il medievale porto "Saracino" diventa il portus Ulixis citato da Plinio, assieme a quello che rimane dell'approdo di Ognina.

In realtà le prime notizie provenienti dal mondo antico che fanno riferimento al porto di Catania sono i passi di Tucidide relativi a quanto accadde in Sicilia durante la guerra del Peloponneso negli anni 415-414 a.C. e di Diodoro (guerra tra Cartaginesi e Siracusani del 396 a.C)

Ma l'antico approdo immediatamente vicino al nucleo urbano non era l'unico e ce lo dimostra un importante e ancora valido contributo per la comprensione dell'antico profilo di costa ci è stato proposto dal regio Ispettore per le Antichità, l'ing. Carmelo Sciuto Patti, che nel 1873 in una serie di sette tavole a colori mostrò quella che, secondo i suoi studi, è stata la successione delle colate laviche che hanno colpito da sempre il territorio di Catania e i sui dintorni. Prima che un'altra grande colata lavica, quella del 5 agosto 1381, lo colmasse esisteva un ampio golfo compreso tra i due promontori del Gaito (all'altezza di piazza Europa) e del Rotolo (piazza Nettuno). Non sembrano quindi condivisibili le ipotesi che tendono a localizzare il porto di Catania greca e romana in corrispondenza dell'attuale porticciolo di S. Giovanni Li Cuti. Di contro il porticciolo di Ognina, che prima della colata lavica del 1381 era più ampio, rientra fra gli approdi individuati non solo come il portus Ulixis ma anche come principale porto di Catania.

- tratto da "La costa catanese fra mito, leggenda e storia" (XXX) Corrado Rubino

 

APPROFONDISCI SUL LAGO DI NICITO

 

Quindi Ognina sarebbe stata sede dell'enigmatica Longone, in cui si venerava anche uri Athena longhatis. Ma Ciaceri indugia oltre, e a questa equazione accosta anche il ricordo di un altrettanto enigmatico Longon, cioè quella terza testimonianza riferita da Diodoro Siculo nel frammentario libro XXIV e utilizzata da Jacoby per sollecitare una diretta aderenza fra Longone filistiana e area etnea: Diodoro parla difatti di un Longon presso Katane in cui, durante la prima guerra punica, il cartaginese Amilcare Barca avrebbe assediato un avamposto fortificato, un phrourion, chiamato Italion. Quindi, a circa centocinquant'anni di distanza da Dionisio e Imilcone, il pericolo cartaginese si affacciava nuovamente in territorio etneo e questa volta si presentava in un'area del catanese chiamata Longon, area particolarmente vasta, dato che all'interno era localizzabile un luogo fortificato (Italion) distinto dal Longon vero e proprio. La singolare denominazione Italion ha fatto pensare a un'origine "rappresentativa" del termine, cioè il luogo sarebbe stato così chiamato a seguito dell'insediamento di genti italiche in Sicilia, limitato a soli scopi commerciali, in una fase che precede l'avvio ufficiale del protettorato romano sull'isola.

 

 

Anche in questo caso, non è mancata un'interpretazione alternativa: per altri studiosi il termine sarebbe riferibile a un fiume e il phrourion di Italion sarebbe sorto in prossimità di un corso d'acqua di nome Longon non distante da Catania. Un'ipotesi che comunque non esclude la derivazione di un toponimo da un originario idronimo, in sintonia con le tradizioni coloniarie (il nome di una polis generato da un preesistente e identico termine di origine fluviale). A prescindere dalle due ipotesi, se vedere cioè in Longon un territorio o piuttosto un fiume, rimane certo un dato: il termine per la prima volta è ancorato agli immediati dintorni di Katane (Italion era forse un'altura come Monte San Paolillo?). Ricordiamo che un fiume dalla simile forma nominale, Longanos, è ricordato dallo storico Polibio, ma la sua localizzazione si riferisce con certezza alla citata area del messinese, anche per via degli avvenimenti storici riferiti in quel passo, relativi allo scontro del 269 a.C. fra Ierone II e i Mamertini. Tuttavia la testimonianza polibiana è utile per rintracciare ancora una volta un nome con una radice "familiare" e connesso sempre a un percorso fluviale della Sicilia .

Che l'area di Ognina fosse ricca di sorgenti è un dato certo (alvei sotterranei sono tuttora esistenti) e tale considerazione si può riflettere anche sui territori limitrofi, citati peraltro da autori di rilievo26. Teocrito, ad esempio, fa esplicito riferimento al fiume Akis e alle sue acque gelide, generate sull'Etna e legate al noto mito di Aci e Galatea. Lo sfortunato destino del giovane innamorato, che fu schiacciato da un masso lavico scagliato dal ciclope Polifemo, adombra probabilmente il ricordo di un'eruzione che fu capace di obliterare il percorso fluviale, rendendolo semisotterraneo. Si tratta di un frequente cliché letterario nell'ambito della storia geologica etnea e basato anche su reali azioni eruttive: la "pietrificazione" di un corso d'acqua, causata dalla sovrapposizione di magma lavico, può quindi assumere, attraverso la visione mitografica, un senso concreto e probabilmente può anche trasmettere un valore propagandistico.

Il mito di Aci e Galatea ha difatti trovato fortuna narrativa durante la tirannide di Dionisio il Vecchio, in quanto il suo utilizzo è riconducibile alla politica adriatica dell'autocrate siracusano, mirante a instaurare rapporti di collaborazione con Galli, Illiri e Celti, etnie che figurano come discendenti del Ciclope. In quest'ottica la codificazione mitica, ripresa da Filosseno di Citerà, un letterato giunto alla corte di Dionisio, potrebbe non riferirsi alla secolare attività dell'Etna, ma risalire a un evento eruttivo ben più recente, probabilmente lo stesso ricordato da Diodoro e connesso alla deviazione di marcia effettuata da Imilcone.

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Proprio nei primi decenni del IV secolo a.C, quindi, il tiranno siracusano non soltanto approfittò, per il tramite litografico, del fittizio legame instaurato con popoli dell'area adriatica, ma sollecitò anche un diretto riferimento al suolo siciliano, applicabile alle aree costiere etnee, alla vasta pianura (non a caso Akis è figlio della ninfa Symaithis), nonché al fertile entroterra collinare, ricco di quelle verdi selve boschive che Dionisio stesso sfruttò per la costruzione di flotte navali. Per l'età repubblicana, il trasporto di legname prelevato dalla vicina area pedemontana è testimoniato da Cicerone, ma è naturale che le folte macchie siano state sfruttate in tal senso anche nei secoli precedenti. Ancor più di Catania, la baia di Ognina poteva costituire un primo punto di arrivo per chi proveniva con grossi carichi dalle alte pendici e non è escluso che l'area probabilmente fu anche predisposta alla raccolta di materiale e/o alla costruzione di imbarcazioni. Ma al momento non vi sono dati particolarmente illuminanti: oltre alle antiche emergenze visibili, come la Torre cinquecentesca (o forse già del secolo XV), annessa alla chiesa di Santa Maria dell'Ognina e trasformata in campanile, rimangono cursorie notizie del Biscari e alcune stampe di Jean Hoùel, pertinenti allo stato di fatto della baia e di un monumento forse di età romana.

 I recenti risultati raccolti dalla ricerca archeologica subacquea e da una nuova analisi topografica per opera di Edoardo Tortorici (individuazione di relitti e recupero di ceramica frammentaria, soprattutto di età romana) gettano ora nuova luce su aspetti, finora ignorati, connessi alla baia etnea e al suo rapporto con la città.

 E ormai ben nota la questione relativa all'individuazione dell'antico porto di Catania e allo stretto legame che si è voluto instaurare con il golfo di Ognina: sulla base dell'informazione pliniana sul portus Ulixis si è pensato di includere nella ricerca topografica anche l'adiacente baia di San Giovanni li Cuti, ritenuta da Vincenzo Casagrandi il vero scalo di Catania greca e romana, al quale è da associare, secondo lo studioso, anche il tempio di Athena, frequentato in particolare dai naviganti (8). Contrari a tale ipotesi lo Sciuto-Patti e Guido Libertini, seguiti in tempi recenti da Sebastiana Lagona, per i quali il porto della città antica sarebbe localizzabile nel tratto di costa lungo il centro antico, precisamente nell'area occupata oggi dalla Villa comunale Pacini.

Un'ipotesi in gran parte condivisa, che si basa su alcuni rinvenimenti effettuati nelle aree immediatamente alle spalle (scavi di via Zappala Gemelli), sul recupero di un gruppo scultoreo in marmo di limitate dimensioni dai fondali del porto attuale e sulla base soprattutto delle fonti a disposizione: sia nel caso della seconda spedizione ateniese, sia per le manovre militari durante lo scontro fra Dionisio e Imilcone, l'impressione che se ne trae è quella di un porto nelle vicinanze di un luogo in cui era possibile tirare a secco le imbarcazioni. Un'area che sembra corrispondere alla costa sabbiosa della Plaia. D'altro canto, tracce dei primi nuclei coloniali greci (databili già nell'VIII secolo a.C), sono emerse sia sulla collina di Monte Vergine, sia fra le fondazioni del Castello Ursino e appare quindi naturale che l'approdo principale fosse nel punto di sbocco più vicino. Già in età greca il porto della città etnea doveva avere un ruolo certamente primario, soprattutto per il suo rapporto col fertile entroterra: Tucidide fa notare che è a Katane che gli Ateniesi riescono a procurarsi il grano per affrontare l'inverno e prepararsi quindi ai nuovi scontri con i siracusani. Sempre al grano (per lo più dell'ennese) si riferiscono Cicerone e Livio. Quest'ultimo ricorda inoltre gli approvvigionamenti che venivano stipati per essere spediti in seconda battuta all'esercito di servizio a Taranto. Cicerone cita anche la nota vicesima portorii, la tassa (del 5%) sull'esportazione per tutte le merci e che testimonia ancora una volta un'organizzazione di imposta doganale ben pianificata .

A queste notizie non corrispondono purtroppo molti indizi sul campo: una sola iscrizione di età tardo imperiale, ritrovata vicino all'attuale Mercato del pesce, ricorda alcuni interventi di ripristino operati su banchine e moli, a seguito di una procella. Il contenuto fa tuttavia ipotizzare la presenza di notevoli strutture e conferma quindi l'esistenza di impianti portuali nella zona, connessi forse a opere di incanalamento delle acque fluviali dell'Amenano, il fiume "instabile" che, stando a Strabone, attraversava la città, per sboccare verosimilmente in prossimità dell'area portuale.

 

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Data la vicinanza alla linea di costa originaria, non è escluso che la stessa struttura oggi chiamata "Terme Achilliane" fosse in realtà un edificio molto più complesso e con varie funzioni: di lupanare e caupona nella zona più arretrata (un ambiente rinvenuto da Paolo Orsi con graffiti "irriverenti" potrebbe costituirne un'esigua testimonianza), di impianto termale nel settore mediano, nonché di installazione portua-le sul versante a mare, dotata di un piazzale di carico e scarico, di magazzini per lo stoccaggio delle derrate in arrivo (Jhorred) e, infine, di banchine e strutture/argine rivolte sul versante della costa .

A tal proposito, i piloni in opera quadrata rinvenuti al di sotto del Seminario dei Chierici, potrebbero rappresentare - piuttosto che una continuazione dell'impianto termale - l'ultimo residuo di vaste strutture portuali (anche più antiche), connesse all'ampio complesso edilizio. Che la struttura termale abbia pure assolto una funzione, diremmo, commerciale potrebbe essere confermato dagli ultimi scavi archeologici, che hanno messo in luce - oltre a differenti canalizzazioni (forse pertinenti al restauro ricordato sulla nota iscrizione delle Terme) e a fasi di riutilizzo in età moderna - anche numerosi frammenti ossei di animali, tracce forse di attività connesse alla macellazione38. L'impressione che si può trarre dagli elementi finora noti - seppur intricati da una inevitabile stratificazione storiografica e da insufficienti dati di scavo - è quella di immaginare un sistema portuale bipartito (o forse anche tripartito), costituito cioè da un polo principale nell'area delle città antica e moderna, e da un polo secondario a nord, fra San Giovanni li Cuti ed Ognina, zona che probabilmente non fu mai dotata di complesse strutture portuali come per Catania, perché la sua fortuna si basò soprattutto sulle caratteristiche naturali offerte dalle ampie e profonde insenature, oggi confinate nella sola memoria del mito. Quello di Ulisse, dei Ciclopi, dei fiumi di acqua e di lava.

Antonio Tempio

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tratto da "C'era una volta Ognina" di Giuseppe Anfuso - Monforte Editori.

 

 

 

 

 

 

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