LE PROPRIETA' DEL PESCE AZZURRO - di Marisa Paolucci. La specie piu' comune nei mari italiani offre la massima garanzia di freschezza e economicita'. Puo' avere un ruolo importante in una alimentazione sana ed equilibrata. Aiutando, per merito dell'alta presenza di acidi grassi polinsaturi ap prevenire e curare diverse patologie. La fama del pesce azzurro ha origini antiche. Il garum e' la piu' famosa salsa di pesce azzurro dei tempi dell'antica Roma, prevedeva l'impiego di sgombri, sardine, acciughe. L'uso del pesce azzurro nelle salse e' continuato nei secoli a venire, con un ruolo di primo piano nell'alimentazione delle popolazioni costiere. Dal settecento grazie alla diffusione della tecnica di conservazione sott'olio entro' a pieno titolo anche sulle tavole dell'entroterra. Nel passato il pesce azzurro non ha potuto vantare amicizie altolocate. In effetti era il cibo quotidiano dei pescatori, una delle comunita' piu' povere.
Oggi fortunatamente e' considerato una grande risorsa
alimentare e gastronomica. Esiste un patrimonio vastissimo di
ricette regionali a base di pesce azzurro, una migliore dell'altra,
alcune raffinatissime, ma e' interessante sottolineare la grande
diffusione della conservazione sott’ olio e sotto sale tipica di
molte regioni della penisola, tanto che anche la moderna industria
conserviera li propone in numerose versioni. Quando i pesci sono
azzurri? la denominazione "pesce azzurro" non corrisponde
ad un gruppo scientificamente definito di specie. Vengono definiti
azzurri quei pesci che, oltre a caratterizzarsi per una colorazione
blu scuro dorsale ed argentea ventrale, sono generalmente di piccole
dimensioni ed abbondano nei nostri mari. Le tre specie piu' pescate
sono: l'alice, la sardina e lo sgombro.
Da un punto di vista nutrizionale il pesce azzurro presenta un apporto di proteine di elevata qualita' ed una particolare composizione dei grassi, ricchi di acidi grassi polinsaturi, soprattutto della serie omega-3 tra i quali ve ne sono alcuni capaci di abbassare sia i grassi che il colesterolo nel sangue. In particolare in situazioni quali l'eta' avanzata, il diabete, l'obesita', gli acidi grassi della serie omega-3 non possono essere derivati dall'acido linolenico, loro normale precursore, per un progressivo declino di attivita' dell'enzima delta-6-desaturasi, quindi l'apporto dietetico diventa indispensabile. ll consumo di almeno 2-3 pasti di pesce azzurro a settimana, nel contesto di un'alimentazione equilibrata, puo' avere un ruolo importante nella prevenzione delle malattie coronariche. L'apporto in calorie fornito da 100 grammi di parte edibile (carne privata dello scarto) delle piu' comuni specie di pesce azzurro, senza aggiunta di condimenti, non e' elevato, oscillando tra le 89 kcalorie e le 168 kcalorie dello sgombro. Non e' solo il profumo del mare che ci invita a questo punto a lasciarci tentare da leggeri e stuzzicanti piatti offerti dall'azzurro mediterraneo, ma soprattutto la certezza che stiamo mangiando qualcosa che ci fara' sicuramente bene. La specie piu' comune nei mari italiani offre la massima garanzia di freschezza e economicita', e puo' avere un ruolo importante in una alimentazione sana e equilibrata. Aiutando, per merito dell’alta presenza di acidi grassi polinsaturi,a prevenire e curare diverse patologie.
GLI ACIDI GRASSI PER STAR BENE.
Altre funzioni biologiche che negli anni sono state riconosciute agli Omega-3 Vanno dalla riduzione della colesterolemia, a un effetto antiaterosclerotico con riduzione dei rischio di trombi e un miglioramento della circolazione sanguigna, all'inibizione competitiva nel confronti della cascata dell'acido arachidonico perche' impedisce la formazione di leucotrieni della serie 4 che sono forti agenti infiammatori in corso di diverse patologie di tipo osteoarticolare (artrite reumatoide), gastroenetrologico e dermatologico. In questo campo, la loro azione si rivela importante nel diminuire il prurito nelle dermatiti e nel trattamento di affezioni legate a una alterata composizione lipidica dell'epidermide: dermatite seborroica, psoriasi ecc. Inoltre si ottiene un'ottima azione antinfiammatoria anche nel corso di altre affezioni dermatologiche quali l'eczema atopico, le dermatosi da contatto e la psoriasi, durante le quali viene mantenuta un'ottimale funzionalita' dell'epidermide (Ziboh 1986, Kragballe 1985, Bittner 1988).
COME SI CONSERVA IL PESCE AZZURRO Il pesce in genere ha buone proprietà nutritive ma nello stesso tempo è molto delicato. Il pesce azzurro ha un contenuto in grassi generalmente più elevato del “pesce bianco” e per tal motivo è opportuno sottolineare alcuni accorgimenti per evitare che si deteriori. È sempre consigliabile sviscerare e lavare il pesce azzurro prima di riporlo nel frigorifero o nel congelatore. All’interno del frigorifero è preferibile sistemarlo in posizione intermedia, meglio se avvolto nella pellicola trasparente o in un contenitore chiuso, per evitare che il frigo e gli altri alimenti si impregnano del suo odore. Può essere congelato se acquistato fresco e riposto immediatamente in freezer, negli appositi sacchetti a chiusura ermetica assicurandosi di aver tolto l’aria. È bene ricordare che, essendo presente nel pesce azzurro una maggiore quantità di grassi, non è consigliabile conservarlo nel congelatore per più di tre mesi. Infine, è opportuno tenere presente che con la conservazione si modificano anche le caratteristiche organolettiche. Quindi, se tenuto in frigorifero, è bene consumare il pesce azzurro rapidamente, mentre se vogliamo congelarlo lo si può fare solo se freschissimo. Si ricorda sempre di tenere il pesce separato dagli altri alimenti, ed in caso di congelatori a scomparti conservare tutto il pesce insieme in uno di essi.
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E' un pesce dal corpo fortemente compresso ai lati, pinne notevolmente arretrate tutte oltre la metà del corpo; la pinna dorsale leggermente più arretrata dell’anale, la caudale è asimmetrica con il lobo inferiore più sviluppato. Caratteristica principale è la morfologia del capo: la mandibola e la mascella si protendono in avanti a formare una sorta di “becco”, la mandibola sopravanza di poco la mascella, davanti agli occhi sono evidenti i fori nasali. Altro carattere peculiare è dato del tessuto scheletrico di colore verde.
Il dorso è di colore blu verdastro con una banda scura mediana; i fianchi, al di sotto della banda scura, ed il ventre sono argentati. Può raggiungere i 70 cm di lunghezza, più comune da 30 a 60 cm. Specie pelagica costiera, è comune in tutto il Mediterraneo. Predatore, si nutre di piccoli pesci quali alici e sardine; in primavera e autunno migra verso la costa e forma banchi che cacciano immediatamente sotto la superficie; spesso compie balzi fuori dall’acqua. Dal corpo sottile ed allungato, l’Aguglia si contraddistingue per la forma delle mascelle a “becco” da cui deriva anche il suo nome scientifico: belone che in greco vuol dire ago. Lunga massimo 80 cm e di colore argenteo è una delle esche più utilizzate nella “traina col vivo”, facile da reperire è però difficile da conservare se non si dispone di una vasca “del vivo” attrezzata.
Si cattura con le reti da traino pelagiche, a circuizione e con le lampare, ma è catturato soprattutto con canne da pesca sportiva. In Italia meridionale esiste una rete particolare detta agugliara specifica per la cattura di questa specie. Le carni risultano abbastanza stoppose e con numerose spine; si consuma fresca.
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La costardella è un pesce
compresso ai lati, con le pinne dorsale e anale molto arretrate
verso la caudale; la mascella e la mandibola si prolungano in una
sorta di becco, nel complesso
assomiglia molto all’aguglia (Belone belone), ne differisce pe Dietro alla pinna dorsale ed anale si trovano delle pinnule; questa è una caratteristica peculiare degli Sgombridi da qui il nome latino di Scomberesox. La colorazione è verde-blu sul dorso, argentata sui fianchi e sul ventre. Le pinne dorsale e caudale sono grigie, bianco giallastre le altre, sotto le pinne pettorali è visibile una macchia blu. Forma branchi che cacciano piccoli pesci e molluschi immediatamente sotto la superficie dell’acqua; vive in Mediterraneo e nelle regioni temperate di tutti gli oceani e si avvicina alle coste in autunno per riprodursi. Si pesca con le reti a circuizione ed è “preda” dei pescatori sportivi. Particolarmente apprezzata in Sicilia dove fritta e condita con olio ed aceto costituisce un piatto tipico, si consuma solitamente fresca. |
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C'erano una volta le costardelle: storia, segreti e curiosità di un "mito" culinario dello Stretto Era la pietanza di pesce povera del messinese il cui odore fritto invadeva i quartieri extraurbani. I banchetti erano ricercatissimi anche dalla borghesia che abitava il centro città La costardella per i messinesi è un pesce spada in minore. Un autentico archetipo gastronomico. Un pesce azzurro di piccola taglia (15 -30 cm) che abbondava nelle acque dove si specchia la Fata Morgana. In altre realtà marinare viene poco considerato, ad esso prediligono le più pregiate aguglie, evitando persino di pescarlo o usandolo solo come esca per pesci grandi. Il nome scientifico è Scomberesox saurus, un pesce pelagico (vive distante dalla costa) e non abbocca all’amo. Viene catturato solo con delle speciali reti di circuizioni chiamate nell’alto tirreno costaullara o costaullarella, da questa deriva la probabile radice etimologica. Questa rete dalle nostre parti si chiama Cianciolo o Saccoleva usata anche per la cattura delle acciughe e del pesce azzurro in genere che vive in banchi. L’aspetto è simile all’aguglia, da questa si distingue per il rostro più corto e per il colore della lisca bianco diversamente da quello dell’aguglia che è di colore verde-azzurro. Un tempo, non molto lontano, veniva abbondantemente consumato dai messinesi. Nelle sere d’agosto le costardelle appena catturate risalivano le aste fluviali fino ai quartieri popolari nei cartocci che le famiglie di ritorno dal mare, o gli uomini tornando dal lavoro, compravano nelle improvvisate bancarelle allestite direttamente dai pescatori che le avevano pescate qualche ora prima, sul ciglio basso dei viali Annunziata, Giostra, Gravitelli, Europa, Gazzi, etc.
Quasi al vespro i pescatori con il loro “bannio” intercettavano gli avventori proponendo insieme alle costardelle l’ultimo odore di mare e di salsedine della giornata, che al calar del sole dava un senso di freschezza alle afose giornate estive. In questi presidi estemporanei le famiglie si fermavano ad acquistare la quantità necessaria per fare delle cene estive gioiose e speciali dove il protagonista era questo negletto ed economico pesce azzurro grazie al quale si celebravano dei veri e propri convivi da re sulle terrazze razionaliste delle case popolari, sui balconi, nelle verandine o nei giardinetti dei piani terra, perché le costardelle si debbono cucinare all’aperto. Questi momenti dionisiaci compensavano talune svantaggiate condizioni sociali. In quelle sere agostane l’odore ammaliante della frittura di pesce invadeva, a basso costo, i quartieri e rioni extraurbani. Questi banchetti lungo i viali erano ricercatissimi anche dalla borghesia che abitava il centro della città, poiché le costardelle raramente si trovavano la mattina nelle pescherie. La costardella era cibo economico alla portata delle tasche di coloro che non potevano permettersi di mangiare mupi, pescespada, tonno, dentici, ricciole, etc. Era la pietanza di pesce povera del messinese omologa alle sarde dei i palermitani e ai masculini dei catanesi, con qualche pregio in più. All’arrivo delle costardelle le donne di casa allestivano le padelle e i fuochi e cominciavano a sviscerare i pesci mentre i mariti tagliavano le cipolle di Tropea immergendole in pirofile colme d’acqua e ghiaccio addizionata con aceto, che ponevano in più parti del desco. L’aceto toglieva l’asperità al sapore della cipolla e la rendeva dolce e fresca al palato allo scopo di lavare quest’ultimo dall’eccessiva sapidità della frittura di pesce. Così le padelle colme di olio bollente cominciavano ad accogliere le costardelle che appena immerse si contorcevano sfrigolando. Prima di assumere un aspetto dorato e diventare squisitamente croccanti queste lanciavano nell’aria improvvisi vendicativi dardi che sacrificavano sempre con piccole ustioni le mani o le braccia del friggitore. Tant’è che l’umorismo popolare, davanti alle ustioni dell’interlocutore suole ironicamente chiedere: “chi fù, friisti i custadeddi?” (cosa ti è successo? hai forse fritto le costardelle?) Il pesce fritto finalmente giungeva in tavola e si dava inizio ad uno dei riti più tipici del popolo peloritano: le costardelle venivano prese con le mani e addentate calde, e dopo ognuno di questi prelibatissimi bocconi, ecco una presa di cipolla fresca dolce e acidula al tempo stesso che sgrassava la bocca e richiamava subito un sorso di vino. La liturgia di quei pasti prevedeva nell’ordine: una costardella fritta cosparsa di sale, un boccone di cipolla e un sorso di vino, ad oltranza. Un’apoteosi per il palato. Il banchetto si chiudeva con l’immancabile fetta di dolce cocomero rosso del Faro. Quelle cene restano nei ricordi mitiche ed indelebili. Retrospettivamente possiamo dire che si trattava di un piccolo privilegio da aristocratici. Un trionfo dei sensi così diffusamente praticato che con il tempo ha assunto il valore di un elemento identitario. A riprova di come le risorse naturali specifiche di un territorio siano elementi che generano nel popolo che lo abita le sue tradizioni, i suoi usi e i suoi valori morali ed etici e al tempo stesso ne modellano il carattere. Quelli che provocano intense piacevolezze, come nel caso delle costardelle, diventano identità archetipiche. La cattura della costardella nello Stretto era una pesca epica. Avveniva al largo quando le barche avvistavano la risalita a pelo d’acqua di banchi di costardelle aggredite dai delfini che ne vanno ghiotti. Il mare cominciava a ribollire. Le fere le assalivano dal basso costringendole a fior d’acqua e le accerchiavano con un carosello di salti. Queste per difendersi subito facevano il “pallone” (si infittivano nel tentativo di dare l’impressione di essere un unico grande pesce e mettere in fuga il predatore). Ed ecco che in questo frangente in cui i delfini verificavano la simulazione e le costardelle quasi emergevano alla ricerca di una via di fuga, giungeva il secondo predatore: l’uomo, che lanciava in mare la sua rete circuendo e catturando repentinamente l’intero “pallone”. Un furto con destrezza a man bassa che privava i delfini del loro quasi sicuro pasto. La pesca delle costardelle quando avviene è sempre copiosa, esse non si possono pescare una alla volta come avviene per le aguglie. Dopo la cattura i pescatori, quasi come un rito propiziatorio, spargevano in mare alcune cassette di costardelle ad appannaggio dei delfini, una sorta di ringraziamento che volesse compensare il furto eseguito e placare eventuali ritorsioni dell’intelligentissimo mammifero. Un gesto che traduce quel timore atavico dei pescatori dello Stretto nei confronti dei Delfini che ha fondamento in quella lotta eterna, spesso impari, che si perpetua nello “Scill’e Cariddi”, tra i cariddoti di Stefano D’Arrigo e la Fera, contro la quale non basta nemmeno il coraggio del mitico di Ndria Cambria. Il delfino è un pesce d’intelligenza superiore che da sempre ha messo in pericolo le esistenze dei pescatori rendendole grame. La Fera aspettava che le reti si riempissero e cominciassero ad essere issate per intervenire a saccheggiarle versando il pescato in mare e facendone un facile pasto a discapito degli afflitti pescatori. Nel caso della pesca delle costardelle i ruoli si invertono, è il pescatore a sfruttare e approfittare della caccia dei delfini e non più viceversa. Questa lotta estenuante che diventa epica è magistralmente narrata in tutta la sua drammaticità in uno dei più grandi romanzi del ‘900: “Horcynus Orca”. La condizione affranta di quei cariddoti è rappresentata in molte opere di uno dei più grandi pittori del socialismo reale: Giuseppe Migneco, dove questi rende icastica e struggente la condizione dei pescatori dello Stretto. In queste grandi opere è espressa (con parole e immagini) la metafora che contiene quasi tutte le sfumature dell’identità dei messinesi autoctoni, quelle migliori, almeno. fonti: https://www.messinatoday.it/foto/cronaca/#14-giuseppe-migneco-pescatore-dello-stretto-jfif.html
La sardina è un pesce della famiglia dei Clupeidi, fra i più diffusi nel mar Mediterraneo, della stessa famiglia dell'aringa. La sardina ha il corpo ovale con squame ventrali appuntite che però (al contrario dello spratto) non formano una vera e propria carena, la bocca è rivolta verso l'alto e l'occhio è grande. Tutto il corpo, ad eccezione della testa, è ricoperto di grosse squame molto caduche. Le pinne ventrali sono inserite molto indietro, ben oltre la pinna dorsale, le pinne pettorali sono inserite in basso. Ha i fianchi e il ventre bianco argentei, mentre il dorso è verde-azzurro con riflessi iridescenti, sul fianco, a partire dall'opercolo branchiale, e fino ad oltre la pinna dorsale, si allineano una fila di macchie scure, poco visibili in vivo. Raggiunge la lunghezza di 20-25 cm. La sua alimentazione è esclusivamente basata sul plancton che filtra dall'acqua che entra nella bocca grazie al filtro branchiale.
E' saporita, costa poco, fa bene alla salute e anche all`ambiente La Organización de Consumidores y Usuarios (Ocu) ha cercato gli acidi grassi Omega-3 in 27 diversi alimenti. La regolare assunzione di questi acidi grassi nella dieta è consigliata dai nutrizionisti perché fanno bene al sistema cardiovascolare e a quello cerebrale. Il migliore? La sardina in scatola: è assai ricca di acidi grassi benefici, costa poco e non pregiudica gli equilibri dell’ecosistema. L’Organizzazione Mondiale della Sanità raccomanda di assumere ogni giorno almeno 200 mg di Omega-3. «Sono acidi grassi polinsaturi essenziali, che l’organismo non è in grado di sintetizzare e deve quindi introdurre attraverso gli alimenti, spiega Ángel Gil, docente di Biochimica e biologia molecolare all’Università di Granada. Gli Omega-3 si distinguono in DHA ed EPA. I primi sono una parte importante del sistema nervoso e di alcune cellule, come quelle della retina. Sono indispensabili fin dalla vita embrionale e le donne devono assumerne in abbondanza durante la gravidanza». Ma gli Omega-3 sono anche fattori di salute per il cervello e per il cuore. «Sempre più dati mostrano che un adeguato apporto aiuta la prevenzione di malattie degenerative, incluso il morbo di Alzheimer, e dunque aiutano a evitare la morte neuronale», prosegue il professor Gil, che presedierà il Congresso mondiale della Nutrizione a Granada nel 2013. «Venti grammi di pesce in più ogni settimana possono ridurre del 7% il rischio di mortalità per patologie cardiovascolari».
La dieta mediterranea – ricca di pesce, frutta e verdura, cereali e legumi, olio d’oliva, con minori apporti di carni, latte e loro derivati – può fornire in media 800-1000 mg di Omega-3 al giorno. Ma oggi, con il progressivo abbandono delle tradizioni alimentari, ne stiamo assumento sempre di meno. «I giovani hanno ridotto i consumi di verdure e legumi, e anche di pesce, riprende il Professor Gil. Mentre la nostra raccomandazione è di mangiare pesce almeno due volte, meglio ancora quattro volte la settimana, specialmente il pesce azzurro. Poiché, oltre a questi acidi grassi, contiene proteine di alto valore biologico e importanti minerali come fosforo, iodio e zinco». Il pesce è la miglior fonte di Omega-3. L’associazione madrilegna dei consumatori Ocu ha comunque voluto verificare i livelli di questo acido grasso in quattro categorie di cibi: latte e derivati, carni, fette biscottate, alimenti vari. In alcuni dei prodotti esaminati gli Omega-3 sono naturalmente presenti (es. conserve ittiche), in altri sono stati aggiunti, in altri ancora derivano da interventi ad hoc nella filiera (es. alimentazione innovativa delle galline ovaiole). Le analisi hanno rilevato addirittura alcuni scostamenti in difetto rispetto ai valori dichiarati dai produttori. Ma nessuno dei cibi considerati è stato in grado di competere con la sardina: basta la metà di uno di questi pesciolini ad apportare la quantità giornaliera raccomandata di Omega-3. Al pari di un filetto di salmone, il cui costo è tuttavia assai superiore.
«Oggi la gente sa che il pesce fa bene alla
salute, ma non lo consuma abbastanza: per la difficoltà di
preparazione, la paura delle lische e il prezzo», spiega Carmen
Gómez Candela, responsabile dell’unità di nutrizione clinica e
dietetica all’ospedale La Paz di Madrid. E allora, quando non si ha
occasione o possibilità di acquistare pesce fresco, si ha poca
voglia o poca dimestichezza nel prepararlo, si apra una conserva di
sardine. Un’ultima nota positiva: le sardine, come le acciughe e le aringhe, non sono a rischio di estinzione. Sono piccoli pelagici che si nutrono di plancton e viaggiano in folti branchi (fino a 10 milioni), la pesca è facile (senza eccessivi consumi di carburante da parte dei pescherecci) e raggiunge i 30 milioni di tonnellate l’anno, un terzo della cattura complessiva a livello globale. Tuttavia solo una minima parte, circa l’uno per cento, finisce sulle nostre tavole. Oltre il 50% delle sardine viene infatti impiegato per alimentare i pesci di allevamento, come il salmone e l’aragosta in Canada. E un altro 40% è utilizzato per integrare i mangimi di avicoli e suini con proteine nobili. Secondo Jackie Alder, uno degli autori di un recente studio dell’Università canadese del British Columbia, l’aumento del consumo umano diretto delle sardine sarebbe una soluzione “environmentally friendly” (rispetto al loro impiego nella catena alimentare dei pesci d’acquacoltura) e potrebbe ridurre la pressione sulle specie ittiche a rischio di estinzione. I piccoli pelagici sono una valida alternativa rispetto al consumo di altre specie ittiche. A ben vedere, le aringhe sono un ingrediente chiave di molti piatti scandinavi, così come le acciughe – e in minor misura, anche le sardine – lo sono nei paesi del Mediterraneo. Queste buone abitudini vanno però lentamente a perdersi: è difficile preservarle ed è ancor più difficile esportarle nel resto del mondo. Poiché si tratta di pesci piccoli, spinosi e molto saporiti. Si potrebbe iniziare a promuovere le sardine con un video sulla loro vita, come quello realizzato dalla BBC. Ma servirebbe l’aiuto di rinomati “chef” – magari col contributo dei produttori spagnoli, portoghesi e italiani – per sostenere il rilancio dei consumi, promuovendo ricette facili e gustose. Dario Dongo
IL CIANCIOLO. Chi volesse rivedere il suggestivo spettacolo offerto dalle luminarie di "lampare" - da due a tre per ogni cianciolo -dovrebbe tornare agli anni sessanta quando, dal 1° maggio al 15 settembre, era possibile osservare catanesi, ogninesi e trezzoti che calavano il "cinciolu" con barche "armate" di reti a misura di quanto doveva essere poi catturato. Si pescavano quindi buone quantità di pesci e solo eccezionalmente si verificava la cosiddetta "cafarata" (grande abbondanza), la qualcosa consentiva ancora un buon equilibrio fra pescato e ripopolamento ittico. Degna di memoria è la "cafarata" che si verificò in una notte d'estate di qualche anno dopo la fine della seconda guerra mondiale. Protagonista fu una barca alla sua prima uscita. Era stata "battezzata" e varata proprio quella stessa sera e per l'occasione fu invitata una piccola banda musicale - che prese posto su un'altra barca - al seguito di quella festeg-giata, la quale, giunta nei pressi di "Punta corvo" calò la rete. Nel momento in cui questa venne issata a bordo, grande fu la sorpresa quando ci si accorse che vennero pescati quintali e quintali di acciughe (una vera e propria "cafarata"!). La straordinaria abbondanza procurò una grande euforia che contagiò tutti, bandisti com-presi i quali presero a suonare con tale foga che si accorsero soltanto in ritardo di essere stati investiti da una valanga di acciughe, che i ragazzini "ospiti" che avevano rovesciato loro addosso, facendole finire addirittura anche dentro alcuni strumenti. Naturalmente, alle proteste dei bandisti, seguirono dapprima i rimproveri del caso e poi le botte, che i monelli incassarono "senza pipitiari" (zitti zitti). E pensare che in quegli anni il cianciolo misurava appena qualche centinaio di metri!... Oggi, invece, la pesca con il cianciolo è praticata con una rete molto estesa, per niente "misurata", il che rappresenta un boomerang per gli stessi pescatori che la esercitano. Pertanto tale pesca suscita la legittima preoccupazione dei marinai, particolarmente di quelli che "vanno con la tratta" che manifestano la naturale avversione, tollerandola appena. Fino a circa trent'anni addietro veniva praticata nel periodo estivo; oggi, invece, poiché viene vietata solo per pochi mesi, si svolge in pratica quasi tutto fanno. La pesca praticata con sistemi ed attrezzi ormai superati, cioè quella che si esercitava fino alla metà degli anni cinquanta, comportava, è vero, enormi sacrifici, ma consentiva un razionale quanto abbondante ripopolamento della fauna ittica, tanto che i cosiddetti "sangusi" si pescavano, come già detto, alle imboccature di certi porti siciliani come quello di Ognina. Altrettanto succedeva per le alici che, in estate, andavano a "farsi 'ncuppari" (farsi catturare con il "coppo" = retino) quasi sugli scogli o si impigliavano persino nei "bulèstrici", nei pressi del ristorante Costa Azzurra, ad Ognina, proprio accanto allo "scoglio bianco" , di indiscussa notorietà e punto di riferimento, nonché di conquista, dei nuotatori principianti. La motorizzazione, l'abbandono delle reti di cotone soppiantate da quelle di nylon, l'uso dell'ecoscandaglio e cioè tutto quello che aveva permesso di considerare - fino alla metà degli anni settanta - la pesca redditizia, consentivano ancora un discreto equilibrio fra pescato e riproduzione ed anche un buon tenore di vita al marinaio che, molto difficilmente, potrà vedere il ripetersi di tali condizioni favorevoli. Le maggiori esigenze familiari ed individuali, se non proprio la corsa al denaro, possono portare allo sconvolgimento del già precario equilibrio, poiché si tende ad allungare e allargare sempre più le reti, potenziare le luci delle "lampare", ecc. Comunque sia, non si può non rilevare la macroscopica incongruenza di colui che, catturando il neonato ("vavvaiolu"), detto impropriamente "muccu", pretende poi di prendere quello già cresciuto, proprio con il cianciolo! _____________________ tratto da "Il Golfo di Catania e i suoi pescatori" di Pippo Testa e Mimmo Urzì - Edizioni Greco, Catania - 1992
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La cheppia è un pesce che, assieme ad altre specie della sua famiglia, rientra nella categoria del pesce azzurro. La famiglia è quella dei Clupeidi, il cui pesce rappresentativo è l’aringa che, nonostante sia una specie comunemente conosciuta, non vive in Mediterraneo. I clupeidi sono pesci pelagici che si nutrono di plancton e formano banchi molto numerosi; possiedono una caratteristica colorazione argentata, con il dorso verde azzurro. Oltre a costituire una risorsa economica ed alimentare per l’uomo, rappresentano un anello fondamentale della catena alimentare marina, sono infatti il nutrimento primario per molti pesci predatori come tonni e squali e per alcuni mammiferi marini ed uccelli.
La cheppia assomiglia molto
alla sardina (Sardina pilchardus), si distingue per la forma delle
squame e per la presenza di macchie nere sulla parte anteriore dei
fianchi più o meno numerose da
Nel dialetto siciliano: anciova, ancidda, masculinu (novellame: nunnata, bianculidda, sfigghiata, muccu). ’acciuga è un pesce pelagico di piccole dimensioni (generalmente di 12-15 cm) e costituisce uno dei maggiori rappresentanti del pesce azzurro. E’ una specie dalle abitudini gregarie e migratorie; si muove in branchi molto numerosi che si avvicinano alle coste nelle stagioni calde, attirati dalla presenza di plancton di cui si nutrono. Il pigmento che ricopre il corpo, coperto da squame iridescenti, dà all’insieme del branco una luce azzurro-argentea caratteristica. L’alice può essere confusa per la colorazione, l’aspetto e le dimensioni con altre specie quali l’argentina, il latterino, la sardina e lo spratto; si può distinguere da questi pesci per la diversa forma del muso, acuto e prominente e per l’apertura della bocca, situata nella parte inferiore del capo, che si estende fin dietro agli occhi.
L’alice è molto comune nei nostri mari: per buona parte dell’anno vive vicino alla costa soprattutto durante il periodo riproduttivo (aprile-settembre), mentre nelle stagioni fredde si sposta a profondità maggiori; ogni femmina emette fino a 40.000 uova. Si adatta bene a sbalzi di salinità dell’acqua e per questo spesso la troviamo anche nelle lagune, negli tagni salmastri o negli estuari. La sua abbondanza è proporzionale alla quantità di cibo disponibile; in Mediterraneo è abbondante in Adriatico, nel canale di Sicilia e nel Golfo di Genova. La pesca avviene tutto l’anno con sciabiche da terra, con reti da posta, ma soprattutto con reti da traino pelagiche dette “volanti” e con particolari reti a circuizione chiamate “ciancioli” e “lampare”: quando i banchi di alici si radunano sotto le luci proiettate dalle barche sulla superficie del mare, ha inizio la manovra di accerchiamento.
Le stesse che, diceva padron ’Ntoni ne I Malavoglia, «sentono il grecale ventiquattr’ore prima di arrivare, (…) è sempre stato così, l’acciuga è un pesce che ha più giudizio del tonno». Ad aprile, si comincia a calare le tratte (così chiamano a Catania le reti menaidi, che hanno maglie di un centimetro di lato e sono lunghe circa 300 metri): il momento giusto è la notte fonda, quasi sul fare dell’alba. La tecnica è la stessa praticata in tutto il Mediterraneo già dai tempi di Omero. Questo meccanismo di cattura (l’imprigionamento della testa dell’alice nelle maglie della rete, da cui il nome da magghia) provoca un dissanguamento naturale che rende il pesce più gustoso e quindi pregiato.
In Italia le flottiglie che praticano la pesca tradizionale con la menaide sono poche: si trovano a Pisciotta, in alcuni piccoli centri della costiera del Cilento (in Campania) e nel golfo di Catania. Qui le famiglie che vivono di questo mestiere antico sono una trentina: un gruppo sparuto – che si divide fra i porticcioli di San Giovanni li Cuti, Ognina, Aci Trezza – e qualche civitotu (così si chiamano gli abitanti del quartiere catanese della Civita) al porto di Catania. Attualmente, i masculini da magghia sotto sale non sono in commercio: si possono ancora assaggiare soltanto in qualche ristorante di Catania o nelle dispense delle famiglie dei pescatori. Il neonato Presidio sta tentando di riorganizzarne la produzione e la commercializzazione. I masculini si vendono freschi sul mercato catanese di piazza Pardo ( ‘a Piscaria) oppure vengono messi sotto sale dalle mogli dei pescatori. La tecnica di salagione è la stessa di tutto il Mediterraneo, ma qui esiste una preparazione assolutamente unica, inventata dai pescatori catanesi per sfamarsi durante le molte ore trascorse in mare. Si tratta di una conserva fatta con pezzetti di alici e con le teste che rimangono impigliate nelle maglie della menaide. Impossibili da vendere, questi “scarti” erano consumati in barca. Tornati a riva, le donne di casa mettevano ciò che rimaneva sott’olio di oliva, in vasetti di vetro o in piccoli orci di terracotta (i cugnitti) e all’occorrenza se ne prelevava una parte per cucinare sughi e salse. Area di produzione: Golfo di Catania
L'Anisakis simplex è un parassita che, se presente nel pesce di acqua salata crudo, può invadere l'intestino umano creando non pochi problemi. Si possono verificare due situazioni cliniche: la prima, conosciuta come patologia gastrointestinale, può essere senza sintomi, o presentare vomito e diarrea. La seconda, classificata come reazione avversa al cibo, è caratterizzata da un ampio spettro di reazioni allergiche: rinite, congiuntivite ed anche anafilassi con possibile ipotensione e shock. Una volta infestato l'intestino, comunque, la terapia è solo chirurgica: per liberarsene bisogna togliere fisicamente le larve dalla parete dell'intestino. Una ricerca italiana condotta dall'Università di Bari ha verificato che il rischio di allergie legato all'Anisakis Simplex è stato spesso sottovalutato. Ricordiamo che la surgelazione a -20 per 24 ore o a -18 per 4 giorni uccide il parassita ma NON elimina il problema allergia di cui parla la ricerca dell'università di Bari. Lo stesso vale per la cottura. La ricerca dell'Università di Bari L'epitelio intestinale, il maggior sistema di difesa contro le molecole esterne, se la sua funzione protettiva è compromessa rappresenta un cancello aperto per tossine ed allergeni. Precedenti dati avevano dimostrato la stretta relazione tra un'alterata permeabilità intestinale (I.P.) ed il peggioramento delle manifestazioni cliniche in pazienti con reazione avversa da cibo. In questo articolo i ricercatori hanno valutato la sensibilizzazione all'Anisakis Simplex tra i pazienti che avevano riferito sintomi clinici di allergia. I dati hanno dimostrato che l'abitudine alimentare di mangiare pesce crudo rappresenta un alto rischio per l'integrità della mucosa intestinale, e con ogni probalità, questa situazione può costituire un ideale, sottostimato cancello aperto per molecole che predispongono ad altre importanti patologie. (Marco Dal Negro)
LA PESCA DELLE ALICI E DELLE SARDE. Pesca "inventata" nella notte dei tempi, la si pratica da un gran numero di persone con una procedura immutata sin da quando si faceva con barche a remi e reti di filo di cotone, la cui manutenzione e conservazione erano non poco di-spendiose e difficili. Basti ricordare la "tinta" e, quasi tutti i giorni, la fatica del trasporto a spalla della rete nel posto in cui doveva essere, poi, messa ad asciugare. La "tinta" era l'operazione con la quale si usava rinforzare la rete, che veniva immersa in una tinozza con acqua calda e "zappinu" (corteccia di pino). Normalmente, ad Ognina, detta operazione si svolgeva in un luogo chiamato "Iarita", là dove ancora oggi si vede la garitta o guardiola fatta costruire da Carlo V a difesa della costa dalle invasioni dei pirati. Il luogo è quello stesso in cui, per una antica leggenda popolare, si diceva vi fosse '"a travatura" (tesoro nascosto) con a guardia '"u pircanti", oppure " 'u spiddu" (gnomo dal berretto rosso che può assumere forme diverse. La rete ("tratta") è lunga quasi trecento metri ed è divisa in due parti, ognuna delle quali è composta da otto "rizze" (sezioni) di diciotto metri ciascuna. Ad ogni diciotto metri è legata una "iassa" (cordicella), che reca una "caloma" (fune) a cui viene fissato un galleggiante chiamato "sàlimu" (costituito da un insieme di sugheri, oggi sostituiti da prodotti fabbricati con polistirolo o altro). Si avrà così una rete di sedici sezioni. I galleggianti posti rispettivamente all'inizio e alla fine della rete vengono denominati: "sàlimu 'a varca" il più vicino alla barca che cala la rete; "sàlimu 'a cura" quello più lontano. Detti galleggianti hanno una loro precisa funzione, che è quella di far mettere la rete alla profondità voluta a seconda delle circostanze: dando poca, molta, o tutta corda, consentono alla rete di adagiarsi in superficie, a mezzofondo, o a toccafondo. Le "iasse" sono cordicelle che in qualsiasi momento, una volta sciolte, consentono di liberare immediatamente la rete dai galleggianti, quando il caso lo richiede.
L'operazione di porre la rete a profondità diverse è dettata dalla strategia (i pasci vagano a profondità variabile) che è in funzione dell'orario di pesca (di giorno, di notte, all'alba o all'imbrunire) e dalla posizione della luna nel cielo a seconda che questa si trovi sull'orizzonte, in alto, oppure al tramonto. Oggi l'operazione anzidetta viene facilitata dall'ecoscandaglio che, inquadrando i branchi di pesce, senza ricorrere ad alcun empirismo, indica a quale profondità va messa la rete. Sia che si peschi di giorno, sia di notte, la procedura è sempre uguale: si mette in mare la rete e la si lascia per circa mezz'ora; quando si trae a bordo, le alici, se si muovono, restano impigliate. Si badi bene che si impigliano ("ammàgghiunu") soltanto quelle la cui grossezza corrisponde alla maglia della rete, e non quelle più grosse o più piccole. Per questo motivo raramente se ne pescano grandi quantità, cioè a dire si "sbidda".
Durante la stagione favorevole la pesca delle alici viene praticata, a Catania, da circa quaranta barche con equipaggi da tre a cinque persone. La pesca notturna con la "tratta", di cui ora parleremo, viene praticata nel periodo della luna piena che, in questa fase, è determinante ai fini della pesca delle alici e delle sardine. Fino ad una trentina d'anni addietro, i contatti tra pescatori erano - e talvolta lo sono tuttora - più diretti, tanto che si trattasse di avere informazioni sulla quantità, qualità e grossezza del pesce (per la scelta della rete), quanto si trattasse di ottenere o prestare assistenza per difficoltà incontrate, relative alla conservazione delle reti, quanto ancora fosse in pericolo la vita stessa dei marinai.
Il Cianciolo moderno
I contatti di cui si è detto si svolgevano attraverso un pittoresco dialogo con disgiunto da un senso di religiosità. La barca che teneva le reti in mare restava ferma in attesa di trarle a bordo. Sopraggiungeva un'altra imbarcazione che si fermava per informazioni, esordendo: Domanda: — Maria!... (forma di saluto adottata da tempo immemorabile alla quale si ricorre tutt'oggi quando si incrocia una barca "nuova" di altra marineria, della quale barca non si conosce né l'equipaggio, né il "pèccuru" del capo-barca.) Risposta: — Gesù!... Domanda: — "Chi rastu aviti?" (ce ne sono pesci?) Risposta: — "Ni tiramu 'na rizza, ni pigghiamu 'na rutulata e 'a muddamu" (ne abbiamo issata solo diciotto metri, ne abbiamo catturate circa 800 grammi e l'abbiamo rimessa in mare) Domanda: — "Di unni erunu ammagghiati?" (da quale direzione provenivano?) Risposta: — "Di canali" (da grecale) Domanda: — "Chi rema fa?" (da dove proviene la corrente?) Risposta: — "Di faru" (da nord, cioè da Capo Faro oppure dal faro di Capo Mulini) Domanda: — "A quantu siti calati?" (a quale profondità è messa la rete?) Risposta: — "A deci passi" (Un passo è uguale a 1,60 m circa)
Ottenute le necessarie informazioni, in verità talvolta ingannevoli, e dopo aver salutato, la barca, prese le dovute distanze, calava la rete. Questa, come si è detto, sostava in mare per circa mezz'ora. Veniva quindi issata a bordo non sempre con buoni risultati; non solo per la mancanza di pesci ma, qualche volta, anche per la presenza dei delfini. In ogni sua fase la pesca con la "tratta" era caratterizzata da momenti particolari, legati alle circostanze, alle abitudini o alle tradizioni, in parte però cancellate dal progresso. Veramente singolare era, ad esempio, il rituale dell' "abburi" che indica la "cala" che si effettua all'albeggiare. Le barche, prima dell'alba, uscivano dai loro approdi (Acitrezza, Ognina e Catania) a piccoli gruppi e andavano a "prendere la posta" seguendo il "fiuto" dei rispettivi capi-barca, compatibilmente con la necessità di trovarsi tra loro distanti almeno cento metri di larghezza e trecento di lunghezza. Fino agli anni cinquanta le barche, solitamente, pescavano nello specchio di mare che da Ognina va fino al molo foraneo del porto di Catania, perché questo era il paraggio dove si avvertiva maggior "rastu". Però avveniva che la presenza di numerose barche limitava il campo di pesca e rendeva difficili le operazioni di "cala".
Perciò i marinai, trovato il posto dove calare la rete, con lanterna a petrolio accesa (quando questa non si spegneva per il vento), al primo "rusciu r'abba" (ai primi bagliori dell'alba), gridando come fanno i venditori ambulanti, avvertivano le barche intorno che si stava procedendo a calare le reti, per evitare che queste venissero messe in mare l'una addosso all'altra: "Viriti ca stamu calannu... ahòooo; ... calati semu, calati... ahòooo...". Le grida convulse dei pescatori, trasportate dal grecale, erano udibili anche dalla costa e talvolta crearono apprensione a terra. Fu in una di queste occasioni che Carmelina, sposina "fresca", abitante nei pressi di Borgetti (l'attuale piazza Nettuno), non conoscendo le usanze dei pescatori, perché proveniva da altro ambiente, una notte temette per la sorte del marito che era da poco uscito "per andare con la tratta". L'ansia e l'angoscia assillarono tanto la dolce sposina che, pensando ad una "scerra" (zuffa) collettiva o ad una disgrazia, lasciò il letto "ccu 'i setti stiddi" e, vestita alla bell'e meglio, corse al porticciolo di Ognina dove arrivò "più morta che viva", quando era già giorno. Quando alle poche persone presenti nello scalo chiese il perché di quelle grida, i risolini di circostanza le fecero capire di avere fatto '"u viaggiu di San Gnàbbucu 'a Lizzia". _____________________ tratto da "Il Golfo di Catania e i suoi pescatori" di Pippo Testa e Mimmo Urzì - Edizioni Greco, Catania - 1992
Sul sapore dei pesci dobbiamo aggiungere una singolarità per quanto attiene alle alici che, come sappiamo, prediligono vivere in acque limpide: ne esiste però un tipo che si assuefa ai bassi fondali dove, per i motivi già esposti, le acque sono torbide. Sono queste le alici ("masculini") della Plaia che, per via della permanenza in dette acque, assumono, sulla schiena e sui fianchi, una colorazione simile al giallo-verde delle acque stesse. Il tipo di pesce in parola sarebbe l'originale di quello che i catanesi sono soliti mangiare facendone "'a 'nzalatina" (crudo, marinato nel succo di limone e poi condito con olio, origano e pepe. Dell'argomento si occupò anche Edrisi, il più grande geografo del Medioevo della cui collaborazione si servì Ruggero II re di Sicilia per la compilazione del cosiddetto libro di Ruggero. Egli così annotava: «A ponente di Catania scorre il Wadi Musa (fiume di Mosè = Simeto) gran fiume che sbocca nel mare di questa città e che porta ogni sorta di pesce, squisito al sapore» . A nostro avviso, però, l'affermazione di Edrisi sembra alquanto generica perché è notorio come nel tratto di mare antistante alla foce del Simeto vivono solamente alcune specie di pesci come gamberoni, cèfali, spigole, ecc. ______________________________________________________________ tratto da "Il Golfo di Catania e i suoi pescatori" di Pippo Testa e Mimmo Urzì - Edizioni Greco, Catania - 1992
Masculina da magghia La cornice è quella del golfo di Catania: un arco che va da Capo Mulini a Capo Santa Croce, nel comune di Augusta. Una porzione di mare tutelata in parte dalla Riserva Naturale Marina delle Isole Ciclopi e solcata ogni giorno dalle piccole barche dei pescatori del golfo. Qui, secondo la stagione, si pescano aguglie, spigole, tonni, triglie, sgombri, e masculini. I pescatori li chiamano anche anciuvazzu o ancora anciuvurineddu: molti nomi per le piccole, guizzanti acciughe, le stesse catturate dai liguri e dalle menaidi cilentane. Le stesse che, diceva padron ’Ntoni ne I Malavoglia, «sentono il grecale ventiquattr’ore prima di arrivare, (…) è sempre stato così, l’acciuga è un pesce che ha più giudizio del tonno». Ad aprile, si comincia a calare le tratte (così chiamano a Catania le reti menaidi, che hanno maglie di un centimetro di lato e sono lunghe circa 300 metri): il momento giusto è la notte fonda, quasi sul fare dell’alba. La tecnica è la stessa praticata in tutto il Mediterraneo già dai tempi di Omero. Questo meccanismo di cattura (l’imprigionamento della testa dell’alice nelle maglie della rete, da cui il nome da magghia) provoca un dissanguamento naturale che rende il pesce più gustoso e quindi pregiato. In Italia le flottiglie che praticano la pesca tradizionale con la menaide sono poche: si trovano a Pisciotta, in alcuni piccoli centri della costiera del Cilento (in Campania) e nel golfo di Catania. __________________ Questo meccanismo di cattura (l’imprigionamento della testa dell’alice nelle maglie della rete, da cui il nome da magghia) provoca un dissanguamento naturale che rende il pesce più gustoso e quindi pregiato. In Italia le flottiglie che praticano la pesca tradizionale con la menaide sono poche: si trovano a Pisciotta, in alcuni piccoli centri della costiera del Cilento (in Campania) e nel golfo di Catania. Qui le famiglie che vivono di questo mestiere antico sono una trentina: un gruppo sparuto – che si divide fra i porticcioli di San Giovanni li Cuti, Ognina, Aci Trezza – e qualche civitotu (così si chiamano gli abitanti del quartiere catanese della Civita) al porto di Catania. Attualmente, i masculini da magghia sotto sale non sono in commercio: si possono ancora assaggiare soltanto in qualche ristorante di Catania o nelle dispense delle famiglie dei pescatori. Il neonato Presidio sta tentando di riorganizzarne la produzione e la commercializzazione. I masculini si vendono freschi sul mercato catanese di piazza Pardo ( ‘a Piscaria) oppure vengono messi sotto sale dalle mogli dei pescatori. La tecnica di salagione è la stessa di tutto il Mediterraneo, ma qui esiste una preparazione assolutamente unica, inventata dai pescatori catanesi per sfamarsi durante le molte ore trascorse in mare. Si tratta di una conserva fatta con pezzetti di alici e con le teste che rimangono impigliate nelle maglie della menaide. Impossibili da vendere, questi “scarti” erano consumati in barca. Tornati a riva, le donne di casa mettevano ciò che rimaneva sott’olio di oliva, in vasetti di vetro o in piccoli orci di terracotta (i cugnitti) e all’occorrenza se ne prelevava una parte per cucinare sughi e salse. Qui le famiglie che vivono di questo mestiere antico sono una trentina: un gruppo sparuto – che si divide fra i porticcioli di San Giovanni li Cuti, Ognina, Aci Trezza – e qualche civitotu (così si chiamano gli abitanti del quartiere catanese della Civita) al porto di Catania. Attualmente, i masculini da magghia sotto sale non sono in commercio: si possono ancora assaggiare soltanto in qualche ristorante di Catania o nelle dispense delle famiglie dei pescatori. Il neonato Presidio sta tentando di riorganizzarne la produzione e la commercializzazione.
Masculini da magghia
LAMPARI
Prisepiu scintillanti 'mmezzu u mari, chi 'nta li notti chiari ra staciuni rischiaranu lu cori. Lampari, ricordi ri quann'era picciriddu chi li vardava cu gran maravigghia e li cuntava tutti a una a una e poi ricuminciava pu sbagliari ristava affascinatu ra luci di lampari. Ma succiria puru quarche vota chi ddu prisepiu un si putia addumari pirchì na svintuliata troppu forti ciuciannu astutava li lampari. Allura cu lu sguardu iu li circava scrutannu l'orizzonti rogni latu e la me menti nun si rassignava. poi li truvava dda abbannunati rintra na varca chi giacia na gghiara. Chiancia lu cori di lu piscaturi, chiancianu li lampari. Poi tuttu riturnava comu prima e iu cu la me menti turnava a pinsari chi si pi mmia eranu maravigghia, pu piscaturi inveci eranu pani. Ma quannu u suli ceri u postu a luna e chi so' raggi d'argentu tinci lu mari felici s'arriposa u piscaturi. E' festa pi lampari.
di Giovanni Torrente da Il cortile delle sette fate
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Pesce compresso ai lati dal corpo fusiforme allungato. Caratteristiche principali sono la linea laterale molto evidente e ricoperta da scudetti ossei, l’occhio grande e la bocca ampia con la mandibola prominente. I giovani sono grigio argentati con riflessi verdi–bluastri iridescenti, gli adulti hanno il dorso blu verdastro ed i fianchi grigio giallastri. I giovani sono soliti nascondersi fra i tentacoli delle grandi meduse come il polmone di mare per proteggersi dai predatori. Può raggiungere oltre i 50 cm di lunghezza , più comune tra 15-30 cm. E' una specie cosmopolita, molto comune in Mediterraneo, più diffuso nei mari meridionali. Vive in branchi a profondità variabili da 50 a 500 m, si riproduce durante tutto l’anno ma in prevalenza nel periodo estivo vicino alla costa; in inverno si allontana dalla costa e scende oltre i 500 m di profondità. E’ un vorace predatore che si ciba di crostacei e piccoli pesci che preda indistintamente senza particolari preferenze. Si pesca con reti a strascico, reti da posta, o di notte a circuizione con l’ausilio di fonti luminose. Gli esemplari catturati a circuizione o con lo strascico non superano i 30 cm di lunghezza; quelli catturati con i palangari raggiungono i 50 cm. Sono apprezzati gli individui di discrete dimensioni, le carni sono saporite. In realtà in Mediterraneo vivono tre specie diverse alle quali viene attribuito lo stesso nome, è molto difficile distinguerle, tutte sono ugualmente apprezzate.
Il corpo del Sugarello è corto e
non particolarmente slanciato, di color grigio o verde-bluastro sul
dorso ed argentato sul ventre può arrivare ad un massimo di 40 cm.
Poco considerata per anni
ed utilizzata prevalentemente come jolly in mancanza di altro, oggi
ha scoperto un nuovo successo.
Come deliscare il sugarello Con un coltello, ben affilato e non seghettato, si incide la pancia, dall’orifizio anale fino alla testa, estraendo le interiora. Risciacquato il pesce, lo si asciuga con della carta assorbente, perché non scivoli durante le operazioni di sfilettatura. Tenendo con una mano la testa, con l'altra si incide la carne poco prima della pinna laterale, fermando però il coltello all’altezza della lisca centrale. Si ruota, quindi, il polso in modo da poggiare la lama su quest’ultima, avanzando lungo la lisca fino alla coda. La stessa operazione va ripetuta sull'altro lato del pesce. Si ottengono così due filetti. Il sugarello ha alcune pinnette laterali sul dorso vicino alla coda che bisogna assolutamente rimuovere. Ci sono due modi per eliminare la pelle e queste pinnette: a) si posa il filetto sul tagliere con la pelle rivolta verso il basso, con una mano si tiene la coda e con l'altra si incide il pesce, facendo scivolare il coltello verso la testa e sfiorando la pelle. Questa operazione richiede un buon uso del coltello ed elimina completamente la pelle del sugarello; b) senza usare, invece, il coltello, viene eliminata solo la pellicina superficiale del pesce, ma non la parte grigio-azzurra; in questo caso si mette il filetto sul tagliere con la pelle rivolta verso l'alto e partendo dalla testa si tira via la pellicina trasparente insieme alle pinnette laterali, conservando il colore del pesce. Con l'aiuto di un coltello si eliminano le spine dalla pancia, poi quelle al centro per tutta la lunghezza del filetto, in corrispondenza della venatura sanguigna. Se il filetto serve intero, per fare involtini, sformati o spiedini, si passa il dito lungo la linea centrale e con l’aiuto di una pinzetta professionale si estraggono tutte le spine fin quasi alla coda. Altrimenti, per preparare tartare, polpette, ripieni, si praticano due incisioni longitudinali, molto strette, dalla coda alla testa, e le spine verranno via con un po’ di carne. Il sugarello come tutto il pesce azzurro non è un pesce povero, perché è ricchissimo di omega 3 e calcio, con solo 104 calorie ogni 100 grammi.
Famiglia Testa pescatori in Sicilia dal 1800 Testa Conserve Marco Zanella
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E' una specie pelagica riconoscibile per la forma caratteristica: nei maschi adulti sulla nuca si trova una specie di gobba e subito dietro ad essa si inserisce la pinna dorsale che costituisce una sorta di “criniera”, la pinna anale è più breve e bassa, la coda è simmetrica con ampi lobi. Il dorso ha un colore azzurro verdastro, i fianchi sono argentati con piccole macchie blu.
E' una specie pelagica riconoscibile per la forma caratteristica: nei maschi adulti sulla nuca si trova una specie di gobba e subito dietro ad essa si inserisce la pinna dorsale che costituisce una sorta di “criniera”, la pinna anale è più breve e bassa, la coda è simmetrica con ampi lobi. Il dorso ha un colore azzurro verdastro, i fianchi sono argentati con piccole macchie blu. Durante lo sviluppo la colorazione ed il profilo del muso cambiano notevolmente, i giovani hanno colori più decisi e non presentano la gobba sul dorso. Può raggiungere dimensioni considerevoli, sono stati catturati esemplari di 2 m di lunghezza, più comune da 50 cm ad 1 m.
Pesce epipelagico vive in alto mare, occasionalmente si avvicina alle coste seguendo le navi; agilissimo nuotatore e predatore si muove in piccoli gruppi e cattura pesci e calamari, presente in tutto il Mediterraneo, raro nel Nord-Adriatico, frequente nei mari attorno alla Sicilia; preferisce acque con temperature superiori ai 20 C°. Si avvicina alle coste in primavera, nel periodo della riproduzione. Le lampughe, che a volte entrano anche nelle tonnare, vengono catturate con reti da posta in superficie o con reti a circuizione. Amano sostare all’ombra di oggetti galleggianti in piccoli gruppi, conoscendo questa abitudine i pescatori siciliani hanno escogitato un sistema singolare di pesca ancorando in mare aperto numerosi fasci di foglie di palma chiamati “cannizzi”, le lampughe vi si radunano sotto e possono essere facilmente pescate dopo essere state circondate con le reti. Una volte pescata, i colori si affievoliscono immediatamente. Le carni sono molto saporite , solitamente si consuma fresca.
U "CONZU". Nel nostro golfo ci sono pescatori che lavorano, come vedremo, più vicino alla riva di quanti in estate prendono il bagno alla Plaia e quelli, invece, che pescano più al largo di tanti altri. È di questi, appunto, che vogliamo ora parlare e che consideriamo veri e propri arditi del mare: "'i cunzara". Essi sono così chiamati perché pescano con il "conzu", una lunga lenza formata da molti fili e tantissimi ami, denominata palàmito, che può pescare tanto in superficie (palàmito di galla) quanto in profondità (palàmito di fondo). Nel nostro golfo, il primo tipo è generalmente usato per la pesca del pescespada, il secondo dei merluzzi. Poiché nel nostro mare i pescespada non sono che di piccola e media taglia, alcuni pescatori, in particolare quelli di Acitrezza, per la cattura di esemplari di notevoli dimensioni, si spingono fino ai limiti delle acque territoriali della Spagna e della Grecia. Gli antichi "cunzara" erano dei veri e propri "eroi" in quanto andavano per mare, con barche a remi e a vela, senza strumenti di sorta, ma muniti solamente di molta forza di volontà, di tanta esperienza e di tanto coraggio.
Le "battute" di pesca iniziavano sempre allo stesso modo: alle prime luci dell'alba, prima di portarsi al largo, "'i cunzara" cercavano le barche a pesca di sardine per potersi rifornire dell'esca più idonea (le sardine, appunto), che doveva servire loro per la pesca "o suma" (in superficie) dei "capuni". Quando l'esca abbondava, tutto si svolgeva regolarmente; ma, quando non se ne trovava che qualche chilogrammo, la disputa per l'accaparramento era di rigore. Rifornitisi dell'esca necessaria, issavano le vele e con il vento del golfo si portavano "all'acquata" (profondità stabilita) e questo, talvolta, significava non vedere più la costa, specie quando il tempo volgeva al brutto. In tal modo Fora del ritorno, senza precisi riferimenti o strumenti, veniva calcolata in base alla posizione del sole o, in assenza di questo, a seconda del vento che, come sappiamo, cambia direzione col variare dell'orario. Quando il vento di ponente iniziava a rinforzare costringendo i pescatori al rientro, i guai si moltiplicavano, perché il vento anzidetto, al largo della costa, ingrossa notevolmente il mare. Issare in questi casi la vela più piccola era un vantaggio, perché significava guadagnare...; ma, in ogni caso, il ritorno era quasi sempre avventuroso e per questo le barche si tenevano, per così dire, d'occhio in caso di bisogno. In condizioni normali il ritorno a terra era, invece, una frenetica gara fra barche, per portarsi sul posto dove il pesce doveva essere poi venduto, poiché la barca in ritardo avrebbe trovato il prezzo "sdirrubbatu" (stracciato). Oggi l'uso delle imbarcazioni a motore, la refrigerazione dell'esca, la bussola, la radio consentono lo svolgersi delle operazioni di una volta in tempi quasi reali. _____________________ tratto da "Il Golfo di Catania e i suoi pescatori" di Pippo Testa e Mimmo Urzì - Edizioni Greco, Catania - 1992
LA CAPONESSA
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Lo sgombro è un pesce azzurro di medie dimensioni dal corpo fusiforme, che conduce vita pelagica. La colorazione di base sul dorso è blu-verde, con linee trasversali di andamento irregolare e di colore nero marcato; i fianchi ed il ventre sono bianco-argentati, con nessuna macchia. Una specie molto simile allo sgombro è il Lanzardo (Scomber japonicus)che si distingue per via di numerose macchie sui fianchi.
Le due pinne dorsali sono ben separate tra loro e possono essere ripiegate all’indietro e alloggiate in appositi solchi. Sul peduncolo codale sono presenti cinque pinnule dorsali e ventrali; spesso gli occhi sono circondati da una formazione adiposa trasparente che lascia libera solo una fessura verticale in corrispondenza della pupilla. Lo sgombro è un pesce gregario, ma spesso caccia individualmente; si nutre in primavera di pesci e cefalopodi. Durante il periodo riproduttivo, da maggio a luglio, digiuna poi successivamente inizia nuovamente a nutrirsi di piccoli pesci, specialmente di sardine e spratti. Depone le uova in estate. Raggiunge la lunghezza di 50 cm, ma le dimensioni degli sgombri pescati variano tra i 20 e i 40 cm. Lo sgombro è presente in tutto il Mediterraneo, Mar Nero, lungo le coste atlantiche dell’Europa e dell’America settentrionale. Vive in banchi molto numerosi con individui della sua stessa taglia presso la superficie o a media profondità, fino a 200 m; in primavera-estate si sposta vicino alla costa, mentre in inverno si sposta nelle acque più profonde e mangia meno. Durante il periodo riproduttivo vive in prossimità della costa.
Si cattura principalmente di notte con reti a circuizione impiegando fonti luminose (lampare o ciancioli). Lo sgombro viene pescato anche con reti da posta e con reti da traino pelagico (volanti) e abbocca facilmente anche alle esche dei pescatori sportivi. Le maggiori catture si riscontrano, oltre che in Sicilia, in basso Adriatico e nel Tirreno. Lo sgombro è un pesce apprezzato per la morbidezza delle sue carni, bianche, dal sapore forte, abbastanza grasse. Viene venduto fresco, congelato e conservato sott’olio e in salamoia. Molto apprezzato dai mercati del sud Italia, è importante per la dieta per l’alto contenuto di vitamine e sali minerali, nonché per la presenza di acidi grassi Omega 3.
Le specie tropicali sono conosciute col nome di barracuda e possono raggiungere la lunghezza di circa due metri. Il Luccio marino è abbastanza raro e spesso viene confuso con il congenere Sphyraena viridensis di taglia più grossa. Ha corpo cilindrico, affusolato, soprattutto all'estremità anteriore, con profili ventrale e dorsale dritti e molto simili fra loro. Il peduncolo codale è un po' più compresso. E' coperto da piccole squame cicloidi anche su opercolo e preopercolo; lungo la linea laterale vi sono 120-150 squame, che posteriormente formano una specie di carena. La testa è sviluppata e con muso lungo e appuntito. L'occhio è circolare e relativamente grande. L'opercolo è acuminato e con una sola punta. La bocca è bocca ampia, terminale e orizzontale; la mandibola è prominente e munita all'estremità anteriore di un lobo, che a bocca chiusa copre quella della mascella superiore. Ha denti acuti e affilati, leggermente ricurvi verso l'interno della bocca. Nella mascella superiore ve ne sono anteriormente quattro per lato, seguiti da altri più corti e sottili. Nella mandibola presenti 1-2 denti lughi e acuminati. Anche sul palato vi sono 3-4 denti. La mascella non raggiunge il limite anteriore dell'occhio.
Le pinne dorsali sono distanziate tra loro. La prima, inserita in corrispondenza delle ventrali, è composta da 5 raggi spinosi ed ha una forma a vela. La seconda ha 1 raggio spinoso e 9 molli, il lobo anteriore è a punta e i raggi che seguono decrescono rapidamente. L'anale, opposta e simile alla seconda dorsale, è formata da 1 (2) spina non molto evidente e da 8 raggi molli. La pinna caudale è molto forcuta e con i lobi uguali e a punta. Le pettorali (13 raggi) sono falciformi e corte, tanto da non raggiungere l'origine delle ventrali. Quest'ultime hanno 1 raggio spinoso e 5 molli e sono corte. La colorazione può variare dal verde bruno al bluastro, in dipendenza dell'età. Dorsalmente può assumere una colorazione bruno olivastra. I fianchi sono più chiari con qualche riflesso argenteo e la parte ventrale è biancastra. Controversa resta la determinazione se le macchie scure trasversali nella parte superiore dei fianchi è una caratteristica degli esemplari più grandi o se questa caratteristica è peculiare solo della specie congenere Sphyraena viridensis. E' pelagico e vive in piccoli gruppi nelle acque superficiali in prossimità delle coste. Da adulti, i lucci marini sono più solitari. La riproduzione avviene alla fine della primavera e all'inizio dell'estate. Le uova sono pelagiche e si trovano nel plancton. Si nutre di latterini, sarde, boghe e altre specie. Si pesca occasionalmente con reti a strascico, tramagli, reti di circuizione e abbocca alle lenze ferme e anche alle traine. Allo stadio giovanile si cattura con la sciabica da terra. Ha carni variamente apprezzate, ma non sempre piacciono. Raggiunge una dimensione massima di oltre un metro. Si trova in tutto il Mediterraneo http://www.colapisci.it/PescItalia/pisces/Perciformi/Sfirenidi/LuccioMarino.htm
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Il tonno è una specie pelagica gregaria e migratrice che si sposta più vicino alla costa nelle stagioni calde. Il corpo è fusiforme piuttosto panciuto, ricoperto da una pelle molto spessa; le pinne, molto robuste, sono adatte al nuoto veloce. La colorazione è blu scura sul dorso e grigio-argentata sui fianchi. Può raggiungere i 3 m di lunghezza e i 450 Kg di peso, ed è uno dei pesci ossei di maggior grandezza. E’ detto anche “tonno rosso”, infatti le sue carni sono irrorate da numerosi vasi sanguigni, conseguenza della potente attività natatoria.
I tonni sono probabilmente i migliori e i più forti nuotatori: sembra che in un giorno possano coprire distanze di oltre 250 km, con una velocità pari a 75 Km/h. Nei mari italiani si riproduce da giugno alla metà di luglio, e a volte sino ad agosto; la prima maturità sessuale è raggiunta alla fine del terzo anno di età (lunghezza di 90 cm). E’ un voracissimo predatore: da giovane (nella fase larvale) si nutre di plancton, mentre da adulto mangia cefalopodi, crostacei e altri pesci, prevalentemente sardine. Il tonno compie spesso balzi fuori dall’acqua, durante l’inseguimento delle sue prede o la fuga da eventuali aggressori (ad esempio gli squali). Vive in mare aperto, nei fondali dei mari calmi e temperati, a notevole profondità e anche in superficie.
Durante il periodo riproduttivo esso abbandona i fondali marini, si riunisce in banchi spesso molto numerosi, che nuotano in prossimità delle coste dell’Africa settentrionale, di quelle orientali e settentrionali della Sicilia e di quelle occidentali della Sardegna, Calabria e Liguria. Da giugno a metà luglio si sposta dall’Atlantico verso il Mediterraneo, mentre altri vengono dall’Atlantico solo per la riproduzione e poi tornano nell’oceano. In primavera, in vicinanza dei litorali le favorevoli condizioni di temperatura e salinità consentono la maturazione delle gonadi e, nei mesi estivi, avviene la deposizione delle uova. Una volta terminata la fase riproduttiva, i tonni perdono lo spirito gregario e, stanchi e dimagriti, sostano per un po’ lungo le coste alla ricerca di cibo, per poi tornare nei fondali marini. Il tonno vive nell’Oceano Pacifico e nell’Atlantico ed esiste in tutto il Mediterraneo, nell’Adriatico e nel Mar Nero.
Il tonno
Il tonno è un pesce marino diffuso negli oceani Pacifico, Atlantico e Indiano; vive in branchi e solo in zone dove la temperatura dell'acqua non scende sotto i 10°C. E’ un nuotatore velocissimo e un vorace predatore. Queste sono le specie più note:
- il tonno rosso (thunnus thynnus), così chiamato per il tipico colore rosso delle carni, è il più pregiato, ma anche il più raro. Diffuso nell’oceano Pacifico e nell’Atlantico (stagionalmente anche nel Mediterraneo), può raggiungere il peso di 600 kg e la lunghezza di 3 metri; le sue parti superiori sono blu-nerastro; da qui il nome bluefin. È molto amato dai giapponesi, che lo consumano crudo in sashimi. È la specie con cui noi abbiamo iniziato l’attività, pescandolo con l’antico sistema della tonnara e lavorandolo secondo i dettami della tradizione; specie che ora non inscatoliamo più nel rispetto delle normative europee che ne regolamentano la pesca per promuoverne il ripopolamento.
- il tonno pinna gialla (thunnus albacares) è chiamato cosi per la caratteristica colorazione gialla delle pinne dorsali e ventrali (yellowfin). Questa specie vive in branchi nelle acque tropicali o subtropicali e il suo peso medio si aggira attorno ai 40 chilogrammi. È il tonno che, dopo la lavorazione, meglio risponde alle richieste del consumatore italiano, sia per il gusto che per l’aspetto della carne, tenera ma compatta e rosea. Questo è l’unico tonno che noi inscatoliamo, specie che non è a rischio di estinzione; noi utilizziamo per lo più esemplari che pesano mediamente 20 kg, a garanzia che si tratta di tonno in età matura.
- il tonnetto striato (euthynnus pelamis), chiamato così per le striature longitudinali nel ventre, è la specie più pescata e utilizzata per la produzione ittico-conserviera; rispetto al tonno pinna gialla ha dimensioni più piccole, mediamente tra i 3 e 4 kg, e una carne più chiara. È un tonno che noi non utilizziamo e che viene spesso associato alla pesca con FAD, metodo che si serve di strumenti di aggregazione di pesce e che attrae specie di piccole dimensioni.
- il tonno bianco (thunnus alalunga) o albacore è l’unico tonno che dopo la lavorazione presenta carni bianche; ha dimensioni medie che stanno tra il tonnetto striato e il pinna gialla ed è molto apprezzato nel mercato inglese e statunitense.
- il tonno obeso (thunnus obesus) o bigeye, è così chiamato perché meno affusolato e per l’occhio più grosso rispetto alle altre specie. Ha carni grasse che lo rendono apprezzato quando consumato crudo; i giapponesi lo utilizzano in sashimi, come alternativa al tonno rosso. tipi di pesca
http://www.ninocastiglione.it/
(1) BODANO o SMUSSO DI PETTO: Parte difficilissima da trovare al mercato, essendo accaparrata dagli chef, è la più pregiata per il crudo. Preparata in carpaccio o in tartare ma anche salata ed essiccata.
(2) CALCAGNOLO: parte finale vicino alla coda.
(3) CODELLA NERA: Parte posteriore del pesce, lato superiore
(4) CODELLA BIANCA: Parte posteriore del pesce, lato inferiore
(5) DORSO: La parte più magra e, nonostante l’ottimo sapore, la meno pregiata. Con Tonnina o “Tunnina”, indistintamente, in Sicilia si intende tutta la carne muscolosa del tonno.
(6) FILETTO: Parte della carne più magra posta nell’addome e nei fianchi è la parte più pregiata e si consuma fresca.
(7) GUANCE: La parte più grassa del tonno. Spesso cotte alla brace, si mangiano anche crude. Molto apprezzate dai giapponesi, nel Catanese si preparano crude e condite con prezzemolo e olio,
(8) MACCARRONE: Parte carnosa posta sulla parte superiore, tra la fronte e vicino alla pinna dorsale
(9) TARANTELLO: E’ la terza parte del filetto e si trova a metà tra la ventresca e il dorso. Non proprio grasso come la ventresca. La sua denominazione deriva da Taranto, città dove una volta si lavorava parecchio il tonno.
(10) TESTA E SCHELETRO: vengono pressati e tritati fino a ricavarne l’olio di pesce. Oppure la Sausa catanese (vedasi più sotto).
(11) VENTRESCA (Surra in trapanese, Sura in catanese): Parte nobile della pancia accanto al filetto. Grassa, morbida e gustosa, è la più ricercata e viene venduta a fette. E' molto apprezzata e viene consumata rigorosamente arrostita sulla brace o in piastra, così che il grasso in eccesso possa sciogliersi.
Il Maestro Battaglia, grande tagliatore di pesce, all'opera.
"Rissi lu tunnu: chi sugnu nnfatatu, ca tutti stati a spiranza di mia? I Greci lo mangiavano a pezzetti, arrostito o insaporito con olio e sale e fatto macerare in salamoia piccante. Archestrato consigliava di mangiare la tenera carne della femmina del tonno: a tunnina. Ancora oggi in Sicilia non si compra u tunnu ma a tunnina. Naturalmente ci è sconosciuto il sesso del tonno che compriamo in pescheria.
(da "I sapori lontani della cucina siciliana" di Gino Schilirò - Lancillotto e Ginevra Editori
La ventresca è la parte più pregiata e saporita del tonno, perché è ottenuta esclusivamente dalle morbide fasce ventrali del pesce. Delicatezza e morbidezza al palato sono le sue caratteristiche inconfondibili, anche grazie all’elevato contenuto lipidico.
E IL RESTO SI BUTTA VIA ? NOO!
NON PER NIENTE VIENE CHIAMATO "MAIALE DEL MARE".
ALTRE INTERIORA BUDELLO (Burellusi): Dall’odore molto forte, i budelli vengono lasciati in salamoia per 10-15 giorni e da asciugare per altri 10. Si consumano arrosto o in insalata, soprattutto nella Sicilia ovest. - STOMACO (Brenti) e TRIPPA (Belu): Molto simile, una volta lavorata e cucinata, ad una normalissima trippa bovina. - POLMONI (Prumoni): Vengono essiccati e poi consumati in antipasti o insalate. - GOLA (Cucuddu), OMBELICO (Biddiu), FEGATO (Ficali), FIELE (Feli)
La pesca del tonno è di grande importanza e viene praticata soprattutto con le tonnare fisse in Sicilia e Sardegna, particolari reti calate lungo le coste nel periodo riproduttivo, sfruttando i percorsi stagionali dei banchi migratori; hanno la funzione di sbarrare le acque ai tonni con un sistema antico costituito da gabbie sottomarine che, attraverso percorsi obbligati, conducono il pesce in una sacca chiusa detta “camera della morte”, la quale viene poi stretta fino a quando i tonni posso essere issati sulle imbarcazioni con degli arpioni: si procede alla cosiddetta “mattanza”. Una tecnica moderna e produttiva è rappresentata dalle reti a circuizione nel Basso Tirreno, in Adriatico, nel Canale di Sicilia e in Liguria, queste reti vengono chiamate anche tonnare volanti; altro sistema molto valido è quello con ami (a lenza singola o mediante palangari). E’ considerato un pesce grasso; viene consumato soprattutto fresco, inscatolato (anche se la materia prima più largamente utilizzata per questo scopo è il tonno pinne gialle). Il tonno in scatola, conservato sott’olio o in salamoia, mantiene inalterate le sue qualità organolettiche.
Può essere consumato anche come “bottarga”, che viene preparata con le sacche ovariche salate ed essiccate al sole per alcuni giorni; il “musciame”deriva da filetti di tonno asciugati al sole o in appositi forni; la “ventresca” è costituita dalle grandi masse muscolari laterali e ventrali della parte addominale del corpo. In Sicilia è possibile assaggiare un salame particolare, la “ficazza”, ottenuto impastando la carne rimasta attaccata alla spina dopo la macellazione con sale e pepe e insaccandola nel budello. In Sardegna si è sviluppata la produzione di cuore, di buzzonaglia (resti neri del pesce una volta estratte le parti più pregiate) e stomaco o trippa (u belu).
Gran parte del pescato viene destinato, freschissimo, in Giappone per il mercato del sushi. Se acquistate un tonno fresco, ovvero un pesce del peso di oltre 40 Kg, potete star certi che si tratta di tonno rosso; se è di piccole dimensioni, potrebbe essere alletterato, alalunga, palamita o tombarello, che, pur essendo della stessa famiglia, hanno caratteristiche organolettiche leggermente diverse. La carne del tonno rosso ha caratteristiche diverse a seconda di quale parte del corpo si considera. La parte ventrale detta ventresca, è più ricca di grasso, ha una consistenza più morbida rispetto alla parte dorsale; i muscoli rossi hanno un sapore più forte.
La Mattanza nelle acque della Sicilia è una secolare caccia collettiva che implica il massacro di centinaia di tonni che nuotano verso Sud per deporre le uova. Una volta, questa singolare tecnica di pesca, rappresentava una roccaforte economica e una tradizione di molte comunità, ma fortunatamente oggi sopravvive solo fuori l'isola di Favignana, dove è divenuto uno spettacolo crudele per i turisti; le tonnarre ribollenti, rosse del sangue dei tonni arpionati durante la fase finale della mattanza, sono le immagini legate indissolubilmente alla pesca in Sicilia, ma sono anche per molti versi fuorvianti. I tonni sono in Mediterraneo sempre più rari e in Sicilia sono rimaste solo tre tonnare: a Favignana per l'appunto, Bonagia e Castellammare. I tonni vivono per la maggior parte dell'anno in Atlantico, ma all'inizio della primavera, iniziano il loro esodo verso le zone di riproduzione al largo della costa della Sicilia.
La mattanza in uso già nel corso dell'Età del Bronzo e ai tempi dei Fenici, venne affinata con l'arrivo degli arabi nel IX secolo, i quali insegnarono ai pescatori siciliani tecniche di pesca per le grosse creature del mare, che potevano pesare fino a 600 Kg. Gli arabi, per esempio, insegnarono agli isolani, che il tonno raramente si lascia adescare prima della deposizione delle uova, e introdussero cosi la tecnica di reti al centro della mattanza. Intorno al mese di Maggio, quando il vento Favonio (che porta i fiori) inizia a soffiare, il tonno si avvicina nei canali limitrofi a Favignana. Squadre di pescatori muniti delle tradizionali barche piatte, con grandi reti fino a 16 Km di lunghezza, preparano una serie di corridoi costringendo i tonni a nuotare verso la cosiddetta 'camera della morte'. Quando circa un centinaio di prede restano intrappolate, i 60 membri dell'equipaggio iniziano a tirar su le reti, a ritmo del canto antico chiamato Cialoma, o Scialome, risalente al periodo Arabo o addirittura precedente a questo. Quando il tonno sale in superficie ecco qui che i pescatori cominciano ad infilzarlo.
La parola "Mattanza" suggerisce carneficina, una relazione che ogni spettatore, e non sono pochi, non può ignorare. Implicazione culturale a parte, vi è un elemento sostanziale, la brutalità del rituale. I Tonni tendono a immergersi nuovamente nell'acqua quando sono in preda al panico, ma per molti di loro, già storditi o feriti gravemente a causa dell'impatto durante la risalita in superficie, gli resta che traballare sulle reti la cosiddetta 'danza della morte'. Questa fase, solitamente, ha una durata di circa 15 minuti prima della lenta e inesorabile morte. Ma spesso capita che alcuni muoiono rapidamente appena in superficie, a causa del troppo ossigeno nell'aria o dal sopraggiungere di attacchi di cuore. Questa crudele e intollerabile pesca è stata il pilastro economico di una volta, ma ai giorni nostri, delle 50 tonnare presenti in Sicilia, solo una, quella della suddetta Favignana, è in attività (contro le 150.000 tonnellate di tonno, un tempo pescate, oggi la cifra è compresa tra le 1.000 e le 1.500 tonnellate). http://www.wishsicily.com/it/la-mattanza/27
La Bottarga . Uno degli alimenti pregiati che da qualche tempo fa sempre più capolino sulle tavole di molti italiani è sicuramente la bottarga. Ricavata dalle uova di muggine o di tonno essiccate, la bottarga viene prodotta solo in alcune zone dell’Italia: in Sardegna (Carloforte, Cabras, Alghero e Stintino), in Toscana (Orbetello nella Maremma grossetana), in Sicilia (Marzamemi, Favignana e Trapani) e in Calabria. Conosciuta fin dall’antichità, la bottarga è stata apprezzata da cuochi importanti, come Bartolomeo Scappi, considerato il Michelangelo della cucina, che la proponeva anche a Pio V. Fino agli anni ’70 però è rimasto un alimento d’elite, troppo costoso per le persone comuni. Anche se tradizionalmente la bottarga è il pasto dei pescatori quando passano le giornata al mare e quella di tonno, come per altro le altre interiora del pesce, spettano di diritto ai “tonnarotti“, i pescatori delle tonnare. Per ottenere la bottarga di muggine o di tonnoviene estratta dal pesce femmina la sacca ovarica facendo molta attenzione a non romperla. Dopo essere stata lavata per eliminare tutte le impurità viene sottoposta a salatura, con sale marino, pressatura e stagionatura. Le sacche vengono fatte sgocciolare su un piano inclinato e sottoposte ad una leggera pressione per far perdere loro il liquido. Fatto questo vengono fatte asciugare all’aria per qualche giorno e stagionare in un luogo asciutto e ventilato per almeno 60-90 giorni. La bottarga si trova in commercio sottoforma di baffe intere (le sacche ovariche integre), più costose, oppure in polvere.
E’ la meno pregiata dei due tipi di bottarga ed il suo colore più scuro. La consistenza deve essere compatta ed il colore uniforme Il periodo di produzione della bottarga di tonno di solito è successivo alla mattanza e quindi verso maggio. La bottarga di tonno presenta una forma simile a quella di un parallelepipedo. Forma conferita dalla essiccatura che viene fatta tra robuste presse. Il suo sapore è nettamente più forte e marcato di quello della bottarga di muggine BOTTARGA DI MUGGINE E’ la più pregiata e costosa delle due ed è caratterizzata da un colore che va dall’oro all’ambra a seconda della stagionatura e dalla parte di placenta che rimane attaccata al tratto iniziale della baffa. In Sardegna proprio per il suo particolare colore, ma anche per la sua incredibile qualità, viene chiamata L’oro della Sardegna La stagione della lavorazione della bottarga di muggine è a settembre. La bottarga di muggine conserva la forma della sacca ovarica del pesce ed ha un sapore deciso ma allo stesso tempo delicato, con un retrogusto amarognolo, quasi di mandorla Per essere di qualità la bottarga di muggine deve essere di colore uniforme senza macchie e compatta al taglio, con la rivestimento della sacca ovarica ben aderente alla massa essiccata delle uova.
o degli alimenti pregiati che da qualche tempo fa sempre più capolino sulle tavole di molti italiani è sicuramente la bottarga. Ricavata dalle uova di muggine o di tonno essiccate, la bottarga viene prodotta solo in alcune zone dell’Italia: in Sardegna (Carloforte, Cabras, Alghero e Stintino), in Toscana (Orbetello nella Maremma grossetana), in Sicilia (Marzamemi, Favignana e Trapani) e in Calabria. Conosciuta fin dall’antichità, la bottarga è stata apprezzata da cuochi importanti, come Bartolomeo Scappi, considerato il Michelangelo della cucina, che la proponeva anche a Pio V. Fino agli anni ’70 però è rimasto un alimento d’elite, troppo costoso per le persone comuni. Anche se tradizionalmente la bottarga è il pasto dei pescatori quando passano le giornata al mare e quella di tonno, come per altro le altre interiora del pesce, spettano di diritto ai “tonnarotti“, i pescatori delle tonnare. Per ottenere la bottarga di muggine o di tonnoviene estratta dal pesce femmina la sacca ovarica facendo molta attenzione a non romperla. Dopo essere stata lavata per eliminare tutte le impurità viene sottoposta a salatura, con sale marino, pressatura e stagionatura. Le sacche vengono fatte sgocciolare su un piano inclinato e sottoposte ad una leggera pressione per far perdere loro il liquido. Fatto questo vengono fatte asciugare all’aria per qualche giorno e stagionare in un luogo asciutto e ventilato per almeno 60-90 giorni. La bottarga si trova in commercio sottoforma di baffe intere (le sacche ovariche integre), più costose, oppure in polvere. Ma che differenza c’è tra la bottarga di muggine e la bottarga di tonno? BOTTARGA DI MUGGINE
BOTTARGA DI TONNO
La prossima volta vi suggerisco anche qualche ricetta per la bottarga! - See more at: http://www.gastronomia-online.com/alimenti/tutte-le-differenze-tra-la-bottarga-di-muggine-e-quella-di-tonno/#sthash.ZhtO7WSw.dpuf
COME SI CONSERVA:La bottarga si conserva anche per qualche mese avvolta in carta alluminio e posta in frigorifero nella parte meno fredda. Se viene consumata nel giro di 15 giorni si può conservare sott'olio in un barattolo per non farle perdere sapore e morbidezza. Suggerimenti a tavolaAffettate la bottarga e mettetela in una ciotola con uno spicchio d'aglio. Lasciate riposare per circa un'ora e condite la pasta. Affettate la bottarga e disponetela su un carpaccio di pesce condito con solo olio e limone. Servite la bottarga affettata su fettine di salmone affumicato._________________ I prodotti di tonnara sono buoni con un filo d’olio, ma hanno anche un loro codice gastronomico provato da secoli dai marinai trapanesi. Una sorta di ricettario minimo, da qualche tempo rivalutato non solo dai ristoratori locali, ma anche in Giappone e in Francia. Eccolo. L’ovu di tunno (bottarga) si consuma generalmente a fettine con l’olio, oppure grattugiato sulla pasta. Il purmuneddu (pancreas) si cucina in un soffritto di cipolla con pomodoro, sale e pepe. Il cori (cuore) è eccellente tagliato a fettine con olio, pepe e succo di limone, o semplicemente con olio. Il virticchiu (valvola cardiaca) è ottimo fresco, fritto oppure bollito con olio, limone o con il pesto di aglio. Il ventri (stomaco) è ideale sbollentato e a stufato con la salsa di pomodoro. Il lattume fresco (organi testicolari del pesce) è squisito fritto, quello salato si prepara arrostito. Il tarantello e la surra (la parte bassa del ventre) sono le parti più pregiata del tonno, buonissimi arrostito, sott’olio o sotto sale. Il vureddu (budello) è una delizia arrostito e con un filo di olio.
La ficazza è un salame ottenuto con la carne di recupero del tonno attaccata alla lisca o alle pinne del pesce. Si insacca tritata, condita con sale e pepe; una vera prelibatezza tagliata a fettine e condita con olio. Il musseddu è un insaccato ricavato dal petto, impropriamente identificato come filetto perché si estrae dal tonno da un solo pezzo. Secco e salato è ottimo nelle insalate. La busunagghia è la parte del ventre più comune, si conserva esclusivamente sott’olio. La tunnina salata (la polpa del tonno) ha una preparazione particolare:selezionate le varie parti del tonno, i salatori le dispongono in salamoia nei tini per una quarantina di giorni. Raggiunta la maturazione, gli operai sistemano i tranci sui cannicci a scolare. Successivamente li stivano nei barili alternandoli a strati col sale. Il bottaio applica il fondo superiore e chiude il barile con il suo cerchio. Dal tappo si aggiunge periodicamente nuova salamoia. La bottarga è il prodotto principe di questa produzione. La procedura di lavorazione è semplice. Le uova insaccate nel loro budello, si tengono in salamoia per alcune ore; poi si impanano col sale, prima di essere collocati sotto la pressa per 40 giorni. Alla fine l’asciugatura. Per colpa dei siti di ingrasso, la disponibilità della bottarga da alcuni anni è calata. La pressoché scomparsa delle tonnare, è la responsabile principale di questa crisi; il tonno matato fra maggio e giugno è quello che garantisce una maggiore resa di uova e di interiora. Nei siti di ingrasso la pesca asseconda le esigenze del mercato e non certo quelle del calendario lunare. Risultato: le aziende sono costrette a fare incetta in tarda primavera del prodotto pescato con l’amo o a circuizione. A Favignana, fino a dieci anni fa la regina delle tonnare del Mediterraneo - da un paio di anni per problemi economici e di resa non si calano più le reti - , la lavorazione della bottarga avviene ancora con metodi esclusivamente artigianali Alcune aziende per rimodernare il mercato hanno scommesso anche su altri prodotti: patè di uova di tonno, tonno al peperoncino, antipasto di tonnara. L’obiettivo, conquistare, dopo i consumatori giapponesi, anche gli italiani.
di Giacomo Pilati e Alba Allotta http://www.vieniatrapani.com/n/cibo-e-tradizione/Salatume/NjR8fDc2
GENTE CHE DI TONNO SE NE INTENDE
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La palamita è un pesce pelagico dal dorso blu scuro con riflessi verde-azzurro, presenta 7-9 linee nere oblique caratteristiche, mentre i fianchi ed il ventre sono argentei; nei giovani le linee nere sono sostituite da 12-16 larghe bande scure verticali, che arrivano a metà dei fianchi. Questa specie ha il muso acuto e ha l’aspetto di un piccolo tonno; la prima pinna dorsale è triangolare; la pinna caudale è preceduta da pinnule. A metà del peduncolo codale si nota una carena ben sviluppata entro due carene laterali più piccole. Le forme giovanili si nutrono di zooplancton, quelle adulte cacciano Clupeidi (acciughe e sardine), giovani cefali, aguglie e costardelle; i denti sono appuntiti. E’ una specie che vive in banchi e compie ampie migrazioni. La riproduzione avviene in primavera ed in estate e la maturità sessuale è raggiunta a due anni di età. La palamita può raggiungere 80 cm di lunghezza e 10 Kg di peso, ma è frequente sui mercati attorno ai 2 Kg di peso. La palamita è molto comune in Mediterraneo, Mar Nero, Atlantico orientale e occidentale. Abita in tutti i mari italiani e forma grandi banchi che nuotano presso la superficie ed in genere non vanno oltre i 200 m di profondità. Recenti studi hanno messo in evidenza che la palamita dal Mar Egeo migra in Mar Nero verso maggio-giugno e ritorna alla fine di luglio nei nostri mari. La palamita viene pescata con le tonnare fisse e con le tonnare volanti, ma anche con reti da traino pelagico e reti derivanti dette palamitare. Abbocca facilmente anche alla traina sia con esca viva, sia con esca artificiale. È oggetto di pesca attiva in Puglia, Sicilia e Liguria. La palamita viene principalmente venduta fresca, a tranci e ha un buon valore commerciale, in certi paesi viene anche salata ed affumicata.
Il sapore delle sue
carni è forte e sono preferibili esemplari di 2-4 Kg; può essere
conservata anche in casa in barattoli sott’olio. Si
consiglia di cucinare la palamita al cartoccio al forno, oppure
semplicemente lessa.
LA PALAMITARA. "Sangusi" e "palàmiti" quindi venivano pescati, come si è detto, anche a ridosso del vecchio molo, tanto vicino alla spiaggia che, con un po' di immaginazione, avremmo potuto vederli persino "spraiare" (arenarsi sulla spiaggia). Oggi, invece, è impensabile il verificarsi di una simile circostanza, perché la tecnologia, assieme ad altri fattori, porta a vedere pescare "sangusi" e "palàmiti" laddove sorge il sole. Lo "sbarramento" sempre più verso est delle reti, se da un lato ha obbligato i marinai a pescare più al largo, dall'altro ha fatto "scoprire" la pesca di altri tipi di pesci: "capuni", aguglie imperiali, ecc. ed anche quella, in grande stile, dei totani. A "palamitara" viene calata, nella stagione estiva, al largo dei due Capi (Capo Mulini e Capo S. Croce) dove i pesci anzidetti albergano in abbondanza. _____________________ tratto da "Il Golfo di Catania e i suoi pescatori" di Pippo Testa e Mimmo Urzì - Edizioni Greco, Catania - 1992
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Il tonnetto è una specie pelagica di taglia grande dal corpo robusto e fusiforme, con la coda assottigliata; la pelle è liscia, il dorso azzurro scuro, presenta strisce nere irregolari ed alcune macchie brune tondeggianti al di sopra delle pinne pettorali, il cui numero varia a seconda degli individui; la base dei fianchi ed il ventre sono di color argenteo. Le pinne dorsali sono quasi contigue, la prima è più alta della seconda; questa caratteristica permette di distinguerlo dal tombarello, nel quale le pinne dorsali sono separate e distanti. Tra la seconda pinna dorsale e la coda si trovano 7-8 pinnule, alla base della pinna codale si può notare una carena mediana e due piccole carene laterali. Questa specie di Tunnide è gregaria, si riproduce in primavera-estate e si ciba di pesci (soprattutto Clupeidi), crostacei e cefalopodi.
Può raggiungere lunghezza totale di 1 m e 12 Kg di peso, ma è più comune da 30 a 80 cm. Il tonnetto è una specie pelagica, presente in tutto il Mediterraneo, in Adriatico, nel Mar Nero e nell’Atlantico orientale ed occidentale. Nei mari italiani le aree di maggior concentrazione e di pesca si trovano attorno alla Sicilia, nello Ionio e nel Basso Adriatico. Compie delle migrazioni legate al ciclo riproduttivo. Ama le acque calde, nelle quali si aggrega in branchi numerosi. Il tonnetto viene catturato per mezzo di palangari derivanti, ami e reti a circuizione (tonnare volanti). Questo tipo di pesca in Italia è sviluppata in Adriatico e lungo la costa salernitana; le catture più abbondanti si hanno in primavera-estate nelle acque intorno alla Sicilia, nello Ionio e nel Basso Adriatico. Il tonnetto viene venduto fresco e a tranci soprattutto nei mercati del Sud Italia, si trova anche congelato. Le carni sono buone ma considerate meno pregiate del tonno anche se le qualità organolettiche sono simili. Si consiglia di cucinare i tranci di tonnetto alla griglia o a cubetti in padella con olio, aglio, vino bianco e pezzetti di pomodoro. |
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L’alalunga è un pesce pelagico della stessa famiglia del tonno. Il nome deriva dalle lunghe pinne pettorali falciformi che arrivano fin dietro la seconda pinna dorsale. Ha il corpo a forma di fuso con le due pinne dorsali separate solo da un piccolo intervallo, la seconda è nettamente più bassa della prima; sopra e sotto la coda presenta 7-9 pinnule giallastre e biancastre con margine nero; sul peduncolo codale si nota una forte carena mediana contornata da due carene laterali più piccole. La colorazione è azzurro cupo sul dorso, bluastra ai lati, argentea sul ventre; il bordo posteriore della coda è bianco e le pinne sono grigie. L’alalunga si nutre di pesce azzurro come sardine ed alici, nonché di cefalopodi.
È una specie gregaria che si riproduce in estate, da luglio a settembre e raggiunge la maturità sessuale dopo 6 anni di età (a circa 85 cm); vive in media 8 anni. Può misurare oltre 1 m di lunghezza e superare i 30 Kg di peso; solitamente gli esemplari pescati in Italia pesano attorno ai 4-10 Kg e misurano da 50 a 80 cm. Vive in branchi al largo della costa in profondità e risale in superficie nelle stagioni più tiepide. E’ una specie distribuita ovunque in acque tropicali e temperate, predilige più del tonno le acque calde; costituisce una notevole risorsa per la pesca in Francia, Spagna e Stati Uniti. Nei mari italiani è regolarmente presente, abbondante nel mare di Sicilia, più rara in Adriatico; generalmente nuota con individui della sua stessa taglia al di sopra del termoclino e non si spinge oltre i 100 m di profondità. Effettua grandi migrazioni in rapporto alla riproduzione e durante l’estate si avvicina alla piattaforma continentale. L’alalunga viene pescata con i palangari in Basso Adriatico, Ionio e in tutto il Tirreno; è preda ambita della pesca sportiva soprattutto in Liguria. Può essere pescata anche con reti fisse (tonnare) e con reti mobili lunghe 500 m chiamate “alalungare”. La carne dell’alalunga è bianca (per questo che viene anche chiamata tonno bianco). Per la bontà delle sue carni è oggetto di una intensa attività di pesca. Viene venduta fresca, intera o a tranci, e congelata. Il miglior modo per gustarla è cucinarla ai ferri o bollita. Il periodo migliore per consumarla è settembre-ottobre, quando ha recuperato le energie perse per la riproduzione. |
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Il tombarello è un pesce pelagico e gregario, dal dorso color blu scuro o grigio piombo con macchie e linee nere irregolari, il ventre è bianco-argentato; sotto l’occhio si può notare una macchietta nera. Il corpo è robusto, allungato, panciuto al centro e molto sottile in prossimità della coda, che ha la forma di una mezzaluna. Il muso è breve; le pinne dorsali sono grigie e ben separate, la prima alta il doppio della seconda; sopra e sotto il peduncolo codale si notano delle pinnule; le pinne pettorali sono piccole e corte. La mascella superiore è finemente dentata, quella inferiore è leggermente più sporgente; il peduncolo codale è carenato medialmente e porta altre due carene laterali. Il tombarello arriva a misurare fina a 50 cm e può pesare anche 2 Kg; è comune da 20 a 40 cm. Si riproduce in estate e si nutre di pesci, soprattutto Clupeidi (acciughe e sardine) e di crostacei. Si può confondere con i piccoli tonni e alletterati.
Il
tombarello vive in gruppi di individui della stessa taglia che si
spostano al largo della costa per seguire le sardine e gli altri
piccoli pesci di cui si cibano. Vive
nelle acque profonde, e nel periodo riproduttivo (estate) si
avvicina in sciami alle coste.
E’ una specie comune in Mediterraneo. Il tombarello viene pescato con reti da posta, con lenze di profondità e luci da richiamo (lampare), ma abbocca bene anche alle esche artificiali trainate in superficie. La pesca si effettua prevalentemente lungo le coste dell’Italia meridionale; è una delle specie ittiche più abbondanti nei nostri mari, ma poco pescate. Gli adulti vengono catturati soprattutto quando si avvicinano alle acque costiere in estate per la riproduzione. Il tombarello è commercializzato fresco, salato o conservato sott’olio. Viene venduto intero o in tranci. Le sue carni sono buone ma meno pregiate del tonno, anche se le qualità organolettiche sono simili. Si consiglia di cucinare i tranci di tombarello alla griglia.
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Il pesce sciabola è una specie dal corpo allungato, nastriforme, schiacciato ai lati e privo di squame; la testa è grande, con una cresta prominente sulla nuca. La mascella inferiore è più lunga di quella superiore, entrambe sono allungate da un’appendice carnosa ed hanno denti molto acuti e taglienti; la pinna dorsale è bassa e molto allungata, ugualmente quella anale. Il peduncolo codale è sottile, la coda è piccola e forcuta e la linea laterale è mediana. La colorazione del corpo è di un bianco-argenteo brillante, formata da un pigmento che si stacca facilmente a contatto delle dita; negli adulti la parte anteriore della pinna dorsale è più scura.
Si riproduce
principalmente durante l’estate e l’autunno,
si nutre di una grande varietà di pesci, crostacei e cefalopodi e
caccia anche pesci di taglia superiore alla propria. Può raggiungere
una lunghezza massima di 2 metri e 10 cm, ma è comune da 70 a 90 cm. Il pesce sciabola vive
generalmente su fondi sabbiosi e fangosi da 100 a 400 m di
profondità, può salire in superfice, specialmente nei mesi estivi ed
autunnali, formando imponenti banchi alla ricerca di cibo. È comune in Mediterraneo,
Atlantico orientale e occidentale, Oceano Indiano e Pacifico.
Nei nostri mari è frequente soprattutto in Basso Adriatico, nel Tirreno ed è comunissimo nei pressi dello Stretto di Messina e nello Ionio. Il pesce sciabola viene pescato con reti a strascico, tremagli, palangari di profondità, ciancioli e lenze. Le maggiori catture si registrano a Messina e nel golfo di Napoli. Il pesce sciabola ha ottime carni e può essere consumato fritto o marinato. Spesso presenta parassiti all'interno della cavità viscerale (Anisakis)che risultano pericolosi per l'uomo, pertanto e meglio consumarlo cotto e mai crudo.
La pesca del pesce spatola. Il pesce spatola viene pescato con reti a strascico (o da circuizione), o con palangari. Il primo metodo è molto diffuso nello Ionio e nel Tirreno: le reti vengono calate di notte, in presenza di una forte fonte luminosa che attiri i pesci a galla. La pesca mediante palangari invece è diffusissima nello Stretto di Messina, in cui vi è una lunga tradizione di pesca di pesce spatola, tanto che esiste anche il mestiere specifico di “spatularu” (pescatore di pesci spatola, appunto), spesso tramandato di padre in figlio. Viene calato a fondo un lunghissimo palangaro con molti ami, su cui vengono poste delle esche, generalmente pezzetti di sardine, o pezzetti del peduncolo caudale del pesce spatola stesso. Il palangaro va calato rigorosamente di notte, e in genere lasciato in acqua diverse ore, per poi essere tirato su all’alba. Spesso capita che i fili si impiglino fra loro, costringendo i pescatori a unire tutto il pescato e ripartirselo fra loro in parti uguali. Il pesce spatola viene pescato durante tutto l’anno, ma soprattutto in estate, dato che si avvicina maggiormente alla riva.
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Con il nome di Aguglia imperiale si indicano tre specie diverse di pesci, Tetrapturus albidos, Tetrapturus belone, Tylosurus acus imperialis; i primi due sono pesci pelagici di notevoli dimensioni, parenti stretti del Marlin descritto nel celebre romanzo di E.Hemingway “IL VECCHIO E IL MARE”, il terzo appartiene alla famiglia dei Belonidi (come aguglie, agoselli) cioè pesci di dimensioni inferiori con la caratteristica bocca a forma di “becco”.
Può raggiungere i 3 m di lunghezza, il corpo è compresso ai lati e a forma allungata; la mascella si prolunga in un rostro appuntito a sezione circolare, la prima delle due pinne dorsali è molto più sviluppata rispetto la seconda. Questi pesci vengono anche chiamati “pesci vela” proprio per la forma della pinna dorsale che è più o meno sviluppata a seconda delle specie; le pinne anali sono due, la seconda di dimensioni più ridotte. La pinna caudale è di grandi dimensioni e forcuta, all’inserzione dei due lobi si trova una carenatura.
Altra caratteristica peculiare riguarda le pinne pelviche, sono sottili, con pochi raggi e assomigliano ad una sorta di spina. Il dorso è blu argentato i fianchi argentei. I pesci di questa famiglia sono pelagici e vivono soprattutto in acque calde tropicali; non scendono mai al di sotto del termoclino e penetrano in Mediterraneo seguendo pesci più piccoli, di cui si nutrono durante la stagione estiva. Si trovano in Sicilia, Sardegna e lungo le coste del Marocco. Si pesca con reti da posta o palamiti, ma le catture sono occasionali; diversi esemplari vengono catturati da pescatori sportivi.
Al mercato troneggia elegante sul banco di marmo del pescivendolo: il pesce spada, il nobile dei pesci. Quarti di esso, tagliati a trance, giacciono tra le teste esposte come trofei, incoronate da un’arma ormai inutile. Nello stretto lo chiamano il pesce cavaliere, per il rango nobiliare che gli conferisce la luminosa spada e, ancora di più, per il coraggio e la fierezza nella lotta e la fedeltà alla sposa, prima di cadere, nobile combattente, vinto dal ferro dell’uomo.
Il nostro pesce spada appartiene alla famiglia degli "Xifidi". Il suo nome scientifico è “Xiphies gladius”, dal greco xiphies=spada e dal termine latino "gladius", aggiunto da Linneo per indicare la specie. E' pescato nei nostri mari caldi in cui è parecchio diffuso. Velocista e di carattere molto combattente in senso assoluto; molte le affermazioni che lo confermano. Nel periodo della riproduzione, in primavera-estate, si avvicina alle coste. Può raggiungere la lunghezza di quattro-cinque metri e superare i 300 Kg. di peso. Ha una proprietà morfologica peculiare rappresentata dall’eccessivo sviluppo della mascella superiore, che si prolunga in una spada "rostro", tagliente ed acuminata, il corpo affusolato e cilindrico e di colore grigio blu scuro sul dorso, mentre la parte ventrale è biancastra. Spesso, nelle reti, si catturano i piccoli, che in dialetto si chiamano "puddicineddi", equivalente di pulcinella, per il semplice ma grottesco fatto di assomigliare in tutto e per tutto al pesce adulto.
Diversamente dal tonno, il pesce spada non ha avuto la stessa diffusione commerciale: niente scatole né barattoli; solo in tempi recenti i mercati si sono arricchiti di alcuni prodotti privilegiati, come i tranci di pesce spada affumicati o congelati o le uova preparate in "bottarga" (dall’arabo batarikh) che si presentano, pressate e salate, in "sasizzuni" o "carrubbeddi", data la somiglianza con le salsicce o con le carrube.
La pesca del pesce spada era una volta privilegio esclusivo della città dello stretto e fu lungamente praticata da popoli come fenici, romani e greci. Utilizzando antichi metodi, riti e tradizioni, al pari della mattanza, i pescatori cantano le loro cantilene in greco; cantano per superstizione, credendo che il pesce potrebbe sfuggire alla cattura qualora i versi fossero cantati in altra lingua. Il pesce spada è un pesce pelagico di notevoli dimensioni, può infatti raggiungere i 4 m e mezzo di lunghezza e i 500 Kg di peso, nei nostri mari raggiunge al massimo i 3 m di lunghezza (esclusa la spada) e un peso di 350 Kg; sono peraltro comuni gli esemplari che vanno da 120 a 180 cm. La “spada” è il prolungamento della mascella superiore, ha bordi taglienti ed è circa 1/3 della lunghezza totale; viene usata come arma di difesa e come mezzo per procacciarsi il cibo. E’ un pesce solitario (poche volte è possibile trovarlo in coppia e di rado in piccoli gruppi); la colorazione è grigio-ardesia o bruno-violaceo sul dorso, i fianchi sono argentati con riflessi bronzei, il ventre è bianco sporco. La prima pinna dorsale, rispetto alla seconda, è lunga, alta e triangolare; le pinne pettorali sono falciformi; caratteristica è anche la pinna caudale a mezzaluna, molto robusta ed adatta al nuoto veloce. Il suo carattere è fiero e aggressivo e leggende popolari narrano anche di attacchi ad imbarcazioni.
Il pesce spada compie grandi migrazioni e durante il periodo riproduttivo, che in Mediterraneo ha luogo tra giugno e agosto, si avvicina alla costa. Si nutre soprattutto di cefalopodi e pesci. E' una specie pelagica che compie grandi migrazioni in mare aperto; è diffuso in tutti i mari temperato-caldi, in tutto il Mediterraneo, Adriatico e Mar Nero. In Italia è abbondante in Sicilia, in Calabria e nello Stretto di Messina, zone che costituiscono anche le principali aree di riproduzione. Anche se può scendere fino a 800 m di profondità, spesso nuota vicino alla superficie e compie balzi fuori dall’acqua.
La pesca del pesce spada è praticata con vari attrezzi: con la fiocina o arpione, utilizzando imbarcazioni dette “feluche”, con i palangari derivanti, con reti a circuizione ed abbocca anche a lenze trainate. Durante la pesca con l’arpione, il marinaio esperto, dopo l’avvistamento, deve effettuare l’inseguimento del pesce spada: con questo metodo si opera una pesca selettiva, poiché è possibile scegliere di catturare animali solo adulti, ma nel complesso l'utilizzo di questo attrezzo è ormai modesto legato soprattutto alla tradizione. Il pesce spada può essere pescato casualmente assieme ai tonni nelle tonnare. La pesca con la rete viene effettuata di notte con una rete detta palamitara, che viene utilizzata esclusivamente per Pesce Spada e Tonni. E’una rete robusta, lunga dai 600 agli 800 metri, alta 16 metri, con maglie di circa 17 cm di lato e la cui superficie è sostenuta da un cavo con galleggianti e l’altra verso il fondo zavorrata con piombi; i due estremi del cavo sono collegati ognuno ad un grosso galleggiante, ciascuno dei quali regge una campana. Quando il pesce spada incappa nelle rete rimane ammagliato e, dimenandosi nella rete, fa suonare la campana che avverte i pescatori della cattura. Periodo di pesca: maggio/ottobre, quando le acque superficiali si riscaldano e i pesci spada si avvicinano alla costa; è in questo periodo che il pesce spada si trova più facilmente sui mercati. La pesca è attiva in tutti i mari italiani e spesso i pescatori si spostano fino a Cipro o alle Baleari: in questo caso conservano il pesce in celle frigorifere per alcuni giorni. Il pesce spada è considerato un pesce semigrasso, dalla carne bianca, soda e dal sapore delicato, priva di lische e spine. L’unico lato negativo riguarda la possibilità di contaminazione con metalli nocivi, che il pesce, vivendo a lungo, può accumulare nei muscoli. Molto apprezzato è l’olio di fegato. Viene commercializzato soprattutto fresco; nei mercati viene venduto a tranci. Può essere confuso, soprattutto se non intero, con l’aguglia imperiale (Tetrapturus belone), che ha caratteristiche diverse, ma ha carni altrettanto pregiate. Nell’aguglia imperiale la spada è cilindrica, piatta invece nel pesce spada.
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Si racconta che i pescatori siciliani, per catturare il pesce spada, "gli sussurravano una filastrocca grecale, e in questo modo il pesce rimaneva fermo ed incantato, divenendo facile preda da catturare". Durante la dominazione araba furono affinate le tecniche di cattura, adottate per molto tempo, sino ai giorni nostri: si svolgeva con un rituale assai complicato, basato sulla prontezza dei pescatori che utilizzavano un metodo semplice e arcaico: l’arpione, una piccola fiocina a due punte, detta "draffinera", legata ad una lunghissima sagola, lanciata da una passerella montata a prua di un’agile barchetta da inseguimento denominata "luntri", dalla forma esile e veloce, dava al pesce infilzato la possibilità di nuotare fino a quando, stremato, si lasciava tirare a bordo. Da quando è catturato in mare aperto la sua pesca si è estesa anche nel golfo di Palermo, con il sistema più ingegnoso della pesca artigianale: il "palangaro" di superficie. Ciò ha permesso ai pescatori di modificare i loro armamentari. Grosse imbarcazioni sono predisposte in primavera e la pesca si protrae fino a luglio inoltrato. Talvolta si spinge sino alla fine d’agosto. Il "palangaro" è un attrezzo costituito da una lenza madre di nylon di sufficiente spessore, lunga da 7 a 8 miglia marine, alla quale sono fissati alcune centinaia di braccioli, ciascuno dei quali, in prossimità della superficie, viene sostenuto da particolari galleggianti, "bacaredde", di sughero o da contenitori di plastica. Alla estremità di ogni bracciolo è fissato un amo a cui viene attaccata l’esca per la cattura del pesce spada; di solito sono dei pesci di cui è ghiotto: totani, alici e sgombri. Per riconoscere l’attrezzatura nell’orizzonte marino, si pongono aste galleggianti o canne sulle quali vengono attaccati dei drappi neri svolazzanti come bandiere. _________________________________ La grossa barca dall'insolita sagoma avanza pigramente fendendo l'azzurra distesa del mare resa più luminosa dai tiepidi raggi di un sole primaverile. Dall'alta vetta dell'albero centrale, audacemente proteso verso il cielo, gli acuti occhi dell'avvistatore, 'u falerotu (anche 'ntinneri), scrutano la calma superficie dell'acqua nella speranza di intravedere, ancora una volta, la scura sagoma del pesce spada. Improvvisamente un secco comando, istantaneamente eseguito dal motorista: "Aumenta!" e lo scafo sotto la potente spinta del motore portato al massimo dei giri scatta verso il punto dove il pesce, ignaro del suo fatale destino, nuota pigramente cullando il suo sogno d'amore. Ormai la strana agitazione, che si verifica puntualmente ad ogni avvistamento, regna sulla barca e l'esultanza dell'equipaggio è frenata solo dal timore che il pesce possa immergersi sfuggendo alla cattura. Il lanciatore, dal cui viso non traspare alcun segno d'emozione, si erge maestoso, quasi polena di antica nave, sull'estremità della "passerella" brandendo con braccio fermo la lunga asta munita dell'arpione. Ancora qualche istante d'attesa e poi, dopo la tradizionale invocazione a "San Marcu binidittu" protettore di questo tipo di pesca, scaglia con forza e precisione il suo mortale attrezzo che, con un tonfo sordo, penetra nella preda incuneandosi profondamente nelle sue carni. L'animale, superati i primi attimi di smarrimento ed impazzito per il lancinante dolore, cerca scampo nella fuga inabissandosi, ma una sottile e robusta sagola, 'a caloma, saldamente assicurata all'arpione, si dipana velocemente dal capace cesto di vimini dove è riposta spira sopra spira, precludendogli ogni speranza di salvezza. La lotta è disperata, il pesce avverte che per lui è finita ma, mentre il sangue sgorga copioso dalla ferita rubandogli le forze, tenta con un estremo guizzo di liberarsi dal ferro che gli lacera le carni. Il suo cuore, che ha tenacemente lottato, cede di schianto e 'u pisci viene issato di peso a bordo. L'acqua, muta testimone del dramma, ritorna immobile, il motore riattacca il suo borbottio. Ricomincia la ricerca di una nuova preda. La pesca con i pescherecci dotati di "passerella" è molto più redditizia rispetto a quando il pescespada veniva inseguito da un "luntro" a remi guidato a voce dall'avvistatore sulla "barca madre" (feluca) ormeggiata sulla "posta" assegnata: fu introdotta agli inizi degli anni sessanta da alcuni marinai siciliani recatisi a pescare nel Mar dei Caraibi mutando radicalmente una millenaria tradizione. La "passerella", una barca molto più grande, è fornita di un potente motore che, oltre a rendere l'avvicinamento più veloce, risparmia ai pescatori la disumana fatica di una giornata di voga; il lungo ponte che si protende dalla prua per parecchi metri, porta il lanciatore a trovarsi quasi a perpendicolo sul pesce, condizione vantaggiosa per colpirlo. La maggiore altezza dell'albero centrale ha eliminato la vedetta da terra, 'u bandiaturi, riuscendo l'avvistatore dalla barca a spaziare per un maggior tratto di mare e, una volta avvistato il pesce, a manovrare dall'alto il timone dell'imbarcazione. _________________________________
Il rematore centrale, detto "mezziere", a differenza degli altri impugnava i due remi insieme; il "falerotu", o "ntinneri", dalla cima del piccolo albero posto al centro della barca, dirigeva le operazioni di avvicinamento alla preda seguendo le indicazioni che la vedetta, appostata su un'altura in riva al mare ("guardiola") o sulla antenna della feluca ("ntinneri") - gli trasmetteva a voce agitando una bandierina bianca. Ritto in piedi stava 'u lanzaturi con la lancia in mano, che generalmente era il capociurma, "u patruni", a cui tutto l'equipaggio doveva cieca ubbidienza, dato che su di lui incombeva la responsabilità del felice esito del lancio, effettuato anche a distanza di sette, otto metri dalla preda. La fase che precedeva la cattura: Questa fase era caratterizzata dal continuo vociare della vedetta e poi del "falerotu" che, oltre a dare le necessarie indicazioni sulla rotta, incitava i compagni alla voga. La lancia d'elce, e non di quercia o di abete come ai tempi i Polibio, era incastrata con una estremità al corpo dell'arpione; a circa dieci o quindici centimetri dalla punta di questo erano - ed il sistema di costruzione viene adottato ancora oggi - collocate quattro alette, che una volta penetrate nel corpo del pesce impedivano all'arpione di sfilarsi. Appena arpionato il pesce, l'uomo del faliere scendeva dall'albero del "luntro" e correva ad aiutare il lanciatore a manovrare la sagola a cui era ormai attaccato il pesce spada (o tonno, o anche squalo o aguglia imperiale). La pesca con l'arpione oggi è quasi soppiantato da quella con i "palangresi", lunghe lenze con centinaia di ami che operano in tutte le stagioni e catturano anche gli "spadelli" ("puddicinedda"), i piccoli pesci spada di pochi chilogrammi. Finché furono adoperati i "luntri" e le "feluche" fu vera caccia, Domenico Modugno descrive la tragedia di due pesce spada, "lu masculu e la fimminedda" incappati nella pesca con l'arpione (; poi con le "passerelle" divenne pesca, mentre con i "palangresi" oggi è un'industria; poi vennero anche le "spadare", enormi reti galleggianti che hanno ucciso tutto quanto capitava vicino, pesci spada grandi e piccoli, tonni, delfini, balenotteri.... Domani potrebbe non esserci più né caccia, né pesca, né industria.
Le ricette per gustare il "pesce spada": Tantissime le ricette che ne esaltano la bontà, poiché le carni sono molto ricercate già dall’antichità. Archèstrato, gastronomo del IV secolo a.C, detto “il cuoco degli Dei” , compose dei versi e una vera e propria “raccolta gastronomica” indicando per ciascuna pietanza il luogo, la stagione migliore, le caratteristiche, la ricetta più appetitosa. All’analisi di Archèstrato non sfugge il pesce spada, del quale, esaltandone le qualità, segnala i diversi modi per prepararlo. E ben sappiamo che, tenero come il burro, si presta alla preparazione di eccellenti primi piatti, di fantasiosi secondi, ma anche di appetitosi antipasti. La cucina messinese, con la “ricetta alla messinese” ne fa il suo trionfo di gola. Nel palermitano, oltre a preparare degli ottimi primi, si utilizza in particolare la parte tra la nuca e il dorso, la "scozzetta" e la "scarpa", quella vicina alla coda, che il più delle volte sono associate alle verdure di stagione: melanzane e peperoni.
Tra le preparazioni più rinomate spiccano senza dubbio gli involtini di pesce spada alla palermitana, sottilissime fettine arrotolate su se stesse, arricchite con aromi intriganti, passate nell’olio e panate nel pan grattato. Il carpaccio è la maniera più semplice per assaporarne la freschezza: tagliato a fettine sottilissime, si lascia macerare alcuni minuti in un largo piatto con olio, limone e un pizzico di sale e pepe. Viene poi gustato con una spruzzatina di prezzemolo tritato o di mentuccia. Arrostito alla brace o sulla piastra ardente, tagliato a "ruota" e insaporito da una salsetta composta da abbondante olio e limone, cosparso di foglie di menta, sprigiona il suo ineguagliabile profumo. Alcuni pescivendoli del mercato del Capo si sono cimentati nella realizzazione della “salsiccia di pesce spada”, macinandone le carni, insaporite con gli aromi e insaccate nel classico budello. La cottura alla brace ha dato ottimi risultati. Di recente, da Lampedusa, alcuni produttori locali commercializzano, già confezionato, il pesce spada affumicato, la ventresca, le uova, in diverse combinazioni.
Xiphias gladius. La leggenda vuole che l’unica creatura incapace di provare orrore per la mostruosità di Scilla fosse lo “Xiphias gladius”, meglio conosciuto come pesce-spada, che durante la stagione degli amori raggiungeva in grossi branchi questo tratto di mare proprio per corteggiarla. Da qui l’abbondanza di pesce-spada lungo lo Stretto, che è il motivo della pesca tradizionale di questo pesce, che da tempo remoto è praticata all’antica maniera dei fenici, unico popolo che abbia svolto mestieri tutti legati al mare. Questo tipo di pesca può essere d’alto mare quando il pesce è catturato con la fiocina, oppure marittima e costiera se è esercitata lungo le rive con barche e remi. La pesca diurna, fino a poco tempo fa, era praticata su postazioni stabilite lungo la costa, assegnate a sorteggio e utilizzate a rotazione giornaliera dagli equipaggi. Il pesce spada vi giunge, ogni anno fra marzo e luglio dalle lontane regioni polari per deporre le sue uova, mentre scompare dalla superficie delle acque nei mesi autunnali e invernali, a causa della loro torbidezza, per rifugiarsi negli alti fondali dove le acque sono più limpide per la diminuzione dei moti ondosi. Durante i mesi estivi, i pescatori scillesi e peloritani praticano questo tipo di pesca con tipiche imbarcazioni a remi, la feluca o il lustro, con l’avvistatore issato sulla cima dell’albero, che scruta la superficie del mare per scoprire la presenza del pesce, di cui alla metà del Cinquecento ci ha lasciato affascinanti immagini il pittore fiammingo Peter Bruegel e ha ispirato il poema Xiphias del latinista reggino Diego Vitrioli, col quale nel 1845 vinse il primo premio del concorso mondiale di poesia latina di Amsterdam.
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Il cefalo è un pesce dal corpo fusiforme di taglia media con una notevole uniformità d’aspetto; la colorazione del dorso è grigio scuro, talvolta volgente all’azzurro o al verde, con strisce longitudinali della stessa tinta che decorrono molto spesso sullo sfondo argenteo dei fianchi. Sul corpo allungato ci sono numerose squame; gli occhi sono ricoperti da una membrana adiposa; le pinne pettorali hanno alla loro base una macchia più scura.
Il cefalo è una specie dalle abitudini gregarie, tollera variazioni di temperatura e di salinità; si nutre in prevalenza di detrito organico, alghe e piccoli invertebrati. La riproduzione avviene in estate. Può arrivare a misurare 60 cm di lunghezza ed oltrepassare i 4 Kg di peso, ma di regola vengono pescati individui di 30 cm. Si distingue dalle altre specie di cefali (il dodregano o cefalo dorato Liza aurata; il botolo o calamita Liza ramada; la verzelata Liza sapiens e la bosega Chelon labrosus) per la presenza di un tessuto adiposo attorno alla palpebra. Il cefalo è molto comune in tutto il Mediterraneo, nel Mar Nero, lungo le coste atlantiche, africane ed europee. E’ un tipico abitante delle acque marine costiere; vive bene anche in acque poco ossigenate ed inquinate; predilige fondali molli e ricchi di vegetazione, ma lo si trova anche in mare aperto. I giovani stazionano in primavera anche nelle lagune e si spostano verso il mare nel periodo riproduttivo che in genere si estende da luglio ad ottobre. I cefali in genere sono pesci litorali, che vanno in cerca di cibo in piccoli o grandi gruppi in prossimità degli sbocchi dei corsi d’acqua e penetrano anche nelle acque salmastre e dolci (lagune e fiumi) e nei porti.
Il cefalo viene pescato con reti da traino pelagico dette volanti, con reti da posta e con reti a circuizione. Nelle valli da pesca è catturato con i lavorieri, cioè trappole fisse che sfruttano le periodiche migrazioni dei pesci tra mare e laguna, per ragioni termiche, riproduttive e per la ricerca del cibo; è pescato particolarmente in Toscana, Sardegna e Veneto. Il cefalo è considerato un pesce semigrasso dalla carne abbastanza digeribile. Si trova fresco e congelato; il sapore delle sue carni dipende dall’ambiente in cui vive. Rispetto ad altri cefali assume una importanza economica maggiore; si presta ad essere cucinato arrosto sulla brace. Da suoi ovari, salati ed essiccati si ricava la “bottarga”.
Vi siete mai chiesti come vivono i pesci nel mare di Catania? Beh, io si, e oggi dopo una lunga intervista a numerosi cittadini del mare sono riuscito a capire la vera importanza delle nostre acque. Un anziano cefalo, che si fa chiamare dagli amici “Muletto”, mi ha detto che nel porto di Catania puoi trovare davvero di tutto. Lui simpaticamente mi ha paragonato il porto di Catania alla fera o l’uni, e in effetti c’è tutto quello che cerchi, dagli apriscatole arrugginiti alle buste di plastica, dalle bucce di arancia alle bottiglie di coca cola. Passeggiando per le vie del mare mi ha fatto notare come i pesci abbiano cambiato le loro voghe alimentari, infatti si trovano sul fondale numerosi piatti di plastica addobbati con posate rigorosamente di plastica e numerosi confezioni di pasta (specialmente Poiatti e Barilla, ma anche De Cecco non manca, ovviamente per i pesci dal gusto sopraffino). Giustamente, dopo un piatto di pasta al nero di petrolio e una bottiglia di vino bianco, per ogni pesce come per ogni cittadino catanese scatta l’ora del pisolino. I pescatori e la gente del quartiere con grande generosità hanno devoluto numerose sedie (di plastica anche queste) al fondale marino, in sostegno dei pesci che dopo aver mangiato si devono necessariamente riposare. Inoltre, andando dove non si tocca, il “Muletto” mi ha mostrato il museo delle cere, dove sono presenti numerosi pesci e parti del loro corpo che sembrano veri anche se sono immobili e privi di ogni segno vitale. L’amico cefalo è stato cosi gentile da farmi conoscereun forestiero che si è stabilito nel porto, stiamo parlando di Pesce Flauto. Il quale con accento egizian-catanese ci dice che il porto di Ognina offre numerose opportunità di sviluppo per quelli che come lui provengono dal mar Rosso. Dichiara di aver trovato un ambiente “caloroso” come quello di casa sua, e spera che il porto di Catania possa adeguarsi alle temperature dei mari tropicali, diventando una città marina multietnica. Alle 17:00 circa , il nostro amico Muletto ci porta a prendere una delle specialità di Catania, il Seltz al limone. Arrivati davanti al chiosco, il barista ‘Tanu u Puppu” ci delizia con i limoni che offre il porto, già tagliati e pronti all’uso! Dopo una bella bevuta è giunta l’ora di rilassarsi e esaltare la nostra pelle. Approdati al centro per l’emancipazione della pelle decido di farmi una maschera, la signora Triglia mi consiglia quella al petrolio, dice che ha effetti benefici per il viso. Io ci sto ma prima chiedo se il petrolio è made in Italy (ci tengo ai nostri prodotti e alle nostre bellezze), lei mi risponde di sì, aggiungendo che il porto di Ognina è uno dei maggiori produttori di petrolio al mondo. Accetto il consiglio e mi sottopongo al trattamento. L’indomani mi accorgo di avere una pelle liscia e bella come quella di Patti Pravo. A questo punto non posso che dire ai cittadini Catanesi di devolvere più petrolio al porto di Ognina e invito a tutti quanti ad andare al centro per l’emancipazione della pelle della signora Triglia. di Ruggero Zanetti Megazzini http://www.freedom24news.eu/archives/9397
Il primo, parlando dei salti che il cefalo è capace di fare, annotava: «Vi è un piccolo animale che ha l'aspetto di uno scorpione e la grandezza di un ragno. Questo animale con l'aculeo si attacca, sotto la pinna, sia al tonno sia al pesce denominato pesce spada... e procura loro un dolore così grande che spesso saltano sulle navi. Ed è ciò che fanno altre specie di pesci quando temono di essere aggrediti, soprattutto i muggini, che sono dotati di una velocità talmente straordinaria da oltrepassare talvolta con il loro salto le imbarcazioni poste in senso trasversale». Il Pitrè, descrivendone invece la natura, così osservava: «Vivissimo di natura e molto forte, il cefalo salta e guizza fuori dell'acqua ad una grande altezza. Questo guizzo è un carattere fisiologico di esso: ed il proverbio ne trae ragione per applicarlo a persona che se ha una data natura non la lascia mai: "S'è mulettu, sàta arreri, e s'è mulettu sataturi, havi a satari tri voti". I pescatori sanno dov'esso stia, e così formano una vasta cinta di reti che posano verticalmente...». Pertanto, allo scopo di impedire qualsiasi possibilità di fuga, i marinai «inventarono» una specie di trappola detta «'ncannata», che ha dato il nome alla località. L'insidia era costituita da due reti. Una era la cosiddetta «tònira», che veniva disposta verticalmente; l'altra vi si adattava sull'orlo superiore, distesa orizzontalmente, ed era mantenuta a galla da canne disposte a raggi. In tal modo il «mulettu», già circuito, che tentava di svignarsela uscendo fuori dalla «tònira», rimaneva ostacolato dalla «'ncannata» che lo intrappolava senza pietà. (Luci sulla scogliera - Pippo Testa e Mummo Urzì)
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(Neonata di pesce) MUCCO è una prelibatezza del mar Mediterraneo ed in particolare dello Ionio. E’ stata ribattezzata con il nome di “bianchetto” per il colore perla e per le dimensioni estremamente ridotte che la caratterizzano. Questa singolare specie ittica popola a branco i mari del sud per poi prendere le sembianze di alici e sarde in età adulta. La forte richiesta del mercato ha seriamente compromesso la sopravvivenza della specie, costringendo il Ministero delle politiche agricole e forestali ad autorizzarne la pesca per legge esclusivamente in determinati periodi dell’anno, più precisamente da fine gennaio a fine aprile. Si tratta di pesce di piccola taglia e di ottima qualità, che si presta a preparazioni molto particolari e differenziate a seconda della località di provenienza, e può essere consumato sia fresco che in conserva. E’ infatti tipica della cultura ittica l’abilità nella lavorazione e nella conservazione del pesce. La posizione geografica favorevole ha sempre garantito alla stessa popolazione l’abbondanza di pescato, ma sin dall’antichità i pescatori hanno escogitato ricette e metodi di conservazione per consumarlo in periodi di carestia, dovuti alle ripetute incursioni belliche.I metodi e le tecniche di conservazione sono rimaste invariate nel tempo, l’unica novità introdotta è stata la produzione meccanizzata in scatolame.La neonata si presta a diverse lavorazioni culinarie, ma le due specialità tipiche della costa ionica rimangono le famose frittelle di bianchino e la squisita sardella (o rosamarina).Le prime si ottengono preparando una pastella di farina e lievito unita ai minuscoli pesci, successivamente immersi nell’olio caldo; la seconda è un ‘antica conserva dal gusto forte che miscela la neonata di sardine con il sale, l’olio d’oliva, il peperoncino ed il finocchio selvatico.
venditore di muccu
a Catania... Arenga
L'aringa è una specie prettamente Nord Europea e Atlantica, occasionalmente si ritrova nel Mediterraneo. Il corpo è fusiforme, con scaglie abbastanza grandi, caduche e sottili e assenti sulla testa. La bocca ha piccolissimi denti e la mandibola prominente. Gli occhi non hanno palpebra e l'opercolo è liscio e tondeggiante. La pinna dorsale inizia a metà della distanza tra l’estremità anteriore del corpo e la base della caudale. Il colore è dorsalmente blu-verdastro, che tende sui fianchi verso l'argenteo, fino a diventare chiaro sul ventre. Sessualmente matura intorno ai 4-5 anni, si riproduce durante tutto l'anno (con preferenza nei mesi da agosto a ottobre) e le uova, in grande quantità, aderiscono al fondo del mare o alle alghe. Si alimenta con anfipodi, diatomee, crostacei, bivalvi, larve di pesci. Si pesca in grandi banchi nel nord Europa, dove si commercializza fresca o marinata. In Italia, specie al Nord, si consuma affumicata. Può raggiungere i 50 cm di lunghezza, mediamente 30-35 cm e può vivere 15 anni.
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