Angelo
Moratti.
In una Milano ancora
sconvolta per la morte del pilota Giorgio Ascari a
Monza, il petroliere Angelo Moratti diventa il
quindicesimo presidente
del Football Club Internazionale. L'ascesa economica del
nuovo presidente è incredibile, partito da semplice
piazzista di oli lubrificanti, è stato infatti
protagonista di una prodigiosa carriera da
"self-made-man", tanto da potersi permettere di spendere
100 milioni per rilevare
la società da Masseroni. Al di fuori del campo
energetico, dal 1972 al 1976 fu comproprietario del
Corriere della Sera insieme a Gianni Agnelli ed agli
eredi della famiglia Crespi. Nel 1976, l'intera
proprietà della testata fu ceduta al gruppo Rizzoli.
Dal 1972 al 1974 è stato anche proprietario del giornale
economico Il Globo.
È stato presidente
dell'Inter dal maggio 1955, rilevando la società dal suo
predecessore Carlo Masseroni, fino al maggio 1968,
quando lasciò la presidenza a Ivanoe Fraizzoli. Era il
periodo della Grande Inter allenata da Helenio Herrera;
il giovane avvocato Giuseppe Prisco venne nominato
vicepresidente della squadra.
Sotto la sua presidenza venne costruito il centro
sportivo di Appiano Gentile, noto poi negli anni come la
Pinetina.
Nel 1951 fu tra i
fautori dell'accordo tra i nerazzurri e la principale
squadra di hockey su ghiaccio di Milano, l'Hockey Club
Milano, la cui nuova denominazione sarà Hockey Club
Milano Inter; Moratti ne divenne vicepresidente, insieme
allo stesso Fraizzoli.
Con lui l'Inter ha
vinto tre scudetti, due Coppe dei Campioni e due Coppe
intercontinentali.
Dal 5 novembre 2007
il piazzale antistante allo Stadio Giuseppe Meazza porta
il suo nome. Una targa è stata posta sulla cancellata
dello stadio, nella zona dell'ingresso principale. Alla
cerimonia ufficiale, voluta e organizzata dal Comune di
Milano, hanno partecipato figli e nipoti del presidente
della Grande Inter, alcuni campioni nerazzurri del
passato, Javier Zanetti e numerosi rappresentanti delle
istituzioni milanesi e del club nerazzurro. Nel 2009 il
Comune di Stintino gli ha intitolato una via del paese
in zona Capo Falcone. La nuova via Angelo Moratti è la
via antistante all'Hotel Roccaruja, costruito da Angelo
Moratti negli anni sessanta e divenuto luogo di ritrovo
per le vacanze di dirigenti e giocatori della Grande
Inter di quel periodo. Nel 2015 il Comune di Panicale e
il Comune di Piegaro, in provincia di Perugia, su
proposta della Asd Tavernelle Calcio 1921, gli hanno
intitolato lo stadio intercomunale di Tavernelle.
Il 28 maggio 1955, un sabato, Angelo Moratti, che acquista la
società per 100 milioni, diventa il nuovo presidente e patron
dell'Inter. Mentre nelle giovanili cresce gran parte dei campioni
del futuro, Moratti allontana Foni e punta su Aldo Campatelli.
Il Campionato inizia
bene, dopo sei Giornate l'Inter è in testa, ma una sequela di cinque
sconfitte porta all'esonero. È chiamato a curare le ferite Giuseppe
Meazza, che recupera posizioni e limita i danni chiudendo il 1955/56
al terzo posto. L'anno successivo Moratti punta sulla coppia Frossi-Ferrero. Il primo è un catenacciaro, il secondo un teorico
dell'offensivismo puro. Una coppia in teoria complementare, in
pratica inefficace. Meazza rileva ancora una volta la guida della
squadra: una iniziale serie positiva porta l'Inter al secondo posto,
poi cinque sconfitte consecutive la fanno scendere di parecchio. Con
la vittoria nell'ultima Giornata 1956/57 i nerazzurri agguantano la
quinta posizione.
Angelo Moratti diviene
presidente dell'Inter. Da allora il suo obiettivo è quello di
costruire una squadra che domini ad ogni livello ma gli inizi non
sono facili. Moratti impiega otto anni per vincere il suo primo
scudetto e in quegli anni cambia ben sette allenatori, non riuscendo
mai a far decollare la sua squadra.
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ANTONIO
VALENTIN ANGELILLO.
L'angelo dei record dalla faccia sporca. Fece il primato dei gol
(33), ma non convinse Herrera col quale durò poco, con la sua
Argentina ancor meno
Se ne è andata un'altra figurina
del nostro album: Antonio Valentin Angheligio, come lo chiamavano e
lo piangono oggi gli argentini che amano il football.
Antonio Angelillo aveva
ottant'anni e da tempo aveva scelto il silenzio, insieme con la
quiete della Toscana, terra di buen ritiro. La sua carriera fu
splendida, il suo record di gol, 33 nei tornei a diciotto squadre,
resta imbattuto. Angelillo è stato un centravanti, un grande
centravanti per necessità e scelta di Guillermo Stabile allenatore
che lo spostò da mezzala dieci metri più avanti. Il tiro era
potente, la stazza anche, la tecnica elegante, pennellate di calcio
sulla segatura di San Siro.
Lo scovò, quando aveva
quattordici anni, Anibal Gordo Diaz e lo portò all'Arsenal di
Lavallol. Antonio aveva lontani parenti lucani, suo padre era un
macellaio, dunque i filetti e gli asadi non gli mancavano e ne
fortificarono il fisico e le gambe di roccia. Passò al Racing,
insieme con Humberto Maschio e l'anno '57 fu quello di grazia.
L'Argentina vinse la coppa Sudamericana a Lima, goleando con
Brasile, Uruguay, Cile, Colombia ed Ecuador, Angelillo faceva parte
delle carasucias, quelli dalla faccia sporca, figli di buona donna,
come li aveva battezzati un massaggiatore vedendoli seduti sfiniti,
coperti di fango, in panchina. Con Antonio, Oreste Omar Corbatta,
Enrique Omar Sivori e, appunto, Humberto Maschio. Era al Boca,
Antonio Valentin, quando Angelo Moratti decise di portarlo in
Italia, coprendo di novantacinque milioni il club bairense. Il
trasloco in Italia gli creò un grosso problema, infatti saltò il
servizio militare proprio nel periodo caldo della Revolucion
Libertadora e venne, dunque, ritenuto un disertore. Per vent'anni
non gli fu più permesso di mettere piede in Patria al punto che nel
Sessanta suo padre, sul punto di morte, venne trasferito a
Montevideo, in Uruguay, così da permettere al figlio di incontrarlo.
Quell'Argentina degli angeli dalla faccia sporca avrebbe potuto
vincere il mondiale in Svezia se il governo e la federazione non
avessero deciso di troncare i rapporti con gli esuli, Maschio al
Bologna, Antonio all'Inter, Omar alla Juventus. Il trio si
completava a meraviglia, la geometria, la potenza, la perfidia
tecnica. Angelillo giocò undici partite segnando undici gol con la
maglia albiceleste, prima del gran rifiuto federale.
Furono anni belli e di
scoperte per Antonio Valentin a Milano, anche se Moratti passò un
periodo di incertezze, confidando agli amici che forse gli
avevano spedito il fratello del fenomeno argentino. Il grande
presidente decise di dare una sveglia al ragazzo frastornato dalle
nebbie. La delega fu affidata ad Enea Masiero e a Livio Fongaro,
sodali di pensione, che portarono a spasso Antonio per la città, il
Duomo, il Castello Sforzesco, i Navigli, infine il tabarin, come
venivano chiamati i locali notturni dell'epoca. Qui, alla Porta
d'oro, nel sito di piazza Diaz, lo stesso cognome di Anibal Gordo lo
scopritore, Antonio Valentin incontrò la bionda soubrette Ilya
Lopez, al secolo Tironi Attilia, la quale si prese cura di quel bel
fusto con i baffetti appena disegnati sul viso e l'aria un po'
spaesata. L'amore portò Angelillo a segnare quei 33 gol famosi,
dunque la storiella che fosse confuso e distratto dalla relazione
regge il tempo di un tango.
In verità, due anni dopo, si
appalesò a Milano Helenio Herrera che fece intendere subito di non
quagliare molto con il ragazzo. Angelillo, capitano di quell'Inter
non riuscì a conquistare titoli, scudetti e coppe e venne venduto
alla Roma con una clausola contrattuale a lui sconosciuta: il club
giallorosso si impegnava a non cederlo al Milan, alla Juventus e al
Napoli. Angelillo lasciò l'Inter su volere di Allodi che aveva preso
dal Barcellona Luis Miramontes Suarez, l'argentino si congedò dopo
127 partite e 77 gol. A Roma, con la presenza di Piedone Manfredini,
arretrò a trequartista, segnando 41 reti in 150 partite,
conquistando la coppa delle Fiere e la coppa Italia. La Roma poi non
rispettò la clausola cedendo Antonio al Milan, una sola stagione,
tre gol su ventuno partite e cessione al Lecco. Tornò al Milan per
vincere, finalmente, lo scudetto, come partecipante.
Da oriundo lucano Antonio vestì
anche la maglia della nazionale italiana, dove si trovò a fianco
Josè Altafini e Omar Sivori, anch'essi oriundi, in azzurro due
presenze e un gol, asterischi a margine. Le sue doti tecniche non
vennero messe al servizio di alcun club, dopo il ritiro provò la
panchina in serie minori e, da osservatore, portò all'Inter Javier
Zanetti.
Da tempo aveva preferito il
silenzio, la malattia infine lo ha portato via alla sua famiglia.
Altri argentini stanno spopolando sui nostri prati di football.
Antonio Valentin Angheligio ha fatto la storia e in questa va
conservato con rispetto massimo.
http://www.ilgiornale.it/news/sport/angelillo-langelo-dei-record-campione-faccia-sporca-1480560.html
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L'arrivo del centravanti Antonio Valentin Angelillo e del quotato
allenatore John Carver non porta ancora risultati: nel 1957/58 la
squadra si ferma al nono posto in classifica. Il disastro della
Stagione appena conclusa pesa sulla società, che in estate cede
Ghezzi e Lorenzi e si affida a mister Giuseppe Bigogno. I risultati
non sono dei migliori e a tre mesi dalla fine del Campionato
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1958/59 ritorna in panca Campatelli, che chiude terzo e perde la
finale di Coppa Italia. Si mettono in luce gli attaccanti: Edwing
Firmani gioca la miglior Stagione della sua carriera e Angelillo
realizza 33 goal in 33 partite, risultato ineguagliato nella Serie A
a 18 squadre, seppur segnando solo 5 volte nelle ultime 16 Giornate.
.
Firmani in azione
Il 1959/60 è una Stagione transitoria. Parte Skoglud e in panca si
siede la coppia Campatelli-Achilli. L'Andata è ottima, ma il Ritorno
di Campionato è decisamente in declino e la squadra è eliminata ai
Quarti in Coppa delle Fiere. Dopo una sconfitta nel derby viene
esonerato Campatelli, dopo un mese tocca anche ad Achilli. Il
ritorno di Giulio Cappelli permette di chiudere in quarta posizione
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Nell'estate 1960 Moratti
getta le basi di quella che sarà la Grande Inter: in panchina fa
sedere il "Mago" Helenio Herrera, dopo che era rimasto stregato da
questo allenatore in una partita che la sua Inter perse contro il
Barcellona allenato proprio da Herrera per 4-0 la stagione prima, e
dietro la scrivania l'esperto uomo di calcio Italo Allodi. Herrera
rivoluziona l'Inter stravolgendo le tattiche e trasformando Picchi
in efficace libero, ma non manca di portare il suo estro nel calcio
italiano con l'invenzione del "ritiro".
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Dopo una partita di Coppa UEFA nella quale il Barcellona travolge
l'Inter, Moratti decide di ingaggiare l'allenatore dei catalani
Helenio Herrera. La scelta, alla luce dei risultati ottenuti, si
dimostra ampiamente indovinata; per completare il quadro societario
viene ingaggiato Italo Allodi, un manager in grado di allestire una
squadra competitiva e vincente ad ogni livello. Allodi avrebbe
fatto, in seguito, la fortuna anche di Juventus e Napoli oltre che
della Nazionale.
All'intelaiatura della squadra si aggiungono presto Mario Corso e
due giovani della primavera: Giacinto Facchetti e Sandro Mazzola
(figlio del grande Valentino). I due sarebbero diventati due
bandiere nerazzurre e della Nazionale italiana.
Lo Scudetto 1960/61 va alla
Juventus fra le polemiche: durante lo scontro diretto con l'Inter,
seconda classificata, la partita è interrotta da un'invasione di
campo di tifosi bianconeri.
L'Inter vince 0-2 d'ufficio, ma la FIGC
(presieduta da Umberto Agnelli) contesta la decisione, delibera che
l'invasione non avrebbe condizionato lo svolgimento della gara e ne
ordina la ripetizione al termine del Campionato. L'Inter risponde
mandando a Torino la Primavera, che perde 9-1 e chiude al terzo
posto. L'unica segnatura nerazzura è siglata su rigore dal fututo
campione Sandro Mazzola, che sigilla così il suo esordio. Durante il
periodo di mercato la chiacchierata vita amorosa di Angelillo porta
il severo Herrera a ordinarne la cessione.
LA
PARTITA FANTASMA
È il
campionato 1960-61, quello nel quale il
presidente Angelo Moratti ha messo l’Inter
nelle mani di Helenio Herrera, un pittoresco
(e costoso) allenatore argentino prelevato
in Spagna, interrompendo una sconcertante
girandola di tecnici sulla panchina
nerazzurra. L’avvio dell’ Inter targata
Herrera è stato devastante. Cinque gol a
Bergamo, sei a Udine, cinque al Vicenza.
Anche il derby d’Italia sorride ai
nerazzurri, che a San Siro si sbarazzano
della Juve per 3-1 e un mese più tardi
conquistano lo scudetto d’inverno,
precedendo di quattro punti i bianconeri. A
introdurre la sfida di ritorno c’è però una
sorprendente flessione dell’Inter, che tra
marzo e aprile inciampa in quattro sconfitte
consecutive, scivolando a quattro lunghezze
dalla Juve. Per i nerazzurri quella di
domenica 16 aprile 1961 a Torino è
l’occasione per tentare di riavvicinarsi ai
rivali. Il Comunale è stracolmo, al punto
che le tribune non bastano a contenere tutti
gli spettatori, molti dei quali sciamano ai
bordi del campo, sistemandosi sulla pista di
atletica (e un paio, pare, addirittura sulla
panchina di Herrera).
«La
gente stava a pochi metri di distanza –
ricorda Aristide Guarneri, stopper
dell’Inter di allora – ma un pericolo vero e
proprio non c’era». Chi la pensa
diversamente è l’arbitro genovese Gambarotta,
che al 31′ decide di interrompere il gioco,
dopo che l’interista Morbello aveva colpito
un palo. Il regolamento è abbastanza chiaro.
In casi del genere, la vittoria va
attribuita alla squadra ospite. Supportata
da precedenti simili, dieci giorni più tardi
la Lega assegna il 2-0 all’Inter, che torna
a intravvedere lo scudetto. Ma il 3 giugno,
alla vigilia della domenica conclusiva del
campionato, la Caf accoglie il reclamo della
Juve e decide che la partita va rigiocata,
suggellando in pratica lo scudetto numero 12
dei bianconeri. Proteste, sospetti e accuse
si rovesciano sull’ente d’appello,
alimentati soprattutto dalla doppia carica
di Umberto Agnelli, che è presidente della
Juve ma anche della Federcalcio.
LA
DECISIONE DI MORATTI
«Il
verdetto della Caf, che ci faceva scivolare
a due punti dalla Juve, lo apprendemmo a
Catania – riferisce ancora Guarneri – dove
andammo in campo col morale sotto i
tacchetti e perdemmo per 2-0. Ci sentivamo
presi in giro». Il più infuriato è il
presidente Angelo Moratti, che dopo essersi
consultato con Herrera adotta una decisione
clamorosa: nella ripetizione della partita,
il 10 giugno, l’Inter per protesta lascerà a
casa i titolari e schiererà la squadra De
Martino, come all’epoca si chiamava la
Primavera, età limite dei giocatori 19 anni.
Tra i ragazzi della De Martino nerazzurra
c’è anche Sandro Mazzola, classe ’42, che
della rivoluzionaria scelta di Moratti viene
a conoscenza il martedì precedente la
partita-bis. «Ce la comunicò Meazza, il
nostro allenatore». Emozione, ansia e gioia
si mescolano tra i giovani interisti,
nessuno dei quali ha mai messo piede in
serie A.
«Per me
– ricorda Mazzola – si aggiunse un problema.
Il sabato avrei dovuto sostenere tre esami
per completare il quarto anno di ragioneria.
A casa mi dissero che lo studio prevaleva
sul calcio e che a Torino non ci sarei
andato. Supplicai e piansi invano. Per
fortuna il preside si commosse e acconsentì
a farmi sostenere gli esami di prima
mattina. Un’auto della società mi aspettava
davanti alla scuola per portarmi a Torino,
dove arrivai giusto in tempo per giocare».
Guidata dal tandem Gren-Parola, la Juve
schiera quasi tutti i suoi campioni. Ci sono
Mattrel e Sarti, Cervato e Colombo, Mora e
Nicolè, Charles e Sivori, Stacchini e il
trentatreenne Boniperti, che indossa
un’insolita maglia numero 4 e che al termine
della partita consegnerà le sue scarpette al
massaggiatore, dicendo: «Tienele tu, Crova,
a me non servono più. Oggi col calcio ho
chiuso».
SIVORI
SCATENATO
Se
l’ultima apparizione di Boniperti coincide
con la prima di Mazzola, inevitabilmente in
campo non c’è partita. Nove gol della Juve,
sei dei quali firmati da Sivori, e uno
dell’Inter, autore Mazzola su rigore.
«All’inizio eravamo un po’ imbarazzati –
chiarisce Boniperti – e non avremmo voluto
infierire. Ma Sivori inseguiva il Pallone
d’oro, che poi avrebbe conquistato, e ci
teneva a segnare il più possibile». Degli
undici sbarbatelli schierati da Meazza,
Mazzola sarà l’unico a diventare un
campione, mentre il portiere Annibale e
l’attaccante Guglielmoni avrano una carriera
appena discreta.
«Quel
sabato a Torino – sottolinea Mazzola – il
marcatore di Sivori era Morosi, che sognava
di ripresentarsi al suo paese dopo aver
bloccato il fuoriclasse argentino. Invece
Sivori segnò sei volte e Morosi, disperato,
mi confessò che per lui sarebbe stato
difficile tornare a casa».
Il
campionato 1960-61 va in archivio con la
Juve campione a quota 49. Il Milan è
staccato di quattro punti e l’Inter di
cinque. Per i nerazzurri il giorno della
rivincita arriverà dopo poco più di quattro
mesi dopo il 22 ottobre 1961, allorché
vinceranno per 4-2 sul campo della Juve, che
concluderà il campionato al dodicesimo
posto, il peggior piazzamento della sua
storia, nonostante ci siano ancora Charles,
Sivori, Mora e Nicolè. «Ma non c’ero più io»
azzarda Boniperti, chissà quanto
scherzosamente…
IL
TABELLINO
TORINO,
10 GIUGNO 1961 JUVENTUS INTER 9-1
Juventus:
Mattrel; Emoli, Sarti; Boniperti, Cervato,
Colombo; Mora, Charles, Nicolè, Sivori,
Stacchini.
Inter:
Annibale; Riefolo, Tacchini; Morosi, Masotto,
Dalmaso; Manini, A. Mazzola, Fusari,
Guglielmoni, Ghelli.
Reti: 11′
Sivori, 12′ Sivori, 17′ Sivori, 52′ aut.
Riefolo, 54′ Sivori, 64′ Nicolè, 67′ Sivori,
78′ Mazzola (IN) rig., 79′ Mora, 90′ Sivori
rig.
http://storiedicalcio.altervista.org/blog/juventus_inter_9-1_boniperti.html
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CLAMOROSO AL CIBALI!
"Clamoroso al
Cibali". Questa la frase pronunciata da Sandro Ciotti.
Per chi non lo sapesse il tutto avvenne il 4 Giugno del
1961. Un gran bel giorno. Di fronte al Catania c'era
l'Inter che ormai non aveva niente da
perdere e per i nerazzurri la partita sembrava essere in
discesa ma solo per dovere sportivo, visto che non
aveva più speranze di vincere lo scudetto a seguito del
9-1 per protestare il
responso a favore della Juve (aveva in casa il Bari). Ma
contro quell'Inter ormai senza più ambizioni, il Catania tirò fuori lo
stesso l'orgoglio per motivi di bandiera.
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L’ANTEFATTO -
Ultima giornata di campionato. L’Inter è seconda in
classifica a due punti dalla Juve. Ma dopo si dovrà
ripetere Juventus-Inter, lo scudetto è ancora possibile.
La partita si era giocata in campionato il 16 aprile ma
era stata sospesa dall’arbitro Gambarotta perché oltre
cinquemila spettatori che non avevano trovato posto sugli
spalti si erano piazzati a bordo campo. Decisione della
disciplinare: 0-2 per l’Inter. La Juve non ci sta,
presenta ricorso (Umberto Agnelli è presidente della
Juventus e della Figc). La Caf, proprio alla vigilia di
Catania-Inter, decide che la partita dovrà ripetersi,
Per l’Inter è una brutta mazzata, ma non è ancora tutto
perduto. Invece….
LA VENDETTA -
Il Catania, neo promosso in A, è la rivelazione del
campionato. Alla penultima di andata è secondo a due
punti dall’Inter, che dovrà affrontare a San Siro. Il
Catania ne prende cinque, quattro sono autoreti. Helenio
Herrera dichiara a fine partita: "Abbiamo battuto una
squadra di postelegrafonici". E il Catania se la lega al
dito. Ricorda Memo Prenna centrocampista e leader della
squadra : "Per come avevamo giocato forse aveva pure
ragione, quattro autoreti sono un po’ troppe. Ma ci
siamo guardati in faccia promettendoci vendetta".
Aggiunge Amilcare Ferretti, mediano che giocò poi nella
Fiorentina e nel Torino: "Herrera involontariamente ci
diede una carica enorme. Dopo il 5-0 di San Siro abbiamo
battuto il Milan per 4-3. Raccontano che Herrera abbia
detto all’interista Bicicli; ti mando a giocare con i
postelegrafonici>. E Mario Castellazzi, autore del primo
gol: "Eravamo un gruppo unito, Prenna era un vero
capitano anche fuori dal campo. Ci invitava a casa sua,
eravamo decisi a vendicarci".
FATE I BRAVI -
Giorgio Michelotti, terzino, rivela un particolare:
"Qualche giorno prima della partita vennero i dirigenti
ad offrirci un premio doppio se avessimo lasciato
vincere l’Inter. Ci alzammo tutti in piedi: 'No, ci
dispiace. Ce la giochiamo'. E giocammo alla morte".
"Quella partita – aggiunge il portiere Gaspari –
l’abbiamo preparata noi giocatori. Abbiamo mandato tutti
fuori, Di Bella, i dirigenti, ci tenevamo troppo". "E
comunque quel Catania poteva vincere con chiunque",
ricorda il centravanti argentino Salvador Calvanese, che
è ritornato nel 1974 nella sua Buenos Aires e che
abbiamo rintracciato in vacanza a Bariloche.
LA PARTITA - "La
palla loro l’hanno vista poco – dice Ferretti – Mi hanno
detto che in tribuna c’era anche Suarez che l’Inter
aveva acquistato per la stagione successiva. Mi sono
divertito tanto, il Cibali era un inferno per gli
avversari, quell’anno riuscì a vincere solo la Juve". E
il fondo campo catanese non era il massimo. Nelle note
di quella partita la Gazzetta scrive: "Terreno con
qualche vago presentimento d’erba".
Non può
dimenticarla nemmeno Alvaro Biagini, centrocampista: "Mi
sono sposato tre giorni dopo. Ricordo un torello fatto
da me, Calvanese e Ferretti con Facchetti frastornato
tra gli olè del pubblico. Conservo una foto di Gaspari
portato in trionfo dai tifosi catanesi".
E Prenna: "I nostri
tifosi intonarono un ironico Herrera cha cha cha. E
quando Calvanese capitava vicino alla panchina
dell’Inter, stoppava la palla col sedere sotto gli occhi
del mago". Michelotti: "Facchetti era così confuso da
sbagliare spogliatoio a fine partita".
Gaspari dopo la
partita andò a salutare i giocatori dell’Inter nel loro
albergo. "Avevo giocato a Livorno con Picchi e Balleri.
Erano amareggiati. Balleri si era fatto pure espellere.
Mi dissero: ci avete rovinato". La Juve, pareggiando in
casa col Bari, vinse lo scudetto. A quel punto la
ripetizione della partita diventava ininfluente. Il 9
giugno l’Inter mandò in campo per protesta una squadra
di ragazzini. Finì 9-1 per la Juventus, con sei gol di
Sivori, che però non riuscì a vincere la classifica dei
marcatori. Il gol per l’Inter venne segnato dal
debuttante Sandro Mazzola. Fu anche l’ultima partita di
Boniperti
CHE GOL - Il primo fu
di Castellazzi: "Me lo ricordo benissimo, respinta della
difesa dell’Inter, stop di petto e tiro a volo
all’incrocio, Me ne annullarono un altro, presi una
traversa. Poteva finire anche 4-0".
"Ricordo che fu un
golazo, anche se ho dimenticato come si sviluppò
l’azione", afferma Calvanese, commosso a sentir
parlare
di Catania, di quella partita. Con un rimpianto. "Dopo
aver giocato nel Catania, avevo cominciato ad allenare i
ragazzi del vivaio rossazzurro molti erano pronti per
diventare titolari. Massimino non voleva saperne. Un
giorno (all’inizio della stagione 1971-72 n.d.r.) offre
a me la panchina della prima squadra. Io gli dico che
preferisco restare con i giovani anche perché non ho il
tesserino di allenatore, Lui insiste. La Federcalcio non
lo consentì e io rimasi fuori sia dalla prima squadra
che da quella ragazzi. Ecco perché ho lasciato Catania".
Ma lui resterà sempre
quello di Clamoroso al Cibali. Nato per colpa di Helenio
Herrera.
Giuseppe Bagnati
http://www.gazzetta.it/Calcio/Primo_Piano/2008/02_Febbraio/09/cibali.shtml
Il "Mago" chiede e
ottiene, per la cifra record di 250 milioni, il Pallone d'oro del
Barcellona e già Campione d'Europa Luis Suárez. Secondo l'allenatore
è il regista adatto ai nuovi meccanismi di gioco, ma un repentino
infortunio lo costringe però a rinunciarvi nei primi due mesi del
Campionato 1961/62, che l'Inter chiude in seconda posizione.
La
Coppa delle Fiere si chiude con l'eliminazione ai Quarti, in Coppa
Italia addirittura agli Ottavi. Si mettono però in evidenza i
gioielli del vivaio, su tutti Giacinto Facchetti, Gianfranco Bedin e
Sandro Mazzola.
GIACINTO FACCHETTI.
nato a Treviglio nel luglio del
1942, diventa l'allievo prediletto del
"Mago".
Con un
fisico da granatiere e una volontà di ferro,
"rubato" all'atletica leggera, è l'Inter che
si fa morale, rigorosa e puntuale
nell'inseguimento dell'obiettivo.
Facchetti
è il primo terzino d'attacco della storia
del calcio italiano, domina la fascia
sinistra, marca e attacca
contemporaneamente. Herrera lo proverà anche
come attaccante per la facilità realizzativa
e nel 1978, quando dirà stop al calcio
giocato, Giacinto il "Gigante Buono" avrà
realizzato, solo in campionato, un totale di
59 reti.
Un atleta
perfetto, un interista controtendenza
rispetto al dna "pazzo": Facchetti, grazie
al "Mago", è arrivato nell'Olimpo del calcio
e vi è rimasto, figura di riferimento
all'interno della Società (nel gennaio 2004
è stato nominato Presidente) e delle
istituzioni calcistiche, nazionali e
internazionali.
C’è anche
un altro giocatore, accompagnato da grandi
aspettative: il britannico Gerry Hitchens.
Dopo un
grande avvio i nerazzurri alla fine del
girone d’andata avranno cinque punti di
vantaggio sul Milan, ma una brusca flessione
primaverile spalanca le porte ai rossoneri
che alla fine si aggiudicheranno il
tricolore proprio a scapito dei nerazzurri.
Per
Angelo Moratti è la goccia che fa traboccare
il vaso. Infatti a fine stagione si dimette,
salvo poi ritornare sui suoi passi per
difendere la squadra dalle accuse di doping
lanciate da un giornale romano. Accuse che
si riveleranno poi prive di fondamento.
Nonostante questa forte presa di posizione i
dubbi che affliggono il presidente sono
tanti. Talmente tanti che arriva a pensare
persino all’esonero di HH.
Ma ancora
una volta rivede le sue decisioni, e quindi
Herrera resta allenatore dell’Inter. Anzi,
gli rinnova il contratto con un adeguamento
dello stipendio e apre ancora una volta il
portafogli per compiere altri sfavillanti
acquisti. Tarcisio Burgnich dal Palermo,
l’argentino Humberto Maschio dall’Atalanta,
il brasiliano Jair e Beniamino Di Giacomo
nello scambio che porterà l’inglese Hitchens
al Torino.
_____________________________________
Sono
passati ormai più di quarant'anni dal giorno in cui Helenio Herrera,
guardando una prova non soddisfacente di un terzino, disse:
"Questo ragazzo sarà una colonna fondamentale della mia
Inter".
Lo spilungone bergamasco, nato il 18 luglio 1942, era al suo esordio
assoluto in serie A, (21 maggio 1961, Roma-Inter 0-2). Non aveva
convinto troppo, ma quella profezia si rivelò abbastanza azzeccata, e
una volta inserito nel meccanismo d'orologio che erano i nerazzurri,
vide pentirsi i critici.
Alla
Trevigliese dei suoi esordi Giacinto Facchetti non era terzino, bensì
attaccante, ma una volta arrivato in nerazzurro il Mago lo piazzò in
difesa. Il dono della sua antica posizione, lo scatto, era l'arma in
più che cercava: un terzino diventato all'improvviso ala, avanzando
alla porta rivale.
Inatteso
goleador oltre che forte nei recuperi, Facchetti si fece un nome
prestissimo nella compagine bausciá ed iscrisse il proprio nome in
tutte le prodezze degli anni di oro della Grande Inter.
Senza
paura di sbagliarsi, chiunque poteva dire che per il laterale sinistro
c'era un Prima e un Dopo Facchetti. Infatti, la sua ascesa fu presa in
considerazione presto per il nuovo Commissario Tecnico Edmondo Fabbri,
che lo chiama per le qualificazioni della ccccdella Coppa Europea di
Nazioni il 27 marzo 1963 contro la Turchia ad Istanbul (vince Italia
per 1-0) Per il primo gol deve aspettare 20 mesi, sbloccando il
risultato al primo minuto (!) della gara ad eliminazione con la
Finlandia, finita 6-1 per gli azzurri.
La
annata 1963 é speciale Con 49 punti, 4 di vantaggio sulla Juventus -
vendicando la situazione del 1961 - 19 vittorie, 11 pareggi e 4
sconfitte, 56 gol fatti e 20 subiti, l'Inter vince lo scudetto ed
arriva l'anno successivo in Coppa Campioni, trovandosi di fronte il
Real Madrid e battendolo con due gol di Mazzola ed uno di Milani. Dopo
batte anche l'Independiente di Avellaneda in tripla finale (0-1, 2-0,
1-0 a Madrid) ed é il primato interista ad opporsi alla prima Coppa
Campioni milanista: campioni del mondo. Il terzino bergamasco riceve
lodi in tutte le lingue, ma c'e perplessità rispetto al suo impiego
in un ruolo difensivo, dove la velocità viene dosata in ben altra
maniera.
La
mobilità che Fabbri si auspicava dei suoi terzini in Nazionale, e che
Facchetti aveva, non arrivò, principalmente perché i primi due anni
in maglia azzurra non significarono per lui la grande svolta che molti
si aspettavano, il Club Italia che rinverdirebbe i fasti con una
Nazionale interamente italiana. Tanto più che durante il 1965 l'Inter
continuava a vincere ancora, rinnovando il titolo nazionale dopo la
Pasqua di Sangue con il Bologna dell'anno scorso, continentale contro
il Benfica, e mondiale ancora sull'Independiente, stavolta in doppia
finale (3-0, 0-0).
Tre lunghezze sul Milan, 54 punti, 22 vittorie, 10 pareggi e due
sconfitte, 68 gol fatti 29 subiti, questi i numeri del campionato. Si
ripeterà di nuovo nel 1966 con 50 gol, 20 vittorie, 10 pareggi e 4
sconfitte, 70 gol fatti e 28 subiti s'incorona campione di nuovo.
Nel
Inter c'era un altro fattore negativo, oltre ai trionfi: la novità
della sua posizione lo fa soffrire una strana dualità con Sandro
Mazzola, se uno dei due non segna, si comincia a parlare di crisi.
Come se non bastasse questo tormentone, i rapporti tra lui e Fabbri si
incrinano.
La stagione dei trionfi con l'Inter: la Coppa Campioni del 65Capitano
della nazionale in un match contro la BulgariaScoppia tutto dopo un
amichevole, giá ottenuti i biglietti per i mondiali inglesi del 1966.
Uno 0-0 con la Francia che sollevò le ire dei tifosi proprio come un
0-0 a Varsavia undici mesi prima. Era il momento propizio per far sí
che il gruppo interista - emarginato come bloc-co dalla nazionale di
Fabbri e sentendosi bacchettato dall'allenatore - passasse proprio
allora al contrattacco. Il CT sosteneva di non poter trapiantare un
modulo senza il giocatore cardine - Suarez - e i giocatori (Corso e
Facchetti in primis) si lagnavano delle scelte del tecnico romagnolo.
“Il vero calcio italiano é quello dell’Inter e non quello della
Nazionale italiana”, apre i fuochi alla stampa francese un - a dir
poco – insoddisfatto Facchetti, che spiega non aver realizzato reti,
sua specialità cardine “perché il signor Fabbri ci proibisce
andare avanti.
Lui vuole solo pareggiare, e con i soli pareggi non
arriveremmo da nessuna parte in Inghilterra”.
Profetiche
parole. "Giacinto Magno", come lo chiamò Brera, ebbe dura
vita ai mondiali inglesi, specialmente di fronte al russo Cislenko,
l'ala che segnó la rete della vittoria dell'Urss, e non meno contro i
coreani.
Si macchia cosí della caduta sportiva piú vergognosa del calcio
italiano, ma anche questa volta risorge. Dopo la Corea, é fatto
capitano a soli 24 anni e riprende con la solita forza la strada.
Mentre
l'Inter nel 1967 andava incontro a Mantova e falliva a conquistare una
storica tripletta, Facchetti avanzava verso la gloria mondiale. E se
qualcuno prima dubitava del suo ruolo, e parlava di crisi e della
cosiddetta "alimentazione di guerra", ccccpresto dovette
ricredersi. La rivincita giungerà sotto forma della prima e sin qui
unica Coppa Europea di Nazioni vinta dall'Italia (1968).
Una Coppa segnata dall' azzardo, una semifinale giocata sul lancio
della monetina che Facchetti stesso scelse. Capitano nel bene e nel
male, dunque, è tra i giocatori di rilievo ad aver giocato in tutte e
tre le Nazionali: Giovanile, B (1 partita ognuna) e naturalmente A.
In
Messico, nel 1970, sembrava la volta buona per mettersi in mostra.
Smarrito all'inizio come la maggioranza degli azzurri per
l'altitudine, la pressione e il caldo, via via il suo gioco andò
migliorando, e anche se la finalissima lo vide con il solito
"animus pugnandi", finì con un 4-1 sfavorevole agli
azzurri, ma con l'orgoglio rifatto. Tra i tanti della Corea che
volevano rivincita, Facchetti fu uno che agli occhi di tutti cresce e
rinasce.
Anni
dopo ricorderà questa altalena: "Mi volevano condannare allo
ergastolo quando ci sconfisse la Corea ai Mondiali d'Inghilterra, e
quattro anni dopo, quando vincemmo sulla Germania per 4 a 3 in
Messico, raggiungendo la finale con i brasiliani, la polizia dovette
fare un operazione di sicurezza per evitare che i tifosi prendessero
mia moglie ci portassimo in trionfo. Comunque, fra dei tanti difetti,
il calcio é una delle poche cose che all'estero fanno parlar bene
degli italiani".La Vecchia Guardia inte-rista chiude il ciclo di
Herrera: vincerà uno scu-detto con Invernizzi nel 1971 ma non sarà
mai lo stesso. Giacinto ammira il Mago oltre ogni limite: la visione e
la competenza del suo allenatore lo esaltano. Ne diventa amico, ne
canta le imprese, resta affascinato della maniera di affacciarsi al
gioco che ha il grande H.H. E Facchetti si avvia alla ripartenza.
I
Mondiali di Germania sono il suo canto del cigno, attorno a lui,
all'Inter e nella Nazionale i compagni di molte battaglie vanno via
oppure si ritirano. E lui resta, consapevole di poter ancora smentire
chi lo definisce vecchio e finito.
Nella
metà degli anni Settanta, Facchetti chiede a Suarez - diventato
allenatore dell'Inter - di provare a fargli fare il libero.
Lo spagnolo resta convinto delle qualità del suo antico compagno: un
libero mobile, plastico, un po' troppo "cavalleresco" per i
suoi gusti ma infine un grande libero. In questa veste riconquista il
posto di diritto e, incredibilmente, ritorna in Nazionale per arrivare
al suo quarto mondiale.
Qui
arriva la tragedia.
Giocando per l'Inter Facchetti s'infortuna e, stringendo i denti,
torna, anche se non in piena forma. Quando Bearzot chiama i 22 per
andare in Argentina, in un atto di grande sincerità sportiva, il
capitano gli fa sapere di non stare nella forma migliore e chiede al
tecnico di scegliere un altro al posto suo.
Andò ugualmente, l'Italia arrivò quarta e per lui fu la prima volta
da dirigente accompagnatore.
Il 16 novembre 1977, con 94 partite da capitano azzurro, Giacinto
Facchetti lascia la Nazionale con questo record.
Record che fu superato in seguito solo da Zoff, Paolo cccccFacchetti e Uwe Seeler prima della storica Italia Germania 4-3In Nazionale assieme
ad un altro mito assoluto, Dino Zoff Maldini e Cannavaro. L'addio per
l'Inter comunque arriva il 7 maggio 1978, vincendo 2-1 sul Foggia: nel
arco della pulitissima carriera era stato espulso una volta sola.
Dopo
esser divenuto rappresentante all'estero per l'Inter, divenne
Vicepresidente dell'Atalanta, per poi tornare dai nerazzurri di Milano
durante la presidenza di Massimo Moratti col il ruolo di Direttore
Generale. Divenne Vicepresidente dopo la morte di Giuseppe Prisco e,
infine, Presidente il 19 gennaio 2004, dopo le dimissioni di Massimo
Moratti. Malato di tumore al pancreas, Facchetti si è spento a Milano
il 4 settembre 2006. Storie di
http://www.storiedicalcio.altervista.org/facchetti_giacinto.html
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GUARDA L'INTER IN QUESTO TORNEO |
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L'Inter di Herrera vince
il suo primo scudetto, stagione '62-'63, decisivo il successo a
Torino sulla Juventus nel cosiddetto Derby d'Italia: 1-0 per i
nerazzurri,
rete-partita di Sandro Mazzola, classe 1942, figlio
d'arte, attaccante con un repertorio di colpi e un'intelligenza ben
oltre la media naturale, potente e veloce al tempo stesso, un'altra
pagina eterna della lunga e inconfondibile storia nerazzurra (in
tutto, in 418 partite con una fedeltà senza macchia, Mazzola
realizzerà 117 gol in campionato, 20 nelle coppe europee, 24 in
Coppa Italia).
"Il Mago", per regalare a Moratti il primo titolo
tricolore, schiera la
seguente formazione: Buffon; Burgnich, Facchetti; Zaglio, Guarneri,
Picchi; Jair, Mazzola, Di Giacomo, Suarez, Corso.
La squadra impiega tre
anni per vincerlo ma, da
allora, continuerà a mietere straordinari successi, inducendo molti
a definirla la migliore squadra del mondo del periodo. Herrera, o HH
(come viene spesso chiamato), costruisce la sue vittorie con la
tattica del catenaccio: in porta c'e Giuliano Sarti, prelevato dalla
Fiorentina; la difesa viene guidata dal libero Armando Picchi,
capitano di quella squadra e autentico leader; davanti a lui ci sono
due marcatori arcigni come Tarcisio Burgnich e Aristide Guarneri.
Sulla fascia sinistra viene attuata la prima rivoluzione tattica di
Herrera: Facchetti diventa il primo terzino capace di affondare in
avanti e trasformarsi in una vera e propria ala. A centrocampo il
regista è Luis Suarez che il mister volle a tutti i costi dopo
averlo avuto al Barcellona; con i suoi lanci lunghi Suarez era in
grado si servire palloni preziosi, principalmente alla velocissima
ala destra Jair. Il centrocampo era rinforzato da Gianfranco Bedin;
l'estrosità di Corso dava un tocco di fantasia alla squadra, e in
attacco Mazzola fungeva da mezz'ala ed al centro era posizionato
Joaquín Peiró.
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Anche dopo la conquista del primo scudetto, la prima richiesta che
Herrera fa ad Angelo Moratti è quella di una cessione. Il ritornello
si ripeterà ogni dodici mesi. Nel mirino del tecnico, Corso, veneto
classe 1941, il campione con un piede solo (il sinistro), un artista
del pallone. Troppo bravo tecnicamente, troppo geniale nelle
giocate, per andare anche e sempre di corsa. Ma il Presidentissimo
non cederà mai al ricatto del "Mago", e così vissero insieme felici
e contenti. Unione favorita, senza dubbio, anche dai successi che la
squadra comincia a raccogliere.
Nel 1963 si fece un nuovo salto indietro,
ripescando lo stemma tradizionale, quasi del tutto uguale
all’originale, salvo l’aggiunta di un cerchio dorato tra quello nero
e quello azzurro e un altro cerchio dorato all’esterno di tutto.
Questo restò in voga fino al 1979. Nessuno di questi stemmi
campeggiava sulla divisa ufficiale, su cui, invece, dalla stagione
1966/67 aveva cominciato a far mostra di sé la stella.
http://www.sportmain.it/2014/07/09/la-storia-del-logo-dellinter-dai-colpi-di-pennello-alle-stelle-rubate/
Al terzo anno l'Inter parte con due nuovi acquisti: la riserva del
Brasile Jair e Tarcisio Burgnich, che arriva dal Palermo dove la
Juventus l'aveva parcheggiato come scarto. Il "Mago" Herrera azzecca
gli acquisti che, uniti ai vecchi colpi di mercato, ai giovani ormai
affermati e al talento di Mario Corso, dalle celebri punzioni "a
foglia morta", trascinano l'Inter verso la gloria. La squadra parte
lenta, ma si riprende a metà Campionato e vince quasi tutti gli
scontri diretti, come nel brillante 4-0 inflitto al
Bologna alla
tredicesima di Andata. Dopo la vittoria nel Derby dominato da
Mazzola arriva tuttavia la doccia fredda di una sconfitta a Bergamo
contro l'Atalanta. Se l'allenatore non dà peso all'accaduto, Moratti
raduna furioso la squadra e ordina di far giocare le riserve
Bugatti, Bolchi e Maschio al posto di Buffon, Zaglio e Di Giacomo,
che il "Presidentissimo" ritiene responsabili della sconfitta. La
frustata scuote i ragazzi e l'Inter scavalca il Genoa 6-0. Due mesi
dopo la vittoria sulla Juventus, ancora vanto di Mazzola, proietta i
nerazzurri verso lo Scudetto 1962/63. La certezza matematica arriva
la settimana dopo. Va meno bene la Coppa Italia: l'Inter è fuori ai
Quarti.
La
vittoria in Serie A qualifica l'Inter in Coppa dei Campioni, e per
affrontare la fatica dei due tornei arrivano il portiere Giuliano
Sarti, il centravanti Aurelio Milani e il meno celebre Horst
Szymaniak. In Europa la cavalcata è trionfale: eliminato l'Everton
(0-0/1-0), i nerazzurri infilano Monaco (1-0/3-1), Partizan
(2-0/2-1) e Borussia Dortmund (2-2/2-0), raggiungendo la Finale
contro il Real Madrid. Si gioca a Vienna il 27 maggio 1964, e in una
serata in cui Carlo Tagnin annulla Di Stéfano e Aristide Guarneri
ferma Puskás, l'Inter si impone per 3-1 con doppietta di Mazzola e
rete di Milani. Il club Campione d'Europa si fa valere altrettanto
nella Serie A 1963/64, ma con esiti meno fausti. L'arrancante
partenza è compensata da una buona ripresa. La squadra si trova
prima in classifica dopo la penalizzazione inflitta al Bologna per
l'uso di sostanze dopanti, ma una guerra di carte bollate riporta i
tre punti agli emiliani. A fine Campionato Inter e Bologna sono
appaiate a 54 punti, e lo Scudetto deve essere deciso sul neutro di
Roma: nell'unico spareggio per il primo posto della storia, il
Bologna vince 2-0 con autorete di Facchetti e gol di Nielsen
lasciando i nerazzurri a bocca asciutta. Va segnalato che, con le
regole attuali,
l'Inter averebbe vinto il Campionato in virtù del 2-0 totale
(0-0/2-0) negli scontri diretti.
È la primavera del 1964.
L'Inter di Helenio Herrera domina la scena del campionato italiano;
ha già vinto il campionato precedente con quattro punti di distacco
sulla Juventus e sembra avviata a fare il bis. La Juventus è
staccatissima, il Milan fatica a tenere il passo, ma c'è una squadra
che si erge improvvisamente a fare da guastafeste. È il Bologna di
Fulvio Bernardini: il "dottor Fuffo" ha compiuto un autentico
miracolo, fautore del bel gioco ed innamorato pazzo dello
spettacolo, ha insegnato ai suoi ragazzi a giocare in allegria,
senza perdersi in troppe alchimie tattiche. Bernardini fa le prove
generali nella stagione 1962-63 e si presenta a quella successiva
conscio di avere una squadra in grado di puntare al massimo
traguardo ed i risultati sono eccezionali, il Bologna incanta, come
non succedeva ormai da anni, ed il pubblico va in estasi tanto che
Bernardini non riesce a dominarsi. "Cosi si gioca solo in Paradiso
!!!" dice al termine di una squillante vittoria.
Il portiere viene dal
Mantova, William Negri e risulta pressoché imbattibile;
la difesa è guidata da un grande libero come Janich,
supportato da Tumburus, Pavinato e Furlanis; a metà
campo ci sono Perani, Bulgarelli, che diventerà il
primatista assoluto di presenze rossoblu con 329 partite
in serie A, e Fogli, mediano di finissima tecnica; in
attacco Ezio Pascutti, un'ala sinistra pazza, come solo
i goleador di razza possono essere e poi due stranieri
che cordialmente si detestano, ma che in campo si
integrano alla perfezione: un mostro di tecnica e di
fantasia come il tedesco Helmut Haller, beniamino del
presidente che è andato personalmente ad ingaggiarlo in
Germania ed il freddo, essenziale danese Harald Nielsen
detto "Dondolo", dal gioco scarno ma dal grandissimo
fiuto del goal, per il quale stravedono sia Bernardini,
sia i tifosi,
Il 1° marzo 1964 è
una domenica di festa per i rossoblu, che vincono a San
Siro per 2-1 sul Milan, con goals di Nielsen e Pascutti,
e prendono decisamente il comando della classifica con
due punti di vantaggio sull'Inter e tre sullo stesso
Milan. La città è in preda ad una febbre altissima;
Haller, Nielsen, Bulgarelli non possono uscire di casa
senza essere acclamati dai tifosi eccitati. "Scudetto,
scudetto" si urla in ogni strada ed in ogni bar, è un
magnifico momento di sport, ma come tutte le cose troppo
belle non dura a lungo.
Tre giorni dopo,
esattamente mercoledì 4 marzo, un'autentica "bomba" gela
l'entusiasmo della città. Viene diffuso dalla
Federazione questo comunicato:
"Le analisi
effettuate dalla competente commissione sono risultate,
all'esame per le sostanze amfetamine-simili, positive
per i cinque giocatori del Bologna: Fogli, Pascutti,
Pavinato, Perani e Tumburus, sottoposti a controllo dopo
la partita Bologna-Torino del 2 febbraio scorso. La
presidenza federale ha inoltrato la documentazione alla
commissione giudicante della Lega che giudicherà in base
all'art.2 del regolamento di giustizia.
Il giudizio avrà
luogo nel pomeriggio di giovedì 12 marzo p.v.".In
sostanza si dice che il Bologna, che aveva travolto il
Torino di Rocco un mese prima, suscitando commenti
entusiasti per la modernità e la freschezza del suo
gioco, si era "aiutato" con sostanze stimolanti
proibite.
Al presidente
Dall'Ara, già sofferente di cuore, la notizia è portata
con tutte le cautele del caso; il grande dirigente, noto
per il suo cinico distacco, scoppia in un pianto
dirotto: "Questa non me la dovevano fare". Tutta la
città, superato il primo attimo di sbandamento, si
organizza in una autentica rivolta contro il potere
calcistico. Non c'è chi non veda in questo "colpo basso"
al Bologna, una manovra delle grandi squadre del Nord
per sottrarre ai rossoblu un primato guadagnato sul
campo. La Lega Calcio viene ribattezzata "Lega lombarda"
e contro di essa vengono organizzati cortei di protesta,
lo stesso sindaco bolognese, Dozza, guida le
manifestazioni di piazza. Città tradizionalmente
tranquilla, Bologna scopre vocazioni rivoluzionarie e
guerrigliere; incolpevoli auto targate Milano, di
passaggio per la città, vengono rovesciate e date alle
fiamme.
Secondo le norme
della giustizia sportiva, è previsto un successivo
controllo, in caso di accertata positività, sulle
provette di scorta, custodite nei locali della
Federazione medici sportivi al Centro Tecnico di
Coverciano, sulle colline di Firenze. Ed a questo punto
scatta l'operazione a sorpresa di tre avvocati bolognesi
(Gabellini, Cagli e Magri) che, sospettando una
"congiura" ai danni della società rossoblu, si rivolgono
alla Magistratura ordinaria, chiedendo ed ottenendo il
sequestro delle provette, prima del secondo esame da
parte della giustizia sportiva. In mancanza della contro
perizia, la sentenza della Commissione giudicante slitta
di
una settimana. C'è da dire che, se l'iniziativa dei tre
avvocati fosse collegabile al Bologna, la società
rischierebbe la radiazione, per aver violato la clausola
compromissoria che impone di risolvere le controversie
calcistiche nell'ambito della giustizia sportiva e vieta
espressamente di rivolgersi alla Magistratura. Ma questi
legami non vengono mai provati: ufficialmente, essi
hanno agito da "privati cittadini nell'interesse della
giustizia".
II 20 marzo, ad ogni
modo, la Giudicante esprime il suo verdetto: partita
persa al Bologna contro il Torino, un punto di
penalizzazione in classifica, 18 mesi di squalifica a
Fulvio Bernardini (salvato da più gravi sanzioni, in
virtù del suo passato azzurro), assoluzione per i cinque
giocatori, perché ignari delle sostanze che erano state
loro somministrate. In parole povere, il Bologna perde
tre punti, il primato in classifica ed uno sportivo, dal
luminoso passato, che viene bollato come "untore".
La squalifica di
Bernardini da vita a un curioso caso, chiamato "il
giallo della radiolina"; la successiva domenica, quando
il Bologna si reca all'Olimpico per giocare contro la
Roma; "Fuffo", costretto ad assistere alla partita in
tribuna, viene sostituito in panchina dal fido
Cervellati, col quale si tiene in contatto grazie ad una
piccola radio ricetrasmittente. L'inghippo è colto da un
fotografo, il direttore sportivo del Bologna, Bovina,
cerca di far sparire il corpo del reato, e viene
squalificato per due mesi.
Mentre si attende il
giudizio della magistratura ordinaria, la sola che possa
effettuare le controperizie sulle seconde provette, il
campionato va avanti, ma il Bologna è lacerato da grandi
tensioni. In un clima infuocato, lo scontro diretto con
l'Inter a Bologna è vinto dai nerazzurri, che paiono
così spegnere ogni residuo sogno rossoblu.
Il colpo di scena
arriva in maggio: gli esami di controllo, effettuati
dalla magistratura ordinaria, rilevano, nelle
provette-bis, la completa assenza di amfetamine e di
qualsiasi altra sostanza proibita. Quindi è automatico
che qualcuno ha dolosamente alterato il contenuto delle
prime provette, immettendo in esse tali sostanze per
danneggiare il Bologna. Sul piano penale, la scoperta
porta all'apertura di un procedimento contro ignoti, sul
piano sportivo lo sconcerto è enorme, perché una
sentenza degli organi sportivi è clamorosamente
sbugiardata dall'autorità dello Stato. Anche i più
tenaci assertori dell'autonomia dei tribunali calcistici
devono arrendersi. Il massimo ente sportivo italiano, il
CONI, chiede alla Procura della Repubblica di Bologna
una copia della perizia svolta sulle seconde provette.
Tale copia viene passata alla C.A.F. (Commissione di
Appello Federale) davanti alla quale pende il ricorso
del Bologna contro la sentenza della Giudicante.
Il 16 maggio la
C.A.F. assolve il Bologna, Bernardini ed il medico
sociale Poggiali, per "non essere stata accertata in
forma non dubbia l'infrazione". In sostanza, al Bologna
vengono restituiti tre punti, quello di penalizzazione
ed i due conquistati sul campo contro il Torino, grazie
ai quali ritorna in testa alla classifica, alla pari con
l'Inter.La sentenza viene accolta con grandi
manifestazioni di giubilo, ma, sul piano
dell'accertamento delle responsabilità, neppure il
procedimento penale porterà mai a risultati
apprezzabili. Il mistero resta ormai definitivamente
irrisolto. Il "caso-doping" od il "giallo della pipì",
come viene chiamato, è destinato ad alimentare per
sempre la leggenda: c'è chi arriva a identificare il
"congiurato" in un famoso personaggio che dopo aver
vissuto pagine gloriose a Bologna si è trasferito a
Milano. Chi, dall'altra sponda, parla di misteriosi e
sconosciuti medicinali che il tedesco Haller avrebbe
portato dalla Germania, ma resta inspiegabile, in questo
caso, l'innocenza delle seconde provette.
Due anni dopo, il
Giudice istruttore del Tribunale di Firenze, cui era
stato affidato per competenza territoriale il
procedimento contro ignoti, archivierà il caso, dopo
aver ricostruito puntigliosamente i capitoli del giallo
e l'impossibilità di una sua logica soluzione
Così, in un clima
avvelenato, il Bologna tiene testa alla grande Inter di
Helenio Herrera. Conclude il campionato a 54 punti, alla
pari dei nerazzurri; per la prima volta, lo scudetto
deve assegnato in una "bella" di novanta minuti, che
viene fissato per il 7 giugno allo Stadio Olimpico di
Roma.
Quattro giorni prima
Renato Dall'Ara, da poco dimesso dalla clinica padovana
dove era rimasto ricoverato per gli ormai frequenti
attacchi di cuore, sale a Milano per concordare con il
suo collega-rivale dell'Inter, il grande Angelo Moratti,
i dettagli dello scontro. Pare che ad un certo punto si
tocchi il tasto del premio-partita, che Dall'Ara
vorrebbe calmierare. I toni si accendono, la discussione
divampa, il cuore stanco di Dall'Ara si ferma. La morte
lo coglie, dopo trent'anni di governo bolognese, proprio
quando sta per riassaporare lo scudetto che andava
inseguendo da ventitré anni, da quel 1941 che aveva
visto il Bologna laurearsi campione d'Italia per la
sesta volta.
La notizia della
morte di Dall'Ara raggiunge il Bologna, in ritiro vicino
a Roma, come un fulmine a ciel sereno. L'Inter del
"mago" Helenio Herrera, intanto, si è appena laureata
campione d'Europa a Vienna, sconfiggendo, in una partita
memorabile, il leggendario Real Madrid di Puskas e di Di
Stefano. Lo spareggio, il primo e sinora unico nella
storia del calcio italiano, sembra opporre forze impari,
essendo l'Inter nettamente favorita.
Bernardini, però,
stupirà tutti con una mossa tattica che sarà decisiva:
la mancanza, per infortunio, di Ezio Pascutti e le
cattive condizioni del suo sostituto naturale Renna,
consigliano a "Fuffo" il ricorso ad un espediente,
dovuto anche alla necessità di controllare da vicino
Mario Corso, numero undici dell'Inter, ma in realtà
ispiratore di gioco a tutto campo. II Bologna, quindi,
schiera un terzino, Johnny Capra, all'ala sinistra, con
l'incarico di francobollare da vicino Corso. Per
mantenere gli equilibri tattici, Haller gioca in
posizione più avanzata del solito, funzionando in
pratica da spalla offensiva di Nielsen.
Il Bologna si schiera
con Negri, Furlanis, Pavinato, Tumburus, Janich, Fogli,
Perani, Bulgarelli, Nielsen, Haller, Capra. Risponde
l'Inter con Sarti, Burgnich, Facchetti, Tagnin,
Guarnieri, Picchi, Jair, Mazzola, Milani, Suarez, Corso.
L'arbitro è Lo Bello di Siracusa, considerato il
fischietto numero uno.
A Roma fa un caldo
infernale. Il Bologna, che si è acclimatato trascorrendo
la vigilia sul posto, mostra di risentirne meno rispetto
all'Inter, che ha scelto di arrivare all'ultimo momento,
scendendo dal "fresco" di un paese montano. Alla
distanza, i nerazzurri crollano. Il Bologna passa in
vantaggio con un tiro di punizione di Fogli, deviato da
Facchetti, poi Nielsen raddoppia.
È il trionfo, è il
"settimo sigillo" nella storia degli scudetti rossoblu.
Bologna accoglie come eroi i reduci dall'Olimpico, ma le
imponenti feste decretate non possono fare dimenticare
la mancanza del presidente, primo artefice della
conquista.
"Quei fatti di
allora" disse l'avvocato Giuseppe Prisco, allora
vicepresidente dell'Inter "rivelarono la debolezza della
Federcalcio e lo strano comportamento della magistratura
bolognese di allora. Ma la cosa scandalosa, secondo me,
non fu tanto il mistero del doping quanto lo sfacciato
aiuto che gli arbitri diedero al Bologna impegnato nella
rincorsa all'Inter. Ricordo la partita Bologna-Lazio
giocata subito dopo il fatto delle provette: al settimo
minuto venne fischiato un rigore inesistente per un
"volo" in area del centravanti Nielsen. I giocatori
laziali rimasero di stucco e consigliarono l'arbitro di
consultare il guardalinee che forse aveva visto meglio e
di rimandare l'assegnazione del calcio di rigore ad
un'altra occasione più limpida, che certamente sarebbe
capitata nel corso della partita, vista l'enorme
disparità tecnica tra Bologna e Lazio, che infatti
terminò il campionato staccata di ben 24 punti dalla
coppia di testa. I rigori decisivi per i rossoblu furono
davvero tanti, troppi e così Bologna ed Inter arrivarono
allo spareggio di Roma vinto, devo dire meritatamente,
dalla squadra di Bernardini".
Giacomo Bulgarelli,
uno dei giocatori-chiave del Bologna scudettato.
simpaticamente ribattezzato "Drogarelli"' dall'avvocato
Prisco, risponde così:
"Di sicuro posso dire
che né io né i miei compagni di allora prendemmo
anfetamine o qualsiasi altro tipo di sostanze
stupefacenti. Tra l'altro le dosi trovate in quelle
provette erano sufficienti per uccidere un cavallo e
questa fu la prova più valida per confermare che le
provette furono manomesse da ignoti. Tutto il resto non
conta: lo scudetto lo conquistammo meritatamente sul
campo con un recupero formidabile, su un Inter ormai
demotivata e paga per la conquista della Coppa dei
Campioni".
Ma ancora adesso c'è
chi giura che, colpevoli o vittime ignare, quel 2
febbraio 1964, Pavinato, Tumburus, Fogli, Perani e
Pascutti avevano corso come leprotti, veloci ed
imprendibili.
Bidescu
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La
formazione della Grande Inter è diventata una di quelle entrate
nella storia del calcio italiano, fra quelle che si ricordano a
memoria: Sarti, Burgnich, Facchetti... Fra i pali venne schierato,
fino al 1963, Lorenzo Buffon, poi scambiato con Giuliano Sarti alla
Fiorentina. Sarti divenne uno dei migliori portieri dell'epoca fra i
pali dell'Inter.
I quattro difensori arrivarono tutti quanti al successo della maglia azzura, in particolare i due terzini, Tarcisio Burgnich a destra,
forte in marcatura, insuperabile di testa, Giacinto Facchetti a
sinistra, con le sue incursioni sulla fascia e i numerosi gol che
fecero di lui il primo terzino-goleador del calcio italiano. Al
centro Aristide Guarneri giocava in marcatura sul centravanti
avversario mentre Armando Picchi ricopriva il ruolo di libero.
Nemmeno un grande campione come Saul Malatrasi riuscì a spezzare gli
equilibri creati da questi quattro giocatori. Faro del centrocampo
della squadra fu senza ombra di dubbio Luisito Suarez, che Herrera
aveva fortemente voluto con sé dopo l'esperienza al Barcellona.
Alessandro Mazzola invece rimaneva il punto di riferimento per la
finalizzazione della manovra, facendo da ponte fra centrocampo e
attacco dopo aver cominciato la carriera come attaccante. Mancò
invece una figura fissa nel ruolo di mediano, che vide
susseguirsi giocatori di calibro come Gianfranco Bedin e Tagnin.
A parte vanno nominate le grandi ali che ebbe l'Inter in quel
periodo, su tutti Mariolino Corso sulla fascia sinistra, ma non sono
da dimenticare nemmeno Jair e Angelo Domenghini sulla fascia destra.
La figura che mancò maggiormente alla Grande Inter fu probabilmente
un grande centravanti, ma evidentemente non fu una carenza di peso.
Inizialmente ricoprirono il ruolo di punte Gerry Hitchens ed Edwing
Firmani, ma furono presto soppiantati dall'astro nascente di
Mazzola. Inizialmente fu affiancato da un onestissimo Beniamino Di
Giacomo o da Aurelio Milani, poi da Joaquín Peiró e da Angelo
Domenghini che alternava il ruolo di ala e di centravanti.
Arriva anche la prima Coppa dei
Campioni vinta contro il grande Real Madrid. L'Inter vince per 3-1
con i gol di Mazzola (2) e Milani allo Stadio del Prater di Vienna.
In quell'anno giunge anche la Coppa Intercontinentale vinta battendo
l'Independiente; dopo aver perso la gara di andata in Argentina per
1-0, i nerazzurri vinsero a San Siro per 2-0 con le reti di Mazzola
e Corso. Nella terza e decisiva partita giocata allo stadio
"Santiago Bernabeu" di Madrid l'Inter vince per 1-0 con gol di Corso
nei supplementari. Solamente lo scudetto viene perso in quell'anno,
dopo lo spareggio di Roma giocato contro il Bologna.
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Non una grande finale, in
termini di occasioni e qualità delle giocate, ma alla fine
l'Inter batte 3-1 un Real Madrid a fine ciclo e succede
nell'albo d'oro della Coppa Campioni al Milan. I nerazzurri
costruiscono il successo sulla solidità della difesa, sulla
ferrea marcatura di Tagnin sul faro madrileno Di Stefano e
sulle improvvise e devastanti accelerazioni degli avanti, in
particolare del match-winner Sandro Mazzola. Il Real è
apparso logoro e declinante, a partire dai suoi uomini
chiave, il 38enne Di Stefano, il 37enne Puskas e il 35enne
Santamaria.
Inter: Sarti - Picchi -
Burgnich, Guarneri, Facchetti - Tagnin - Suarez, Corso -
Jair, Milani, Mazzola.
Real Madrid: Vicente -
Isidro, Santamaria, Pachin - Muller, Felo, Zoco - Amancio,
Di Stefano, Puskas, Gento.
Primo tempo
4' fallo su Mazzola sulla
trequarti. Punizione maligna di Corso, Vicente devia in
corner con difficoltà. Corner dello stesso Corso, mezza
girata di Suarez, Santamaria allontana sulla linea. Inter
subito aggressiva.
7' Milani per Guarneri,
conclusione violenta dal limite, para Vicente.
11' Mazzola apre per
Milani, tiro sul primo palo, Vicente neutralizza.
33' Corso avanza palla al
piede, assist per Facchetti, tiro a pelo d'erba, il portiere
spagnolo c'è. Gara molto tattica, le due squadre restano
guardinghe e affondano poco i colpi.
43' GOL INTER Lampo dei
nerazzurri, che passano a condurre. Lancio di Guarneri per
Facchetti, che quasi al limite appoggia a Mazzola, rasoiata
improvvisa che sorprende Vicente e si infila sul palo
lontano.
Secondo tempo
2' finalmente un'azione
degna del Real Madrid. Felo avanza e appoggia a Di Stefano,
tocco per Gento, diagonale a pelo d'erba, palo pieno. Sulla
respinta, Puskas non riesce a ribadire in rete, ben marcato
dalla difesa nerazzurra.
8' fallo su Felo al
limite dell'area. Punizione tesa e a mezza altezza di Di
Stefano, Sarti devia in angolo. Inter troppo attendista
adesso, contro un Real Madrid che ci prova, seppur
viaggiando al piccolo trotto.
12' conclusione di Felo
da fuori, Sarti neutralizza.
15' Muller avanza e
lascia ad Arancio, tocco di Di Stefano a sinistra per Gento,
conclusione sul primo palo, fuori.
16' GOL INTER Al primo
tiro in porta della ripresa, l'Inter raddoppia. Mazzola
difende caparbiamente palla su un lungo rilancio e serve
Milani, che si accentra e dal limite fa partire un destro
potente, Vicente tocca ma non riesce a deviare e la palla si
infila nell'angolino.
25' GOL REAL MADRID
Corner da destra di Puskas, nessuno interviene, Felo in
girata spedisce nell'angolino.
26' Suarez per Mazzola,
dribbling secco e tiro da lontano, para centralmente Vicente.
30' spunto di Amancio a
destra, tiro-cross insidioso, Sarti smanaccia, ma il pallone
rimane in area, tentativo di deviazione di un giocatore del
Real Madrid, Picchi salva quasi sulla linea L'Inter sta
rischiando adesso.
31' GOL INTER I
nerazzurri chiudono i giochi sfruttando un clamoroso
errore dei madridista. Rilancio di Milani, Santamaria
sbaglia il rinvio in rovesciata, intercetta Mazzola, che si
invola verso la porta e batte Vicente con un tocco beffardo
sul secondo palo.
LE PAGELLE INTER
IL MIGLIORE S. MAZZOLA 8:
a 22 anni non ancora compiuti, decide una finale di Coppa
Campioni con due meravigliosi gol e un assist. Cosa chiedere
di più? Degno di papà Valentino.
Corso 7: Mazzola a parte,
il migliore dei nerazzurri, probabilmente il più continuo
nell'arco del match. Corsa, tiri pericolosi, aperture e
genialità: un centrocampista dal bagagliaio tecnico di
prim'ordine.
Tagnin 7: una delle
chiavi del trionfo interista. Si incolla a Di Stefano e lo
segue ovunque. Per la serie: anche la classe operaia va in
Paradiso.
Facchetti 6,5: serve
l'assist dell'1-0 a Mazzola, sale spesso per dare manforte
ai compagni d'attacco, sbaglia pochissime scelte, mostrando
anche intelligenza e ottimo senso tattico.
Suarez 6,5: poco
appariscente, ma molto concreto. Una regia nascosta, ma
importantissima al servizio del collettivo.
Milani 6,5: fa a
sportellate contro la difesa schierata e indovina il gol del
2-0 con un fendente da fuori che sorprende l'incerto Vicente.
IL MIGLIORE FELO 6,5:
realizza un gol splendido in stile “kung fu” e non si dà mai
per vinto, portando la carretta in mezzo al campo.
Muller 6,5: insieme a
Felo è forse il solo del Real Madrid a correre su e giù per
il campo, dando l'impressione di non voler mollare.
Di Stefano 5,5: un bel
tiro su punizione respinto da Sarti e un paio di tocchi
deliziosi per Gento. Come sempre, arretra e organizza il
gioco a tutto campo. Ma è oramai in là con l'età (38 anni) e
non ha più lo scatto e l'incisività dei giorni migliori. Il
canto del cigno di un fuoriclasse senza tempo.
Puskas 5: Di Stefano
perlomeno corre e ci prova; lui neppure quello. Spento, poco
mobile, mai una giocata di qualità o una conclusione delle
sue, di quelle che non lasciano scampo ai portieri. Ha il
solo merito di servire Felo per il gol del momentaneo 2-1.
Anche lui è al tramonto dopo 20 anni trascorsi da dominatore
assoluto delle scene calcistiche internazionali.
Santamaria 4,5: il terzo
“vecchietto terribile” del Real, anche lui dimostra di
essere arrivato al capolinea. Mazzola, che ha 13 anni in
meno di lui, lo salta quando vuole e lo ridicolizza in
occasione della terza rete.
Niccolò Mello
http://rovesciatavolante.blogspot.it/2016/07/1964-finale-inter-real-madrid-3-1.html?m=1
BRILLANO LE LUCI
della grande Ruota nella sera morbida del cielo del Prater.
Nella penombra luminosa dello stadio gli uomini in maglia
bianca spiccano nitidi mentre si avviano al centro del
campo. E intanto scrutano, con fastidio, le facce anonime
degli avversari che l'illusione ottica fa sembrare anche
meno numerosi nelle loro maglie scure. Tutti illustri
sconosciuti, per lo più, tranne uno. Quello lo conoscono
bene: è, come loro, un "Grande di Spagna". Quasi come loro.
I calciatori in maglia bianca sopportano pochi paragoni al
mondo. Loro sono, presi in blocco, una leggenda vivente.
Anche dall'altra parte, in verità, c'è una leggenda. Ma è
solo un'eredità. Una pesante eredità. Il capitano dei
bianchi ci pensa un momento, accigliato e scontroso, mentre
cerca tra le facce scavate dai fari, poi si avvia, deciso,
verso il gruppo avversario. Il ragazzo alto e magro dagli
zigomi marcati e gli occhi grandi lo vede e, inconsciamente,
rallenta il passo, staccandosi dai compagni. Poi si ferma
del tutto, e lo guarda venire. L'uomo è di statura media, un
viso abbastanza banale e la fronte stempiata. E un accenno
di pancetta nel corpo rotondo. Ma porta come nessuno la
camiseta bianca del Real Madrid. Per un attimo si arresta e
lo fissa, intenso e severo, nella luce artificiale e fredda,
poi chiude veloce lo spazio che ancora li separa e tende la
mano: "Sono Alfredo Di Stefano. Conoscevo tuo padre. Sii
degno di lui". Sandrino Mazzola prende meccanicamente la
mano tesa mentre cerca di scuotersi, e richiama alla mente
uno spagnolo scolastico per rispondere qualcosa di sensato.
Ne esce soltanto un emozionato, banalissimo, "gracias".
Alfredo Di Stefano è sempre stato il suo idolo.
Le 19,30 sono passate da poco a Vienna. E' il 27 maggio
1964.
Dagli altoparlanti dello stadio lo speaker annuncia il
programma della serata.
Fra qualche minuto, sull'erba del Prater, l'Internazionale
di Milano, campione d'Italia, sfiderà i campioni di Spagna
del Real Madrid per contendersi la Coppa nata in un bistrot
parigino, quasi una decade fa, dalla fervida mente di
Gabriel Hanot. Per gli italiani è la prima partecipazione al
torneo più importante del continente
europeo. Il Real Madrid, invece, è nato con esso, con la
Coppa Europa è uscito dai ristretti confini spagnoli per
esportare nel mondo il suo fùtbol-arte. E ora partecipa per
la nona volta alla competizione: ha giocato sei finali e ne
ha vinte cinque, e stasera cerca, sotto gli occhi di
venticinquemila italiani che hanno trasportato San Siro
sulle rive del Danubio, una vittoria particolare, la
vittoria sul tempo. Seduti accanto agli italiani,
cinquecento spagnoli attendono l'evento. Lo speaker intanto
scandisce le formazioni delle due squadre.
MAZZOLA le ascolta come in trance, mentre cerca inutil-mente
di scuotersi. Ma come si parla a un mito? Eppure quando
Puskas lo aveva avvicinato negli spogliatoi non si era
sentito così impacciato. "Conoscevo tuo padre, ho giocato
contro di lui", gli aveva ricordato, affabile, l'antico
capitano della mitica Honved, l'ufficiale dell'armata
ungherese in fuga attraverso l'Europa dopo la rivolta del
'56. E lui, Sandrino, si era trovato a rispondere con un
pizzico di ribalda ironia: "Mio padre l'aveva battuta,
Colonnello". Puskas era scoppiato a ridere. La presenza di
Di Stefano, invece, lo paralizza.
DALLA PANCHINA
dell'Inter due occhi freddi in un volto grinzoso, da
zingaro, osservano, scontenti, la scena. Anni prima quella
mano era stata negata a lui, platealmente. E Helenio
Herrera, detto H.H. oppure "il Mago", non è tipo da
dimenticare o perdonare le offese. Al massimo finge di
ignorarle, se gli conviene, stipandole nella memoria. E,
inoltre, ora lo preoccupa il comportamento di Mazzola.
Nonostante un cervellino intelligente e razionale, quel
ragazzo nutre una pericolosa visione romantica del calcio e
dei suoi eroi, e lui non vorrebbe ritrovarselo imbambolato
sul campo. La partita che sta per iniziare è troppo
importante: Helenio Herrera questa sera ha molte vendette da
compiere. E un sogno da realizzare: distruggere il Real
Madrid. Portare a termine il lavoro iniziato sulla panchina
del Barcellona, dimostrare al mondo, e agli spagnoli che non
lo avevano capito, che lui non è un ciarlatano ma un uomo
che ha il coraggio delle sue idee, che è arrivato al
successo soffrendo e penando.I Capitani Santamaria e Picchi
IL SUCCESSO va a chi se lo merita. E Helenio Herrera lo
merita. Con lui il Barcellona aveva vinto un campionato e
poi un altro. Una Coppa di Spagna e
poi un'altra. Ma a loro non bastava, perché il Real Madrid
intanto era il padrone d'Europa. E allora Herrera aveva
promesso la Coppa dei Campioni. Ma il suo Barca aveva perso
a Madrid, nella semifinale che la sorte gli aveva offerto, e
poi anche al Camp Nou. La stampa lo aveva flagellato, e i
tifosi lo avevano inseguito, furenti, lungo le ramblas. Così
se ne era andato, ma non aveva dimenticato. Il Real è la
vostra ossessione, signori, e anche la mia. E troverò il
sistema per batterlo, e nutrirmi della sua gloria. Perché la
gloria es dinero.
Era emigrato in Italia, alla corte di Moratti, munifico
signore rinascimentale del calcio milanese, che da anni
aspettava, inutilmente, uno scudetto. Glielo aveva regalato
lui, H.H., infine, al terzo tentativo, attraverso un mare di
polemiche e una girandola di acquisti provati e scartati. E
l'avversione di stanche primedonne che non ne volevano
sapere del suo modo maniacale di intendere il calcio, dei
suoi allenamenti snervanti, della sua concentrazione feroce.
Tutte uguali le primedonne, erano così anche i suoi
ungheresi del Barca, contavano solo sul proprio talento. Ma
il calcio moderno è ritmo, signori, ritmo più fantasia. E a
volte sono più utili gli onesti faticatori di certi campioni
sfaticati. All'Inter, sostenuto da Moratti, alla fine
l'aveva spuntata, si era liberato di Angelillo e degli
"angeli dalla faccia sporca", e ora era qui, nella notte di
Vienna, con una squadra che era un mix perfetto di talento e
aggressività amalgamati con ferrea disciplina. Era qui per
sconfiggere il Real Madrid nella "sua" Coppa dei
Campioni.Helenio Herrera, il "Mago" che cambiò il calcio in
Italia e portò l'Inter ai successi mondiali PURCHE' TUTTO
funzioni alla perfezione, e i ragazzi ricordino la lezione.
Sono così digiuni di calcio internazionale! Ma in campo ci
sono Suarez e Picchi, si rassicura Herrera. Picchi, il
livornese furente, che lui ha scoperto e valorizzato, non
lascerà la trincea, e non permetterà agli altri di farlo. E
Luisito Suarez, il Grande di Spagna, che Helenio si è
portato dal Barcellona, pagherebbe di tasca sua per battere
il Real Madrid. Quei due sono gli allenatori in campo. Ma
non sono loro la chiave della serata. Vagando per il campo
gli occhi di Herrera si fanno dolci per Tagnin. Mentre
risuona il fischio d'inizio lui è già appiccicato a Di Stefano,
pronto a seguirlo in ogni parte del campo: il più umile dei
faticatori interisti sulla strada di Alfredo il Grande. In
tanti hanno gridato alla follia, ma Herrera ha fiducia
nell'onesto mestiere di Tagnin. Lo aveva ripescato nel
purgatorio delle serie minori che scivolava oscuramente
verso fine carriera dopo una squalifica di tre anni, lo
aveva ricostruito nel fisico e nel morale, e poi proiettato
nell'Olimpo del calcio internazionale. Non lo aveva mai
tradito, e anche stasera avrebbe fatto la sua parte, in
tutta umiltà. Anche Burgnich lo aveva ripescato dalla B,
scartato dalla Juventus, e ora era la roccia del suo sistema
difensivo. Questa sera si sarebbe preso cura di Gento, la
veloce e velenosa ala sinistra del Real che, come Di
Stefano, aveva alzato al cielo cinque Coppe dei Campioni,
tutte quelle che il Real Madrid aveva vinto nella sua
storia. Anche su Burgnich si poteva contare. Sistemandosi
comodo in panchina Herrera guarda, senza preoccupazioni, la
prima ondata madridista infrangersi contro la sua difesa.
Gli va bene così, lui preferisce difendersi.
RIUSCIRE a
passare nel primo tempo: l'ossessione spagnola è questa. Al
Real Madrid il gioco dell'Inter suscita più timore che
ammirazione. E l'undici madrileno, Di Stefano in testa, si
prefigge di consacrare in ambito europeo la superiorità del
proprio principio, un principio che si fonda sulla formula
offensiva, sulla creazione del gioco di manovra a ondate
successive, e le incursioni avvolgenti delle due ali. Ma
questa è tattica, e la tattica si attua sul campo, e si è
sempre in due a darle corpo. Di Stefano sa che non sarà un
gioco facile.
Sulle piste del
grande Alfredo, che punta dritto al cuore della difesa
interista, Tagnin si sente sorprendentemente calmo. Almeno
sul campo non ha più addosso la pressione dei giornalisti.
Da giorni son tutti lì a chiedergli se ha mai giocato contro
Di Stefano. Siamo matti? Quello è sempre appartenuto,
calcisticamente parlando, a un altro pianeta. Lo ha visto,
questo sì, tante volte in televisione. Cosa prova? Paura no,
emozione neanche. Curiosità, e molta. E la certezza che sarà
un maledetto affare tenerlo d'occhio. Per ora, però, li
stiamo controllando bene.DOPO LA PRIMA ondata il Real si
raccoglie, si fa più guardingo. La cosa preoccupa Herrera
che cerca di indovinare il disegno tattico del suo collega
spagnolo. Sembra che Munoz non abbia altri progetti, al
momento, che le marcature a centrocampo. Ma ammesso che,
conoscendolo bene, sappia come marcare Suarez, gli spagnoli
non hanno la minima idea di cosa sia Mandrake nelle sue
giornate di vena. Già al 5' Corso è lì, che interrompe il
forcing madrileno con una stupenda punizione da oltre
venticinque metri. Herrera ha un sogghigno dolceamaro.
Questa sera se
lo sorbiranno loro il maledetto mancino pieno di talento e
di pigrizia che si fa beffe di lui e gli sbilancia la
squadra. Ma è il cocco del presidente, e lui, Herrera, deve
tenerselo per forza, e fare miracoli di ingegneria
calcistica per raddrizzare un modulo zoppo. Un modulo che
raggiunge la perfezione solo perché davanti a una difesa
impenetrabile, magistralmente orchestrata da Armando Picchi,
opera un Suarez immenso capace di sacrificarsi in copertura
e costruire gioco con la potenza di un motore diesel e la
classe della sua regia che illumina di lanci lunghissimi e
precisi il contropiede della gazzella nera Jair, del
dribbling ubriacante di Mazzola e della fatica puntuale di
Milani. E del terzino fluidificante Facchetti. Ma in questa
notte di maggio, mentre Suarez se ne sta prudentemente
raccolto a coprire la difesa, e Mazzola latita, svanito per
il campo, il fragile Corso giganteggia nel deserto del
centrocampo, e gioca soffici palloni vellutati per parabole
impossibili. Ora è ancora in azione, in combinazione con
Facchetti e Guarneri che hanno abbandonato la trincea per
cercare gloria in avanti. Herrera non ama quello che vede.
Le sortite offensive dei due talentuosi della sua difesa
rischiano di creare buchi pericolosi. Facchetti deve marcare
Amancio, l'ala giovane e velocissima del Madrid, e dovrebbe
essere abbastanza per una sera. Guarneri, poi, controlla
Puskas, che avrà pure i suoi anni ma anche un tiro micidiale
e un intatto fiuto del gol.Alfredo Di Stefano, la stella del
Real fu preso sorprendentemente in consegna dall'umile
Tagnin: la mossa di H.H. risultò vincenteBRIVIDI di
apprensione gelano il Prater nerazzurro alla mezz'ora,
quando Amancio semina il terrore nella retroguardia
interista. Due minuti dopo è Picchi a intervenire, a
portiere battuto, con uno straordinario salvataggio. Ma a
poco a poco si spegne l'impeto del Real Madrid. E intanto si
è svegliato Mazzola, mentre continua a brillare Corso. E'
dal suo piede, "il piede sinistro di Dio", che al 43' parte
il lancio che Guarneri vola a raccogliere mentre sulla
sinistra scatta Facchetti che riceve e poi passa indietro a
Mazzola. Sandrino aggancia al volo e lascia partire un
magnifico pallone che si insacca alla destra di Vicente. Per
il Real Madrid è come una pugnalata. Le sue stelle di prima
grandezza stanno spegnendosi, fisicamente non ce la fanno
quasi più. Ma si battono con orgoglio e dignità. L'inizio
della ripresa è un festival di gioco merengue: al palo colto
da Gento si aggiunge quello colto da Puskas, è un palo come
se ne vedono pochi in un campo di calcio, il portiere
era battutissimo e il Real avrebbe potuto pareggiare. Invece
arriva, al 17', il gol di Milani. Quando una squadra conduce
per due a zero va sul velluto, osannano i tifosi.
Ma quando, sette
minuti dopo, Felo segna il gol del 2-1 il Real si scatena. E
allora l'Inter comincia a tremare. La squadra bianca scende
in massa verso l'area interista e la ragnatela di p ggi che
partono dai terzini sembra ogni volta che si concluda a
rete. Sugli spalti esplodono l'ammirazione degli austriaci e
le speranze degli spagnoli. E' dal 1960 che l'aficiòn
madridista continua a vivere un sogno: tornare al Real
Madrid dei cinque titoli europei, porre fine ai regni
effimeri delle squadre di un giorno che ne hanno usurpato il
titolo negli ultimi tre anni. Ma la nostalgia è a
volte tanto cieca come l'amore, pensa Helenio Herrera. A
guardare bene si vede che Puskas non riuscirà a piazzare il
suo tiro, che Gento non è più Gento, che Di Stefano non ha
spazio, e che gli altri, malgrado i dribbling di
Amancio e i raffinati palleggi di Muller, sono troppo pochi
per avere ragione di Burgnich, Facchetti, Guarneri e Picchi.
La difesa
dell'Inter si muove all'unisono, elastica e compatta, come
Herrera ha insegnato, e in certi momenti par di sentire
un'orchestra, tanto perfetto ne è il ritmo. E ALLORA esplode
il gioco di centrocampo e di contropiede dell'Inter. Il Real
Madrid è subito alle corde. Salta il gioco delle marcature,
Jair ubriaca di finte Pachin, Milani e Mazzola con smarcamenti
clamorosi nei punti più impensati della metà campo spagnola
facilitano i lanci di Suarez e Corso. La terza rete arriva
al 31': un errore di Zoco dà via libera a Mazzola. Sandrino
scatta e dribbla a velocità fantastica, mette fuori causa
Vicente e lo trafigge con un rasoterra micidiale, stupendo.
La notte di reti e di gloria del ragazzo che quindici anni
prima era stato vittima di una delle più spaventose tragedie
sportive ammaina definitivamente dal pennone più alto del
calcio mondiale la bandiera bianca del Real Madrid.
FINIVA quella
sera, al Prater di Vienna, la favolosa avventura di una
squadra che, grazie alla Coppa dei Campioni, divenne
leggenda.
Era cominciata
al Parco dei Principi, il 13 giugno 1956, contro il Reims
dell'asso Kopa. Si giocava in quel tardo pomeriggio parigino
l'ultimo atto del primo capitolo della Coppa dei Campioni.
Finì 4-3 per i madrileni, e Kopa fece meraviglie, ma
l'undici guidato da un Alfredo Di Stefano presente in tutte
le zone del campo provocò lunghi momenti di terror panico
negli ammirati spettatori francesi. Negli anni altri grandi
giocatori si erano sommati a Gento e Di Stefano:
l'uruguayano Santa-maria, Kopa e il profugo Puskas, per
esempio, e il Real Madrid era diventato il miglior
ambasciatore di Spagna. Il regime franchista era al bando da
un'Europa uscita dalla guerra nazifascista, ma ovunque vada
il Real le folle si scatenano quando gioca il grande Di
Stefano. Ma gli assiMoratti festeggia con i giocatori la
conquista della prima Coppa dei Campioni madrileni sono
soprattutto gli ambasciatori di un calcio inteso come arte.
Un calcio che finisce a Vienna. Al fischio finale
dell'arbitro, Moratti corre sul campo in mezzo ai suoi
ragazzi: e i giocatori se lo issano sulle spalle, il
presidente, mentre i tifosi impazziscono sugli spalti, e
Picchi alza in alto, sempre più in alto, l'enorme Coppa
d'argento. Dall'altra parte del prato i giocatori del Real
Madrid, tutti intorno ad Alfredo Di Stefano, escono a testa
bassa dal campo. Per un momento Puskas si volta a guardare,
triste, i nuovi padroni d'Europa, poi segue i suoi compagni.
Il re è morto. Viva il re. |
INTER-HERRERA:
I DUE NOMI MITICI DEGLI ANNI '60
di IGOR PRINCIPE
Gli anni Cinquanta, come abbiamo visto nella precedente puntata,
cambiano il volto del sistema calcio. L'avvento della televisione e
la nascita di squadre-mito (l'Ungheria di Puskas, il Real Madrid
dello stesso magiaro e di Alfredo Di Stefano) sono i due elementi
che più di tutti contribuiscono a fare dello sport più popolare al
mondo un vero e proprio spettacolo. La trasfigurazione si completa a
metà degli anni Sessanta grazie ad una squadra italiana: l'Inter.
Dal 1954 ne è presidente un petroliere milanese, Angelo Moratti.
Dopo sei anni opachi quanto a risultati, il massimo dirigente chiama
ad allenare i nerazzurri Helenio Herrera, argentino di origini
spagnole che alla guida del Barcellona ha riscosso buoni risultati.
L'ingaggio - 100mila dollari annui più i premi partita, inclusi
quelli delle squadre giovanili dell'Inter - rende la misura del
valore dell'uomo, che si autoproclama "mago" e stupisce i
calciofili per la scarsa importanza che ripone negli schemi di
gioco.
Il giornalista Gian Paolo Ormezzano, in un suo libro, ha scritto
che Herrera "preferì intitolare tutto a se stesso, ai propri
metodi spinti di allenamento, alla carica che in qualche maniera,
dialettica o chimica, riusciva a impartire alla squadra. Ma la vera
rivoluzione (…) consistette soprattutto nella costruzione totale
della figura del tecnico, il quale divenne autenticamente mago, in
possesso di poteri altissimi sul corpo e anche sull'anima dei suoi
adepti, cioè dei suoi giocatori". Poteri che esercita con una
concezione maniacale del calcio, che arriva a totalizzare la vita di
chi lavora ai suoi ordini. Ai difensori, per esempio, pochi giorni
prima di ogni partita consegna una fotografia dell'attaccante che
devono marcare, intimando loro di portarsela anche in bagno. La sua,
ad ogni modo, è un mania dai risvolti positivi, che non coinvolge
l'impegno mentale dei giocatori anche nell'aspetto tattico.
In altre parole, Herrera non è un fanatico degli schemi. Anzi:
degli undici che vanno in campo, ben quattro giocano soprattutto
sulla fantasia: lo spagnolo Suarez, Mazzola, Corso, e il brasiliano
Jair. Tra questi, il primo è ricordato per la capacità di lanciare
il pallone per oltre quaranta metri con millimetrica precisione; e
Corso per aver inventato il tiro "a foglia morta", che
prima faceva impennare il pallone e poi, d'improvviso, lo lasciava
cadere in rete, alle spalle del portiere. Con loro (e con altri
campioni quali Facchetti, Burgnich, Picchi, il portiere Sarti) l'Inter
di Herrera passerà alla storia. Non tanto per le vittorie nel
campionato italiano (nel 1963, '65 e '66), quanto per quelle in
campo internazionale.
Nel 1964, allo stadio del Prater di Vienna, i nerazzurri conquistano
la Coppa dei Campioni battendo in finale il fortissimo Real Madrid,
bissando il successo italiano ottenuto l'anno prima dal Milan. Nel
1965 raddoppiano, nella finale di Milano vinta 1 a 0 contro il
Benefica. Non contenti del primato in Europa, i ragazzi di Herrera
si impongono anche a livello mondiale, vincendo due coppe
Intercontinentali consecutive ('65 e '66) battendo in entrambe le
occasioni gli argentini dell'Independiente. In questo modo, l'Inter
non solo scrive pagine memorabili nella storia calcistica mondiale,
bensì imprime il suo marchio nel costume del Paese, contribuendo ad
alzare il volume di quel "boom" che ne scuote l'economia e
il modo di vivere.
IL MAGO DICE ADDIO
Di Lorena Lathrop C.
Helenio Herrera (1918 - 1997). Era geniale , unico , inimitabile. HH, come lo chiamavano nella
penisola, fece la sua apparizione nel calcio italiano di scatto, e
questo non è mai tornato lo stesso. L'undicesimo allenatore che il
facoltoso industriale Massimo Moratti aveva portato per il suo club,
l'Inter, era già un trionfatore in Spagna con il Barcellona, merito
che convinse il presidente ad affidargli il suo gioiello favorito.
Appena arrivato, Herrera cominciò ad imporre la propria legge.
Giunto a San Siro per la prima volta, il pubblico non lo accolse con
clamore, non perché non fosse di suo gradimento, ma soprattutto
perché a quei tempi andare allo stadio non voleva dire urli,
riservati solo per gli avvenimenti in campo. Questo comportamento
colpì il Mago, che andò dal presidente e a forza di insistenze,
ottenne la fondazione del primo Inter Club della storia nerazzurra
(si chiamò I Moschettieri ed è tuttora esistente)
Poi, rivolse le sue attenzioni al lato sportivo. Quel che Van
Gaal faceva nel Ajax poco tempo fa lo fece prima Herrera: tra i suoi
incarichi e alle sue dipendenze si trovavano TUTTE le squadre
giovanili e otteneva premi per ogni punto che conquistava ognuna di
queste, dai Pulcini alla Primavera. In quest'ultima squadra, guidata
ai tempi da Peppino Meazza, vide un gruppo di giovani che seguì con
molta cura.
Ed il momento di farli debuttare giunse nel 1961, in maniera
abbastanza atipica: il Mago andò su tutte le furie per il rifiuto
della Federazione e della Juventus di cambiare una partita di
campionato, prese la squadra "Primavera" e la gettò nella
mischia. La Juventus di Sivori e Charles vinse 9-1 ed il gol della
bandiera fu opera di Sandro Mazzola.
Herrera fece cambiamenti anche a tavola, mettendo restrizioni nel
cibo (molto più scarso di prima; la ricerca di pietanze 'sazianti'
divenne sempre più meticolosa). I giocatori erano anche costretti a
cambiamenti radicali nella propria preparazione fisica: c'era la
concentrazione (l'attuale 'ritiro') prima e dopo le partite, per
evitare che andassero a cercare svaghi per una vittoria o 'anime
consolatrici' per una sconfitta.
Famosa la polemica dopo la Coppa Intercontinentale del '65 nella
quale, dopo il rifiuto di Herrera di dare loro un giorno libero, gli
interisti scapparono alle loro case. Tornarono il giorno successivo
e trovarono un Helenio Herrera "muto": non volle dare la
formazione, partecipare all'allenamento, e rimase da parte. Si
giurarono di vincere il campionato, e lo fecero... con HH che
continuava a rimanere "muto"
Con le stelle della squadra aveva sempre in corso delle
polemiche. Emblematico il caso di Sandro Mazzola. Sposato dopo la
fine della stagione 63-64 (quella della "Pasqua del
Sangue" tra Inter e Bologna a pari punti, c'era aria di
campioni in casa Inter), testimone lo stesso Mago. Luna di miele?
Macchè luna di miele: per la partita decisiva, Helenio Herrera
"bussa alla porta" e senza voler sentire ragioni, lo porta
in ritiro per lo spareggio con i rossoblù.
Addirittura, il Mago fece il seguente commento, destinatario
Sandrino: "Finchè l'Inter non sarà campione, non c'è
matrimonio che valga!". Nemmeno "fresco di nozze" era
permesso ad un giocatore abbandonare le proprie responsabilità.
Non era tutto. Tappezzava i muri dello spogliatoio con consegne
varie (ad esempio, "Il giocatore che non si è dato interamente
sul campo, non ha dato nulla di sè"). Una volta diede una
multa ad un giocatore a cui chiese che cosa avrebbe fatto la
domenica seguente. Lui disse "vado a giocare a Roma". Per
la sua somma sorpresa, ricevette una multa di 5.000 lire.
"Doveva dire 'vado a vincere a Roma' ", si esaltò il
Mago.
Riuniva i suoi giocatori e li arringava: "Vinceremo perché
siamo i migliori! Qualcuno qui ne dubita?". Giunse a chiamare i
suoi ragazzi prima delle partite per "pregare il pallone".
Poco ortodosso, ma funzionava.
Avrebbe potuto essere C.T. dell'Italia negli strani (per gli
azzurri) anni Sessanta; all'ultimo minuto, però, entrò in
contrasto con tutti. Andò ad allenare la Spagna e poi ritornò all'Inter.
La formazione con cui sorprese il mondo fu: Giuliano Sarti,
Tarcisio Burgnich, Aristide Guarnieri, Giacinto Facchetti, Armando
Picchi, Luis Suárez, Mario Corso, Jair da Costa, Sandro Mazzola,
Joaquín Peiró e Bedin.
Il suo sistema era semplice, uscito dal modulo creato da Karl
Rappan: "verrou", lo chiamava lo svizzero, e
"catenaccio" lo chiamò Herrera. La sua forza si basava su
una difesa con un libero fisso (Picchi, che fu oggetto di polemica
perché non usciva mai dall'area), un altro difensore centrale (Burgnich)
e due 'finti' difensori/fluidificanti di fascia (Facchetti e
Guarnieri) rapidi e concreti.
Complemento ideale a questo sistema di gioco veniva dall'azione
dello splendido Luisito Suárez, che faceva da regista nel
centrocampo. Era la fonte da cui bevevano Jair e Mazzola,
specialmente quest'ultimo, grande goleador.
Ottenne tre scudetti, due Coppe dei Campioni e due
Intercontinentali, dopodiché la squadra e lui stesso andarono in
declino. Passò alla Roma, poi volle ritornare, ma un infarto lo
costrinse a lasciare tutto come un sogno.
Visse i suoi ultimi e vitali anni a Venezia, si mantenne come
consulente di Massimo Moratti, figlio di Angelo. Mesi fa, gli aveva
proposto di rifondare la Grande Inter con Facchetti come allenatore
e lui stesso come d.t.. Quando morì il 9 di dicembre scorso, il suo
legato, il taccuino con le sue idee, fu consegnato al suo discepolo
prediletto: appunto, Giacinto Facchetti.
Una preferenza tinta d'aneddoto. Nel suo debutto in A con le
giovanili l'anno '61, non giocò bene, ma il Mago assicurò a chi
volesse ascoltare che quel ragazzo sarebbe uno dei pilastri della
squadra. Ebbe ragione.
Oggi, Helenio Herrera riposa a Venezia, in un luogo alto ed al
sole, come era suo desiderio. Ai funerali, Sandro Mazzola ricorda il
fascino che aveva su di loro, "merito di una grande
personalità."
Gli devono la stella, la gloria, la organizzazione, una raccolta
di aneddoti gigante e ricca di ricordi che i suoi ragazzi, oggi,
cercano in ognio modo di non far andare perduta. Invano. Solo lui
aveva nelle sue mani la magia per fare quello che fece, e riportarla
qui, adesso, è già impossibile.
Le sue vittorie e prodezze si sono perse nella nebbia di un
passato vicino, e allo stesso tempo irraggiungibile. Tutte le sue
note, contenute nei quaderni, hanno sapore di nostalgia adesso che
se ne é andato. L'Inter vuole essere campione e dedicargli il
titolo.
Solo uno? Non è abbastanza. Sarebbe meglio fare ritornare alla
Milano nerazzurra lo splendore, il fasto che mancano da quando lui
ha smesso. Quello sarebbe un regalo che renda onore alla sua
grandezza . Sarebbe il miglior regalo postumo che il Mago HH avrebbe
voluto ricevere.
L'anno seguente l'Inter torna a dominare: vince di nuovo lo scudetto
e ancora la Coppa dei Campioni, questa volta proprio a San Siro.
Sotto un vero e proprio diluvio supera, infatti, il Benfica per 1-0
con gol di Jair. Arriva di nuovo anche la Coppa Intercontinentale,
ancora contro l'Independiente. A San Siro l'Inter vince 3-0 con gol
di Peiró e doppietta di Mazzola, poi fece 0-0 in Argentina. Nella
stagione 1965/66 arriva il terzo scudetto, con l'Inter che domina
dall'inizio alla fine del campionato.
La nuova Stagione inizia
con un importante trofeo: la Coppa Intercontinentale. Il cattivo
inizio con la sconfitta 1-0 in Argentina è appianato da un 2-0 a
Milano. La vincente fra i nerazzurri e l'Independiente deve essere
determinata il 26 settembre sul neutro di Madrid, dove l'Inter batte
gli avversari con un 1-0 siglato da "Mariolino" Corso, laureandosi
Club Campione del Mondo per prima in Italia.
GUARDA L'INTER IN QUESTO TORNEO |
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GIANFRANCO
BEDIN.
Bedin,
una vita da mediano. "Quando marcavo Pelé e Rivera".
Numero 4 della
Grande Inter, oggi osservatore per conto di Mourinho.
MILANO,
6 agosto 2009 - Un altro calcio: "Si marcava a uomo: il 2 sull’11,
il 5 sul 9, il 3 sul 7. Il 6 faceva il libero». E il 4? «Il 4
andava sul 10. Matematico". Gianfranco Bedin, classe 1945, da
San Donà di Piave, in Veneto. Un grande "quattro" - a
volte "otto" - dell’Inter, tra Tagnin e Bertini, e prima
di Oriali. Se Bedin fosse nato nel ’55, Ligabue l’avrebbe
dedicata a lui la canzone sul mediano, che sta sempre lì nel mezzo
a recuperar palloni.
"Ho
marcato Pelé, in due occasioni contro il Santos. Nei derby prendevo
Rivera. Nella finale di Coppa Campioni ’65, contro il Benfica, mi
appiccicai a Eusebio, che però era una punta. Pigliai Netzer contro
il Borussia a San Siro, non nel 7-1 della lattina in testa a
Boninsegna. Contro la Juve tallonavo Haller. Ne ho seguiti di
fenomeni". Il migliore? "Pelé. Fuori concorso. Uno che
faceva sparire la palla così non l’ho più affrontato. In quelle
due partite più di una volta mi chiesi: "Vabbé, mi ha
saltato, ma il pallone dov’è?". In Italia il numero uno era
Gianni Rivera". Che si lamentava delle carezze di Bedin.
"Gianni non sopportava di essere toccato e io gli stavo
addosso, gli "tiracchiavo" la maglia. Non gli facevo male:
lo pizzicavo, lo innervosivo, e lui perdeva lucidità". Astuzie
e anticipi. Voce del verbo anticipare: "Ogni mediano sa che il
modo migliore per rubare un pallone è arrivare un attimo
prima". Marcando marcando, Bedin vinse tre scudetti, una Coppa
Campioni e una Intercontinentale.
Gianfranco
Bedin oggi: ha 64 anni. Non ci sono più i "quattro"
di una volta. "E’ cambiato il modo di giocare, oggi si marca
a zona. E’ raro che ci si incolli a un avversario". La
tattica non spiega tutto, però. "No, c’entra la fame. Noi si
veniva dalla miseria e il calcio era l’unica maniera per uscire
dai ghetti. A San Donà abitavo in una baraccopoli, "Mauthausen"
la chiamavano. Se pioveva, il tetto non bastava, ci voleva l’ombrello. Io da ragazzo andavo a fare il cottimista nella fabbrica delle
carrozzine: più ruote montavo e più soldi portavo a casa. Il
calcio era l’unica possibilità di fuga. Dalle mie parti sono
venuti fuori tanti giocatori. Cereser e Salvori, per dirne due
cresciuti con me. Negli oratori si giocava fino all’esaurimento,
spesso a piedi scalzi per non rovinare l’unico paio di scarpe che
ci serviva per andare in giro. Oggi i ragazzi vanno alle scuole
calcio, hanno playstation e cellulare. Diverse motivazioni, altre
opzioni. Noi eravamo posseduti da una feroce voglia di arrivare. Io
i miei numeri "dieci" li avrei inseguiti ovunque: al
bagno, a casa".
assicurazioni
— "Smesso di giocare, mi sono buttato sulle polizze, come il
mio amico Facchetti. Agente della Ras, assicuravo calciatori.
Arrivai ad averne mille e cinquecento in portafogli, Rummenigge il
primo. Ho studiato, ho fatto le medie a 45 anni. L’agenzia l’ho
chiusa nel 2005 perché il gioco si era fatto pesante. Cifre
insostenibili per me".
"Così
mi sono ributtato a capofitto nel calcio. Faccio l’osservatore per
l’Inter, visiono gli avversari e scrivo relazioni che finiscono
nelle mani dei collaboratori di Mourinho. Ogni tanto vedo tornei
giovanili. Nei giorni scorsi sono stato all’Europeo Under 19 in
Ucraina, ho notato tanti ragazzi interessanti nella Serbia". La
sua scoperta più bella? "Pelé". Ancora? "Parlo del
Pelé portoghese, lanciato dall’Inter due anni fa. Il
centrocampista". Da un Pelé all’altro, la vita si marca a
uomo. E’ questa la lezione di Bedin, numero quattro per sempre.
Sebastiano
Vernazza (ha collaborato Alberto Francescut)
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In Campionato l'inizio
non è dei migliori, tanto che a fine gennaio il Milan ha sette punti
di vantaggio. In una rimonta durata due mesi l'Inter vince 5-2 il
derby, portando il distacco a un solo punto, e opera il sorpasso
battendo 2-0 la Juventus a Torino mentre i cugini perdono in casa
contro la Roma. Alla fine della Serie A 1964/65 si aggiungono altri
due punti di distacco: l'Inter è Scudetto.
Nel frattempo prosegue
il cammino in Coppa dei Campioni inanellando un eclatante 6-0/1-0
alla Dinamo Bucarest, un più sofferto passaggio contro i Rangers
(3-1/0-1, rischiando di andare allo spareggio) e un'incredibile
eliminazione del Liverpool, che dopo aver vinto 3-1 in Inghilterra è
travolta dai nerazzurri 3-0 a San Siro. La finale per l'Inter si
gioca in casa, ma la vittoria non è così scontata: sotto una pioggia
scrosciante entra solo il tiro di Jair, ma basta per fare dei
nerazzurri i nuovi Campioni d'Europa. Manca un solo trofeo al grande
slam: è la Coppa Italia. Il 29 agosto a Roma si gioca Juventus-Inter,
ma la supremazia nerazzurra dimostrata in tutti gli altri tornei non
si fa vedere. Con una rete di Menichelli, i bianconeri tolgono alla
Beneamata l'ultimo trofeo.
E' il 9
settembre 1964, l'Inter va alla conquista
del mondo. L'avversario, per la finale della
Coppa Intercontinentale, è l'Independiente
di Avallaneda, il club campione del
sudamerica. Si gioca in uno stadio "bolgia",
Herrera ha riscaldato gli animi ("non me ne
frega nulla dei tifosi avversari"), i
nerazzurri
marcano "hombre a hombre", non concedono
metri agli argentini allenati da Manuel
Giudice, scagliano la palla in tribuna
davanti a ogni possibile pericolo. La
resistenza umana e atletica dell'Inter
campione d'Europa viene annullata
dall'errore del portiere Sarti, una papera
clamorosa: Independiente 1-Inter 0. Si
riparte a San Siro, due settimane dopo, il
23 settembre.
Non c'è partita. I nerazzurri dominano,
trainati dal pubblico: 2-0, reti di Mazzola
e Corso. Per assegnare la Coppa
Intercontinentale serve una terza gara, la
"bella". Si gioca a Madrid, il 26 settembre,
stadio "Santiago Bernabeu", il tempio del
Real. Herrera sostituisce Mazzola con Peirò,
Burgnich con Malatrasi, Jair con Domenghini.
Scelte discutibili. Infatti i nerazzurri
soffrono e rischiano, alla fine dei tempi
regolamentari il migliore in campo risulta
Sarti, che para tutto e di più. Notte
drammatica, senza fine. Si racconta di una
Milano in religioso silenzio, in attesa di
notizie da Madrid. Tempi supplementari,
fatica immane per gli atleti, campo pesante,
gara spezzettata. Serve un colpo di genio
per rompere l'equilibrio. E chi, se non
Corso, può inventare? Infatti, come volevasi
dimostrare, l'Inter passa in vantaggio con
il suo "Mandrake" al minuto numero 6 del
secondo tempo supplementare: lancio di
Milani, cross di Peirò, controllo di petto e
sinistro vincente di Corso. E' il trionfo,
l'Independiente s'inchina, il popolo
nerazzurro scende in piazza: Inter sul tetto
del mondo. ù
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SANDRO
MAZZOLA. Da mascotte del Grande Torino con papà Valentino ai trionfi con
l'Inter e la Nazionale: giovedì il compleanno del fuoriclasse.
"Rocco mi voleva al Milan. Disse: con te e Rivera facciamo 100
gol. Devo tutto ad Angelo Moratti con Massimo è finita sopo una
puntata della Domenica Sportiva"
di GIANNI MURA (La Repubblica, 5.11.2012)
VEDANO
AL LAMBRO (Monza) - Arrivare ai 70 anni con la lucidità di Sandro
Mazzola, firmo subito. Una memoria incredibile. Mai pensato che se
oggi avesse vent'anni e pesasse come allora lo rovinerebbero in
palestra? "Be', il Mago ci ha provato. Pesavo 63 chili. Dopo
tre mesi ero aumentato di tre etti. Fine dell'irrobustimento".
E arruolamento, da parte di Brera, tra gli abatini. "Io,
Rivera, Bulgarelli, De Sisti e non so chi altro. Ho saputo dopo,
perché a quei tempi c'era un gran rispetto dei ruoli e non andavo
certo a chiedere il perché a Brera, che c'era di mezzo mio padre.
Secondo lui, il miglior centrocampista visto in azione. E ci credo,
mio padre era uno che sapeva difendere, ma capace di vincere la
classifica cannonieri. Ricordo la sua mano sulla testa, quando si
entrava al Filadelfia e io ero la mascotte del Toro, mi sembrava che
noi due insieme potessimo spaccare il mondo. Ero già convinto, con
la presunzione dei bambini, di essere un buon calciatore perché
segnavo su rigore a Bacigalupo, ma segnavo perché lui faceva
passare apposta i miei tiri".
Quanto
pesava chiamarsi Mazzola? "Per me era un infinito orgoglio, una
favola che s'è interrotta troppo presto. Non avevo ancora
realizzato che mio padre aveva lasciato mia madre, che abitava a
Cassano d'Adda con mio fratello, e io stavo con lui e la nuova
compagna a Torino". Né poteva realizzare il disagio di un
viavai di carte bollate, avvocati, carabinieri, per stabilire con
chi dovessero vivere i figli di Valentino e perfino il luogo dove
seppellirlo. Il 20 aprile del '49, a pochi giorni dalla tragedia di
Superga, Mazzola aveva sposato a Vienna la diciannovenne Giuseppina
Cutrone. Non si poteva divorziare, allora, e come molti italiani
Mazzola per l'annullamento del matrimonio precedente s'era rivolto
al tribunale di Ilfov, in Romania.
"Per
me era un orgoglio, un punto di riferimento. Nelle squadre giovanili
giocavo col suo numero di maglia, l'8. E non mi sentivo una punta,
è stato Herrera a inventarmi attaccante. Più o meno consciamente,
cercavo di essere come mio padre. Una volta in prima squadra, il 10
toccava al regista ed era già sulla schiena di un grandissimo come
Luisito Suarez. Avrei accettato qualunque maglia pur di giocare in
prima squadra, dopo aver rischiato di andare al Como, perché
all'inizio il Mago non mi vedeva granché bene. È stato Moratti
padre a impormi, all'inizio seconda punta dietro a Hitchens, poi
prima punta. Ma per anni, molti anni, ho sentito un sacco di gente
mugugnare: quello lì, quel magrettino lì se si chiamasse Brambilla
sarebbe ancora all'oratorio. Quello lì ha solo il nome, di suo
padre, il resto è fuffa. Quel fil di ferro non è da Inter. È una
musica che m'ha accompagnato da quando Lorenzi mi portò all'Inter,
e fino alla certezza di essere titolare. Devo tutto ad Angelo
Moratti in primis, e poi a Herrera".
Una
pausa, un tiro dal sigaro toscano. "Lorenzi in campo meritava
il soprannome di Veleno, ma fuori era una bravissima persona. Molto
religioso. Era convinto che, prendendosi lui a cuore la sorte di due
orfanelli, io e Ferruccio, Dio lo avrebbe ricompensato. Ma era anche
grato a mio padre. Pozzo convocava Lorenzi ma non lo faceva mai
giocare in Nazionale. Signor Pozzo, proviamolo almeno una volta,
disse mio padre, e Lorenzi esordì. Anni bellissimi, sembra ieri.
Due campioni del mondo per istruttori, prima Gioannin Ferrari e poi
Meazza, il grande Pepp. Per noi ragazzini il bello era quando veniva
la primavera e lui faceva le partitelle insieme a noi. Uno
spettacolo. Fine psicologo, anche. La prima volta che tornai a
Torino, da giocatore, c'era Meazza in panchina. Nessuno del Toro
s'era mosso per me, neanche il presidente Novo, e sì che mio padre
aveva chiamato mio fratello Ferruccio, il nome del presidente. C'era
però Zoso, il magazziniere. Mi portò nel loro spogliatoio e mi
mostrò il mio armadietto, ancora lì, conservato. Mi venne da
piangere. Poi giocai la peggior partita della mia vita. Uscendo dal
campo Meazza mi mise una mano sulla spalla: "Ho capì tütt,
Sandrino, lassa stà"".
Altra
pausa, altro sbuffo di fumo. "Meazza sapeva esser duro,
all'occorrenza. Ricordo una partita al campo Bramante, giocavo ala
destra, piccolo e mingherlino com'ero a 15 anni. Un compagno, Galli,
non mi chiudeva mai il triangolo. Gli ho gridato dietro qualcosa di
poco carino. Ci sentiamo ancora, con Galli, fa il portantino in un
ospedale della zona. A fine partita Meazza mi fa. "Ohei ti,
Pastina, mi ho vinciü dü campionà del mond e ho mai vôsà adré
a un mé compagn. Se te ciapi un'altra volta a criticà un compagn,
ti te giughet pü al balùn". Non era un modo di dire, allora
c'era più rispetto, nemmeno a pensarci di mandare a quel paese
l'allenatore. Foni esigeva di essere chiamato dottore, non mister.
Herrera dava del lei ai giocatori. La metà di quello che si insegna
oggi a Coverciano è farina del Mago. Un po' l'ho rivisto in
Mourinho, ma intanto è cambiato tutto nel calcio. Anche gli
arbitraggi: in un derby Zignoli mi fece 36 falli, nessuno cattivo,
ma sempre 36. Nemmeno ammonito. Allora, la preparazione era fatta di
giri di campo, corsette, salti alla corda. Herrera, subito il
pallone. Anche con le mani, per migliorare i riflessi. Cosa mai
vista prima. A me andava benone, a basket ero un discreto play, mi
capitò di fare un provino per il Simmenthal di Rubini e Riminucci,
ma la passione per il calcio, per quello che volevo dimostrare, era
più forte. E comunque al Simmenthal presero Ongaro, mio compagno di
banco".
Continua a considerare l'Inter la sua casa. "Ci sono entrato da
piccolo, non ho mai avuto un'altra maglia. Ho detto di no due volte
ad Agnelli e due a Boniperti, e so che Rocco mi avrebbe voluto al
Milan. L'ho incontrato una volta vicino all'Assassino, il suo
ristorante, m'ha detto che giravano voci su un cambio tra me e uno
dei loro. "Con te e Gianni insieme, e uno che la butta dentro,
facciamo cento gol". Se son rose fioriranno, gli dissi, ma al
Milan non sarei mai andato. E non perché c'era Rivera. Eravamo
diversi, per questo potevamo giocare insieme e Rocco, che sapeva di
calcio e passava per catenacciaro anche se giocava con tre punte,
l'aveva capito. Con Rivera eravamo amici, c'era stima reciproca e
c'è ancora. Insieme a Bulgarelli, De Sisti, Juliano, Castano nel
'68 abbiamo fondato il sindacato calciatori, l'idea di Campana
presidente fu di Bulgarelli, che ci aveva giocato insieme a Bologna.
Fu etichettato subito come sindacato dei miliardari, ma noi,
capitani delle grandi squadre, ci mettevamo la faccia per i colleghi
più deboli. Allora, col vincolo, se un allenatore o un presidente
dicevano che ti facevano smettere di giocare, smettevi davvero. Alle
prime riunioni a Vicenza io e Gianni andavamo di nascosto, come
carbonari, prendendo il treno".
Sulla rottura con l'Inter c'entra ancora il passato. "Mi aveva
chiamato Tosatti alla Ds per parlare di mio padre. Invece
l'argomento del giorno era Capello, che aveva raggiunto l'accordo
con l'Inter ma poi Moratti ci aveva ripensato. Filippica di Tosatti
contro Moratti. A quel punto potevo fare due cose: o andarmene, come
aveva fatto Bettega ai tempi di Brera, o far finta di nulla, non
buttare altra legna sul fuoco. Il giorno dopo il presidente mi
accusò di non averlo difeso e fu l'inizio della fine con
l'Inter". Va e torna nel discorso, Valentino. Chi vuole saperne
di più può leggere, ammesso che lo trovi, "La prima fetta di
torta" (Rizzoli, 1977) scritto da Mazzola con Luciano Falsiroli. Oppure, uscirà fra poco, "Volevo stare davanti alla
porta" (ed. Limina) scritto con Marco Civoli. Mazzola ha 70
anni, una moglie, Graziella, sposata nel '64 (conquistata ballando
"Il cielo in una stanza"), quattro figli e sette nipoti.
Può essere eletto presidente della Figc lombarda. Idee ne ha. Ma
non posso andar via senza parlare di staffetta.
"Una
cosa così poteva succedere solo in Italia. Nel '70 il Brasile aveva
quattro numeri 10, come la Francia di Hidalgo nell'82. La finale col
Brasile, inizio alle 12 messicane, nacque male. Hai presente la foto
del primo gol, Pelé di testa? Bene, avevi notato che Pelé salta
dritto mentre Burgnich è sbilenco? Valcareggi già alla vigilia ci
aveva dato le marcature. Bertini su Pelé, Burgnich su Rivelino.
Mah. Discutemmo tra noi, era più logico il contrario. Io con
Valcareggi non parlavo dal '68, ci mandammo De Sisti.
Missione fallita. Il mister decise che saremmo partiti come diceva
lui, semmai si sarebbe cambiato a gara in corso. E dopo pochi minuti
già gli facevamo segno di cambiare, Pelé stava di punta e Rivelino
più indietro. Decise il cambio nel momento sbagliato, su una
rimessa laterale dei brasiliani in attacco. Furbi, si accorsero del
movimento in difesa, palla a Rivelino, cross a spiovere, nemmeno
teso, e inzuccata di Pelé, Burgnich salta sbilenco perché non ha
ancora recuperato la posizione. Nell'intervallo mi tolgo le scarpe e
le sbatto per terra, mentre Bearzot cerca di calmarmi. "Cosa fa
lei? Decido io chi esce" dice Valcareggi. E arriviamo ai famosi
sei minuti. Mi chiama fuori. Non esco, sarebbe una vigliaccata.
Così chiama fuori Boninsegna, che esce strizzandomi l'occhio. Fino
al 2-1 di Gerson abbiamo retto, forse con qualche occasione in più.
Poi ci è arrivata addosso la stanchezza della Germania. Dopo il
4-3, in albergo, qualcuno dei nostri ha pisciato sangue. La gente
non immagina cosa significhi giocare in altura. In quattro anni
eravamo usciti dall'inferno, avevamo vinto gli Europei, eravamo
secondi nel mondo dietro a un grandissimo Brasile, sportivamente
avevamo fatto qualcosa di importante e tutto in Italia veniva
ridotto a quei sei minuti. Se i pomodori dopo la Corea li capivo,
quelli del '70 non li ho mai accettati".
|
Il 28 marzo 1965, al
termine di uno dei derby più fantastici mai
visti a San Siro, il Milan è battuto (5-2) e
conserva un solo punto di vantaggio.
Herrera, che ha lanciato in squadra il
mediano Gianfranco Bedin, classe 1945, ci
riprova con un altro giovane, il centravanti
Sergio Gori detto "Bobo", classe 1946,
figlio di uno dei più importanti ristoratori
toscani di Milano.
E proprio Gori, dopo il
vantaggio firmato Suarez, stende la Juventus
a Torino, mentre il Milan perde in casa con
la Roma. Si va avanti così, lotta gomito a
gomito, sino al 6 giugno, quando i rossoneri
perdono a Cagliari e i nerazzurri pareggiano
in rimonta 2-2 con il Torino a San Siro. Il
gol tricolore, su rigore, è di Mazzola,
capocannoniere del torneo con 17 reti.
______________
28.03.1965 - INTERNAZIONALE vs MILAN 5-2,
Campionato di Serie A (26^ giornata)
Il
Milan nel corso del campionato ha avuto fino
a 7 punti di vantaggio sull'Inter. Altafini,
in disaccordo con la società, era stato
sostituito da "Ciapina" Ferrario, autore di
importanti gol "di rapina". Josè rientra dal
Brasile e il vantaggio dei rossoneri si
assottiglia. Si arriva al derby con questa
situazione
di classifica: Milan 41 punti, Inter 38,
ovviamente primo e seconda in graduatoria.
Il derby lo vince l'Inter che corona il suo
lungo inseguimento ai rivali. A fine
stagione arriverà a quello
che forse è il più entusiasmante scudetto
della sua storia. Gualtiero Zanetti sulla
"Gazzetta" butta però un'ombra sul risultato
nettamente a favore dell'Inter: senza
l'espulsione di Benitez al 36' del primo
tempo, sull'1-1, il risultato sarebbe stato
lo stesso? L'espulsione di Benitez è il
momento decisivo della partita. Il peruviano
che già si era segnalato per altri falli
aggiusta un calcetto a Suarez a gioco fermo,
nulla di vistoso, ma il guardalinee lo
segnala a Sbardella che manda il rossonero
anzitempo negli spogliatoi. L'impressione è
che Benitez paghi un po' per tutti, visto
che le due squadre si stavano picchiando di
santa ragione, anche se nei limiti del
regolamento. Per i gol: sciabolata al volo
di Jair, di destro, su calcio di punizione
di Corso. Pareggio di Amarildo, che riprende
una respinta di Sarti su suo precedente
colpo di testa. Sull'1-1 in inferiorità
numerica, il Milan riesce ad essere anche
pericoloso. Solo a metà ripresa un
tagliatissimo tiro di Domenghini dà
all'Inter il definitivo vantaggio. Il 3-1 è
opera di Corso, su tocco dell'esordiente
Bedin. Ancora il Milan con Amarildo su
passaggio di Mora, per il 2-3. Nel finale
due strepitosi gol di Mazzola, uno su azione
personale, l'altro con gran girata al volo,
danno al risultato una dimensione estrema.
Rivera esce per stiramento sul 4-2. Il Milan
conclude con 9 uomini, sottoposto
all'umiliazione di una storica "melina".
Picchi, negli spogliatoi, per nulla sportivo
nei confronti di un avversario per la verità
sfortunato, commenta: "La melina finale?
L'aspettavamo da tre anni".
testo e
le due ultime foto provenienti da:
http://www.magliarossonera.it/img196465/immuff/6465_26.html
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1965: INTER-LIVERPOOL 3-0, LA
GRANDE RIMONTA
DA NICOLA PUCCIIN CALCIO
Se parliamo della Grande Inter di
Moratti, qualche giovanotto magari tornerà ai tempi del “triplete”
di Mourinho. Per carità, niente da obiettare… ma in casa nerazzurra
l’etichetta rimanda agli anni Sessanta, ed evoca una data simbolo.
12 maggio 1965. L’Inter ha
l’impronta del “mago” Helenio Herrera già da qualche anno, ha vinto
in Italia – scudetto nel 1963 – e conosciuto gloria europea – Coppa
dei Campioni nel 1964 contro il Real Madrid, 3-1 a Vienna – ma la
bacheca è destinata a colmarsi di trofei nel breve termine ed
abbisogna di un’impresa che rimanga negli annali del football. E’ in
atto la semifinale di Coppa dei Campioni, i nerazzurri puntano al
bis ma l’andata in terra britannica, a Liverpool, è stata un
calvario. I Reds del santone Shankly mancano ancora di palmares ma
cominciano a farsi notare nel continente, vincono 3-1 con i
detentori del titolo ed ipotecano l’accesso alla finalissima.
Urge la partita della vita, per i
nerazzurri. E lo stadio di San Siro sta per conoscere una serata
indimenticabile. Leggiamo lo schieramento dell’Inter. In porta Sarti
veste i panni della saracinesca, la cerniera difensiva si compone di
mastini del calibro di Guarnieri e Burgnich, Picchi è il libero,
Facchetti l’atletico terzino di fascia che spinge; il giovane Bedin
fatica per tre, Corso e Suarez mettono fosforo e classe al servizio
di Jair, irrefrenabile nelle sue scorribande, Mazzola è il
fuoriclasse del gruppo, Peirò agisce di punta.
Non sono ancora i tempi del gol
che vale doppio se segnato in trasferta, ergo Herrera sa che per
passare il turno bisogna imporsi con tre reti di margine.
L’argentino è maestro di tattica, l’Inter gioca con difesa ben
compatta, eccellente preparazione fisica e capacità di rilanciare il
contrattacco. Si gioca davanti a quasi 77.000 spettatori vocianti, e
al minuto 8 la missione, da impossibile che pareva alla vigilia,
diventa un po’meno improbabile: Corso pennella col magico piede
sinistro la famosa punizione a “foglia morta” e firma il vantaggio.
Neppure il tempo di ammortizzare il colpo che il Liverpool,
centoventi secondi dopo, subisce ancora. E stavolta il gol ha i
contorni del rocambolesco. Sugli sviluppi di una rimessa laterale
Mazzola lancia Peirò in profondità, obbligando l’estremo inglese,
Lawrence, all’uscita tempestiva. I due si scontrano e Peirò termina
alle spalle del portiere che si accinge al rinvio… ma lo spagnolo ha
tempismo da vero rapinatore, cattura la palla che Lawrence sta
facendo rimbalzare a terra e insacca a porta sguarnita. Minuto 10 e
siamo 2-0, il passivo è già recuperato e per i nerazzurri la strada
verso la finale non è più così ripida.
La sfida a questo punto cambia
decisamente copione. Il Liverpool sente che l’occasione sta per
sfumare e comincia a giocare calcio offensivo appoggiandosi ad
attaccanti del calibro di Hunt, St.John e Callaghan, i tre
frombolieri del match d’andata. Ma la difesa dell’Inter stavolta non
lascia spazio e nel secondo tempo l’Inter può tornare a farsi vedere
dalle parti di Lawrence. Fino al minuto 62, quando Facchetti in
sortita offensiva si trova con la palla buona tra i piedi e dal
limite scaglia il fendente che gonfia la rete. 3-0, sugli spalti è
tripudio collettivo e al fischio di chiusura dello spagnolo Ortiz de
Mendebille – su cui si sprecheranno in seguito voci di favoritismi –
le note di “when the Saints go marching in” suonano a celebrare
un’impresa che ancora oggi la Milano che batte bandiera nerazzurra
ricorda tra le più memorabili di sempre.
Post scriptum: qualche settimana
dopo l’Inter, proprio a San Siro, vincerà di misura la finale con il
Benfica, 1-0 con gol di Jair; se aggiungiamo lo scudetto e la Coppa
Intercontinentale di fine anno ecco perché la Grande Inter è quella
di papà Moratti, Angelo. Non me ne voglia il figlio, Massimo, e
tanto meno quel gran simpaticone che risponde al nome di Josè
Mourinho.
https://sport660.wordpress.com/2015/12/31/1965-inter-liverpool-3-0-la-grande-rimonta/
È scomparso all'età
di 84 anni - li aveva compiuti lo scorso 29 gennaio -
Joaquín Peiró, attaccante spagnolo attivo in Italia
negli anni '60 con le maglie di Torino, Roma e Inter ed
entrato nella storia del club nerazzurro e del calcio
mondiale grazie a un gol iconico, quello che permise
alla Beneamata di vincere la sua seconda Coppa dei
Campioni per prendersi un posto nella storia del gioco
più bello del mondo.
Era il 12 maggio
1965, e quella che ancora non era nota come la Grande
Inter si trovava ad affrontare una sfida quasi
impossibile contro il Liverpool di Bill Shankly:
sconfitti 3-1 nell'andata ad Anfield, i nerazzurri
cercavano la rimonta in un San Siro esaurito in ogni
ordine di posti e che faceva registrare un incasso
record, oltre 70mila persone presenti per inseguire un
sogno. In vantaggio già dopo 8 minuti grazie a una
proverbiale "punizione a foglia morta" di Mariolino
Corso, la squadra guidata da Helenio Herrera trovava il
gol del 2-0 appena 120 secondi più tardi grazie a una
geniale intuizione proprio di Peirò, arrivato a inizio
stagione.
Lanciatosi su un
pallone servito da Mazzola, l'attaccante spagnolo veniva
anticipato in uscita dal portiere inglese Lawrence, che
però incautamente si attardava a palleggiare il pallone
con le mani prima di rinviarlo senza prestare attenzione
all'avversario. Ecco allora il colpo a sorpresa di Peirò,
che dopo aver raggiunto alle spalle l'estremo difensore
gli soffiava il pallone spedendolo nella porta
incustodita tra le proteste inutili dei Reds. 2-0, gara
in discesa e poi chiusa nella ripresa da una
terrificante conclusione in contropiede di Facchetti,
Inter in finale e che si appresta a diventare "la Grande
Inter".
Nella storia della
Beneamata, dunque, uno spazio importante non può che
essere riservato a Joaquín Peiró, che dopo essersi
distinto in patria con le maglie di Murcia e Atletico
Madrid sbarca in Italia nel 1962 per indossare la maglia
del Torino. I granata sono una squadra da metà
classifica e lo spagnolo non brilla nella prima
stagione, spesa ad adattarsi ai ritmi più serrati della
Serie A e agli spazi più ristretti concessi dai
difensori italiani. Sta prendendo le misure, e lo
dimostra nella seconda stagione quando mette a segno 9
reti e si guadagna la chiamata dell'Inter.
In nerazzurro arriva
come "straniero di coppa", consapevole di poter trovare
spazio soprattutto in Coppa dei Campioni: in Italia,
infatti, all'epoca vige la regola che permette a ogni
squadra di schierare contemporaneamente soltanto due
stranieri, e quelli dell'Inter sono Jair e Luis Suarez,
considerati imprescindibili dal carismatico tecnico
argentino Helenio Herrera. Il quale però ha grande stima
di Peirò, al punto da schierarlo titolare ogni volta che
ne ha occasione. In Coppa dei Campioni, prima dello
storico gol al Liverpool, ne rifila due decisivi nei
quarti di finale ai danni dei Rangers di Glasgow, scende
in campo nella finale vinta contro il Benfica e anche
nello spareggio decisivo contro l'Independiente valido
per la Coppa Intercontinentale.
Dopo due stagioni,
giocate ad alti livelli ma pur sempre da attaccante di
scorta, Peirò lascia Milano per prendersi un posto da
protagonista nella Roma, dove negli anni ritrova prima
Jair come compagno di squadra e poi Herrera come
allenatore. Nella Capitale resta 4 anni, gli ultimi due
vissuti da capitano, quindi a 34 anni lascia l'Italia
per tornare in Spagna dove chiude dopo una stagione con
l'Atletico Madrid. 12 presenze e 5 reti in Nazionale,
dove ha esordito appena ventenne, con la Spagna
partecipa alle spedizioni per i Mondiali del 1962 e del
1966. Il palmares è da grande giocatore: 2 Scudetti,
altrettante Intercontinentali e una Coppa dei Campioni
in nerazzurro, una Coppa Italia in giallorosso.
Una volta appesi gli
scarpini al chiodo Peirò sarà allenatore di buon
livello, guidando numerose squadre spagnole e
raggiungendo i migliori risultati alla guida del Malaga,
che riesce a portare per la prima volta in massima serie
nel 1999 e dove ancora oggi viene ricordato con grande
affetto e rispetto dalla tifoseria, che a lui ha legato
le pagine più belle della storia del club. Attaccante di
grande livello, forse persino sottovalutato per il buon
numero di gol che abbinava a un gioco costantemente
rivolto verso i compagni d'attacco, il suo mito vivrà
per sempre grazie a quel gol, furbo e geniale, il "gol
di rapina" per eccellenza con cui si può dire che
permise la nascita della Grande Inter.
https://www.foxsports.it/2020/03/18/inter-scomparso-joaquin-peiro-indimenticabile-gol-liverpool/
La
decima edizione della Coppa dei Campioni si confermò favorevole
all'Italia che schierò per il secondo anno consecutivo due squadre. Ma
dopo che il Bologna perse nel turno preliminare alla monetina contro
l'Anderlecht, dopo aver concluso a reti bianche lo spareggio, l'Inter
rimase
da subito l'unica nostra rappresentante. I nerazzurri
cominciarono
a suon di reti rifilando un rotondo 6-0 ai romeni della Dinamo Bucarest,
imitati dal Benfica che nel turno premilinare regolarono con un doppio
5-1 i lussemburghesi dell'Aris e al primo affondarono, nel ritorno, gli
svizzeri dello Chaux de Fonds per 5-0. Nei quarti di finale il vantaggio
per 3-1 dell'Inter sui Rangers di Glasgow le permise di passare il turno
nonostante la sconfitta di misura in Scozia. Il Benfica invece si
limitò a confermare il declino del Real Madrid imponendogli con
autorevolezza un 5-1 a Lisbona che rese ininfluente la sconfitta per 2-1
a Madrid.
Così i lusitani si
qualificarono per la quarta finale in cinque anni passando senza
difficoltà in semifinale sugli ungheresi del Vasas Gyor (1-0 fuori casa
e 4-0 a Lisbona). L'Inter invece se la vide brutta con il Liverpool, all'esordio in una
manifestazione che poi avrebbe vinto per quattro volte, perdendo per 3-1
in Inghilterra la gara d'andata con la solita rete di Mazzola. Con un
po' di fortuna
l'Inter riuscì a ribaltare il risultato vincendo per 3-0
la gara di ritorno grazie al gol determinante di Facchetti, terzino con
spiccata propensione al gol.
La finale fu giocata a Milano e per la seconda volta una squadra di casa
poteva sfruttare questo enorme vantaggio (nel 1957 il Real superò la
Fiorentina nella finale di Madrid). Sotto una fitta pioggia ma davanti a
85 mila spettatori, fu decisivo un gol di Jair a due minuti dal riposo.
Il Benfica, con nove undicesimi della squadra sconfitta dal Milan nella
finale di Vienna di due anni prima, fu decimato dagli infortuni a tal
punto che il difensore Germano prese il posto di Costa Pereira in porta
per gran parte del secondo tempo. Con Eusebio Pallone d'Oro in carica il Benfica si arrese ad una squadra magistralmente diretta in campo da Luis
Suarez e in panchina da Helenio Herrera, senza dimentica l'eleganza
atletica di un giovane terzino di nome Facchetti. Al portoghese Torres
del Benfica andò la palma di capocannoniere con 9 centri.
In una serata di pioggia al 42' Jair azzecca un diagonale che s'infila
sotto le gambe di Costa Pereira. "L'Inter si tiene la Coppa e fa il
vuoto in Europa" titola la Gazzetta del 28 maggio 1965. Si gioca a
Milano, il terreno di gioco è coperto dall'acqua e il Benfica di
Eusebio, dopo Dinamo Bucarest, Rangers e Liverpool, è l'ultima squadra
a cadere sotto i colpi degli imbattibili nerazzurri.
Il 1965 è l'anno più glorioso della storia
dell'Inter.
Dopo aver vinto la Coppa dei Campioni e la Coppa Intercontinentale, i
nerazzurri hanno lasciato il titolo al Bologna in un avvelenato finale
di campionato. Per la prima volta nel calcio compare il termine doping
e, per la prima volta, il titolo viene assegnato attraverso una gara
di spareggio, che i nerazzurri perdono a Roma il 7 giugno 1964. Angelo
Moratti è furibondo, la Figc ancora una volta ha remato contro l'Inter.
Bisogna essere veramente più forti di tutti e di tutto, come sostiene
Herrera, per far trionfare la giustizia sportiva. E così, nel 1965, l'Inter s'inventa un triplice capolavoro. Primo: vince lo scudetto, in
rimonta sul Milan di Gino Viani. Il 31 gennaio 1965 i rossoneri
battono il Mantova e in classifica hanno 7 punti di vantaggio sui
nerazzurri, sconfitti a Foggia. Il 28 marzo 1965, al termine di uno
dei derby più fantastici mai visti a San Siro, il Milan è battuto
(5-2) e conserva un solo punto di vantaggio. Herrera, che ha
lanciato
in squadra il mediano Gianfranco Bedin, classe 1945, ci riprova con un
altro giovane, il centravanti Sergio Gori detto "Bobo",
classe 1946, figlio di uno dei più importanti ristoratori toscani di
Milano. E proprio Gori, dopo il vantaggio firmato Suarez, stende la
Juventus a Torino, mentre il Milan perde in casa con la Roma. Si va
avanti così, lotta gomito a gomito, sino al 6 giugno, quando i
rossoneri perdono a Cagliari e i nerazzurri pareggiano in rimonta 2-2
con il Torino a San Siro. Il gol tricolore, su rigore, è di Mazzola,
capocannoniere del torneo con 17 reti. La formazione: Sarti; Burgnich,
Facchetti; Bedin, Guarneri, Picchi; Jair, Mazzola, Domenghini, Suarez,
Corso. Domina la condizione atletica dell'Inter che, mentre prepara la
vittoria del nono scudetto, rivince la Coppa Campioni.
E' questa la seconda impresa del 1965. In Europa la squadra di Herrera
vola senza problemi sino alla semifinale con il Liverpool. Cade nella
gara d'andata in Inghilterra (3-1) e non sembra in grado di recuperare
la qualificazione. Invece, ancora una volta, la leggenda si
materializza sul campo bagnato di San Siro, il 12 maggio, davanti a
80mila spettatori per un incasso di 161 milioni di lire. Punizione
vincente di Corso, rete fotografia di Joaquim Peirò che ruba la palla
al portiere inglese Lawrence (stava palleggiando con le mani), 3-0 di
Facchetti. La finale della Coppa dei Campioni si disputa a Milano, il
27 maggio. Tempesta di pioggia sulla città nel pomeriggio,
temperatura autunnale, stadio esaurito, gara equilibrata contro i
portoghesi del Benfica guidati dal grande Eusebio, Inter in maglia
bianca con striscia nerazzurra sul petto. Decide, al minuto numero 42
del primo tempo, una rete di Jair: la palla passa tra le gambe del
portiere Costa Pereira. Il settimanale "Milaninter" titola:
"Inter figlia di Dio". Diventerà uno slogan.
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Burgnichfacchetti.
L'altra metà del terzino
«La forza di Giacinto? Sempre all'attacco»
Burgnichfacchetti.
«L'ho saputo cinque minuti fa». Ha la voce
rotta, sottile, quasi leggera, lui, il rude
di Ruda (Udine), lui che a Napoli chiamavano
«'a roccia», lui che resterà sempre unito a
Giacinto Facchetti perché insieme
costituiscono l'idea stessa del terzino,
quello che difende e quello che attacca. Due
di due. Burgnichfacchetti. Tarcisio Burgnich
è del 1939, Facchetti del '42. Si
incrociarono per la
prima volta 44 anni fa, un anno dopo che «il
Cipe» venne chiamato così dal Mago. Sarebbe
stato bello se fosse stato lo stesso giorno.
Oggi sarebbe bello soprattutto che Giacinto
fosse ancora qui.
«Vorrei raccontare di
più del nostro primo incontro, ma la memoria
non è limpida. Ci siamo conosciuti nel 1962,
stavamo davanti a Helenio Herrera che
assegnava i posti nel ritiro dell'Inter, io
e lui fummo sistemati nella stessa camera e
insieme siamo stati fino al '74, quando io
me ne sono andato». Quanti ritiri, quante
partite. «Tanti, tante, ma sempre andando
d'accordo». Burgnichfacchetti è un'idea non
banale. «E non un'idea astratta, ma un'idea
che nasceva dal campo, da quello che
facevamo».
L'ultima volta si sono
incontrati a luglio. «Sono stato a casa sua,
a Cassano d'Adda, con Boninsegna, Guarneri e
Moro. Era tranquillo, sereno, non sembrava
grave. Si pensava che potesse venirne
fuori». Giacinto Facchetti visto dall'altra
linea del campo, lui a sinistra, Burgnich a
destra.
Burgnichfacchetti.
«Avevamo pure due nomi inconfondibili, io
Tarcisio, lui Giacinto, però non sono stati
i nomi a renderci inconfondibili». La
statura, fisica certo, morale senza dubbio.
«Un ragazzo eccezionale. Molto serio,
professionale, anche come figura pubblica,
non era facile dirigere una società di
calcio come ha fatto lui, mai fuori posto,
mai polemico, sempre civile».
Burgnichfacchetti non sono mai stati
Burgnich e Facchetti, non si sono mai
guardati con la faccia cattiva. «Litigato?
Era impossibile arrabbiarsi con lui, del
resto era impossibile arrabbiarsi in
generale, in quell'Inter. Abbiamo fatto
cinque anni vincendo tutto. Era un gruppo
eccezionale, in quell'Inter nessuno alzava
mai la voce, non ce n'era bisogno».
Il momento più bello
insieme arrivò il 27 maggio 1964. A Vienna.
«La nostra più grande impresa, il nostro più
bel ricordo, che ci appartiene è quella
vittoria in Coppa dei Campioni sul Real
Madrid. Per il successo e perché quella era
la squadra di cui si parlava quando noi
eravamo ragazzi; la squadra del mito».
Burgnichfacchetti. «Sa
qual è la verità, è che noi questa cosa in
comune, questo nome che significa "difesa",
noi l'abbiamo conquistato. Sul campo, con la
nostra bravura, ma anche fuori, con la
nostra fedeltà. Oggi ci si dimentica spesso
dei valori, della continuità perché si
cambia spesso casacca».
Giacinto Facchetti,
fedeltà assoluta. All'Inter, all'amicizia.
«Sapeva che me ne stavo qui, in Toscana, da
pensionato e mi ha chiamato proponendomi di
buttare un occhio sulle partite che si
giocavano in regione». Giacinto Facchetti
l'uomo. «Il suo modo di proporsi alla gente,
ai compagni, sempre in modo aperto, in modo
onesto». Giacinto Facchetti il giocatore:
«La sua forza è stata l'applicazione. L'ha
imposto Herrera, ma lui ha sempre cercato di
migliorarsi, di imparare. E questa dote l'ha
portata anche nella sua attività
extracalcistica. E anche lì ha avuto
successo». Perché andava avanti, non restava
ad aspettare in retroguardia. «Eh no, a lui
gli avversari non lo facevano soffrire, lui
li attaccava, prendeva l'iniziativa e gli
altri erano costretti ad andargli dietro.
Quanti gol ha segnato, e faceva il terzino».
Giacinto Facchetti, l'eredità. «Un esempio
di correttezza per i giovani e non solo».
Burngnichfacchetti. No, neanche ora
riusciranno a separarli.
Roberto Perrone
http://www.corriere.it/Primo_Piano/Sport/2006/09_Settembre/05/perrone.html |
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L'avversario è ancora l'Independiente.
A differenza del precedente confronto, stavolta la gara d'andata si
disputa a San Siro. E' mercoledì 8 settembre. Gli argentini non
hanno neppure il tempo di respirare. Herrera ha chiesto ai
nerazzurri di prendere l'avversario per il collo. Peirò, dopo 8
minuti, è già in gol; Mazzola, con una doppietta, mette il timbro al
limpido 3-0. Una settimana dopo si gioca in casa dell'Independiente,
che prova a buttarla in rissa: Suarez e Sarti vengono colpiti da
alcuni oggetti lanciati dalle tribune, Jair è martoriato di falli.
Una traversa e delle buone parate di Sarti certificano il pareggio e
dunque la vittoria della seconda Coppa Intercontinentale. Titolo
della "Gazzetta dello Sport": "Pari coraggioso dell'Inter: è
campione". Ricorderà l'avvocato Prisco di aver seguito la gara in
tribuna d'onore, protetto dagli alpini della sessione di Buenos
Aires.
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Il 1965/66 si apre di
nuovo sotto il segno di un'importante vittoria. In Coppa
Intercontinentale i Campioni d'Europa affrontano ancora una volta l'Independiente,
senza però dover ricorrere allo spareggio, poiché al 3-0 siglato a
Milano si aggiungere un pareggio a reti inviolate a Buenos Aires. In
Campionato gli avversari sono tanti, ma nessuno si fa abbastanza
valere: il Napoli degli acquisti record Sivori e Altafini perde
competitività alla tredicesima Giornata, il Milan, secondo di un
punto a metà Campionato, crolla nel ritorno e il Bologna, risorto
dopo un'iniziale crisi, si gioca tutte le speranze pareggiando la
penultima contro la Juventus, mentre l'Inter affonda la Lazio e
guadagna in anticipo la certezza matematica della Stella sul petto,
simbolo di dieci Scudetti. Un'inaspettata nota negativa arriva dalla
Coppa dei Campioni: dopo aver eliminato la Dinamo Bucarest (1-2/2-0)
e il Ferencvaros (4-0/1-1), un Real Madrid dal dente avvelenato si
prende la rivincita di due anni prima, elimina i nerazzurri
(0-1/1-1) e si invola verso il suo trionfo. Negativa anche la Coppa
Italia, con l'Inter fuori in semifinale.
La Grande Inter vince il
terzo scudetto, il secondo consecutivo, al termine del campionato
'65-'66. Forse il successo meno complicato per la squadra di Angelo
Moratti e il "Mago" Herrera. Qualche timida opposizione da parte di
Milan e Bologna, ma nulla più. I rossoneri si arrendono nel derby,
che i nerazzurri vincono 2-1, con una grande rete di Bedin (che
annulla Rivera) e un gol di Domenghini. L'Inter è campione con 50
punti, 4 di vantaggio sul Bologna. La formazione tipo: Sarti;
Burgnich, Facchetti;
Bedin, Guarneri, Picchi; Jair, Mazzola, Domenghini, Suarez, Corso.
Il poeta mancino Mario
Corso è il "Sinistro di Dio" per le sue punizioni "a foglia morta",
il livornese Armando Picchi comanda da leader la rocciosa difesa e
lo spogliatoio. Che Inter quell'Inter che stava diventando grande e
che aveva superato anche lo scandalo beffa (a suo danno, ovvio)
della Federcalcio sul rifacimento di una partita esterna con la
Juventus (come atto di rivolta alla Figc, Moratti manda in campo a
Torino la squadra dei giovani che perde 9-1; la rete nerazzurra è
firmata Sandro Mazzola, il primo gol di una lunga cavalcata).
"Presidente, vinceremos todos y contra todos". Herrera deve stregare
Moratti, in qualche modo. Il tecnico ha già rischiato in più
occasioni l'esonero, il suo rapporto con il manager Italo Allodi è
tormentato. La prima penna del giornalismo sportivo italiano,
Giovanni Brera, critica spesso e volentieri l'allenatore nato a
Buenos Aires, cresciuto a Casablanca, affermatosi in Spagna.
Insomma, le difficoltà non mancano. Però è proprio in questa terra
di nessuno, in questa palestra di sudore e addestramenti (sta per
essere costruito anche il centro sportivo dell'Inter ad Appiano
Gentile, in provincia di Como), che nasce la leggenda, attraverso
una fusione passionale e molecolare tra Moratti, la squadra,
Herrera, i tifosi, la città di Milano. Raccontano i testimoni: "Non
è possibile descrivere quanto era bella la città grazie alla forza,
alle idee e al calcio della società nerazzurra". C'è da crederci,
senza dubbi. Nascono in questo periodo gli Inter Club, l'istituzione
del tifoso organizzato. Nasce, appunto, la leggenda.
Nel 1967 l'Inter arriva alla fine della stagione in testa alla
classifica ed in finale di Coppa Campioni ma in tre giorni perde
tutto: il trofeo continentale va al Celtic Glasgow, che vince per
2-1, lo scudetto alla Juventus, dopo aver perso incredibilmente
l'ultima di campionato contro il Mantova per 1-0 grazie a una
clamorosa papera di Sarti.
Non c'è notte senza alba, non c'è sogno senza risveglio. Il ciclo
della Grande Inter si conclude un anno dopo, il 1° giugno 1967 nella
fatal Mantova. I nerazzurri, che hanno già perso sfortunatamente la
Coppa dei Campioni a Lisbona contro il Celtic, recuperano Suarez
dall'infortunio e si presentano con Cappellini centravanti. Traversa
di Mazzola, l'Inter è stanca, ma vuole mantenere il punto di
distacco sulla Juventus (48 a 47) e comanda la partita.
Un giovane
Dino Zoff, portiere rivelazione del campionato, salva in più
occasioni il Mantova. Al minuto numero 4 della ripresa il pasticcio:
un tiro di Di Giacomo, l'ex di turno, inganna Sarti. La palla
scivola tra le mani del portiere nerazzurro e va in rete. Una beffa:
Sarti, due anni dopo, firmerà per la Juventus alla quale, in
pratica, regala lo scudetto.
E' infatti inutile
l'assalto finale dell'Inter, l'arbitro padovano Francescon nega un rigore a Mazzola e
caccia dal campo un furente Corso. Negli spogliatoi volano cazzotti
e parole grosse, ma il titolo è della Juventus. Angelo Moratti,
seppur deluso, trova la classe delle parole per scrivere la parola
fine a una grande storia di calcio e passione: "Siamo stati grandi
quando si vinceva, cerchiamo di essere grandi anche ora che abbiamo
perduto. Forse siamo rimasti troppo tempo sulla cresta dell'onda. E
tutti a spingere per buttarci giù. Ora saranno tutti soddisfatti".
E' solo la verità.
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1° turno:
Inter - Torpedo Moscow
1-0 - 0-0
2° turno:
Inter - Vasas SC
2-1 - 2-0 |
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Quarti di
finale: Inter - Real Madrid
1-0 - 2-0
Semifinale:
Inter - CSKA Sofia
1-1
- 1-1 |
La conclusione
del ciclo Herrera
Correva l'anno 1967. Un'anno terribile per dirla alla John
Fante, uno degli scrittori Italo-americani che si è occupato
volentieri di sport. Un' anno terribile per
l'Internazionale, come mi piace ricordarla,
col suo nome di fondazione per esteso. La squadra di Herrera
che aveva già vinto tutto, tre scudetti, due Coppe dei
Campioni e altrettante Coppe Intercontinentali, era pronta
per una nuova annata trionfale: la terza accoppiata
campionato - Coppa dei Campioni. I nerazzurri erano riusciti
a realizzare una storica impresa al Bernabeu contro il Real
Madrid, battendo i "merengues" che quell'anno schieravano
Pirri, Zoco, Amancio e Gento, nomi giganteschi. Solo la
Juventus era riuscita a fare altrettanto al Bernabeu, prima
che la Roma di Capello ci riuscisse ancora dopo ben
trentacinque anni!
Ebbene, quell'anno terribile, l'Inter perse lo scudetto
all'ultima giornata: battuta a Mantova per un cross beffardo
di Beniamino Di Giacomo che non aveva assolutamente
intenzione di tirare a rete. La colpa fu di Giuliano Sarti,
portiere della Fiorentina e dell'Inter, nonchè della
Nazionale che
si esibì in una della più incredibili papere della storia
del calcio. Contemporaneamente, la Juventus, sotto di un
punto prima dell'ultima giornata (47 per lei, 48 per i
nerazzurri), riuscì a battere la Lazio al Comunale
conquistando il tredicesimo scudetto!
Ma la vera partita di quell'anno terribile, l'Inter di
Herrera la disputò a Lisbona. Finale di Coppa dei Campioni:
di fronte a Sarti - Burnich - Facchetti - Bedin - Guarneri -
Picchi - Domenghini - Cappellini - Mazzola - Suarez - Corso,
il Celtic Glasgow, fino allora una compagine sconosciuta e
senz'altro poco temibile per il grande calcio europeo. Ma le
imprendibili magliette orizzontali bianche e verdi dettero
una severa lezione alla squadra di Helenio Herrera, già
battuta in campionato dall'altro Herrera: Heriberto.
Dopo essere andati subito in vantaggio con Mazzola
all'ottavo minuto del primo tempo, su calcio di rigore, i
milanesi subirono una feroce reazione degli scozzesi che per
tutti i restanti ottanta minuti assediarono la porta di
Sarti trafiggendolo due volte.
Quella partita a Lisbona fu una vera disfatta per l'Inter,
che da quel momento chiuse il grande ciclo di Helenio
Herrera, per rivincere lo scudetto nel 1971, pensate un po',
guidata da l'altro Herrera, Heriberto, sostituito alla sesta
giornata da Giovanni Invernizzi.
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La fine di un ciclo
Herrera resta un altro anno, ottenendo un anonimo quinto posto, e
poi va alla Roma, mentre Moratti decide che era ora di passare la
mano e lascia la presidenza a Ivanoe Fraizzoli nel 1968.
Sull'epopea della "Grande Inter" Ferruccio Mazzola ha gettato fosche
nubi, accusando in particolare l'allenatore Herrera di sistemi di
allenamento e punizione disumani e di impiegare costantemente
sostanze dopanti. Tali accuse non hanno però mai trovato un concreto
riscontro.
L'anno seguente l'Inter ottiene
un deludente quinto posto, risultato che provoca il licenziamento di Helenio Herrera e pone le fondamenta per una decisione drastica da
parte di Angelo Moratti. Infatti, nel 1968 il "Presidentissimo"
passa la mano e diventa presidente Ivanoe Fraizzoli.
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