IVANOE FRAIZZOLI
Ebbe il coraggio di
succedere a Moratti. Presidente dal maggio ’68 ricostruì
la squadra che aveva vinto in Europa e nel mondo. Da
presidente ha vinto due scudetti (’71 e ’80), due Coppe
Italia (’78 e ’82),
un Mundialito (’81). Nel ’72, l’Inter arrivò alla finale
di Coppa dei campioni.
Fraizzoli e Milano,
un ambrosiano doc col cuore nerazzurro. Fisicamente, nei
toni della voce, nel faccione, nella bonomia, e’ stato
l’ultimo presidente dell’Inter davvero ambrosiano: piu’
tipicamente milanese di Angelo Moratti e dello stesso
Claudio Rinaldo Masseroni, massiccio e sempre armato di
sigaro, il presidente di Skoglund, di Nyers e di Wilkes.
Non aveva quarti di nobilta’ industriale, nè l’aureola
del self – made man che dal nulla crea un straripante
portafoglio, che dalla valigetta di rappresentante, come
Moratti, arriva a un impero del petrolio. Anche in
questo, assomigliava allo sterminato popolo della
fabbrichetta, della bottega che è la ricchezza della
città. Faceva e vendeva giacche e livree per i camerieri
delle grandi famiglie.
Ci voleva un grande
coraggio per subentrare, e a Ivanoe Fraizzoli questo
coraggio non mancò. Per un uomo come lui, devotamente
attaccato alla famiglia e al lavoro, si trattò anche di
un atto d’amore verso la squadra per la quale aveva
sempre tifato. Ivanoe amava esibire un tesserino
comprovante la sua passata militanza nel settore
giovanile nerazzurro: “… dopo qualche partita mi dissero
di cambiare mestiere” confessò una volta, forse per
nascondere la sua giustificata soddisfazione.
Quell’Inter era una
signora squadra, che l’anno seguente arrivò alla finale
di Coppa dei Campioni. Si giocò a Rotterdam contro
l’Ajax, e l’Inter dovette inchinarsi a due prodezze di
Cruijff, marcato da un giovanissimo Oriali, dopo che
sullo 0-0 Boninsegna colpì un palo con un violento tiro
da lontano. Una squadra che avrebbe anche potuto
riaprire un ciclo, ma gli anni seguenti furono solo di
lungo e costante declino, che videro prima il
provvisorio ritorno di Helenio Herrera, poi un anno con
Suarez e due con Chiappella, con risultati non andavano
al di là del piazzamento Uefa.
da
http://storiedicalcio.altervista.org/blog/ivanoe_fraizzoli.html
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Ormai chiuso il ciclo della Grande
Inter, la prima stagione di Fraizzoli al timone della
Beneamata fu caratterizzata da un mercato con pochi
acquisti ed ambizioni: oltre al mediano Bertini,
prelevato dalla Fiorentina, arrivarono Poli, Spadetto e
Vastola. La marcia in campionato fu tranquilla, ma senza
acuti, il piazzamento finale fu un discreto quarto
posto. Fu proprio in questa stagione che si creò una
prima forma di tifo organizzato, i Boys di San Siro, la
cui origine si fa risalire al gennaio del 1969.
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Per la panchina fu preso Heriberto
Herrera, soprannominato Hh2 dai tifosi e della stampa:
vennero poi acquistati Boninsegna, il quale con le sue
reti trascinò l'Inter al secondo posto in campionato
dietro il Cagliari di Riva, e Lido Vieri per sopperire
alla mancanza di un numero uno degno della tradizione
nerazzurra. Per quanto riguarda invece la Coppa delle
Fiere, il cammino terminò in semifinale contro
l'Anderlecht.
LIDO
VIERI
Sul grande terrazzo, al settimo
piano, tra fiori, piantine di basilico, rampicanti, c'è un tubo di
gomma collegato con il rubinetto dell'acquaio, e mi arriva addosso
un flash, una foto di Lido Vieri di quando giocava nell'Inter. E si
faceva una doccia con un tubo di gomma, solo che intorno c'era la
neve. Vieri guarda me che guardo il tubo e ride.
"Sì, anche adesso che vado per i
75. E sa perché ? Perché quand'ero piccolo in casa non avevamo
l'acqua calda e io mi sono abituato a quella fredda, diciamo che me
la sono fatta piacere per necessità, poi mi sono abituato e avanti
così".
Vieri nasce a Piombino, ma i
genitori erano elbani, di Portoferraio. "Mio padre faceva il
pescatore. Poi è saltato fuori un posto alle ferrovie e la famiglia
ha traslocato sulla terraferma. Io sono diventato portiere per caso,
il mio sogno era andare per mare. Quand'è arrivata l'offerta del
Torino avevo già tutte le carte in regola per imbarcarmi come mozzo
su un mercantile che da Genova andava in Brasile. Il pallone era un
divertimento, un gioco. Non pensavo di poterci campare. Spesso
giocavo il primo tempo da attaccante, per fare gol, e il secondo da portiere, per difendere il vantaggio. La prima squadra è stata a
Venturina, 13 km a piedi all'andata e 13 al ritorno. Lì c'era e c'è
ancora un ristorante famoso, da Otello. Sull'Aurelia, si fermavano i
tir come le macchine di lusso. Specialità cinghiale alla maremmana,
ma anche pesce. Là un bel giorno si fermò a mangiare il dottor Lievore, che curava il settore giovanile del Toro. E là per caso
c'era a mangiare anche il dottor Biagi, un farmacista, il mio
presidente, e mi segnalò".
Convocato per un provino, viene
preso.
"Partii diviso dentro: cominciava
un'avventura ma lontana dal mare, quello l'avevo perso. Erano
passati pochi anni da Superga, il Toro stava cercando di
ricostruirsi. La società pensava al mangiare e al dormire, per i
primi due anni ho preso mille lire a settimana. La metà la mandavo a
casa, per il resto m'arrangiavo. Un biglietto del cinema costava 80
lire. La domenica andavo allo stadio gratis. Il nostro portiere era
Lovati, quello della Juve di Viola. Due buoni portieri. Anch'io ero
un giovane
portiere allo stato brado, tutto istinto. Allasio mi fece
esordire in A, poi mi prestarono al Vigevano in B perché facessi
esperienza. Ci andai con Sergio Castelletti, il terzino biondo che
poi finì alla Fiorentina. Povero Sergio, era di Casale, è morto
anche lui per colpa dell'amianto".
Una volta i portieri si
dividevano in due categorie: freddi e caldi. Freddi erano Jascin,
Giuliano Sarti, Cudicini, Zoff. Caldi Moro, Ghezzi e Albertosi.
Caldissimo Vieri.
"Come temperamento sì , ero
fumino, e mi sono preso le mie belle squalifiche. Ma il bello del
ruolo, il lato romantico se vogliamo, era nella sua diversità. A me
piaceva uscire di porta e arpionare il pallone con una mano sola,
fin sul dischetto del rigore uscivo per respingere di pugno. E
allora era regola che ogni pallone nell'area piccola fosse del
portiere. Adesso vedo che molti hanno la catena corta ma,
soprattutto, che pochissimi cercano di bloccare il pallone. Quando
finalmente ho avuto un preparatore, la sua domanda più requente
era: perché non l'hai bloccata? E, in caso di respinta, sempre di
lato, mai frontale. Oggi sembra che queste cose siano finite in
soffitta. Sono cambiati i palloni, sono cambiate le regole non
sempre in meglio. Io cancellerei quella che porta rigore ed
espulsione sull'uscita del portiere: una volta gli attaccanti ti
saltavano, per non farti e non farsi male, adesso ti vengono a
cercare, fanno di tutto, per sbatterti addosso, e ci credo: hanno
tutto da guadagnare, al massimo rischiano un giallo per
simulazione".
Lei aveva il mito di Ghezzi, ho
letto.
"Sì, il kamikaze. Ma mi piaceva
molto anche Bepi Moro e uno che non è diventato famosissimo: Doriano
Carlotti, un elbano, giocava nel Piombino ed è stato il primo dei
miei idoli. Stavo dietro la sua porta. Era secco secco, non alto, un
coraggio da leone nelle uscite. Quando qualche squadra di A bussava
per Carlotti, il Piombino sparava cifre pazzesche e così non s'è mai
mosso. Quando ha smesso ha aperto una macelleria".
Non si stupisce di vedere tanti
portieri stranieri in serie A?
" E' vero che da noi c'era una
grande scuola, ma nulla dura in eterno, tutto cambia. Pensi al
Brasile: per decenni solo un grande portiere, Gilmar, poi ci è
toccato veder vincere un mondiale a Taffarel, uno che si tuffava di
pancia e non di fianco, poi è arrivato Julio Cesar. A me piace anche
Neto, della Fiorentina. In assoluto, degli stranieri, Handanovic.
Quanto a noi, Buffon era e resta di un'altra categoria. Promette
bene quel Perin, un po' pazzo e per questo mi piace. Ma il ruolo è
cambiato da quando i portieri hanno dovuto imparare a usare i piedi,
diventando meno diversi, più uguali agli altri. Ho l'orgoglio di
aver allenato, incoraggiato e sempre difeso un grande portiere: Luca
Marchegiani. Certo se vedo le foto di quando giocavo io e di adesso
sembra passato un secolo. I guanti, per esempio. Non li ho usati per
anni o al massimo quelli di lana se pioveva.A mani nude sentivo di
più il pallone, anche col freddo. Poi sono arrivati quelli
zigrinati, come le coperture delle racchette da ping pong, e adesso
ci sono certi guanti che sembrano usciti dai laboratori della Nasa,
ma non è il guanto che fa il portiere, e nemmeno la maglia rossa o
gialla. Ai miei tempi, solo nera, o grigia. Colpiva di più la
fantasia: se l'immagina se poteva esserci un ragno arancione, così
come c'era il ragno nero. Jascin? Un grandissimo, ma non so perché
gli preferivo Beara, lo jugoslavo (morto il 10 agosto 2014 a 85
anni)" .
Tre squadre in tutta la carriera:
Torino, Inter e Pistoiese: cosa le resta?
"Il Toro è stata la squadra della
mia vita, ci sono arrivato ragazzino e ne sono uscito uomo. Dividevo
la camera con Ferrini, eravamo due tipi di poche parole. Lui parlava
con l'esempio, coi fatti. Mi sarebbe piaciuto avere una sola maglia
nella vita. Quando Pianelli mi cedette all'Inter, era convinto di
avermi fatto un regalo. Invece mi misi a piangere e spaccai a pugni
la porta dello spogliatoio. Ai tifosi granata devo il soprannome:
Pinza. Lo stesso di Bodoira, il portiere che aveva preceduto
Bacigalupo. Un onore. All'Inter con Invernizzi vincemmo uno scudetto
in rimonta ma mi sentivo in esilio, anche se l'ambiente era
simpatico. Alla Pistoiese andai perché mi avvicinavo a casa e perché
la Pistoiese mi garantiva lo stesso ingaggio dell'Inter. Presidente
era Melani, detto il Faraone. Anche lui aveva fatto soldi col
petrolio. Volevamo un brasiliano, avevo chiesto Junior e arrivò Luis
Silvio. Gran velocità, ma tirava in porta solo di piatto, anche da
fuori area".
In Nazionale, solo 4 presenze.
"Posso dire la verità? Non
m'importava nulla di giocare in Nazionale, e lo dicevo anche. Ho
fatto tre partite e mezza, tre senza prendere gol: 1-0 in Turchia,
1-0 in Austria, 3-0 al Brasile. A Sofia subentro ad Albertosi
sull'1-2 e becco il terzo. Sono campione d'Europa e vicecampione del
mondo senza aver mai visto non dico il campo ma la panchina. Per me
convocazioni, ritiri, trasferte di un mese mezzo, come in Messico,
equivaleva a togliermi il mare. Avevo la barca già pronta per andare
a pesca dei palamiti verso Montecristo e Pianosa. Bearzot
insistette, era stato mio capitano, la mia chioccia direi. Avete già
Albertosi e Zoff, che ci vengo a fare? Portate Pizzaballa, è uno
tranquillo, magari gli fa anche piacere. A me no, anche perché non
ho mai voluto saperne di giocare a carte, quindi mi portavo una
valigia di libri e Settimana enigmistica".
Anche con lei si poteva partire
da una foto nel ritiro messicano. C'è Valcareggi tra due sorridenti
Mazzola e Rivera e dietro si vede Vieri, su una sdraio, che sta
leggendo "La noia" di Moravia.
"Ne avevo anche altri, uno di
Ambrogio Fogar sul suo giro del mondo in barca, altri d'argomento
marinaro. Leggevo molto, avevo imparato a memoria anche qualche
poesia di Garcia Lorca. Poi Fogar l'ho conosciuto di persona, e
anche Jacques Mayol che s'era sistemato all'Elba, a Capoliveri.
Prima di ogni immersione sgranocchiava due teste d'aglio, diceva che
era il suo segreto. Ma il suo segreto vero è perché si sia appeso a
una trave senza lasciare una riga".
S'annoiò molto, in Messico?
"No, poteva andar peggio. Mi
allenavo seriamente, semmai era Riva che saltava gli allenamenti con
la scusa del dormire. Con Valcareggi avevo una certa confidenza, lo
chiamavo zio Uccio e non mister perché era stato giocatore del
Piombino quando io ero raccattapalle. Zoff mordeva il freno e veniva
a sfogarsi da me. Stai calmo Dino, gli dicevo, perché Uccio farà
giocare Albertosi anche se ha la febbre a 40. Così andò, anche se
Albertosi fece qualche errore coi tedeschi e se fosse dipeso da me
col Brasile avrebbe giocato Zoff. Ma non dipendeva da me, che da
Valcareggi avevo già ottenuto una sorta di libera uscita. Già
all'arrivo c'erano file di ragazze tifose fuori dal nostro albergo.
Lido, ci tolgono tranquillità, fai come vuoi ma pensaci tu. Ci
pensai eccome. Finchè non vidi una ragazza favolosa, bruna, che
girava su una Mustang rossa. Occhiate reciproche, colpo di fulmine,
m'invita a casa sua. Casa è dire poco, una specie di castello in
mezzo a un immenso giardino, militari all'ingresso".
E chi era?
"La figlia del vicepresidente.
Del Messico, non della federcalcio. Una famiglia molto alla mano,
dopo qualche giorno entravo e uscivo a tutte le ore. Graciela mi
disse che era troppo giovane per avere la patente, guidava senza. Un
pomeriggio, dopo aver visto che c'era una bella sala cinematografica
con comode poltroncine, invitai tutta la squadra a vedere un film
italiano, non ricordo il titolo. Credevo che certe cose potessero
succedere solo in Svezia, almeno così si vociferava, quanto a
libertà di comportamento. Fu bello tutto, e non dolorosa la
partenza, sapevamo tutti e due perché era cominciata e quando
sarebbe finita".
Il 4-3 come lo visse?
"Dalla tribuna presidenziale, con
tanto di cucina. A un certo punto tutti scommettevano, nei
supplementari. C'erano sul tavolo mucchi di soldi alti così".
E adesso cosa fa?
"Il pensionato, ultimo incarico
allenatore dei portieri nel 2005 alla Fiorentina. Allo stadio non
vado più da anni: se il Toro perde mi viene il magone, soffro".
Se il Toro perde, perde anche in
tv.
"Sì, ma almeno non vedo le facce
della gente, magari tifosi che ho conosciuto. Di stadi ne ho girati
anche troppi. L'unica novità, se vogliamo, è che ho voltato le
spalle al mio mare, che credevo essere unico. Da quando ho sposato
una calabrese, ho scoperto un altro mare stupendo. Abbiamo una
casetta a Bagnara, da giugno a ottobre mi trova là, sul mare".
Il minimo, per uno che si chiama
Lido.
"Questa è un'altra storia. Mio
padre voleva chiamarmi Nilo, ma il parroco disse di no. Ripiegò
su Lido".
Anagrammando Lido Vieri,
appassionato di enigmistica, basta spostare una "i" dal cognome e si
ottiene idoli veri. De profession bel zoven, avrebbe chiosato paron
Rocco. Nelle foto in bianco e nero, Vieri ha una faccia tra Raf
Vallone (che pure giocò nel Torino) e Luigi Tenco. Erano anni in cui
i calciatori matti erano l'1 e l'11. Poi si è perso il conto.
Pubblicato su Repubblica il
24/3/2014
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Ivano Bordon, Lido
Vieri, Mauro Bellugi, Tarcisio Burgnich, Giancarlo Cella, Bernardino
Fabbian, Giacinto Facchetti, Mario Giubertoni, Spartaco Landini,
Oscar Righetti, Marco Achilli, Gianfranco Bedin, Mario Bertini,
Mario Corso, Mario Frustalupi, Sandro Mazzola, Gabriele Oriali,
Roberto Boninsegna, Jair da Costa, Sergio Pellizzaro, Alberto Reif
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LA
SINTESI DEL CAMPIONATO 1970-71
L'Inter sembra toccare il fondo, per poi risalire fino al tricolore, di
nuovo in esaltante rimonta sui "cugini" del Milan. Il mercato
è monopolizzato dalla Juventus, che fa man bassa dei migliori giovani
in circolazione: i fatti col tempo le daranno ragione. In partenza è il
Napoli a fare l'andatura, seguito dal Cagliari, che però perde Riva,
fratturato in Nazionale, e cede il passo al Milan. I
rossoneri prendono
la testa alla decima giornata e il 24 gennaio 1971 sono campioni
d'inverno. L'Inter, in crisi, ha licenziato Heriberto Herrera e si è
affidata a Invernizzi, tecnico delle giovanili e di una
"tabella" che diventa famosa. Alla prima di ritorno,
nerazzurri già secondi a tre punti, che diventano quattro la settimana
dopo e si riducono a uno alla ventesima. L'aggancio avviene alla 22a, il
sorpasso alla 23a. L'Inter in rimonta irresistibile è campione con due
turni di anticipo. In coda, spacciato il Catania, la Fiorentina scampa
sul filo per differenza reti, condannando, con Lazio e Sampdoria, anche
la rivelazione iniziale Foggia.
INTER: IL VECCHIO CHE
AVANZA
C'è molto di vecchio, ma altrettanto di nuovo, nell'Inter che torna
al titolo. In estate se ne vanno altri due reduci della Grande
Inter: Guarneri (ceduto dal nuovo direttore sportivo Franco Manni al
Palermo) e Suarez (alla Sampdoria). In compenso, arrivano gregari di
peso: lo stopper Giubertoni e l'ala Pellizzaro dal Palermo, il
regista Frustalupi dalla Sampdoria. Alla guida tecnica viene
confermato Heriberto Herrera, che schiera Vieri in porta, Cella
libero, Giubertoni stopper, Burgnich e Facchetti terzini; a
centrocampo, il faticatore Fabbian, Frustalupi in regia, Mazzola
interno di punta, Corso rifinitore, l'ala Pellizzaro e il
centravanti Boninsegna in attacco. Risultato? Quattro punti nelle
prime quattro partite.
Quando l'Inter perde per
0-3 la quinta, il derby, è netto il sentore di una stagione grigia.
I nerazzurri sono decimi in graduatoria; il presidente Fraizzoli,
amareggiato, mette a disposizione il proprio incarico, se un gruppo
economico volesse acquistare la società. Lo specifica nel comunicato
ufficiale del 9 novembre (all'indomani della sconfitta coi
"cugini"), in cui viene esonerato Heriberto Herrera e si affida
«temporaneamente» la guida tecnica a Giovanni Invernizzi, allenatore
delle minori nerazzurre. Le reazioni dei giocatori sono immediate:
Corso: Il licenziamento si imponeva»),
Mazzola («In fondo non è proprio che lo abbiamo cacciato noi...»).
Jair («Sono più che contento, ci voleva!») fanno capire che la
"vecchia guardia" ha ottenuto ciò che chiedeva. E prende in mano la
situazione.
Assieme a Invernizzi, i
"senatori" stilano una ambiziosa tabella che punta allo scudetto,
contro ogni pronostico. La squadra viene ritoccata, con
l'arretramento di Burgnich a libero, il giovane Bellugi terzino
destro, il ritorno di Jair all'ala e il poderoso Bertini al posto di
Frustalupi. E il gioco è fatto, per una nuova, esaltante rimonta
proprio sui "cugini" rossoneri.
IL DRAMMA DI PICCHI
La grande rivoluzione juventina di Giampiero Boniperti, fresco
amministratore delegato, è stata affidata a un giovane tecnico,
Armando Picchi, ex libero della Grande Inter. Ha dovuto abbandonare
il calcio dopo un terribile incidente conia Nazionale (6 aprile
1968, frattura del tubercolo sinistro del bacino contro la Bulgaria
a Sofia), è diventato allenatore e nella sua Livorno, in B, ha fatto
capire di saperci fare. Così a Torino, dopo un avvio incerto,
comincia a prendere in mano la situazione. Ma la tragedia è in
agguato. Guarita la giovane moglie da una lunga malattia, Picchi
avverte insistiti dolori alla schiena, forse risalenti all'antico
incidente di gioco. A febbraio è costretto alasciare
la squadra per un periodo di cure che si spera breve. La prima
diagnosi parla di una «mialgia sottoscapolare», poi, dopo un nuovo
consulto, nel perdurare di atroci dolori, emerge la verità: il
tecnico soffre di un male incurabile. Operato inutilmente a Torino,
trasferito in Liguria, a San Romolo, muore il 26 maggio 1971,
lasciando la moglie e due figli in tenera età.
E'
morto Invernizzi Guidò l' Inter allo scudetto nel 1971
Aveva le pupille
azzurre come «nontiscordardime». Occhi che hanno visto
il grande Meazza da ragazzo e l' Ajax di Cruijff. Occhi
di cacciatore
che hanno inseguito il Milan di Rivera e Prati come una
preda. Quegli occhi si sono chiusi ieri. Gianni
Invernizzi, l' allenatore dell' undicesimo scudetto
dell' Inter, l' uomo della grande rimonta, che aveva
annullato un distacco di 7 punti dal Milan, è morto al
Policlinico di Milano per una grave malattia a 73 anni.
E' MORTO A 73 ANNI Addio a Invernizzi, mister sorpasso
Nel ' 71 guidò l' Inter a una storica
rimonta-scudetto sul Milan Aveva detto: «Sono nato
interista e morirò interista». E' stato di parola Nel '
72 perse la finale di coppa dei Campioni contro l' Ajax
di Cruijff, che segnò due reti segue dalla prima «Sono
nato interista e morirò interista», disse un giorno. Ha
mantenuto la parola. Oggi la grande tribù nerazzurra,
che si nutre di ricordi, lo piange con affetto.
Invernizzi è stato protagonista di una favola. Quella
rimonta memorabile è un diamante che brilla. Veniva
dalla famiglia Invernizzi, quella dei formaggi. Papà
acquistava il latte. Abitava ad Abbiategrasso, la zona
del gorgonzola. Era biondo. Arrivò all' Inter a 14 anni,
nel giugno 1945.
Lo aveva scoperto
Carlo Carcano, l' uomo dei cinque scudetti della
Juventus. Cominciò da centravanti, poi divenne mezzala,
infine retrocesse a mediano. Giocò nell' Inter di
Lorenzi, Nyers, Skoglund, Angelillo. Ma l' unico
scudetto lo ha vinto da allenatore. Era la stagione
1970-71. Guidava l' Inter Heriberto Herrera, l' asceta
paraguaiano del «movimiento». Il primo derby gli fu
fatale. L' 8 novembre 1970, quinta giornata, l' Inter fu
inchiodata dal Milan con un 3-0 crudele. Il presidente
Fraizzoli esonerò Heriberto. Mise su quella panca
rovente Invernizzi, che allenava la Primavera. Sembrava
un atto temerario. C' erano ancora gli assi della Grande
Inter: Facchetti, Burgnich, Mazzola, Corso, Suarez...
Come mettere un uomo tranquillo nella gabbia dei leoni.
Ma Invernizzi conosceva l' ambiente. Aveva buonsenso e
garbo. Riportò nella rosa Bedin e Jair, che Heriberto
aveva bandito. Mise Burgnich libero al posto di Cella.
Collocò Bedin e Bertini sulla destra. Allestì un' Inter
nuova, dinamica, combattiva. L' Inter batté il Torino,
poi fu sconfitta a Napoli. A quel punto decollò: cinque
vittorie di fila. Non fu
più battuta per 23 partite.
La rincorsa al Milan
si trasformò in caccia. Lunga, bella appassionante. L'
inseguimento fu coronato il 21 marzo, quando l' Inter
sconfisse il Napoli di Zoff e Altafini. Il sorpasso fu
compiuto sette giorni dopo, quando il Varese di Liedholm
piegò il Milan. Una cavalcata seducente. «La sera stessa
della sconfitta di Napoli, sull' aereo che ci riportava
a Milano,
Mazzola e io facemmo la tabella-scudetto. Ricordo il
sorriso scettico di molti che ironizzarono», racconta il
presidente dell' Inter Facchetti. «Invernizzi riuscì a
gestire bene uno spogliatoio di forti personalità. Si
mostrò un grande allenatore. E l' anno dopo ci portò in
finale di Coppa dei Campioni: perdemmo contro l' Ajax
nel momento di maggior splendore».
L'Inter liquidò Aek
Atene, il Borussia Monchengladbach della lattina, lo
Standard Liegi, il Celtic Glasgow. Finché, il 31 maggio
1972, non fu battuta per 2-0 a Rotterdam dall' Ajax di
Kovacs con doppietta di Cruijff. «Gianni era
un grande allenatore italiano. Rimise insieme i cocci
che un tecnico straniero aveva fatto. Entrò in punta di
piedi nello spogliatoio con la sua saggezza, la forza
dei suoi ragionamenti
concreti. Invertì la rotta. Compì un capolavoro»,
ricorda Boninsegna, capocannoniere con 24 reti di quello
scudetto. Invernizzi presto rientrò nei ranghi. Sempre
fedele ai colori nerazzurri. Aveva vestito la maglia
nerazzurra negli anni Cinquanta: 3 presenze nella
stagione 1951-52, 8 nel ' 54-55, 18 nel ' 55-56, 21 nel
' 56-57, 28 nel ' 57-58, 26 nel ' 58-59, 26 nel ' 59-60.
Helenio
Herrera non lo volle più. Giocò anche con Genoa,
Triestina, Udinese, Torino, Venezia. Allenò anche il
Taranto. Era un mediano interditore. Gli toccava marcare
Schiaffino, Rivera, Julinho.
Non era illuminato
dalla gloria. Ma la sua avventura sportiva è stata
bella. E, oggi, nel dolore del commiato, l' avventura
dello scudetto splende come un filo d' oro. Claudio
Gregori Giocatore, allenatore, osservatore una vita
trascorsa in nerazzurro È morto ieri al Policlinico di
Milano dopo una lunga degenza, all' età di 73 anni,
Giovanni Invernizzi. Era nato ad Albairate (Mi) il 26
agosto 1931. Nelle giovanili dell' Inter dal 1945,
esordì in A il 30 aprile 1950 in Torino-Inter 1-0. Con
la maglia nerazzurra disputò 149 partite segnando 6
reti. Ceduto al Torino con l' arrivo di Helenio Herrera,
tornò all' Inter quando gli fu affidato il settore
giovanile. Da allenatore della Primavera fu promosso
alla prima squadra nell' autunno del ' 70, quando l'
allora presidente Fraizzoli licenziò Heriberto Herrera,
così guidò l' Inter allo scudetto dopo una gran rimonta
sul Milan. Prima di tornare a fare l' osservatore per l'
Inter, allenò Taranto e Brindisi.
Gregori Claudio
http://archiviostorico.gazzetta.it/2005/marzo/01/morto_Invernizzi_Guido_Inter_allo_ga_10_05030111187.shtml?refresh_ce-cp
LA RESURREZIONE DI CORSO
Da anni ormai e sulla cresta dell'onda. Mario Corso, fantasista
mancino che don Helenio voleva cedere e Moratti regolarmente
dichiarava incedibile per le sue magie di inarrivabile fattucchiere
del gol. Celebri le punizioni a foglia morta, ma anche le lunghe
pause, la discontinuità tipica degli artisti. Ultimamente si era
appesantito e impigrito, a 28 anni sembrava avviato a un precoce
declino, richiamato anche dalla stempiatura.
Poi, eccolo diverso. Certo gli hanno giovato il matrimonio, che ne
na reso più professionale la vita extra calcio, così come la
maturità atletica e magari un certo senso di rivalsa nei confronti
di tutti gli Herrera del mondo. Oppure, come dicono i maligni, è
stata decisiva la partenza di quel Suarez che un po' gli ha sempre
fatto ombra. Fatto sta che il mancino d'oro nel 1970-71, abbandonate
le velleità azzurre, ha giocato la sua miglior stagione, da vero
trascinatore. Il suo gioco fantasioso si è fatto tutto sostanza, i
suoi assist sono stati manna per le punte, in special modo
Boninsegna. E perfino il reuccio Mazzola, leader della squadra, è
stato messo in ombra dalla fantastica stagione di questo
fuoriclasse.
Lunga è la strada che dall'Inter riporta a casa. Roberto Boninsegna
nell'Inter è cresciuto: da mezzala trasformata in punta per superare un
provino e scoprirsi grande attaccante da area di rigore. Bocciato da Helenio Herrera è ripartito da Prato e Potenza (B) raggiungendo la A
con il Varese prima di approdare a Cagliari, a formare con Riva una
coppia tempestosa di prime donne, entrambe mancine, entrambe con la
vocazione da centravanti. Lo scioglimento del sodalizio ha portato
fortuna.
Boninsegna fu richiamato d'urgenza dalle ferie per sostituire
l'infortunato Anastasi (tradito da uno scherzo di spogliatoio) al
Mondiale 1970, di cui poi fu uno dei massimi protagonisti. E sull'onda
di quel successo è esploso da grande bombardiere, con 24 reti in 28
partite. Una media da scudetto.Tutti i risultati e le classifiche a
Pagina | 2 |imponeva»), Mazzola («In fondo non è proprio che lo
abbiamo cacciato noi...»). Jair («Sono più che contento, ci
voleva!») fanno capire che la "vecchia guardia" ha ottenuto
ciò che chiedeva. E prende in mano la situazione.
Assieme
a Invernizzi, i "senatori" stilano una ambiziosa tabella che
punta allo scudetto, contro ogni pronostico. La squadra viene ritoccata,
con l'arretramento di Burgnich a libero, il giovane Bellugi terzino
destro, il ritorno di Jair all'ala e il poderoso Bertini al posto di
Frustalupi. E il gioco è fatto, per una nuova, esaltante rimonta
proprio sui "cugini" rossoneri.
MAZZOLA. "Prete,
tabella e una mia follia. così firmammo la Grande
Rimonta"
A 40 anni
dall'undicesimo scudetto interista Sandro Mazzola rivive
il campionato del 1971 conteso, proprio come adesso, a
Milan e Napoli. E svela: "Quando entrai nello
spogliatoio dell'arbitro a fine primo tempo e gli urlai:
lei ci sta penalizzando..."
di GIOVANNI MARINO
Napoli, sull'aereo
che rulla sulla pista di Capodichino tre leggende del
calcio Mondiale discutono animatamente. Burgnich, il
granitico Tarcisio dell'Inter euromondiale degli anni
Sessanta è il più accanito. "Possiamo vincerlo ancora,
oggi abbiamo giocato proprio bene, dipende solo da noi",
incita il difensore nerazzurro. Vicino, siede Sandrino
Mazzola, figlio del mitico Valentino granata, bandiera e
capitano del Biscione. Proprio davanti c'è Facchetti,
l'altro terzino delle Coppecampioni e Intercontinentali,
il primo difensore capace di segnare come un bomber.
Tutti reduci da una sconfitta, bruciante, al San Paolo
con il Napoli di Juliano, Zoff e Altafini. E da un
tremebondo inizio di torneo che è già costato la
panchina al difficile Heriberto Herrera.
CALCOLI MATEMATICI -
E' il tardo pomeriggio del 22 novembre 1970 quando
l'aeroplano decolla, direzione Milano. La discussione si
infervora. "A un certo punto io mi convinco - racconta a
"Repubblica" Mazzola, custode di tutti i segreti della
Grande Rimonta nel campionato '70-'71 di cui ricorre
adesso il quarantesimo anniversario - e scuoto il sedile
di Giacinto per coinvolgerlo. Passano pochi minuti e ci
ritroviamo a far calcoli: io tiro fuori un opuscoletto
con tutte le giornate ancora da disputare e cominciamo a
fare la famosa tabella". Che poi sarebbe? "Assegnare,
partita per partita, i punti possibili a Napoli e Milan,
che ci precedono e... a noi stessi. Beh, viene fuori che
alla fine vinciamo noi se rispettiamo la tabella".
I DUBBI DI FRAIZZOLI
- Così, letteralmente per aria, nasce la ferrea volontà
di cucirsi addosso l'undicesimo scudetto. "Tutti e tre,
i vecchi della Grande Inter ci alziamo e andiamo dal
presidente Ivanhoe Fraizzoli. Lui, abbatuttissimo,
seduto da solo nella parte finale dell'aereo, ci rinvia
al mittente parlando milanese stretto: "Scudetto?
Figlioli miei andate, andate su, che fantasia figlioli
miei, ma di che parliamo? Siamo a 7 punti dal Napoli e a
6 dal Milan, ma va là, dai". Comprensibile, ma noi ci
crediamo e in questo sport se ci credi davvero sei a
metà dell'opera".
IL DISTACCO DA MILAN
E NAPOLI - Alessandro Mazzola ha voglia di raccontare.
I suoi ricordi, 40 anni dopo, sono ancora vividi. "Fu
un'impresa, l'ultima della Grande Inter, e ne sono
tuttora fiero". Nessuna presunzione. Ha ragione:
nell'epoca del campionato a 16 squadre e dei (soli) 2
punti per una vittoria, l'Inter seppe rimontare a
partire dalla ottava giornata tutto il vantaggio
accumulato dalle due squadre che la precedevano per
andare a vincere, addirittura, con un distacco di 4
punti. "Già, da quel giorno non perdiamo più, le
vinciamo quasi tutte, se non sbaglio concediamo solo tre
pareggi, di cui due alla fine, a cose fatte, il
tricolore è nostro, ma ci sono altri retroscena".
DA HERIBERTO A
INVERNIZZI - Sandrino non si fa pregare. "Dunque, al
timone non c'è più Heriberto Herrera ma Gianni
Invernizzi e l'atmosfera nello spogliatoio si è
rasserenata. Povero Heriberto, era un ottimo allenatore,
profeta di un calcio moderno, così moderno, il
movimiento (come diceva lui) senza palla, che noi non lo
capivamo. E poi il carattere era difficile, chiuso,
introverso. Con Gianni, invece, tutta un'altra
musica. Per prima cosa rimette in squadra tre giocatori
che Heriberto aveva fatto fuori, tutti fortissimi,
Gianfranco Bedin, Jair da Costa e Mario Bertini, se non
ricordo male. Nasce la tabella e a questa aggiungiamo
una scaramanzia: un prete".
LE PREGHIERE DI DON
BOMBA - "Il mio prete - prosegue divertito Mazzola -
perché era stato professore alla scuola Armando Diaz
dove ero andato e in seguito avrebbe anche celebrato le
mie nozze. Si chiamava monsignor Spada, da ragazzini lo
avevamo soprannominato Don Bomba: era alto e grosso, con
un bel vocione e abitava vicino al Duomo. Una sera,
visto che Invernizzi aveva l'abitudine di riunirci il
venerdì per cena in un ristorante della zona, proposi di
andare a trovarlo. Lui ci accolse e ci ordinò di
confessarci: "Siete biricchini voi giovani calciatori e
se volete vincere dovete dire tutto al Signore".
Insomma, la domenica seguente si vinse e per tutto il
campionato Don Bomba fu, assieme, il nostro confessore e
il nostro talismano".
IL SINISTRO DI
MARIOLINO - E arrviamo alle sfide di ritorno con le
grandi rivali. Il Milan e il Napoli. "Il derby è
cruciale. Siamo molto tesi. Niente affatto sicuri di
vincere. Risultato obbligato, per noi. E la gara resta
così, quasi sospesa, finché il geniale sinistro di
Mariolino Corso su punizione, la sua specialità, non ci
porta in vantaggio. Poi chiudo io la gara su azione di
Jair da Costa, contropiede veloce, delizioso cross per
Roberto Boninsegna che colpisce di testa e prende il
palo oppure ci arriva Fabio Cudicini, comunque sia io
ribatto in rete. Due a zero, ma sappiamo che non è
finita lì".
IO NELLO SPOGLIATOIO
DELL'ARBITRO - Altro match fondamentale per completare
il sorpasso e lasciarsi definitivamente dietro rossoneri
e azzurri è la gara con il Napoli. Si gioca a San Siro,
il 21 marzo 1971. E lì ne accadono di tutti i colori.
Mazzola, 40 anni dopo, con il sorriso sotto i celebri
baffi, svela un suo clamoroso blitz: "Feci una cosa che
non si può fare, proibita dal regolamento. Una cosa
sbagliata. Irruppi nello spogliatoio dell'arbitro e
gliene dissi quattro. Ma non volevo ottenere favori.
Piuttosto intendevo riequilibrare una conduzione di gara
a noi assolutamente sfavorevole". E' il suo punto di
vista. Che contiene comunque un'ammissione.
DALL'ESPULSIONE AL
BLITZ - Il suo racconto: "Il Napoli è avversario tosto,
forte e quadrato. Con giocatori di classe cristallina
come Dino Zoff in porta, Totonno Juliano a centrocampo,
Josè Altafini in attacco. Sta disputando un grandissimo
torneo. E' in corsa. E se la gioca. Va in vantaggio con
Altafini che riprende una respinta di Lido Vieri. Subito
dopo l'arbitro, l'internazionale Sergio Gonella, ci
butta fuori Burgnich per un fallo su Umile. Decisione
che secondo noi non ci sta. Protestiamo, in quei primi
45 minuti ci sentiamo presi di mira dal direttore di
gara e non ci va giù". Sotto di un gol e in dieci contro
undici, l'Inter vede svanire la Grande Rimonta. Ma
attenti al colpo di teatro. "Finito il primo tempo,
mentre i compagni sono nello spogliatoio, io mi dirigo
in quello dell'arbitro Gonella. Entro come una furia e
lo aggredisco verbalmente. Rammento di avergli detto che
non poteva arbitrare in quel mondo, che ci stava
penalizzando gravemente e di aver usato qualche
espressione colorita il cui senso era: o si dà una
regolata o da San Siro usciamo tutti fritti, finisce
male: noi, perché perdiamo partita e scudetto e lei,
perché con il suo arbitraggio sarà stato il principale
responsabile della sconfitta. Gonella è esterrefatto, mi
dice qualcosa del tipo: "Mazzola, esca immediatamente da
qui, ma cosa fa, come diavolo si permette?". Mi guarda
assolutamente sconcertato e ha ragione...".
IL RIGORE DI BONIMBA
- Secondo tempo. Cambia tutto. L'Inter attacca a testa
bassa e dopo neppure dieci minuti ottiene un rigore.
Contestatissimo a dir poco, anche 40 anni dopo: un
(ipotetico) fallo di ostruzione in area di Panzanato che
protegge l'uscita di Zoff proprio dall'arrivo di
Mazzola. Per giunta, Boninsegna lo realizza fermandosi
platealmente nella rincorsa. Altafini mima la scena con
Gonella chiedendogli almeno di far ripetere il penalty.
Nulla da fare. A quel punto il Napoli perde la testa e
la partita. Zoff, innervosito, compie una delle sue
rarissime papere non trattenendo un colpo di testa in
acrobazia sempre di Boninsegna che quasi si spacca una
tempia mentre il difensore Panzanato cerca un plastico
rinvio. Inter 2, Napoli 1. Lo scudetto prende una sola
strada e non porta a Sud.
SQUADRA DI CAMPIONI
- Mazzola ammette, ma non ammaina la bandiera
dell'orgoglio interista: "Col senno di poi,
probabilmente, misi addosso un tale senso di colpa a
Gonella che finii per condizionare il suo arbitraggio.
Sinceramente penso che alla fine avremmo vinto lo
stesso: in quella squadra c'erano sei o sette giocatori
dell'Inter che aveva dominato il mondo. E poi ragazzi
del calibro di Mauro Bellugi, Mario Giubertoni, Vieri,
Bertini, un regista dai piedi buoni come Mario
Frustalupi e quel gran goleador acrobata che era Bonimba
Boninsegna. Per non parlare di due "bambini" che
avrebbero fatto tanta strada: Ivano Bordon e Gabriele
Oriali. Tanta roba, insomma. Giocatori tecnici e dal
carattere indomito, altrimenti non avremmo firmato
quella strepitosa rimonta. Era una corsa a tre, noi, il
Napoli e il Milan. Curioso, proprio come adesso...".
g. marino@repubblica.
it
(31 marzo 2011)
http://www.repubblica.it/rubriche/la-storia/2011/03/31/news/un_prete_la_tabella_e_una_mia_follia_cos_firmammo_la_grande_rimonta-14343931/
Mauro Bellugi. Non era mica tanto un
posto da figurine, Buonconvento.
Soprattutto in quei tempi lì, che giocare in serie A era
proprio una roba da astronavi, e i calciatori avevano
quasi tutti cognomi veneti o lombardi. Più qualche
friulano, come Capello e Zoff. Il “Paron” Rocco, il
“Vecio” Bearzot e il telecronista (ex calciatore) Bruno
Pizzul.
Ma che, un giorno, nell’album Panini potessimo leggerci
Buonconvento, beh… Quello superava nettamente ogni
nostra fantasia.
Eppure, successe davvero… Mauro Bellugi, nato il 7
febbraio 1950 a Buonconvento (SI)
eccetera eccetera.
Altezza 183, peso 74 che in quell’Italia non ancora ipervitaminizzata è quasi un fisico da marcantonio.
Una carriera fulminea per il figliolo dell’orefice che
ha la bottega in via Soccini, sotto lo splendido palazzo
comunale. Già titolare fisso a sedici anni nello
squadrone bianconero, e così bravo e autorevole nel suo
ruolo (stopper, si diceva allora) da meritarsi i
complimenti di Mauro Bettarini, che all’epoca è lo
Jascin del calcio dilettanti.
E poi la “leggenda nera” del fantomatico, memorabile
provino a Sinalunga, dove al grande Lidio Scarpelli
bastano dieci minuti d’orologio per rimandarlo al
mittente, senza tanti complimenti: “Non c’era bisogna di
scomodarsi fino a Buonconvento… Che un pezzo di legno
del genere si trova anche alla falegnameria Parri, qui
dietro l’angolo”, sentenzia quel leggendario allenatore.
Sono anni di grandi sogni, quelli. Di sogni, ma anche di
millantati crediti: dove ogni camposportivo di provincia
può vantare un suo piccolo Pelè che da ragazzo ha
suscitato l’interessamento della Juve (o della
Fiorentina), ma poi è successo qualcosa di
imponderabile, tipo un diploma di geometra da
conseguire, una mamma che si è messa di traverso o un
ginocchio che è saltato sul più bello.
“Il figliolo dell’orefice” di Buonconvento, invece,
compie percorso inverso: così, sfuma il Sinalunga e
dietro l’angolo arriva… l’Inter.
L’Inter vera, dico.
Non l’A.C Interportuale Pisana o l’ U.S. Interscambio
pallets di Sesto Fiorentino. Proprio la gloriosa FC
Internazionale di Milano, Corso, Facchetti, Jair,
Mazzola e tutta quella roba lì… Campione d’Italia
1970-71 con Invernizzi allenatore, Boninsegna
capocannoniere e Bellugi stopper: a prendersi i
rimproveri non più di Giancarlo Fogliani, nella
trasferta a Casciano di Murlo, ma di Tarcisio Burgnich.
Che nemmeno un anno prima marcava Pelè, all’Azteca di
Città del Messico.
inventata di sana pianta in quelle emittenti dove si
parla di pallone a getto continuo, e che hanno quasi
tutte sede a Milano. E dove la sua competenza, unita
alla dialettica sapida e guizzante del Toscanaccio di
Buonconvento sono il valore aggiunto alle trasmissioni…
Anche se del Toscanaccio di Buonconvento, nel “figliolo
dell’orefice”, c’è rimasto pochino. E al suo posto c’è
piuttosto “el sciur Bellugi”, che talvolta indulge
persino ad un improbabile accento meneghino.
Ecco.
Dall’altro ieri il nostro splendido campione non ha più
le gambe.
Detta così è una roba raggelante, una di quelle notizie
da telegiornale che fanno rabbrividire: e per evitare
l’infezione dilagante del Covid hanno dovuto amputarle
entrambe.
Così, è toccato sentire anche questo strazio, alla fine
del disgraziatissimo 2020. Una notizia che riempie di
tristezza e di scoramento, anche se il personaggio è un
tipo tosto, e pare abbia reagito da par suo: con grinta
ma anche con una certa ironia spavalda, spalleggiato da
un’ammirevole forza d’animo, e dalla sua famiglia che
non lo ha mollato un attimo.
Ed è proprio a Mauro Bellugi, “il figliolo dell’orefice”
di Buonconvento, che va il nostro pensiero.
(dal web)
riposa in
pace, grande Mauro
Il
rag. dott. Ivanhoe Fraizzoli
mi riceve nella stanza dei bottoni
della Luigi Prada S.p.A. La manifattura è a pianterreno. Al piano
nobile riposa Lady Renata nella pinacoteca di famiglia. Un miliardo
di quadri (e anche più), da Giotto a Tintoretto. Si dovrebbe
parlare dell'Inter, ma si finisce per parlare di tutto, anche di
pittura.
"Quindici anni fa - confida il presidente - mi è sfuggito un
polittico di Paolo Uccello che era una meraviglia e non sono più
riuscito a rintracciarlo. Non l'avevo preso subito perché lì per
lì non sapevo dove metterlo, dato che era lungo e stretto. Me ne
sono pentito perché era bellissimo. Rappresentava il ritorno del
guerriero, in cinque scene. C'erano le armature rinascimentali,
raccontava in maniera emblematica la storia di quell'epoca. E io
sono appassionato di storia".
- Se ha comprato tutti questi quadri, sarà anche appassionato di
pittura.
"La passione me l'ha trasmessa mio suocero. Io forse ho una
cultura superiore, anche se non mi intendo di arte perché ho fatto
gli studi tecnici. Lui però aveva una grande sensibilità per il
colore. Grazie a questa sensibilità ha messo insieme anche una
notevole fortuna".
- Comprare quadri dicono che è anche una forma di investimento.
"A me non passa nemmeno per la testa. Non riesco a capire chi
compra i quadri e poi li deposita in banca. Per investimento si
devono comprare i gioielli, non i quadri. I quadri servono a
trasmettere serenità".
- Chissà come le sono servite le opere di Caravaggio quando l'Inter
andava male.
"In quei momenti l'Inter l'avrei mollata tante volte se non
fosse stato per mia moglie. Le darei un dispiacere troppo grosso
se le togliessi l'Inter".
- Ma è vero che comanda Lady Renata?
"Quando lo leggo sui giornali mi metto a ridere perché si
tratta di una barzelletta. Renata comanda in casa, perché è
giusto che sia così, la casa è il regno della donna. Io ho già
tante preoccupazioni con l'Inter e il lavoro e queste gliele
lascio volentieri, ma in ufficio comando io".
- E all'Inter chi comanda?
"All'Inter comandano gli allenatori. E se la squadra va bene,
il merito è loro. Se invece le cose vanno male la colpa è del
presidente che è un pirla. Di me si ricordano solo le coglionate".
- A cosa allude?
"A Massa. Tutti a darmi addosso perché nel Napoli sta
giocando bene. Io l'avevo preso perché lo voleva già Heriberto
e Invernizzi aveva insistito tanto. Per cedere Massa la Lazio volle
assolutamente Frustalupi e Dio solo sa quanto mi dispiacque
privarmi di Frustalupi".
- Dicevamo di Massa...
"All'Inter ha avuto prima Invernizzi, poi Masiero, dopo
Herrera e ancora Masiero. Tutti lo hanno bocciato. E' arrivato
Suarez e non si opposto alla sua cessione. Voglio dire che Massa
è stato valutato da cinque allenatori, ma adesso che fa scintille
nel Napoli la colpa è del presidente che l'ha dato via".
- E' vero che gli ultimi acquisti dell'Inter sono stati suggeriti
da Suarez?
"E' vero ma non è che ci volesse un cervellone per scoprire
quello che serviva all'Inter. Lo sapevano tutti che occorreva un
centrocampista da affiancare a Mazzola che resta il nostro uomo
squadra, poi serviva una punta e un'ala tornante e non è che il
mercato offrisse molto".
- Avete insistito invano con la Fiorentina per Merlo.
"Ho pure supplicato Ferlaino di darmi Esposito ma non c'è
stato verso. Senza contare che ogni anno chiedo a Pianelli di
cedermi Pulici. Io Pulici lo chiedo da quando esiste. Il primo
anno segnò un gol all'Inter lasciando di sasso Burgnich e io
capii che sarebbe diventato un grande centravanti. Ogni volta che
incontro Pianelli gli dico: me lo dai Pulici? E lui risponde
invariabilmente: te lo do quando me ne vado".
-Ma è vero che certi acquisti li impone Lady Renata?
"Mia moglie ragiona da tifosa. Pretenderebbe di non cedere
nessun giocatore dell'Inter e insiste per comprare i più bravi
delle altre squadre. Se la lasciassi fare, farebbe come i bambini.
Fa pure il tifo per le squadre che hanno qualche ex giocatore
dell'Inter. Non le dico come tifa per il Genoa da quando il Genoa
ha Corso".
- Ma perché, se sapeva di dare un grosso dispiacere a sua moglie,
lo mandò via?
"Perché si devono rispettare i programmi degli allenatori. Io
avevo già fatto molto a salvare Corso quando Invernizzi, dopo la
sconfitta di Torino, venne a dirmi che non l'avrebbe più fatto
giocare e che a fine campionato l'avrebbe ceduto. Non potevo
accettare il programma di Invernizzi che voleva far piazza pulita
tutto d'un colpo. Le vecchie glorie bisogna diminuirle con
cautela una all'anno".
- Come andarono esattamente le cose con il "mago di
Abbiategrasso?"
"Invernizzi voleva copiare il programma della Juventus quando
arrivò Picchi. Ma Picchi chi eliminò? I Sacco e i Leoncini che non
avevano vinto nulla. Invernizzi invece voleva mettere al bando gli
idoli dei nostri tifosi a cominciare da Corso. Mi disse che tanto
non saremo andati in serie B. Ma io gli spiegai che dovevo
continuare ad andare allo stadio e non potevo rischiare la pelle
per colpa sua".
- Invernizzi risponde che poi l'Inter ha varato il programma che era
stato bocciato quando l'aveva presentato lui.
"Tanto per cominciare l'Inter negli ultimi anni ha dovuto
cambiare diversi programmi. Avevano varato un programma con
Herrera, poi il Mago è stato colpito da infarto ed è saltato
tutto. E' arrivato Suarez e abbiamo dovuto cambiare, fare un
programma diverso. Perché è logico che la squadra vada
rinnovata. Ragionando col sentimento punteremmo ancora su...
Meazza. Suarez voleva effettivamente puntare sui giovani".
- Perché Suarez è fallito come il suo piano?
"Ho sbagliato anch'io ad accettare quel piano e ho pure
sbagliato a scegliere Suarez. Non dovevo affidare l'Inter ad un
allenatore alla sua prima esperienza. Suarez doveva tornare all'Inter
qualche anno dopo. Sì è trovato di fronte ad un ostacolo troppo
grosso. Perché doveva realizzare l'"operazione
primavera" e al tempo stesso accontentare i tifosi che
pretendono risultati e spettacolo".
- Secondo lei è più difficile fare il presidente dell'Inter o il
sindaco di Milano?
"So che è difficile fare il presidente dell'Inter, non so
che ostacoli debba superare il sindaco di Milano perché sono
stato solo consigliere comunale".
- A proposito; perché non ha continuato la carriera politica?
"Perché l'Inter mi porta via tutto il mio tempo libero e
perché dagli uomini politici ho avuto troppe delusioni. Prima
delle ultime elezioni amministrative diversi partiti volevano
mettermi in lista ma io ho rifiutato. Ho spiegato che come
presidente dell'Inter non potevo presentarmi con un bottino di
vittorie. Mi sarei presentato se avessi potuto varare il centro
sportivo che vorrei costruire da anni per legare il mio nome a
un'opera importante e per lasciare qualcosa alla comunità di
Milano. E' dal 1972 che la pratica giace in qualche cassetto di
Palazzo Marino. L'insensibilità dei politici è veramente
grande".
- Ma lei è sempre iscritto alla Democrazia Cristiana?
"Sì".
- A che corrente appartiene?
"Io ho sempre cercato di pensare con la mia testa. Mi sentivo
vicino a uomini come Scalfaro, Arnaud e Forlani, soprattutto a
quest'ultimo che è uno sportivo e aveva cercato di appoggiare in
tutti i modi i miei progetti per la costruzione del centro dell'Inter".
- Pensa che Fanfani sia uscito definitivamente dalla scena dopo la
trombatura e il matrimonio o crede che tornerà a galla?
"Le confesso che non ho seguito molto le ultime vicende del
mio partito. Preferisco pensare all'Inter".
- L'anno scorso per l'Inter è stato un anno disastroso.
"Hanno parlato di deserto di San Siro per il misero incasso
di
una partita che non aveva importanza, registrato quando a Milano
pioveva da quattro giorni. Ma sa a chi appartiene il record
dell'incasso in campionato? A Inter-Juventus e l'abbiamo
realizzato l'anno scorso, in precedenza, poi, c'erano almeno tre
partite con incassi inferiori al nostro".
- Però la squadra non ha funzionato, questo è innegabile.
"Ma in trasferta abbiamo finito a meno due e con questo
quoziente di media inglese la Juventus ha vinto lo scudetto. Noi
abbiamo perso 13 punti in casa, sia per il dramma di Suarez, sia
perché il pubblico non ha voluto capire che il nostro programma era
proiettato nel tempo".
- Che cosa rimprovera a Suarez?
"Tanto per cominciare, di avermi abbandonato. Io passo per un
mangiallenatori. Ma Invernizzi volle andarsene, Herrera è stato
colpito da infarto e Suarez ha dato le dimissioni".
- Con Invernizzi adesso siete ai ferri corti. Perché non lo fa
riammettere al Circolo dell'Inter?
"E' tutta colpa della sua intervista. Ho ancora quel
"Guerino", qui nella mia scrivania. Ma io non sono capace
di odiare nessuno. Mia moglie ogni tanto mi dice: Ricordati cosa ti
ha fatto questo e cosa ti ha fatto quest'altro. Ma io non sono
capace, è il mio temperamento. Se Invernizzi fosse venuto da me e
mi avesse detto lealmente: Presidente ho sbagliato, l'avrei
perdonato. In quell'intervista rilasciata a Taranto, non si
limitava a criticarmi, arrivava a offendermi. Bella riconoscenza.
Perché è in fondo una mia creatura".
- Aveva litigato con Foni per promuoverlo allenatore in seconda.
"E prima ancora l'avevo promosso responsabile del settore
giovanile, quando detti il benservito al dottor Giulio Cappelli.
Quando fu licenziato Heriberto i giornali scrissero che i
giocatori volevano Masiero ma io preferii puntare su Invernizzi
proprio perché credevo in lui".
- Ma è vero che in seguito avrebbe voluto riportarlo all'Inter?
"Dissi a Ferlaino che se avessi potuto, l'avrei ripreso
volentieri, ma gli consigliai di portarlo al Napoli e Ferlaino era
venuto qui da me a chiedere referenze, e io gli dissi che poteva
prenderlo ad occhi chiusi. Poi Lauro gli impose Vinicio".
- E con Vinicio il Napoli è arrivato a un passo dallo scudetto.
"Ma proprio Ferlaino mi ha detto che il boom del Napoli di
Vinicio è arrivato con una squadra che era stata costruita da
Chiappella. A Napoli tutto è facile, sono arrivati secondi e
hanno toccato il cielo con un dito. Sembravano tutti impazziti
dalla gioia. Quando siamo arrivati secondi noi, è come se non
avessimo combinato nulla.
Il pubblico di San Siro è fatto così, ha il palato fino".
- Polemiche a parte, quale è il suo giudizio su Invernizzi?
"Errori me ne ha fatti commettere anche lui, perché quando
gli telefonai per dirgli che la Fiorentina era disposta a darci
Chiarugi e ad aggiungere Ferrante se avessimo ceduto Burgnich (Ugolini
e Ignesti erano seduti su quel divano lì) lui rifiutò poi per Chiarugi mi presi tutte le colpe io.
Le confido una cosa che non ho mai confidato a nessuno: Invernizzi
non volle nemmeno Savoldi"
- Sul serio?
"Può chiedere conferma a Montanari. Il Bologna offriva
Savoldi o Fedele più cinquanta milioni per Magistrelli e
Invernizzi non volle saperne. In compenso mi segnalò Bettega quando
nessuno parlava ancora di lui. Ma nel Varese era solo in prestito
e non ci fu verso di farselo dare dalla Juventus".
- A Suarez cosa rimprovera?
"Ad esempio di non aver collaudato Catellani. Molti tecnici
ritenevano Catellani superiore a Bellugi e anche per questo
avevamo dato Bellugi al Bologna.
Ma Suarez come stopper ha poi impiegato Facchetti così quando è
venuto Chiappella mi ha detto che lui Catellani non lo conosceva.
E siccome voleva uno stopper-marcatore, abbiamo dovuto prendere
Gasparini dal Verona".
- Dica la verità: è vero che nell'Inter ci sono i clan?
"Clan è un termine che fa comodo ai giornali, ma nell'Inter
ci sono i clan come ci sono in tutte le squadre, perché è umano
che vengano formati gruppetti tra i giocatori.
Solo che nell'Inter ci sono giocatori di grossa personalità e
allora vengono definiti "padrini" come se si trattasse
davvero di mafia".
- E' vero che farà di Mazzola il Boniperti della situazione?
"Non diciamolo più, perché porta jella: l'avevo già detto di
Invernizzi. Io però vorrei fare quello che aveva fatto Masseroni ai
suoi tempi. Cioè vorrei portare nel consiglio dell'Inter i più
bravi degli ex giocatori: (ho già cominciato con Rovati, che fa
parte dei probiviri), perché in un consiglio non ci vogliono solo
gli amministratori, sono necessari anche i tecnici, così si evitano
certi errori".
- Adesso il suo pupillo è Mazzola?
"Noi, cioè io Renata, vogliamo bene a tutti i grandi giocatori
dell'Inter, e in particolare a Mazzola che è stato molto
sfortunato. Prima l'hanno messo contro tutti i centravanti del
momento, poi hanno creato un dualismo con Corso, infine in
Nazionale l'hanno posto in antitesi a Rivera. Se nonostante tutto
questo, Mazzola ha resistito è perché è veramente un ragazzo
superiore. E siccome ha anche una certa preparazione culturale,
dico che dovrà restare nel calcio con cariche importanti".
- Che cosa pensa della troika azzurra Bernardini-Bearzot-Vicini?
"Non ho seguito molto la cosa, aspettiamo di vederli
all'opera".
- Lei pensa che la Nazionale debba restare alla Federcalcio o
vorrebbe che la pigliasse la Lega?
"Quando se ne parlò in Lega il problema fu male impostato.
Perché dissero che si trattava di una patata bollente che la
Federazione voleva togliersi di mano. E' vero che essendo la FIGC
al vertice dell'organigramma, la Nazionale deve appartenere alla
Federazione, ma la FIGC raggruppa anche i semi-professionisti e i
dilettanti che vanno senz'altro aiutati ma hanno fini diversi. E io
allora dico che siccome la Nazionale è formata da giocatori della
Lega professionisti, dovrebbe essere la Lega a gestirla".
-Lei è anche per la riapertura delle frontiere, non è vero?
"Certamente, perché solo così si potrebbe offrire nuovamente
lo spettacolo e si calmierebbero certi prezzi delle
"speranze" che ora dobbiamo comprare a peso d'oro perché
il mercato non offre molto. L'ho detto anche a Onesti, che ho
costretto tra l'altro a rimangiarsi la definizione di "ricchi
scemi" che ci aveva affibbiato. Tutto lo sport italiano vive
con i proventi della schedina, cioè del calcio. Ebbene, tutte
le federazioni mantenute dal calcio possono importare gli
stranieri, persino la pallavolo, solo al calcio è proibito. Tutto
questo è assurdo".
- Ma la maggioranza delle società sono contrarie.
"Questa è una decisione che va presa al vertice, perché è
logico che l'Avellino l'Ascoli Piceno preferiscano il regime
attuale, ma è la Federcalcio che deve imporre l'importazione
degli stranieri, anche nell'interesse del calcio italiano.
Pigliamo le due più forti squadre europee, Germania e Olanda:
hanno le frontiere aperte, possono importare tutti i giocatori che
vogliono".
- Come vede il futuro del calcio italiano?
"Bisogna fare qualcosa per superare questo impasse. Oggi ci
sono almeno otto squadre che hanno ambizioni di scudetto. Queste
squadre non cedono i loro uomini-chiave e quindi è un giro
vizioso.
Ai tempi di Moratti era molto più facile costruire lo
squadrone".
- L'Inter ha sbagliato spesso la campagna acquisti...
"Ma errori ne hanno commessi tutti, compreso Allodi. I primi
mesi rimase al mio fianco. Ricordo che mi sconsigliò di
prendere Albertosi e fu lui, inoltre, ad acquistare Salvemini,
visto che Foni voleva un attaccante in più".
- Ma a volere Salvemini fu Foni o Allodi?
"Veramente noi volevamo Riva e Scopigno era disposto a
darcelo a patto che gli procurassimo Vastola che allora giocava
nel Varese, poi invece di Riva il Cagliari ci dette l'opzione che ho
ancora in cassaforte. Per darci Vastola, il Varese voleva
assolutamente Achilli e Foni mi chiese un attaccante di rincalzo.
Facemmo la cernita delle punte disponibili, avremmo preferito
Barison ma naturalmente non era certo possibile smuoverlo da
Napoli.
Così ripiegammo su Salvemini, che tra l'altro ricordo con piacere,
perché era un bravo ragazzo".
- L'Inter attuale cosa farà?
"Io ho fatto tutto quanto mi è stato possibile per
accontentare l'allenatore, ora tocca a Chiappella".
- Lei crede alla decadenza di Milano?
"La decadenza di Milano è cominciata trenta-quarant'anni fa,
quando poco a poco tutti gli uffici burocratici sono stati
trasportati a Roma, ma in campo industriale Milano è sempre all'
avanguardia".
- Alfa Romeo e Innocenti sono in cassa integrazione.
"Ma perché producono automobili e il mercato automobilistico
è in crisi dappertutto".
- I tifosi che hanno una busta paga ridotta dovranno rinunciare
allo stadio.
"Anche per questo noi e il Milan per i popolari abbiamo
lasciato i prezzi dell'anno scorso. Ma Milano può contare su un
hinterland ricco, non ci sarà crisi, naturalmente se le squadre
gireranno a dovere".
- Cosa pensa dei casi di Rivera e di Chinaglia?
"Ho già tante rogne con l'Inter, non voglio preoccuparmi
anche di quelle degli altri".
- E' vero che ha il complesso del "Corriere della Sera"?
"Questa è un altra storia che è stata messa in giro sul mio
conto. Io sono milanese e i milanesi da sempre hanno tre cose:
il duomo, il panettone e il Corriere".
- Ma il "Corriere", secondo lei, è cambiato?
"E' cambiato eccome, ma lasciamo perdere queste cose,
parliamo di calcio. Io non amministro l'Inter come privato
cittadino, l'amministro per conto della città, e devo quindi
tener presente anche quello che pensa la opinione pubblica.
E siccome la opinione pubblica è orientata dal "Corriere"
devo preoccuparmi di quello che scrive il "Corriere". Come
di quello che scrivono gli altri giornali milanesi, a cominciare
dal "Giornale Nuovo" che è scritto da persone che hanno
dato lustro anche al "Corriere". Siccome poi si tratta di
sport, devo dare credito anche alla "Gazzetta dello
Sport", perché ai miei tempi la "rosea" era un po'
l'organo ufficiale del calcio italiano.
Però non mi lascio influenzare da nessuno, faccio sempre di testa
mia".
- Non segue nemmeno i consigli di Lady Fraizzoli?
"Se avessi dato retta a mia moglie non avrei certo dato via
Corso".
- Cosa pensa di questa Italia dove i rapimenti sono all'ordine del
giorno?
"Viene un senso di tristezza e ho passato brutti momenti,
quando sono stato minacciato anch'io, ho perso la mia privacy,
perché bisogna circolare con le guardie del corpo ed evitare di
uscire di sera".
- Il suo parere sul rapimento di Sannella?
"Io mi auguro che non l'abbiano rapito".
- Ma è vero che era inguaiato?
"A me non deve nemmeno una lira quindi io non posso che dirne
bene. Però non dovete continuare a scrivere che ha scoperto
Jair. Sannella ha portato Cinesinho ma non Jair. Ero in Brasile,
ho seguito tutta la vicenda.
A segnalare Jair fu un certo Ricci, amico di un agente della
Mondadori. Jair venne segnalato a Mondadori che allora era
presidente del Verona, allora Sannella curava una pubblicazione
che si stampava a Verona. Mondadori girò la soffiata a Moratti e
Sannella andò in Brasile per conto dell'Inter a prelevare quel
Jair che però non aveva mai visto e che era stato segnalato dal
Ricci".
- Ha più rivisto Herrera?
"L'ho visto qualche mese fa quando abbiamo giocato
l'amichevole a Treviso".
- Crede nel suo recupero?
"Se avessi creduto nel suo recupero, Herrera sarebbe ancora
all'Inter.
dal
Guerin Sportivo del gennaio 1976ANTEFATTO
GENNAIO
1976: L'Inter di Fraizzoli conduce l'ennesima stagione mediocre
nonstante i tanti proclami dell'estate, la mitica Lady Renata
rilascia una gustosissima intervista veramente d'altri tempi...
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GUARDA L'INTER IN QUESTO TORNEO |
|
1° turno: Inter - AEK Atene
4-1 2-3
Ottavi: Inter - Borussia
Monchengladbach
4-2 0-0
|
|
Quarti di finale: Inter -
Standard Liegi
1-0 1-2
Semifinale: Inter – Celtic
0-0 5-4
|
GIUBERTONI RACCONTA.
"Vi racconto l'ultima finale dell'Inter. La
Coppa valeva 10 milioni di lire"
Era il 1972 e Giubertoni costituiva con
Burgnich, Bellugi e Facchetti la Maginot
dell'ultima Grande Inter capace di arrivare
in finale di Coppa Campioni. L'ex stopper
svela come quella squadra giunse a un passo
dal trofeo
Mario
Giubertoni "Le confesso un segreto: davvero
questa non l'ho mai raccontata. Ha presente
quella battaglia di Glasgow contro il Celitc
in semifinale? Mamma mia, noi in trincea e
loro che arrivavano da tutte le parti. Con
Tarcisio, Giacinto, Mauro
e Lele, lo posso
dire, alzammo un muro là dietro in difesa.
Zero a zero come all'andata. In ballo c'era
la finale. Finì ai rigori e il sesto
rigorista dell'Inter ero io. Così aveva
deciso Gianni Invernizzi. Ma vincemmo 5 a 4:
fortuna che gli scozzesi sbagliarono e Jair
no, perché nella mia vita non ho mai
calciato un rigore e non so proprio come
avrei fatto. Mise tutto a posto il nostro
brasiliano, che giocatore". Retroscena e
ricordi dall'ultima grande campagna
interista in Coppacampioni: stagione
1971-72, quando i nerazzurri raggiunsero la
finale."
Quel torneo è il massimo per uno che
di mestiere fa il calciatore, credetemi",
spiega con fresco entusiasmo Mario Giubertoni che di quella squadra (Mazzola,
Boninsegna, Corso, Burgnich, Facchetti,
Oriali per fare qualche nome) era un
gregario, sì, ma davvero prezioso. "I piedi
non erano dolci, ma di correre correvo,
marcavo a uomo, avevo scatto e gran fisico e
soprattutto lasciavo ogni energia sul campo:
sarà per questo che ho sempre giocato", si
descrive così il "Giube", 1 scudetto, 1
finale di Coppa dei Campioni, 154 gare e 1
rete nei 7 campionati nerazzurri, 21
presenze nelle rassegne europee, 39 e 1 rete
in Coppa Italia. Quasi non fossero trascorsi
38 anni da allora, Mario rivive
quell'esperienza rammentando dettagli e
svelando aneddoti di una squadra e di un
calcio ancora carichi di suggestioni. "Io le
giocai tutte tranne una, ecco come arrivammo
fin là. Che so? Magari porta bene agli
interisti di oggi", sorride dalla sua casa
nel modenese, tradendo ancora un forte
attaccamento per quei colori, e per quelli
rosanero del Palermo, le due formazioni in
cui si è affermato come un difensore arcigno
e difficilmente superabile nei suoi anni
migliori.
MAZZOLA,
BONIMBA E LA REGIA DI INVERNIZZI
- "Dunque la prima fu
con l'Aek Atene, esordio a San Siro. Io
stavo addosso a un peperino, un piccoletto
micidiale, nome da scioglilingua. Passammo
in svantaggio, poi Mazzola, Facchetti, Jair
e Bonimba misero una ipoteca sul passaggio
del turno. Ma Atene, al ritorno, chi se la
dimentica? Il pubblico si faceva sentire,
l'arbitro ne era condizionato e i nostri
avversari sembravano come sospinti dai
tifosi. Perdemmo 3 a 2 e passammo il turno.
Negli spogliatoi guardai in faccia i
compagni: capii che saremmo andati lontano".
Ma come era quello spogliatoio, quegli
ultimi sprazzi da Grande Inter, chi
comandava e cosa faceva l'allenatore per
farsi sentire? "Allora, per capirci, quando
hai in squadra gente tipo Corso, Facchetti,
Mazzola, Jair, Boninsegna, Burgnich, Bedin,
Bertini, Frustalupi, l'allenatore serve solo
a mantenere il giusto equilibrio e l'armonia
più fuori che dentro al prato verde. Perché
lì, questa gente, ne sa più di qualsiasi
allenatore e va in automatico. Tu ai
Mazzola, ai Facchetti, ai Boninsegna e ai
Corso cosa potevi mai insegnare? Ecco,
Invernizzi era bravo a gestire gli equilibri
e ottenne in due anni fantastici risultati:
lo scudetto della rimonta sul Milan (eravamo
a meno sette) e la finale di Coppacampioni
l'anno successivo. Quanto mi manca
Gianni".
CHE
BOTTE CON HEYNCKES
- Arriva lo scontro, passato alla storia del
pallone, contro il Borussia di Netzer. Ci
vogliono tre partite per capire chi passa.
"Ma la prima non conta - ci tiene a
precisare il "Giube"- quel sette a uno è
falso come Giuda. Bonimba prese una lattina
in testa quando eravamo sul 2 a 1 per loro e
per noi era finita lì. Eravamo certi del 2 a
0 a tavolino e giocammo come fosse un
allenamento, senza impegno. Quel 7 a 1 è una
favola tanto è vero che poi a Milano gliene
rifilammo 4 (a 2) con Mauro Bellugi che fece
un gol da cineteca che non avrebbe mai più
fatto e poi ancora Bonimba, Jair e Ghio.
Certo, il ritorno a Berlino fu un assedio:
ma Ivano Bordon fu letteralmente miracoloso,
parò pure un rigore a Sieloff e io, in
quell'assalto durato novanta minuti, la
palla l'avrò presa sì
e no due volte". Due volte e basta? "Sì,
perché marcavo il grande Jupp Heynckes ed
entrambi trascorremmo quella serata a fare a
botte: spintoni, calcioni, gomitate,
sgambettii. Un corpo a corpo. Alla fine
uscii dal terreno come un pugile, ammaccato
e tumefatto, ma vincente". E non
espulso..."Ma io ero fisico, mai violento.
Nella mia carriera mi hanno buttato fuori
solo una volta. Giocavo nel Palermo e
marcavo quel dribblomane talentuoso di
Claudio Sala. Un tipo che mi piaceva perché
le prendeva e le restituiva, ma non stava lì
a piangere. L'arbitro ci richiamò e noi
niente, continuammo a pestarci. Alla fine ci
cacciò entrambi e con ragione".
SOFFERENZA
LIEGI - "Nei
quarti, dopo aver superato il Borussia, ci
sentivamo sicuri di poter fare fuori
facilmente lo Standard Liegi. Che errore: a
San Siro faticammo da matti per vincere uno
a zero con gol di Jair. Loro avevano un
portierone: Piot, che era anche quello della
nazionale. E a Liegi rischiammo
l'eliminazione. Andammo sotto e quando si
faceva nera una splendida azione di
Pellizzaro a dieci minuti dalla fine mandò
Mazzola in gol. Era fatta. Il 2 a 1 finale
non contava nulla. Ci aspettava il Celtic
Glasgow".
FINALE DI RIGORE
- "Non giocai l'andata per infortunio. Nel
ritorno marcai il loro centravanti: un gran
giocatore. Loro davanti avevano calciatori
come Dalghish, Macari e Johnstone, abili e
potenti. Un giovanissimo Lele Oriali fece un
partitone proprio contro Johnstone. Fu
durissima. E, come ho detto, prevalemmo ai
rigori: Mazzola, Facchetti, Frustalupi,
Pellizzaro e Jair furono implacabli. Per
loro sbagliò Deans e tanto bastò. Mi sentii
uno dei più forti d'Europa perché ero in
finale nella Coppa dei Campioni".
CRUIJFF, IL MIGLIORE
- "Che sfortuna: la finale si giocava a
Rotterdam, praticamente in casa dell'Ajax.
Ci credevamo lo stesso: Invernizzi mi disse
di marcare Muhren, il loro centravanti
arretrato e siccome indietreggiava mi
consigliò di spingermi anche in avanti. Lo
feci, ma al dodicesimo del primo tempo
durante un mio spunto offensivo Blankenburg
mi sfasciò la caviglia con una
entrata-killer. Fui costretto a uscire,
sostituito da Bertini. Guardai il resto del
match dalla panchina e vidi uno spettacolo,
per allora, assolutamente inedito: il calcio
totale all'olandese. Cruijff per me era e
forse resta il migliore calciatore del
mondo: aveva tutto, era un leader, col suo
scatto lasciava chiunque dieci metri dietro,
tirava, passava, colpiva di testa, scartava,
lanciava. E poi Haan, Suurbier, Neeskens,
Krol, Keizer. Cedemmo nella ripresa: due
volte Cruijff. La prima per una
incomprensione tra Oriali e Bordon,
giovanissimi ma già bravissimi. Può
succedere. Il mio sogno finì lì".
UN
PREMIO DA 10 MILIONI DI LIRE
- Davvero altri tempi il calcio anni
Settanta: "Avessimo vinto il premio sarebbe
stato di dieci milioni di vecchie lire se
non ricordo male", sorride Giubertoni che
dopo il calcio ha fatto "prima l'artigiano
in una azienda di maglieria e poi il
coltivatore di pere in una campagna di mia
proprietà": Adesso, a 65 anni, è in pensione
e si gode la tranquillità: "Sono in pace con
me stesso, avrei anche il patentino da
allenatore ma non fa per me. Si vive, e
bene, anche senza calcio. Ma chi la
dimentica quella Coppacampioni: ho ancora le
maglie di Aek, Borussia, Standard, Liegi,
Celtic e Ajax che ci scambiavamo a fine
match. E poi, scusi, quando sono uscito, a
Rotterdam, eravamo ancora imbattuti e come
mi diceva il presidente Fraizzoli, "Caro
Giube, ci fossi stato tu in campo non
avremmo mai perso". Mentiva, una affettuosa
e simpatica bugia che però mi inorgoglisce
ancora oggi e mi riporta a quella splendida
avventura sportiva".
http://www.repubblica.it/rubriche/la-storia/2010/03/31/news/ultima_finale_inter-3040869/
Da
Moenchengladbach, quella volta tomai col
soprabito macchiato di Coca Cola. La lattina
più famosa
del
calcio europeo, infatti volò verso la nuca
di Bobo Boninsegna passando esattamente
sulla mia testa, e su quelle di Oddone
Nordio, del "Carlino", ambedue inviati al
seguito dell'Inter in Coppa Campioni. Gli
spruzzi di un liquido scuro (dapprima si
pensò fosse birra nera) mi sembra di vederli
ancora luccicare nella luce dei fari. E
ricordo, come fosse ieri, l'impatto,
durissimo, con la testa di Boninsegna. Che
crollò a terra, tramortito. E vidi,
altrettanto distintamente, Sandro Mazzola
chinarsi, raccogliere qualcosa, consegnarlo
all'arbitro, il disorientato olandese
Porpman. Mi voltai di scatto: un giovane,
biondo e atticciato, cercava di sgattaiolare
dal suo posto di tribuna, ma fu subito
afferrato da un paio di poliziotti che lo
trascinarono via senza complimenti. Avevo un
impermeabile chiaro: le macchie di Coca Cola
lasciarono un tenue alone anche dopo le
fatiche del "Lavasecco", al ritorno in
Italia.
L'episodio, clamoroso, fece epoca. La
partita fra il Borussia e l'Inter valeva per
gli ottavi di finale della grande Coppa. I
nerazzurri avevano vinto lo scudetto alla
guida di Gianni Invernizzi, subentrato a Heriberto Herrera alla sesta giornata del
torneo, dopo un derby malamente perduto per
3-0 con gli eterni rivali del Milan.
BERLINO,
20.10.1971
Dunque, l'Inter in
Coppa. Elimina al primo turno i greci dell'AEK
di Atene con una certa facilità, viene
sorteggiata con il Borussia di
Moenchengladbach per il secondo. E, pur con
tutto il rispetto che si deve al calcio
tedesco, nessuno se ne preoccupa troppo.
Il Borussia era poco conosciuto in Italia. La
Germania avrebbe vinto il suo secondo
mondiale tre anni più tardi; i nomi di Berti Vogts; di Gunther Netzer; di Wimmer, del
belga Le Fèvre dicevano poco, eccezion fatta
per alcuni "specialisti" del calcio
germanico.
Boninsegna a Berlino
ad inizio partita, prima di essre colpito
dalla famosa lattina
Così, la trasferta a Moenchengladbach fu affrontata con allegria.
La comitiva si stabilì a Colonia, in un
grande abergo a poche centinaia di metri
dalla famosa Cattedrale, il gioiello
dell'arte gotica, a Moenchengladbach
facevamo una scappata, con i giocatori, il
giorno di vigilia. Una quarantina di
chilometri in direzione della frontiera con
l'Olanda, ed eccoci in una cittadina di
circa 60 mila abitanti, con un Campetto
dall'aria provinciale, tribune in legno a
ridosso del terreno di gioco, scarsa
capienza, roba da sagra di paese (infatti il Borussia, gli incontri di cassetta, li
giocava, e li gioca a Colonia oppure a
Dusseldorf). I nerazzurri tornarono in
albergo ancora più euforici: saranno
campioni di Germania, dicevano, ma hanno
tutta l'aria di essere una Pro Vercelli o un
Novara dei tempi eroici. A noi, non possono
incutere timore.
INIZIO
TERRIBILE
Invece...
Si gioca alle 20,30 del 20 ottobre 1971.
Serata fredda, ma non rigida, piove: campo
stipato, molti i tifosi italiani al seguito
dell'Inter più i soliti, entusiasti,
emigranti per ragioni di lavoro. Al via, i
tedeschi si scatenano. Impongono al gioco un
ritmo pazzesco, i nerazzurri sono subito
travolti. Al 7', il Borussia è già in gol
con Heynckes, centravanti di enormi
possibilità, che Giubertoni, lo stopper
nerazzurro, non riesce a controllare.
Vigorosa reazione dell'Inter, gol di
Boninsegna (un arcigno guerriero, che nelle
aspre battaglie di Coppa ci sguazzava come
una foca nel mare gelato) al 18', replica
bruciante di Le Fèvre al 19'. La partita è
sempre più veloce, sempre più combattuta,
sempre più dura per i nerazzurri che,
tuttavia, lottano come leoni. Poco prima
della mezz'ora, il fattaccio. Vola la famosa
lattina, Boninsegna stramazza al suolo, lo
portano via a braccia, fra i clamori del
pubblico inferocito contro, i soliti
italiani maestri nel "fare la scena".
L'arbitro, che penso non si fosse mai
trovato in simili frangenti, non sa che
pesci pigliare.
I
nerazzurri lo attorniano, chiedono la
sospensione di gioco, a stento trattenuti da
Invernizzi, volato sui campo per cercare di
calmare gli animi. Lo stadio è una bolgia,
pochi sì accorgono del fermo del teppista
che ha lanciato la lattina (ripeto: lì per
lì si pensò ad una lattina di birra scura,
sapemmo soltanto più tardi, in albergo, che
si trattava invece di Coca Cola), finalmente
il gioco riprende.
Ma l'Inter, sicura di
avere già partita vinta per 3-0 secondo i
regolamenti italiani vista la riscontrata
impossibilità da parte di Boninsegna di
riprendere il gioco, manda in campo Ghio
e... lascia via libera al Borussia. Che
colpisce ancora ben cinque volte, subito con
Le Fèvre, poi con Netzer alla chiusura del
primo tempo, ancora con Heynckes e Netzer
alla ripresa, per toccare quota 7 a 1 con un
rigore fasullo, decretato comicamente
dall'arbitro all'ultimo minuto e realizzato
da Sieloff. A Corso saltano i nervi e prende
a calci l'arbitro.
Si tentò,
goffamente, di incolpare Ghio (che non
accettò il sacrificio...). Corso,
squalificato, non giocò più contro il
Borussia
Si torna
a Colonia dopo un assedio, senza
conseguenze, allo spogliatoio dell'Inter.
Boninsegna non si fa vedere, ma si apprende
dal medico sociale, quel gran galantuomo del
dottor Angelo Quarenghi, che il giocatore è
in stato di choc; che presenta una vasta
ecchimosi; che è stato visitato anche dal
medico del Borussia, dopo di che è stato
fatto un esposto alla Polizia locale.
Insomma: sembra pacifico che l'Inter abbia
vinto a tavolino quando il DS nerazzurro,
Franco Manni, scende dalla sua camera
agitatissimo. E dice, quasi gridando, a
Prisco, vice-presidente dell'Inter e
luminare del Foro milanese: "Avvocato,
guardi qui: nel Regolamento dell'UEFA non è
previsto un caso come questo... Ho sfogliato
dieci volte il volumetto, nella versione in
francese; niente!". Costernazione e stupore.
Possibile che l'UEFA non abbia previsto le
sanzioni a carico di una Società colpevole,
per il principio della responsabilità
oggettiva, dell'atto teppistico di uno dei
suoi sostenitori? Incredibile, ma vero: non
c'è traccia di niente. Le ore trascorrono in
consultazioni febbrili, Prisco sviscera
tutti i cavilli di ogni capoverso del
Regolamento (poche, scarne paginette):
niente da fare. L'Inter, che dopo l'uscita
dal campo di Boninsegna aveva giocherellato,
tranquilla, convinta di aver già in tasca il
3-0 a tavolino, quindi in pratica il
passaggio ai quarti di finale, rischiava di
essere sbattuta fuori con un 7-1 che avrebbe
fatto clamore per anni. Nessuno toccò il
letto, quella notte a Colonia nell'albergo
dei nerazzurri. E il viaggio di ritorno in
Italia fu tutt'altro che, allegro.
La lattina
di Boninsegna
di Bidescu
Roberto Boninsegna, ex
centravanti dell'Inter, del Cagliari, della
Juventus ed eroe dello squadrone azzurro
secondo in Messico nel 1970, tanti anni fa
andò a giocare in Germania, a Colonia, una
partitella di "vecchie glorie", insieme a
Facchetti, Bellugi, Rosato, Altafini, Sala
"il poeta" contro tedeschi gloriosi come
Haller, Netzer, Vogts, Schutz. Una festa,
una di quelle belle e sane rimpatriate che
riconciliano con il calcio inteso finalmente
solo come spettacolo e non "guerra" per i
tre punti. Ma, se Facchetti, Rosato, Bellugi,
Haller e Netzer furono accolti in campo da
applausi e simpatia, lui, "Bonimba" venne
invece subissato di fischi dal pubblico di
Colonia da quando mise piede sul terreno di
gioco, fino alla fine della partita.
Boninsegna sarà pure
stato un grande cannoniere di Inter,
Cagliari, Juve ed eroe azzurro, ma per i
tedeschi è e resterà sempre "quello della
lattina". Ecco come andò la storia.
Era il 20 ottobre del
1971. L'Inter, dopo aver vinto lo "scudetto
del sorpasso", quello che, sotto la guida di
Invernizzi, aveva rimontato sette punti al
Milan di Liedholm, era impegnata nel secondo
turno della Coppa dei Campioni. Il sorteggio
le aveva affidato una squadra tedesca, il
Borussia di Moenchengladbach che non aveva
una grande caratura internazionale, anche se
nelle sue file allineava campioni come
Netzer, Vogts, Wimmer, Bonhof ed Heynckes. I
nerazzurri, invece, potevano contare sui
vari Mazzola, Burgnich, Facchetti, Corso,
Boninsegna, Jair, giocatori che avevano
vinto su tutti i campi del mondo. Convinti
di passare agevolmente il turno, i giocatori
dell'Inter entrarono nel piccolo stadio di Moenchengladbach, davanti a ventimila
spettatori, con una certa sufficienza.
Invece si sbagliavano
di grosso, perché stavano andando incontro
ad una delle più sonanti sconfitte della
loro storia, un 7-1 umiliante e clamoroso
che ancora adesso è tra le disfatte più
vistose della società. Quel 7-1 però è stato
cancellato dal tabellone della Coppa dei
Campioni ed all'atto pratico è come se non
fosse mai successo niente.
Era il 29' del primo
tempo. Il Borussia conduceva per 2-1. Aveva
segnato prima Heynckes, Boninsegna aveva
pareggiato, ma l'ala sinistra danese Le
Fevre, aveva riportato in vantaggio i
tedeschi. Il pallone era uscito in fallo
laterale; Boninsegna era andato a
raccoglierlo, per effettuare la rimessa, e
stava per lanciarlo verso Jair, quando con
un grido, era piombato a terra. Una lattina
di Coca-Cola l'aveva colpito alla nuca
facendogli perdere i sensi. Successe il
finimondo: Invernizzi scattò dalla panchina,
giunsero medico e massaggiatore e tutti i
giocatori, compagni e avversari, fecero
cerchio attorno al centravanti svenuto.Una
confusione enorme, un caos indescrivibile
durante il quale soltanto due giocatori non
persero la testa. Uno fu Netzer. il biondo
centrocampista del Borussia che poi sarebbe
diventato un pilastro della nazionale,
l'altro Sandro Mazzola. Il primo pensò a far
sparire la lattina lanciandola
immediatamente fuori dal campo, il secondo
corse a recuperarla conscio dell'importanza
di poter esibire il corpo del reato
nell'eventuale processo. Ma torniamo a "Bonimba".
Il centravanti restò
intontito per qualche minuto. Poi l'arbitro
olandese Dorpmans fu costretto ad ordinare
la ripresa del gioco e l'Inter provvide alla
sostituzione di Boninsegna. Entrò al suo
posto Ghio. II Borussia riprese ad
attaccare, i nerazzurri apparvero sempre più
frastornati dal ritmo degli avversari e
dall'urlo della folla e fu un disastro: 4-1
alla fine del primo tempo e 7-1 il risultato
finale.
Ma il giorno dopo si
scatenò la battaglia legale ed entrò in
campo l'avvocato Giuseppe Prisco,
vicepresidente nerazzurro. Fece ricorso alla
commissione disciplinare dell'Uefa,
sostenendo che la partita non poteva essere
giudicata regolare, in quanto l'Inter non
aveva avuto la possibilità, per cause
esterne, di tenere in campo fino alla fine
il suo centravanti. Si chiedeva quindi,
visto che il regolamento delle coppe non
prevedeva la sconfitta a tavolino per
responsabilità oggettiva, almeno la
ripetizione della gara. Dalla Germania
piovvero insulti contro di noi. Boninsegna
venne accusato di aver fatto una
sceneggiata, il presidente Fraizzoli,
l'allenatore Invernizzi e tutti gli altri di
non saper perdere.
Furono otto giorni di
fuoco, durante i quali l'Inter scoprì
l'identità del lanciatore della lattina,
l'operaio ventinovenne Manfred Kristein.
Netzer disse che avrebbe venduto la sua
"Ferrari Dino", perché non voleva avere
niente a che fare con l'Italia, i nostri
connazionali che lavoravano in Germania
subirono angherie e soprusi dai compagni di
lavoro tedeschi, ma alla fine la giustizia
trionfò.
Il 28 ottobre 1971 la
partita venne annullata dalla commissione
disciplinare: il doppio confronto fra Inter
ed il Borussia era da rifare. Non solo: il
campo di Moenchengladbach fu squalificato
per un turno, per cui l'Inter avrebbe
usufruito del vantaggio di giocare la
partita di ritorno in campo neutro. La prima
scelta fu Berna, ma poi, per motivi di
incasso, si scelse Berlino.
Tutta l'Inter esultò.
Gli stessi giocatori furono felici di
potersi confrontare di nuovo con i tedeschi.
Soltanto uno non partecipò alle feste
nerazzurre: Mariolino Corso, il mancino
d'oro del centrocampo. Lui, infatti, fu
l'unico interista a pagare: la commissione
lo squalificò per un anno e due mesi
ritenendolo colpevole di aver dato un calcio
all'arbitro durante una mischia verificatasi
a fine partita. Era tutto falso, perché il
calcio l'aveva sferrato Ghio, ma non ci fu
niente da fare. Corso fu sacrificato
all'altare della giustizia sportiva ed
obbligato ad assistere dalla tribuna alla
ripetizione della sfida infuocata tra Inter
e Borussia.
La partita di andata
si giocò a San Siro il 3 novembre 1971. Lo
stadio era pieno fino all'inverosimile,
l'ambiente era surriscaldato come non mai.
Forse soltanto ai tempi di Herrera, con la
sfida Inter-Liverpool (il clamoroso 3-0 con
goal-rapina di Peirò) si era arrivati a
tanta agitazione. E l'Inter seppe regalare
ai suoi tifosi una grande vittoria. Il
risultato fu di 4-2, al termine di un
incontro fantastico. Segnò per primo Mauro
Bellugi, poi proprio Boninsegna, poi Le
Fevre, Jair, Wittkamp e subito dopo, ormai
allo scadere, Ghio.
Ma c'era ancora da
giocare la partita di ritorno e non si
sarebbe trattato certo di andare a fare una
passeggiata dalle parti di Berlino. Ma
stavolta l'Inter aveva un grande vantaggio:
sapeva perfettamente cosa avrebbe
incontrato, non avrebbe di certo
sottovalutato la partita; per quasi un mese
Invernizzi tenne in tensione i suoi ragazzi,
e poi, all'ultimo momento, estrasse dal
cilindro il colpo vincente. Mandò in porta
un ragazzino di vent'anni, Ivano Bordon al
posto di Lido Vieri. E Bordon, davanti ad
ottanta mila spettatori e circa venti
milioni di telespettatori italiani che
videro la partita in diretta, disputò quello
che può essere ritenuta il più bella partita
della sua vita. Riuscì a parare tutto, tiri
alti e tiri bassi, da lontano e da vicino,
in mischia e su azione lineare. Parò anche
un rigore, al cannoniere Hevcknes e fu
eletto autentico eroe della serata.
Finì 0-0, furono
grandi feste, e l'Inter poté così continuare
la sua strada fino alla finale della Coppa
dei Campioni. Non riuscì a vincere la coppa,
perché si trovò di fronte l'imbattibile Ajax
di allora, che vinse la partita con due
goals del grandissimo Johann Crujiff, che si
fece beffa della difesa interista.
Ma ora dobbiamo
tornare alla partita di Moenchengladbach.
Eravamo rimasti a quando Mazzola s'era
diretto ai bordi del campo per recuperare
"il corpo del reato". La lattina "vera",
quella che colpì Boninsegna, non venne mai
trovata. Netzer l'aveva lanciata verso un
poliziotto che era stato sveltissimo ad
infilarsela sotto il cappotto. Mazzola vide
tutta la scena, provò a scuotere l'agente,
ma dopo aver visto l'inutilità del suo
tentativo non si perse d'animo. Si guardò
intorno ed incrociò lo sguardo di due tifosi
italiani attaccati alla rete di recinzione.
Mazzola ed i tifosi si capirono al volo, non
ci fu neppure bisogno di parole. Uno di
questi stava sorseggiando una "Coca-Cola" da
una lattina uguale a quella appena sparita.
Se la staccò dalle labbra e la lanciò a
Sandro che corse a portarla all'arbitro
davanti allo sguardo sorpreso di Netzer. Non
si è mai saputo come se la cavarono i due
tifosi italiani in mezzo alla folla di
Moenchengladbach; ma, senza quel gesto e
senza la presenza di spirito di capitan
Mazzola, l'Inter non avrebbe mai potuto
vincere la sua battaglia legale.
Ed i tedeschi
continuano a fischiare Boninsegna ...
IL
CAPOLAVORO DI PRISCO
Ovviamente, le polemiche incendiarono gli
ambienti calcistici italiani e tedeschi, ma
le fiamme lambirono anche i Paesi neutrali.
L'Inter avanzò reclamo, dopo la riserva
scritta consegnata all'arbitro la sera della
gara, chiese la vittoria a tavolino. I
tedeschi tentarono di dimostrare che il
"lanciatore" era un italiano al seguito
dell'Inter, ma la Polizia fu costretta (è la
parola esatta) a rendere noto che si
trattava di un olandese, da tempo però
naturalizzato tedesco, ovviamente tifoso del Borussia. Forte di questa dichiarazione
ufficiale, l'Inter pretese che il caso fosse
discusso dalla Commissione Disciplinare
dell'UEFA che, dopo molti tentennamenti, si
riunì a Ginevra. E a Ginevra andò Peppino
Prisco, ferratissimo in ogni branca dello
scibile legale, quello calcistico incluso. E
Prisco dovette combattere una autentica
battaglia con i delegati tedeschi. Verso la
mezzanotte di una giornata estenuante, il
suo trionfo: la partita veniva annullata, si
sarebbe rigiocata, in campo neutro (sia pure
in Germania, ma distante più di cento
chilometri da Moenchengladbach) dopo
l'incontro di ritorno, fissato per il 3
novembre a Milano. Prisco può ben dire, a
distanza di anni, che l'Inter, agli ottavi
di finale di quella indimenticabile Coppa
dei Campioni, almeno all'ottanta per cento
fu lui a qualificarla
Gennaio
1983: nell'ultima stagione di Fraizzoli presidente, Peppino Prisco
ci offre un bel quadro dei suoi primi 50 anni di Inter, con tutti i
suoi soliti ingredienti di humor anti-milanista... Cinquanta e più
anni di Inter attraverso i ricordi di uno dei più noti avvocati
milanesi, fedelissimo e "viscerale" tifoso e dirigente
nerazzurro. Giocatori, personaggi, partite, processi tratti da un
suo ideale block-notes
MILANO. Ormai è rimasto l'ultimo, il più ruspante,
"Pierino" fra tutti i dirigenti calcistici italiani. In un
mondo, quello degli asettici
dopopartita "anni '80", fatto di "nella misura in cui
la palla è rotonda" e di "tanto di cappello alla bravura
degli antagonisti", le sue roncolate verbali riescono ancora a
riempire taccuini sempre più anemici. La sua romantica faziosità
è quasi una gratifica per avversari abituati ai minuetti
grammaticali dei manager da batteria. Ai vertici dei suoi sogni di
giovane sessantenne, c'è sempre un derby che si conclude 1-0 a
favore dell'Inter, al 92', su rigore dubbio o - possibilmente - su
autogol. I suoi amori sono, nell'ordine: 1) la Penna Nera degli
Alpini; 2) l'Inter; 3) l'avversario domenicale del Milan; 4)
l'avversario domenicale della Juventus. Una volta, vedendo giocare
il negro Germano e dovendo commentare la "sbandata" che
aveva preso per lui la contessina Agusta disse: "Io non sono
razzista: ma non permetterei mai a mia figlia di sposare... un
milanista". Quando la società rossonera, due anni fa, scivolò
per la seconda volta in Serie B sospirò: "La prima volta era
retrocesso pagando, adesso, perlomeno, è andato giù gratis".
Questo è Peppino Prisco, anzi, l'avvocato Giuseppe Prisco, da
ventuno anni vicepresidente dell'Inter. Ancor oggi il più grande
"stopper" che la società nerazzurra abbia avuto: se non
in campo, certamente nei tribunali sportivi.
MILIARDI.
La sua ultima impresa risale ad ormai un mese fa: ed è un'impresa
che vale di più dell'acquisto di Zico, se solo si volesse fare un
conto meramente economico. In poche ore ha salvato l'Inter dall'onta
di una calunnia per illecito (e in caso di riconosciuta
colpevolezza, al danno morale si sarebbe aggiunta una pesantissima
pena sportivo-pecuniaria) e dalla spada di Damocle di una disastrosa
squalifica per intemperanze del pubblico. Insomma, le partite con
Groningen e Real Madrid avrebbero potuto "regalare" all'Inter
una perdita di miliardi e miliardi (soprattutto di mancato
guadagno). Prisco lo ha evitato. E, naturalmente, non ha presentato
la parcella. Perché - come ha sempre detto - "bauscia" si
nasce.
Ma come può - gli abbiamo chiesto - un "bauscia" essere
finito nel glorioso, ma mite corpo degli Alpini? "Si vede - ha
risposto - che dovevo andare nei bersaglieri".
LATTINA.
Sottotenente del battaglione "L'Aquila", medaglia
d'argento e croce tedesca al valor militare. Aveva poco più di
vent'anni quando - ben prima che inventassero trekking e jogging -
si fece a piedi una passeggiatina dal Don fino quasi all'Italia. Ha
raccontato con umiltà il suo eroismo in parecchie pubblicazioni. È
sicuramente - in incognita - uno dei più arguti e preparati
giornalisti italiani e si "sfoga" scrivendo ogni tanto su
"Gazzetta", "Corriere" e "Giornale";
ma - più per vocazione familiare che per scelta - ha preferito fare
l'avvocato. Ed è grazie alla sua preparazione a al suo talento
professionale, che ha tolto la squadra del cuore da più d'un
pasticcio, a cominciare da quello ormai storico della
"lattina" di Moenchengladbach. "Nell'83 poi sono
stato quasi in servizio permanente effettivo; prima il cosiddetto
"scandalo" della partita Genoa-Inter, poi le montature su
Inter-Groningen, infine i problemi legati al dopo partita di
Inter-Real. Bisognerà che proponga che, nell'annuario ufficiale
della società, d'ora in poi alle "voci" del medico
sociale, dell'allenatore e del massaggiatore, venga aggiunta anche
quella... dell'avvocato sociale".
Le rievocazioni di Peppino Prisco sono rievocazioni assolutamente
disinteressate: non per nulla egli è l'unico vicepresidente della
fresca mitologia del calcio italiano che non abbia mai sognato (né
tantomeno sogni) di occupare la poltrona principale ("Anche
perché, se diventassi presidente, non potrei certo fare tutto il
chiasso che faccio ora in tribuna d'onore").
PROCESSI.
I suoi ultimi exploit, si sa, sono legati al doppio
"processo" di Ginevra. Alcuni giornali avevano previsto
sentenze quasi capitali per l'Inter. I più affettuosi erano
arrivati al punto di ipotizzare la radiazione per parecchi anni da
tutte le Coppe Europee. Ma in realtà, nel podio delle imprese
dell'avvocato-vicepresidente Prisco, a quale va conservato il
primato assoluto? Sempre a quella della lattina?
"Direi di sì - risponde - perché in quell'occasione vinse la
bravura: mentre stavolta ha vinto la fortuna. Quello del '71 fu un
processo regolare impostato sull'abilità delle parti: quello del
dicembre scorso è stato un "mostro" giuridico celebrato
in condizioni proceduralmente disperate. Ancora oggi - e parlo
ovviamente del "caso" Groningen - non sappiamo che cosa
abbia detto il principale teste-accusatore, che cosa il presidente
della società olandese e neppure che cosa abbia detto Apollonius.
Forse in Italia esagereremo in fatto di tutela di diritti, ma questo
tipo di "giustizia" sportiva internazionale è aberrante
in senso opposto. Se fossimo stati condannati non avremmo mai saputo
il perché".
- Certo, la stampa italiana non vi aveva comunque prospettato
ipotesi incoraggianti.
"Beh, effettivamente nessuno, specie nel caso-Real, ci
concedeva un verdetto benigno. Ma è un film già visto persino
all'epoca del processo-Borussia, la mattina stessa della sentenza,
"La Gazzetta dello Sport" pubblicò sedici pareri dei più
autorevoli personaggi del mondo giuridico-calcistico italiano e non
ce n'era uno che prevedesse la nostra assoluzione. Bastava che
l'avvocato del Borussia avesse conosciuto la nostra lingua per
accorgersi della cosa e gli sarebbe stato molto più agevole leggere
la "La Gazzetta" alla corte invece che tenere la sua
arringa".
RISCHI.
In realtà, tornando al presente, che cosa ha rischiato l'Inter
negli ultimi due processi?
"Avrebbe potuto subire un paio di turni di sospensione per il
Real e una condanna molto più pesante (specie sul piano morale) per
il Groningen: diciamo pure una squalifica per più d'un anno in
aggiunta ad una considerevole pena pecuniaria. Ma si sarebbe
trattato, è il caso di ripeterlo, di un'ingiustizia clamorosa.
Voglio che si sappia che la "fedina" penale dell'Inter è
tutt'ora immacolata, sia a livello nazionale che a livello
internazionale. Non siamo come il Milan che si fa pescare con le
mani nel sacco (accadde, lo ricorderete, cinque anni fa) per aver
equipaggiato di capi d'abbigliamento un arbitro scozzese e i suoi
parenti fino alla quarta generazione".
- Dica la verità, avvocato, come ha fatto a "resistere"
per due anni senza il Milan in Serie A?
"Oh, mi è molto mancato. Anche perché mi faceva una rabbia
terribile constatare che - in B - vinceva spesso. Io mi difendevo
come potevo a suon di battute. A un mio collega che mi chiedeva se
seguissi le sorti del Milan anche in Serie B dissi di no, che mi
dispiaceva molto, ma che non mi interessavo di calcio minore. A un
altro avvocato milanista, un lunedì in tribunale, diedi una pacca
sulle spalle dicendogli "Visto che bel 0-0 ha fatto ieri la tua
squadra a San Siro col Campobasso? Sono soddisfazioni eh?". Ma
pensi, a proposito di avvocati, che per non so quale beffa del
destino, nel mio studio ce n'è uno che si chiama Corso e che è
milanista. Una vera bestemmia!".
PRESIDENTI.
Lei è stato consigliere al fianco di tre presidenti interisti:
provi a definirli in poche battute.
"Masseroni era un "padrone" all'antica. I giocatori,
per lui, erano "i uperari", gli operai. Ho il sospetto che
oggi farebbe fatica a capire i tempi. Ma, calato nella realtà della
sua epoca fu un grande dirigente. Pensi che non avrebbe mai
immaginato di arrivare a quella carica: glielo comunicò una
mattina, in tempo di guerra, l'allora presidente del CONI che gli
disse per telefono "Carletto, saluto in te il nuovo presidente
dell'Inter". "Ma a mi me interesa no el foball : a mi me
pias el ciclismo". Ma non ci fu nulla da fare: era un ordine e
Masseroni era uno che gli ordini non amava né discuterli né
vederli discussi".
- Moratti?
"Moratti arrivò all'Inter come l'"uomo nuovo" (anche
se era tutt'altro che un "parvenu", vantando - tra l'altro
- una decennale amicizia personale con Meazza che era quasi suo
coetaneo). Trasformò, da imprenditore (oggi si direbbe da grande
manager) una società dilettantesca in un modello di perfezione.
Ebbe, fra i suoi tanti meriti, persino la forza di lasciare al
momento giusto. Fu un presidente perfetto".
- Fraizzoli?
"Fraizzoli è il tipico "tifoso da sempre". È un
uomo, col cuore in mano. Ogni tanto ha sbagliato per troppa fiducia,
ma come non essere solidale con lui quando lo attaccano per colpe
che non ha? Lo hanno accusato, per esempio, di aver lasciato partire
Oriali: ma lo sapete che cosa gli rispose Oriali quando Fraizzoli
gli offrì un contratto biennale di un miliardo e 150 milioni?
"Presidente, ma le tasse sono comprese o no?". Che cosa
avrebbe dovuto fare pover'uomo?".NYERS. Lei, in ventun anni e
passa di vicepresidenza non ha mai cercato di imporre qualcosa?
L'acquisto o la conferma di un giocatore per esempio? "Più che
"imporre" ho spesso cercato di "suggerire".
Forse in un'occasione, però, mi impuntai sul serio e, alla fine,
fui lieto di averlo fatto. Masseroni voleva mandare via Nyers
perché questi (parlo di oltre trent'anni fa) non aveva restituito a
tempo debito un prestito di sei milioni contratto con l'Inter. Io,
che ero un grande ammiratore del giocatore, convinsi a uno a uno
tutti i consiglieri a respingere il progetto del Presidente. E
così, al termine di una movimentata seduta, i dodici membri del
Consiglio Direttivo (con Masseroni astenuto) non solo votarono a
favore della conferma di Nyers, ma sottoscrissero anche un
"premio" di sette milioni. "E i alter ses?" e
gli altri sei milioni, chiese Masseroni. "Glieli
condoniamo". Masseroni sbiancò, ma la domenica dopo Nyers ci
ripagò di ogni cosa, facendo le tre reti con cui battemmo il Milan,
nel derby, per 3-1".
- Qual è stato il più grande giocatore che ha avuto l'Inter,
secondo lei? Quello da mettere in bacheca: da rispolverare quando
c'è il derby?
"Oh, l'Inter non ne ha avuti davvero pochi di grandi giocatori.
Io sono tentato di risponderle
Boninsegna: un vero giustiziere. Uno
che aveva capito che dai difensori non bisogna prenderle, ma bisogna
dargliele!".
BLOCCO.
Che farebbe la "grande Inter" se trasportata in blocco nel
campionato attuale?
"Avrebbe terminato il girone d'andata con sei punti di
vantaggio sulla seconda".
- Quali giocatori, di quella squadra, vorrebbe innestare idealmente
nell'Inter di adesso?
"Perlomeno Suarez e Mazzola".
- A proposito di Mazzola, lei, quindici anni fa, gli aveva
pronosticato un futuro come grande allenatore. E invece...
"E invece Sandro, che si è confermato intelligente come io
avevo previsto, ha capito che quello dell'allenatore è un mestiere
aleatorio, che non sempre rende in proporzione ai meriti. E così ha
optato per una ben più comoda carriera dirigenziale".
GIOIA.
Quali sono le partite dell'Inter che lei non scorderà mai?
"Più di una, naturalmente: ma fondamentale resta quella della
prima vittoria in Coppa dei Campioni al Prater. E sa perché la
ricordo? Non solo per la gioia che mi diede, ma anche per un altro
strano aneddoto. Alla vigilia, presagendo il trionfo mi ero imposto
di non commuovermi, ovvero di non fare la figura che l'anno prima
aveva fatto il mio "nemico d'infanzia" Polverini,
consigliere del Milan, che s'era messo a piangere come un vitello.
Ebbene, per tutta la sera ci riuscii poi crollai, per telefono, la
notte, sentendo la voce gioiosa della mia piccola Anna, che aveva
pochi anni ma che era già... felice per una vittoria dell'Inter.
Così piansi in camera mia, ma non mi vide nessuno".
- E invece la partita da cancellare dalla mente?
"Quella di Mantova che ci costò lo scudetto. Mi ricordo che lo
stesso Moratti non ebbe il coraggio di parlare coi giornalisti: se
ne andò pochi minuti prima della fine. Mi fece un cenno come dire
"pensaci tu". E io dovetti affrontare taccuini e microfoni
da solo. Mi ricordo che dissi: "In otto giorni l'Inter ha perso
sia il suo primato europeo che il suo primato italiano. Credo dunque
che abbia perso anche quel primato di antipatia che aveva accumulato
vincendo troppo". II giorno dopo, sulla "Stampa" di
Torino, il grande Vittorio Pozzo (che mi amava come solo fra alpini
ci si può amare) scrisse: "I dirigenti dell'Inter meritano
solo disapprovazione e biasimo tranne uno: Peppino Prisco, che già
in guerra, con la penna nera in testa e col moschetto 91 in braccio,
aveva dimostrato di saper valutare gli uomini e le
situazioni"".
SOGNO.
Qual è stato il giocatore che lei avrebbe sognato, vedere all'Inter?
"Rossi, all'Inter, è stato più vicino di quanto la gente non
creda. Così come ci fu vicino Riva: ma sapete perché l'affare
sfumo? Perché il Bologna non volle darci Pascutti: sì perché,
Riva, lo avremmo acquistato dal Cagliari... come merce di scambio
per accontentare il "mago"".
- Qual'è stato, invece, il nerazzurro più brocco?
"Sui due piedi mi viene in mente un certo Rebizzi, per
celebrare la cui "bravura" io avevo fatto la proposta che
gli venisse tolta la maglia nerazzurra; che gli venisse concesso, al
massimo, di giocare, con un maglia grigia con distintivo. Ma il
record mondiale fu battuto da due sudamericani che io stesso andai a
prendere all'aeroporto: si chiamavano Orlandi e Cacciavillani.
Orlandi aveva i piedi piatti e un'apparente età di una quarantina e
passa d'anni, tant'è vero che credevo che fosse il padre del
giocatore che aspettavamo. "Dov'è suo figlio?, gli chiesi a
bruciapelo. Cacciavillani, invece, ci era stato descritto come uno
Schiaffino con un po' più di classe ma con molto più fiato.
Probabilmente, ci fu un equivoco".
BEARZOT.
A quei tempi, nell'Inter c'era anche Bearzot: che cosa ricorda di
lui?
"Che aveva la morosa in via Besana e che tutte le sere veniva
dalle parti del mio ufficio di via Podgora ad aspettarla".
- Quale stato il giocatore più simpatico fra tutti quelli che ha
avuto l'Inter?
"Un certo Piero Pozzi perché era mio amico: e poi il grande
Giovannini".
- E il più cattivo?
"Nesti: ma anche Boninsegna e Burgnich. Più di tutti però, lo
fu il tedesco Szymaniak. Ma non era solo cattivo, era anche un duro.
Una volta io vidi uscire dal campo di Marsiglia con una faccia quasi
"sdoppiata" per il calcio di un avversario. Non so poi che
fine abbia fatto quell'incauto che osò colpirlo...".
- Il giocatore più matto?
"A parte Corso (ma la sua era una follia "sana" e
memorabile) mi sembra che il più matto di tutti sia in squadra
adesso: gioca col numero 4".
- Il più bugiardo?
"Il portiere Ghezzi, celebre per le sue uscite spericolate.
Più di una volta mi precipitai in campo temendo per la sua vita,
dopo averlo visto agonizzante. Ma quello mi guardava, strizzava
l'occhio mi sorrideva e si rialzava".
CAPITANO.
Qual è stato, invece, il calciatore che avrebbe fatto carriera in
qualsiasi altro campo?
"Picchi. Direi che era quasi "sprecato" per fare
"solo" il calciatore. Era un grande capitano nel campo e
nella vita. Una volta ricordo che alcuni suoi compagni di squadra mi
chiesero se avevano fatto bene ad acquistare alcune azioni delle
"Generali". Alla mia espressione allibita mi dissero:
"Le abbiamo prese, perché ce l'ha detto Armando"".
- Avvocato, che avrebbe fatto se le fosse nato un figlio milanista?
"Avrei preteso l'analisi del sangue".
- E che farebbe se un giorno le dicessero che Inter e Milan si sono
fuse?
"Comincerei a tifare per il Genoa". Peppino Prisco:
nerazzurro forever...
Sezione:
INTERVISTE 70/80 Leggi H o m e Storie di Calcio Interviste d'epoca
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MILANO,
3 NOVEMBRE 1971
DOPPIO
TRIONFO
Il resto
lo fecero loro, i nerazzurri. A San Siro si
giocò il 3 novembre, in un clima teso e
drammatico. Il Borussia non aveva voluto
scendere a Milano, si era acquartierato in
periferia, aveva preteso, ed ottenuto, una
nutrita scorta di Polizia temendo chissà
quali rappresaglie da parte dei tifosi
italiani. Timori ridicoli, come dimostrarono
i fatti. Le... rappresaglie vennero da parte
dei nerazzurri che stravinsero per 4-2 un
incontro indimenticabile. Jupp Heinckess,
stella del Borussia '71 Peppino Prisco:
grazie a lui Inter qualificata agli
ottavi!Segnò per primo Bellugi, con una
irresistibile proiezione offensiva.
Raddoppiò Boninsegna; il solito Le Fèvre
accorciò le distanze, ma alla ripresa del
gioco andò subito a segno Jair. Gran bordata
di Wittkamp e rete finale di Ghio,
subentrato a Jair a pochi minuti dal
termine. Quattro a due, durissima sconfitta
per i campioni di Germania, nel frattempo
divenuti celeberrimi anche in Italia. E
Netzer, il gigante biondo che in Nazionale
contendeva a Overath il ruolo di regista; e
Bonhof, il centrocampista dal tiro
micidiale; e il mastino Vogts; e la punta di
diamante Heynckes; e l'ala belga Le Fèvre; e
il regista Wimmer alla vigilia erano temuti
come altrettanti spauracchi. Invece...
Ma si
doveva giocare ancora la partita... di
andata, quella annullata dall'UEFA. Forte di
due reti di vantaggio, l'Inter scese in
campo molto sicura di sé il primo dicembre,
nel maestoso Stadio Olimpico di Berlino
Ovest, in una serata rigida e nebbiosa. Fu
il trionfo di Ivano Bordon, il portierino
appena ventenne, che prese il posto del
titolare Lido Vieri.
A
proposito di Bordon: la sera della vigilia,
nell'albergo dell'Inter, si sparse il
terrore. Invernizzi, verso le 20,30, piombò
nella sala da pranzo sconvolto dicendo: "Ho
perso Bordon!". Febbrili ricerche,
disperazione, Bordon non si trovava. Poi a
qualcuno venne in mente di dare un'occhiata
nella camera da letto di Bordon: e lo trovò
beatamente addormentato... Era un ragazzo,
era una riserva, sapeva già che avrebbe
dovuto giocare contro i draghi del Borussia:
e se la dormiva, sereno come un bambino fra
le braccia della mamma... Non dormì però la
sera dopo, quando il Borussia si scatenò
contro la sua rete. Ma Bordon parò tutto,
compreso un calcio di rigore di Sielof,
decretato, a sorpresa dall'arbitro inglese
Taylor, severo fino alla esagerazione! Finì
zero a zero, artefice primo Bordon, davanti
al quale Bellugi, Facchetti, Giubertoni e
Burgnich (che giocava libero) eressero
un'autentica diga.
E gli
articolati contropiede di Mazzola e
Boninsegna fecero tremare più volte il
portiere Kleff.
BERLINO, 1 DICEMBRE 1971
Berlino 1971, quando Bordon parò il «caso
lattina»
Si giocò
proprio a Berlino la ripetizione della
famosa sfida della lattina contro il
Borussia Moenchengladbach. L' Inter strappò
un pareggio (0-0) grazie al suo portiere che
parò un calcio di rigore. E quel giorno Prisco fu insultato da tutto il pubblico
tedesco
Ancora
qui, trent' anni dopo la qualificazione in
coppa delle Fiere con l' Hertha, che a
Berlino aveva vinto 1-0. Ma soprattutto 29
anni dopo la ripetizione della sfida con il Borussia Moenchegladbach, coppa dei
Campioni. Quella passata alla storia come la
partita della lattina. Era il 1° dicembre
1971, secondo turno. La lattina, in realtà,
aveva colpito Roberto Boninsegna il 20
ottobre, lanciata da chissà chi in tribuna
allo stadio di Moenchengaldbach. E questo
permise di cancellare una delle sconfitte
più pesanti nella storia dell' Inter, 7-1.
«Ma l' episodio accadde sul 2-1 - ricorda
Giacinto Facchetti, capitano di quella
squadra e adesso dirigente di quella di
Tardelli - e da quel momento non ci fu più
gara. In campo pensavamo a quanto sarebbe
successo dopo. C' era chi pensava già alla
ripetizione, chi contava sul 2-0 a tavolino,
chi addirittura non voleva più giocare».
«Non fu una vera partita - concorda Lele Oriali, l' attuale direttore tecnico che
allora aveva 19 anni -. Dopo l' uscita di
Boninsegna, autore del nostro gol, non c'
eravamo più con la testa». Il 7-1 maturò in
quel contesto irreale, anche se nessuno
nasconde che il Borussia aveva schiacciato
l' Inter nella sua area fin dai primi minuti
di gioco. Fu ovviamente l' avvocato Prisco a
occuparsi del ricorso all' Uefa. «Il massimo
che ottenni fu la ripetizione della gara,
perché la vittoria a tavolino non era ancora
prevista dai regolamenti. Ma in fondo fu
meglio così, perché quella partita fu
fondamentale per la carriera di Ivano
Bordon». Nel frattempo si giocò il ritorno,
divenuto l' andata, e a San Siro l' Inter s'
impose 4-2. Per la ripetizione fu stabilito
di giocare sul «neutro» di Berlino (sempre
Germania era), all' Olympiastadion, proprio
dove l' Inter torna stasera. «Si giocò con
una tensione incredibile - ricorda Facchetti
-. Loro erano furibondi per la cancellazione
del risultato. Ma noi sentivamo l' impegno
morale di dimostrare che quel 7-1 era falso.
Eravamo tutti molto nervosi». Anche perché
«allo stadio c' erano migliaia di nostri
emigrati - aggiunge Ivano Bordon, grande
protagonista di quella partita -. E più
che Borussia-Inter sembrava di giocare
Germania-Italia». «La tensione era stata
alimentata dai tedeschi
- racconta Peppino Prisco tutto divertito sull' aereo che lo
riporta a Berlino -. Ce l' avevano
soprattutto con me, mi chiamavano "il
mafioso", per via del ricorso. Un giornale
aveva titolato: "L' arma in più dell' Inter
è un mafioso". Oltretutto ero completamente
solo, perché Fraizzoli era dovuto rientrare
a Milano al capezzale della madre. Eppure
ostentavo provocatoriamente una sciarpa
tricolore: ricordo che per tutta la partita
mi tirarono addosso mozziconi di sigarette
accesi». Anche quella volta il Borussia
travolse i nerazzurri fin dal fischio d'
inizio. «Per capire quanto eravamo costretti
in difesa basti pensare che il fallo del
rigore, dopo un quarto d' ora, lo fece
Mazzola», dice Prisco. L' episodio chiave lo
racconta il protagonista, Bordon, che allora
aveva vent' anni e stava prendendo il posto
di Lido Vieri: «Sul dischetto va Sieloff,
che mi aveva già segnato su rigore all'
andata. Aveva tirato a sinistra, così decido
di buttarmi da quella parte. Prima però
faccio un mezzo passo a destra, lui abbocca
e io blocco in due tempi». «Bordon fu l'
eroe di Berlino», sentenzia Facchetti, il
cui amarcord continuerebbe fino a Rotterdam,
dove l' Inter perse 2-0 in finale con l'
Ajax. Oggi l' eroe di Berlino è ancora qui,
come preparatore dei portieri dell' Inter.
Il suo primo allievo è Sebastien Frey, che
ha vent' anni proprio come lui allora. «Seba
ha personalità, grandi qualità e molti
margini per migliorare ancora». E se l'Olympiastadion diventasse fondamentale anche
per la sua carriera? Stavolta l' avvocato
Prisco, stanco di soffrire, non sa se
augurarsi di sì o di no. Luca Curino Così
andò il 1° dicembre 1971 Ecco il tabellino
di quel famoso Borussia
Moenchengladbach-Inter, giocata sul campo
neutro di Berlino, il 1° dicembre 1971,
valida per il secondo turno della Coppa dei
Campioni.
http://archiviostorico.gazzetta.it/2000/novembre/21/Berlino_1971_quando_Bordon_paro_ga_0_0011219189.shtml?refresh_ce-cp
La
stagione seguente, l'en plein. Archiviati
campionato e coppa d'Olanda (3-1 all'ADO),
l'Ajax elimina Dynamo Dresda, Olympique
Marsiglia, Arsenal, Benfica e conquista al
De Kuip, lo stadio del Feyenoord, la sua
seconda Coppa dei Campioni consecutiva.
L'Inter
non è più lo squadrone leggendario dei tempi
di Herrera. Arriva alla finale dopo vicende
assai rocambolesche come la "partita della
lattina" di Mönchengladbach (che il Borussia
aveva stravinto 7-1) e, in semifinale, dopo
210' senza gol, la vittoria sul Celtic ai
rigori. Nell'ultimo atto, l'infortunio di
Giubertoni dopo neanche un quarto d'ora
costringe il tecnico interista Invernizzi a
rivedere la difesa. I suoi resistono un
tempo, il non ancora ventenne Oriali fa
l'impossibile per contenere Cruijff, ma non
c'è niente da fare: troppo forte quell'Ajax
per l'Inter, troppo forte Cruijff per Oriali.
Il numero 14 gli scappa due volte, e sono
due gol. Quelli decisivi. Il primo arriva,
al 48', su papera di Bordon che in uscita
alta si scontra con Frustalupi, lasciando
all'olandese la porta sguarnita e la più
facile delle occasioni. Il secondo, al 77',
incornando in splendida elevazione una
punizione calciata da Keizer quasi
all'altezza della bandierina di sinistra. È
una gara senza storia, sia chiaro, ma la
fortuna aiuta gli "ajacidi", perché lo
spiovente da cui nasce il vantaggio nasce da
un rimpallo perso banalmente dai nerazzurri.
A quel punto l'attacco interista, votato
esclusivamente al contropiede, è una
pallottola spuntata.
Generazione di fenomeni
Non c’è
solo Cruijff, fuoriclasse straordinario, nel
Grande Ajax della prima metà degli anni
Settanta. Alcuni sono campioni veri, altri
quasi. In ogni caso, atleti straordinari.
HEINZ
STUY (portiere, 6-2-1945) – Non un fenomeno
tra i pali, scalza il più «tradizionale»
Gerrit (Gert) Bals, perché sa stazionare al
limite dell’area dove svolge le funzioni di
libero aggiunto. Alto e prestante (1,88 m
per 85 kg), è l’unico «ajacide» dell’epoca a
non vestire mai l’arancione.
WIM
SUURBIER (terzino destro, 16-1-1945) – Nelle
giovanili era nato ala sinistra, poi
retrocede a terzino e, con l’esplosione di
Krol, cambia fascia. Sa fare tutto: difende,
imposta, crossa e segna.
VELIBOR
VASOVIC (libero, 3-10-1939) – Dà ordine alla
difesa ed è infallibile dal dischetto.
Fortissima personalità, a Wembley alza da
capitano la Coppa dei Campioni del ’71.
BARRY
HULSHOFF (difensore centrale, 30-9-1946) –
Una montagna d’uomo (1,92 m per 82 kg),
domina di testa e non è male coi piedi.
Incontrista temibile e generoso, incappa
spesso in infortuni. In Nazionale, 14
presenze e 6 reti. Tante per un attaccante,
incredibili per un centrale difensivo.
RUUD KROL
(terzino sinistro, 24-3-49) – La classe
fatta difensore. Come Suurbier dall’altra
parte, sa fare bene tutto. A fine carriera,
si ricicla da libero con risultati
straordinari. È l’ultimo a lasciare l’Ajax.
Poi sverna nella Nasl, al Napoli e ai
francesi del Cannes.
ARIE HAAN
(centrocampista, 16-11-1948) – Lento di
passo, ha la «castagna» da fuori e buon
senso tattico. A Monaco ’74 Michels lo
impiega addirittura da libero. 35 partite e
6 gol in Nazionale.
JOHAN
NEESKENS (centrocampista, 15-9-1951) – Il
calciatore totale per antonomasia. Nella
categoria, l’unico superiore a Tardelli.
Falcata e tiro irresistibili, fondo, grinta,
senso del gol. Da ragazzino, furoreggia nel
baseball. Nel ’74-75 raggiunge al Barcellona
il «gemello» Cruijff.
GERRIE
MUHREN (interno sinistro, 2-2-1946) –
Mancino, buona tecnica, sa cucire il gioco e
interdire. Per motivi personali, un figlio
malato, salta il mondiale del ’74. In
arancione, 10 gettoni.
JOHNNY
REP (centravanti/ala, 25-11-1951) –
Attaccante completo, per la foga e
l’incredibile mole di lavoro, talvolta
spreca troppo. Carattere pepatino e lingua
lunga, «digerisce» a fatica l’ingombrante
personalità di Cruijff. 12 gol in 42 partite
coi Tulipani.
JOHAN
CRUIJFF (attaccante, 25-4-1947) –
Grandissimo in campo e in panchina. Con
entrambi i club della sua vita, l’Ajax e il
Barcellona. La tecnica sposata alla
velocità. Profondo conoscitore del gioco, ha
il difetto di ritenersi infallibile. Alza da
capitano la Coppa dei Campioni ’72-73.
PIET
KEIZER (ala sinistra, 14-6-1943) – Bandiera
dell’Ajax, mancino puro, grande realizzatore
(146 reti in 365 gare di Eredivisie). Due
gravissimi infortuni e una certa
incompatibilità caratteriale con Cruijff ne
condizionano una carriera comunque di
altissimo livello. Capitano a Rotterdam ’72.
NICO
RIJNDERS (difensore/centrocampista,
30-7-1947) – Mediano difensivo, 8 volte
nazionale. Inesauribile incontrista,
trasferitosi al Bruges, morirà durante una
partita, colto da un infarto.
HORST
BLANKENBURG (difensore centrale, 10-7-1947)
– Tedesco arrivato nel ’70 dal Monaco 1860,
in patria rischia una lunga squalifica per
una storia mai chiarita di partite truccate.
Nasce mediano, poi Kovacs ne fa l’erede di
Vasovic. È suo il cross per il gol di Rep
che condanna la Juve nel ’73.
SJAAK
SWART (ala destra, 3-7-1938) – Idolo dei
tifosi per le funamboliche giocate
sull’«out» di destra, sotto rete non
perdona: 165 gol in 463 gare di campionato
con l’Ajax, 10 su 31 in Nazionale.
DICK VAN
DIJK (centravanti, 15-2-1946) – Ariete un
po’ grezzo sul piano tecnico, segna il gol
che sblocca il risultato a Wembley nel ’71.
In Nazionale, 7 presenze e una rete.
(Christian Giordano)
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LADY RENATA
SANTA
MARGHERITA - E' di nuovo pimpante, Lady Renata Fraizzoli, Nostra
Signora di San Siro. La presidentessa dell'Inter. I giornalisti
l'hanno paragonata a una modella di Tiffany per i preziosi
gioielli che sfoggia con disinvoltura. Accetta il complimento ma
rifiuta l'intervista.
" Guardi - dice cortese ma gelida - che se è venuto qui con
la speranza di farmi parlare perde il suo tempo. Io con i
giornalisti non parlo da mesi anche se continuo a leggere il mio
nome sul giornale ".
- Dispiaciuta signora?
" Senta, quando incontro Alberto Zardin della
"Gazzetta" gli chiedo cosa ho detto a mia madre
mercoledì scorso ".
- Non capisco signora.
" Ebbene sulla "Gazzetta dello sport" ho letto che io
avrei detto a Mariolìno Corso di non impegnarsi con nessuno
perché l' Inter è a sua disposizione ".
- Tutti sanno che lei ha un debole per Mariolino. Non aveva forse
detto al Circolo dell'Inter che vale più un quarto d'ora di Corso
di un'ora e mezza di Domenghini?
" Ma sulla "rosea" c'era pure scritto che io avevo
incontrato i coniugi Corso alle "Colline Pistoiesi"
".
- Da Pietro Gori si mangia bene...
" Ma io non vado alle "Colline" da parecchio tempo, e
non vedo Corso dal maggio dell'anno scorso
Mi sembra di averlo incontrato a San Siro in occasione di una
partita di Coppa Italia. Ho rivisto di recente la signora Enrica e a
momenti nemmeno la riconoscevo perché dopo l'operazione è
diventata bruna e le hanno tagliato pure i capelli".
- Dire che lei rivorrebbe Corso nello staff dell'Inter non è
certo un'offesa.
" Ma scrivere che io l'ho incontrato alle "Colline
Pistoiesi", non è scrivere la verità. Una volta ì
giornalisti prima di pubblicare una notizia la controllavano, oggi
non succede più. E a me questo genere di giornalismo non piace.
Per questo da tempo non rilascio più dichiarazioni ai giornali.
Così non ho da pentirmene".
Interviene il dottor Ivanhoe: " E' vero, cara, che dopo ogni
intervista ti sei dovuta pentire di averla rilasciata perché il
tuo pensiero è stato travisato. Però Domeniconi è un amico, ti
prego Nana, digli qualcosa ".
Lady Renata scatta come se fosse Boninsegna: "Un amico
Domeniconi? Non ti ricordi, Ivanhoe, che ti avevo ritagliato un
suo articolo che aveva come titolo: "Fraizzoli è un
pollo!". Ti avevo pure detto: Ivanhoe perché non vai a San
Siro con un pollo al guinzaglio? ".
Cerco di difendermi:
- Non potete negare che in passato qualche volta avete sbagliato
gli acquisti...
" Ne abbiamo sbagliati tanti, tantissimi - ribatte il
presidente -. Ma lei non ha mai sbagliato un articolo? ".
- Tanti, presidente, tantissimi...
" Di noi però si ricordano solo gli acquisti sbagliati, mai
quelli indovinati. Non mi sembra giusto ".
- Avete dato via Bellugi che a Bologna è tornato in Nazionale e
ora dovete arrangiarvi con Gasparini che sembra più un hippy che
uno stopper.
Riprende la Lady: " Mio marito ha spiegato tante volte che
Bellugi non è stato ceduto per motivi tecnici. Come giocatore non
è mai stato discusso. A volte il matrimonio guasta un uomo
".
- Cosa intende dire, gentile signora?
" Lui forse si era un po' montata la testa! Aveva accanto una
bella donna, ma poco chic. Ricordo che una sera l'ho conosciuta
al Circolo. D'accordo la gioventù, ma a una signora non si addice
la minigonna, insomma è un abbigliamento da ragazzina ".
- Qual è la moglie che preferisce?
" La signora Bordon. Che ragazza fine e di classe! ".
- Forse per questo Bordon è tornato titolare...
La Lady non raccoglie. Ivanhoe cerca un'automobile per andare
sul lungomare a fare la passeggiata del convalescente: " Il
dottore - spiega - mi aveva ordinato un po' di riposo dopo
l'operazione di ernia. Ma per le feste sono rimasto a Milano
perché mio padre mi ha insegnato che bisogna dare l'esempio agli
operai ".
- Anche gli operai adesso hanno diritto alle vacanze invernali.
" Ma noi a fine anno abbiamo i bilanci. La mia presenza era
indispensabile, così sono rimasto a Milano. Ma ora voglio godermi
un po' questo bel sole della riviera ligure ".
Il cavalier Franco Manni fa il gioco del cronista: " Domeniconi
ha la macchina, vi accompagna lui ".
Così Ivanhoe Renata e Lady Fraizzoli prendono posto sull'
automobile del " Guerino ". Scendiamo nel viale e il
presidente propone: " Andiamo a mangiare la focaccia. Conosco
un prestinaio in un vicoletto ".
Va a far spesa, la signora Renata. Mentre la aspettiamo passa un
signore distinto che non ci degna di uno sguardo.
" Non mi ha riconosciuto - fa Ivanhoe - eppure eravamo molto
amici. Come è cambiato e come è invecchiato. Quando incontro
qualcuno e Io trovo invecchiato poi penso: chissà lui come
avrà trovato cambiato me. Perché purtroppo si cambia, si invecchia
".
- E' la legge della vita, presidente.
"Che brutto, invecchiare. Quando ero giovane venivo qui a
Santa Margherita e facevo pesca subacquea. Sono stato uno dei
primi sub: è un'esperienza bellissima. Il mondo sommerso è un
mondo fantastico. Compravo la focaccia e andavo in barca con la tuta
e le pinne ".
Arriva la signora con la focaccia: " Adesso la fanno anche a
Milano, ma questa è diversa. A Milano la fanno troppo alta e
con poco olio. Per mangiare la vera focaccia bisogna venire qui. A
me piace pure andare a mangiare la pizza da Alfonso, anche se la
vera pizza si mangia a Napoli ".
Andiamo a prendere l'aperitivo da "Colombo": " E' il
bar più antico di Santa Margherita " spiega il presidente.
Il dottor Ivanhoe pensa al fegato e sceglie l'Aperol. La Lady chiede
un "Carpano", si vede versare un "Punt e Mes" e
commenta: " Evidentemente non sanno che tra il Carpano e il
Punt e Mes c'è una certa differenza. Mescolando Carpano e Punt e
Mes si forma un aperitivo squisito che si chiama Milano-Torino
".
Il cameriere ha udito tutto. Toglie il Punt e Mes e versa il
Carpano gradito alla signora.
" Molto gentile, ribatte, ma non era il caso. Andava bene anche
il Punt e Mes ".
L'aperitivo fa riprendere la conversazione:
- Signora, perché le squadre milanesi non vanno più bene come
una volta?
" Perché anche nel calcio ci sono i cicli e perché è
difficile lavorare a Milano. Comunque l'ultimo scudetto l'abbiamo
vinto noi dell'Inter ".
- Quando l'avvocato Peppino Prisco fece mandar via Heriberto per la
lite della sigaretta. A proposito: perché l'avvocato segue meno
l'Inter che in passato? Ha perso la fiducia pure lui?
" Ha il figlio militare negli alpini. E dice che forse sarà
un padre all'antica ma se il ragazzo non viene in licenza a Milano
va lui a trovarlo in caserma".
- Torniamo allo scudetto. Avete lasciato Invernizzi però in
seguito il "mago di Abbiategrasso" non si era comportato
bene con voi. Adesso ho letto che ha rifiutato l'Avellino perché
suo marito l'avrebbe pregato di tenersi pronto per l'Inter.
Spiega Manni: " Il presidente dell'Avellino Japicca ha parlato
proprio dell'Inter e forse Invernizzi gliel'ha detto davvero, ma
era solo per trovare una scusa. Invernizzi è l'unico allenatore
libero, è sicuro di sistemarsi presto in serie A, non gli
conveniva accettare l'Avellino e così ha tirato in ballo l'Inter.
Ma non c'è nulla di vero ".
- E sul ritorno di Corso, cosa può dire, presidente?
Fraizzoli è preciso: " Le giuro che tutto quello che so l'ho
appreso dai giornali. Sui giornali ho letto che Corso vorrebbe
tornare all'Inter per insegnare il calcio ai giovani. Se è così
Mariolino non ha che da dirmelo e lo accolgo a braccia aperte. Un
posto nel settore giovanile glielo trovo subito. Del resto è
tradizione dell'Inter tenere nel proprio seno i giocatori-bandiera
".
- Mazzola farà il presidente?
" Per ora Sandrino ci serve come giocatore ".
- Da quanto tempo non vede Herrera?
" Dall'anno scorso a Venezia quando giocammo in amichevole a
Treviso ".
- Non lo sente nemmeno a Radio Montecarlo?
" Parla troppo presto. Non mi sveglio certo alle 7,30 per
sentire il "Mago" che commenta il campionato di calcio
".
- Masiero dimostrò di saper sostituire degnamente Herrera. Perché
è tornato a fare l'allenatore in seconda?
"Bisognerebbe chiederlo a lui".
- Lei cosa dice?
" A me sembra che Masiero sia troppo grasso anche se mi è
simpatico proprio perché è pacioccone. Era robusto anche
quando giocava ma Manni mi ha detto che adesso l'Enea è capace di
mangiarsi tre piatti di pastasciutta. Al Miramare l'altro ieri
sera ha protestato con il cameriere dicendo che la porzione di pesce
era troppo piccola. Eppure pare che gli avessero portato una
cernia gigante... ".
Si torna a parlare di giornali. E Fraizzoli la pensa come il
"Guerino": le gazzette milanesi hanno contribuito ad
affossare il Milan e l'Inter.
" Non sai più come comportarti. - si sfoga il presidente -
Se parli con uno, si offende l'altro. Se poi parli anche con
l'altro si offende il primo che sperava nell'esclusiva. Ricorda
l'attacco di Ormezzano su "Tuttosport" quando sono stato
intervistato in "Gazzetta"? Ma io mica ero andato alla
"Gazzetta" per mettermi in vetrina. Un giorno mi aveva
telefonato il direttore Griglie supplicandomi di dire qualcosa sull'Inter
perché il Tour era finito e non sapeva come riempire il giornale
".
- E lei milanese col " coeur in man "...
" Io ho risposto: direttore, sto uscendo di casa perché devo
andare da un avvocato che ha lo studio nei pressi di Piazza
Cavour. Poi posso fare un salto da lei così ci conosciamo visto che
ci siamo sentiti solo per telefono. Sono andato mi ha fatto
intervistare da Maurizio Mosca (che ora a quanto mi risulta
potrebbe anche diventare direttore) e gli altri si sono offesi, a
cominciare dal "Corriere della sera" ".
- Presidente qual è il giornale che preferisce?
Interviene Lady Renata: " Glielo dico io: il
"Giornale" di Montanelli perché ha solo una pagina di
sport ".
- Comunque poi avete rinunciato a querelare il " Corriere di
informazione "...
" Perché dopo la lettera dell'avvocato hanno pubblicato la
lettera di rettifica. Io quella frase ("Oh la Madona"
dopo un ennesimo errore di Libera n.d.r.) non l'avevo mai
pronunciata. Non fa parte del mio linguaggio ".
- La frase di Gian Antonio Stella voleva solo essere una battuta.
" Comunque io non l'avevo nemmeno letta, perché quel giornale
lo apro solo per leggere l'ultima pagina, quella della
televisione e del cinema. Il resto non lo guardo nemmeno ".
- Speriamo che lo guardi suo marito. Ci sono tante belle
ragazze... Tornando a bomba, se lei ricevesse con più frequenza
la stampa certi equivoci non sorgerebbero. Ad esempio Edgarda
Ferri...
" Non mi ricordi quell'articolo su "La Stampa". Per
fortuna mia madre non l'ha Ietto. Se l'immagina cosa avrebbe
potuto pensare leggendo la storiella dei quadri che vanno e
vengono in occasione delle campagne acquisti dell'Inter? ".
- Non avete più fatto pace?
" Mi ha scritto una lunga lettera, - interviene il marito - e
mi ha spiegato che era scocciata perché non l'avevamo ricevuta. Ero
stato io comunque a scriverle, perché dal fratello di latte di
mio padre che è di Mantova (e io sono legato alla città di
Virgilio, i primi monumenti che ho visto li ho visti a Mantova)
mi aveva mandato un libro su Mantova dove ci diceva che quella
mantovana era una razza gagliarda e onesta ".
- Ebbene?
" La prefazione era firmata proprio da Edgarda Ferri che,
l'ho saputo dopo, è di Goito. Allora ho scritto alla Ferri dicendo
che prima di conoscere lei anch'io la pensavo così sui mantovani,
ma dopo avevo dovuto cambiare idea. Secondo me non si possono
scrivere cose del genere con tanta leggerezza. Invece non si
controllano le notizie proprio perché tutto serve a creare
polemiche e quindi a far vendere giornali ".
- Parliamo di calcio, signora. Chi vincerà lo scudetto?
" Il Napoli a San Siro non mi è sembrato molto forte. Manni
che se ne intende dice che alla fine del primo tempo potevamo
vincere per tre a zero ".
- Qual è l'allenatore che compiange di più?
" Mazzone. Poteva rimanersene tranquillo ad Ascoli Piceno. Chi
gliel'ha fatto fare di andare a Firenze dove era fallita tanta
gente più famosa di lui ".
- Qual è secondo lei la squadra-rivelazione del campionato?
" II Cesena. Ma i risultati devono stupire sino a un certo
punto. II Cesena ha il grande Frustalupi
".
- Prima l'aveva l'Inter...
" E con noi Frustalupi ha sbagliato una sola partita, quella
di Rotterdam ".
- Allora perché l'avete dato via?
" Perché a volte una cessione è indispensabile per avere un
certo giocatore ".
- Lo so, la Lazio non vi avrebbe dato Massa. Ma Peppiniello Massa
a Milano ha fatto ridere i polli. Gianni Brera era stato costretto
a consigliargli di tornare a Napoli a fare il pizzaiolo...
" E io le dico invece che a Milano Massa è stato distrutto
dalla stampa. Ricordo che non aveva più il coraggio di aprire i
giornali. Se li faceva leggere dalla moglie. Ragazzo sensibile era
come traumatizzato ".
- Dunque questa stampa è proprio così cattiva?
" Glielo dirò quando avrò letto quello che scriverà di me.
Anzi la prego di non scrivere niente! "
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MARIO BERTINI
Quando pensiamo all'Italia del
Mondiale del 1970 la nostra mente va inevitabilmente all'epica sfida
Italia-Germania 4-3 ed alla successiva finale dove il formidabile
Brasile di Pelé ha annichilito la stanca formazione allenata da
Valcareggi. Nel mezzo ci possiamo ricordare
della famosa staffetta tra Rivera e Mazzola, della coppia gol Boninsegna-Riva e solo in misura inferiore degli altri componenti di
tale indimenticabile formazione.
Tra di essi merita una citazione
il mediano degli azzurri Mario Bertini, in assoluto uno dei
centrocampisti più completi dell'epoca ed elemento insostituibile
nello schieramento tattico del commissario tecnico.
La sua crescita calcistica
avviene nella natia Toscana, dove si fa le ossa dapprima a Prato in
serie C, dove vince il campionato e successivamente ad Empoli, dove
gioca una sola stagione (1963/1964) mettendo in piena mostra tutte
le sue doti di centrocampista, realizzando inoltre 7 reti nelle 31
partite disputate.
Del suo talento si accorge la
Fiorentina che decide di acquistarlo per la stagione successiva,
volendo in tal senso inserire una forza fresca nel proprio settore
mediano.
Bertini si mette in mostra come
un elemento di grande sostanza, in grado di garantire un ottimo
contributo in termini di fisicità e corsa.
In un'epoca nella quale i mediani
devono garantire soprattutto copertura, il centrocampista nativo di
Prato eccelle in pieno in tale mansione.
Altresì è dotato di buone qualità
tecniche, associate ad un piede destro molto preciso e potente che
lo rende insidioso nelle conclusione dalla media-lunga distanza.
Tale dote, unita alla precisione
nei calci piazzati (soprattutto i rigori), permette a Bertini di
segnare con buona continuità, elevando di molto la sua importanza
all'interno della squadra.
Durante la sua militanza nella
Fiorentina affina maggiormente le sue qualità, maturando
quell'esperienza e quell'acume tattico che lo renderanno papabile
anche per la nazionale.
In maglia viola conquista una
Coppa Mitropa ed una Coppa Italia, entrambe nella stagione
1965/1966. Bertini lega il suo nome soprattutto al secondo trofeo: è
proprio un suo gol al 109' minuto a garantire il successo alla
formazione toscana nella finale contro il Catanzaro, dopo che i
tempi regolamentari si erano chiusi sul risultato di 1-1.
Nella stessa estate ha la
possibilità di esordire in maglia azzurra in un'amichevole contro il
Messico giocata proprio a Firenze.
Successivamente viene aggregato
alla disastrosa spedizione del Mondiale in Inghilterra, nel ruolo di
"apprendista" al pari di Gigi Riva.
Dopo l'esonero del commissario
tecnico Edmondo Fabbri, viene nominato Ferruccio Valcareggi che
decide di convocare Bertini nel 1967, durante le qualificazioni per
il successivo Europeo.
Il centrocampista toscano risulta
decisivo nella sfida contro la Romania, segnando la rete che
garantisce agli azzurri un'importante vittoria in trasferta a
Bucarest.
Valcareggi lo convoca ancora per
la gara persa 3-2 contro la Bulgaria a Sofia, ma decide di non
includerlo nei 22 che 2 mesi dopo vinceranno in casa l'ambito trofeo
continentale.
Il commissario tecnico stima
molto Bertini, ancora di più quando nella stessa estate il
centrocampista passa all'Inter, dopo 4 stagioni molto positive nella
Fiorentina.
Il neo interista viene subito
convocato per le amichevoli e le partite di qualificazione che la
nazionale disputa in vista dei Mondiali che si terranno in Messico.
Proprio in un'amichevole contro
la squadra messicana va a segno per la seconda ed ultima volta in
nazionale, realizzando la rete che vale il pareggio per 1-1.
Nel frattempo diventa un perno
del centrocampo nerazzurro, segnando addirittura 11 reti nella sua
prima stagione agli ordini prima di Alfredo Foni e successivamente
di Maino Neri.
Tali segnature sono favorite
anche dal suo ruolo di rigorista, a conferma della sue qualità
tecniche e della sua personalità.
La stagione successiva la squadra
ora allenata dal paraguaiano Heriberto Herrera arriva seconda alla
spalle del sorprendente Cagliari di Manlio Scopigno, che porta in
Sardegna il primo e finora unico scudetto rossoblù.
Bertini gioca un'ottima stagione,
che gli vale la convocazione per il Mondiale, nonché il ruolo di
mediano titolare durante tutta la rassegna.
Le sue prestazioni sono
encomiabili soprattutto nella famosa semifinale contro la Germania,
quando per buona parte della partita si trova a sorpresa a marcare
un Uwe Seeler schierato in una posizione arretrata.
Bertini svolge in pieno il suo
compito, finendo sfinito al termine di un incontro giocato in
condizioni ambientali davvero al limite dell'umana sopportazione
data l'altitudine.
Nella sfida finale contro il
Brasile, l'Italia, in evidente difficoltà fisica, adotta rigide
marcature ad uomo affidando le cure del temutissimo Pelé
inizialmente proprio a Bertini.
Successivamente il quadro tattico
cambia e O'Rey viene marcato da Burgnich, proprio quando lo
strapotere fisico e tecnico dei sudamericani viene fuori, sancendo
il 4-1 finale.
Il centrocampista dell'Inter
abbandona la contesa al 74', dopo la solita gara grintosa in mezzo
al fantasioso centrocampo della Seleçao.
Per Bertini la consolazione
arriva con la maglia dell'Inter nella stagione 1970/1971, quando la
compagine milanese, allenata da Giovanni Invernizzi, compie una
clamorosa rimonta ai danni dei "cugini" del Milan, vincendo
l'undicesimo scudetto della sua storia.
Decisivo in tal senso è il cambio
di allenatore, con il già citato Invernizzi che subentra al mai
apprezzato Heriberto Herrera, donando nuove motivazioni alla
squadra.
Anche nelle successive stagioni
il centrocampista toscano garantisce buone prestazioni, prendendo
parte alle qualificazioni per l'Europeo, chiusesi con l'eliminazione
per mano del Belgio.
La sconfitta per 2-1 a Bruxelles
è proprio l'ultima partita giocata da Bertini in nazionale, lasciata
dopo 25 presenze.
A livello di club arriva con
l'Inter in finale di Coppa dei Campioni nella stagione 1971/1972,
dovendosi arrendere alla superiorità dell'Ajax ed alla doppietta del
"profeta del gol" Johan Cruijff.
Con la maglia dell'Inter gioca
fino al 1977, garantendo in ogni occasione il solito apporto in
termini di grinta ed intelligenza tattica, ma cedendo
progressivamente il posto a Gianpiero Marini ed a Gabriele Oriali.
Non manca però di dare il suo
contributo in termini di reti, come dimostra questa suo famoso gol
realizzato contro la Juventus con un gran destro dalla distanza.
Lascia Milano dopo 210 presenze
in campionato e ben 31 reti, a riprova del fatto che le sue doti non
sono limitate al semplice gioco di incontrista.
La sua ultima stagione da
calciatore la gioca a Rimini in Serie B, dove mette a disposizione
tutta la sua esperienza per garantire la salvezza alla formazione
romagnola.
Grinta, abnegazione e qualità
hanno fatto di Mario Bertini uno degli elementi più affidabili del
suo periodo, rompendo in parte il luogo comune che vuole i mediani
tignosi e poco dotati dal punto di vista tecnico.
Nel suo ruolo il giocatore
toscano ha dato prova di ottime qualità, che lo hanno reso
insostituibile nella Fiorentina, nell'Inter ed anche nella
nazionale.
Tra gli indimenticabili
protagonisti del Mondiale del 1970 anche Bertini merita una
citazione, a fianco dei soliti tormentoni...
Giovanni Fasani
http://allafacciadelcalcio.blogspot.it/2016/06/mario-bertini.html
L’ex calciatore Mario Bertini: «Provai in ogni modo a
salvare mio figlio dalla droga. Doping? Giravano pasticche rosse,
non presi mai nulla»
di Paolo Tomaselli
Mario Bertini è
stato uno dei mediani più forti della storia azzurra. Dopo nove anni
all’Inter e l’ultima stagione al Rimini si è allontanato dal calcio.
Per sempre.
«Non ho tenuto
niente della carriera. Ho rigettato un po’ tutto, non so il perché».
Non le piaceva
l’ambiente?
«Non mi appartiene
adesso e molto probabilmente neanche prima. Ero anomalo: non andavo
alle cene coi club, facevo pochissime interviste. Se uno non dà, non
prende».
Mai un rimpianto?
«No, avevo deciso
di cambiare vita già prima di smettere. Nessun rimpianto, nessun
rimorso. Certo oggi con meno fatica si guadagna di più».
Neanche una
rimpatriata?
«Ho fatto qualcosa
a Firenze e poi per i 50 anni di attività di Pellegrini, ma alla
fine sono rimasto deluso. Pellegrini non l’ho quasi visto».
Che lavoro ha
svolto?
«Mi sono occupato
di abbigliamento di alto livello. Le cose sono andate bene, ma ho
dovuto fare tirocinio perché chi compra una camicia da 400 euro o
una giacca da 5 mila ti fa domande. E non può saperne più del
titolare».
Lei era così
anomalo che giocava a Milano, vivendo a Bergamo. Come mai?
«Mi è piaciuta la
Città alta, poi ho trovato moglie a Bergamo. Ora sono sposato in
seconde nozze, sempre con una donna bergamasca».
È nato in piena
guerra.
«E mi chiamavano
“rifugino”: sono nato in un rifugio».
Che infanzia ha
avuto?
«Felice. Non ho
sentito la povertà, anche se c’era. Però non ci è mai mancato
niente».
Al calcio arrivò
tardi?
«Sì. Giocavo con
gli amici in piazza, a 13 anni un osservatore mi ha visto e
convocato per un provino. Ma non sono andato, non avevo le scarpe.
Mi ha richiamato, dicendo di non preoccuparmi».
I primi stipendi?
«A Prato mi
pagarono con un premio: due settimane in Versilia tutto spesato. A
Empoli non arrivavo a fine mese. Ma i debiti sono sempre stato
abituato a non farne».
Passa dalla
Fiorentina all’Inter. E lo sa dai giornali.
«Sì, eravamo come
pecore al macello, andavi dove dicevano. Ma io ho potuto scegliere
tra Inter, Milan e Juve. In Nazionale mi hanno un po’ convinto ad
andare all’Inter».
Mediano con il
senso del gol. Si è rivisto in qualcuno?
«Il mio vero ruolo
era mezzala, mi identificavo molto in Bulgarelli. Mi rivedevo un po’
in Ancelotti. Oggi diciamo un po’ Barella, un po’ Marchisio: primo
difensore, ma capace di rifinire l’azione in area».
In tribuna al
Mondiale ’66, con un piede ingessato a Euro ’68, in campo da
protagonista a Messico ’70.
«Sia nel ’66 che
nel ’70 al rientro ci hanno lanciato i pomodori. Un’altra delusione.
A Milano gli animi erano surriscaldati per la staffetta
Rivera-Mazzola. E abbiamo preso i pomodori dai riveriani».
La staffetta ha
tolto qualcosa alla squadra?
«Abbastanza.
Non era tutto bello quello che abbiamo vissuto in Messico. Ci sono
stati dei grossi problemi, le discussioni hanno dato fastidio».
I giornali la
definivano pupillo di Valcareggi.
«Era così vero che
quando mi ha lasciato a casa non me l’ha detto. E, a differenza di
altri, non mi ha richiamato. Dal 1972 in Nazionale non ho più
giocato, anche se il ’72-’73 fu il mio campionato più bello».
In Messico con chi
era in stanza?
«Con Lodetti. Ho
vissuto tutta la sua vicenda: Anastasi si fece male, chiamarono
Boninsegna e Prati, mandando a casa Giovanni. Brutta storia».
Cosa accadde?
«Ho la mia idea:
dato che il Milan doveva cedere Lodetti alla Samp preferì non fargli
giocare il Mondiale: chi vinceva non era non vendibile».
Mazzola sostiene
che lo 0-0 con l’Uruguay per il passaggio del turno fu concordato. E
che solo lei corse e picchiò «come un matto.
«Per me quelle cose
non esistono. Figurati se mi metto a pensare a un pareggio. Io
giocavo a calcio per vincere: se perdevo stringevo le mani a tutti,
con la morte nel cuore».
Come fece Seeler
con lei dopo Italia-Germania 4-3?
«Sì, fu un duello
da sangue da naso, ma è venuto a scambiare la maglia. Siamo stati
esaltati, ma penso sia stata la mia peggior partita. Seeler di testa
le prendeva tutte».
È vero che
Valcareggi mise il terzo portiere Vieri a fare una sorta di filtro
con le belle ragazze attorno al ritiro?
«Forse ero troppo
preso da me stesso per capirlo».
Milano come l’ha
vissuta?
«Bene. Ma dovevi
dire di no sempre, altrimenti era un casino. Non era difficile fare
il playboy, ma dovevi scegliere fra quello o il calcio»
Con Boninsegna si
sente?
«Sì, è una persona
che dice sempre ciò che pensa, come me. Ed è stato il più grande
centravanti che ha avuto l’Italia. Cattivo, segnava in tutti i modi:
destro, sinistro, testa».
Finale all’Azteca:
Pelé con il 10, Bertini con il 10.
«Perché nessuno lo
voleva: Rivera perché forse non giocava, Mazzola perché diceva che
non l’aveva mai avuto. A me non pesava. Anzi, mi portò bene in quel
Mondiale».
Lei marca Pelé,
Valcareggi però sposta Burgnich su O Rey. E arriva il famoso gol.
«Mai capito perché
quella mossa. Stavo facendo benissimo: poi il c.t. mi mise su
Rivelino a fare il terzino perché faceva scoprire Burgnich».
Che pensa del
dibattito tra ex sull’abuso di medicinali?
«Vuol dire che
hanno preso qualcosa, io non ho mai preso nulla. C’erano delle
pasticchine rosse, quelle che prendevano anche gli studenti per
stare svegli. A me semmai serviva qualcosa per calmarmi».
Chi le ha lasciato
l’impressione di grandezza?
«Burgnich e Suarez.
Io sono arrivato dopo i fasti della grande Inter. Da loro ho
imparato come uomo e calciatore: Suarez quando beveva un bicchiere
in più, il giorno dopo era il primo a tirare la fila».
Nel 1990 uno dei
suoi due figli, Gualtiero, muore per overdose. Come l’ha vissuta?
«Difficile
spiegarlo. Dico solo che devono morire prima i genitori. Lui ha
fatto delle cose che non doveva fare e alla fine ha deciso di
togliere il disturbo. Abbiamo provato in tutti i modi a salvarlo:
era in comunità da due anni, era andato anche all’estero, era sulla
strada giusta. È morto il giorno prima di Natale».
Oggi è un nonno
felice?
«Sono bisnonno da
un mese e mezzo. Una delle mie nipoti è brava a sciare».
L’ex calciatore
oggi è una professione. Che ne pensa?
«Uno come me
guadagnerebbe 3-4 milioni. Ma noi sapevamo già che avremmo dovuto
lavorare: l’importante era non farsi mangiare i soldi»
https://www.corriere.it/
Si è
fatto le prime scarpe da calcio da sè chiedendo al calzolaio di
piantare dei chiodi sotto la suola dei mocassini. E' andato così al
provino del Prato . La sera i piedi scarnificati gli sanguinavano
come un Cristo. E lui non è un grezzo. al contrario è un calciatore
piuttosto tecnico. Prima che all'Inter arrivi Boninsegna, i rigori
li tira lui : dunque , sa calciare bene. Se ne accorge la Juventus,
che per colpa di una sua punizione a San Siro perderà lo Scudetto
del '76.
A lui il
commissario tecnico Valcareggi consegna Uwe Seeler per quel
pomeriggio all'Azteca di Italia-Germania. E i due si danno battaglia
nei cieli come gli Spitfire e gli Stuka.
Quelli
come lui spostano i blocchi di pietra e timbrano il cartellino,
entrano in fabbrica alle sei di mattina e ne escono alle due del
pomeriggio . Stanno inchiodati ai remi nel corpo centrale
dell'imbarcazione e vogano, consapevoli che la vita è fatica.
Lui è
quello che si porta il pranzo da casa nello scaldavivande d'acciaio
che immerge a bagnomaria nell'acqua calda : nello scomparto
superiore c'è la pasta al sugo mentre in quello più grande, sotto,
lo spezzatino con le patate. Nella borsa ha anche una bottiglia di
vino da mezzo litro con la chiusura a macchinetta.
Volete
sapere del provino al Prato ? L'hanno preso, ovvio. Offerta : due
settimane al mare in Versilia tutto compreso. Poi all'Empoli l'anno
dopo prenderà 100 mila lire al mese.
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Fraizzoli cominciò
allora un’intelligente e mirata opera di rifondazione,
affidandosi al duo Mazzola (ritiratosi al termine della
stagione 1976/77) – Beltrami (giovanissimo manager
proveniente dal Como) e programmando in tre anni uno
scudetto che puntualmente arrivò nel ’79-’80: era
l’Inter di Beccalossi e di Altobelli, nella quale
Marini, Bordon e Oriali erano ormai dei veterani. Tutti
comandati dal sergente di ferro Eugenio Bersellini in
panchina.
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Dalla stagione 1979/80 il logo
comincia a comparire anche sulle maglie e il primo ad
avere tale onore è ancora uno stemma che rompe con la
tradizione: uno scudetto con due strisce nerazzurre
trasversali, con un biscione bianco,dal collarino
nerazzurro al centro, non più nella classica posizione
attorcigliata verticale con l’omino in bocca, ma dai
lineamenti più simpatici e raffigurato in transito, e,
in alto a sinistra, la stella. Dal 1990 al 1998, invece,
si ritorna allo stemma usato fino al 1979, più piccolo e
sormontato da una grossa stella.
http://www.sportmain.it/2014/07/09/la-storia-del-logo-dellinter-dai-colpi-di-pennello-alle-stelle-rubate/
La sessione di calciomercato
estiva vede i campioni in carica del Milan che prendono
il giovane centrocampista Romano dalla Reggiana, la
Juventus prende 3 giovani dell’Atalanta (Marocchino,
Prandelli e Tavola), l‘Inter prende Mozzini in difesa e
Caso a centrocampo, il Napoli si rinforza con l’ala
Damiani, il difensore Bellugi, il mediano Guidetti e
l’attaccante Speggiorin. Il colpo più clamoroso però lo
fa il Perugia che ingaggia, in prestito dal retrocesso
Vicenza, Paolo Rossi.
La partenza è a favore dell’Inter
che, dopo la 1° giornata, è l’unica squadra ad aver
vinto; dopo essere stata agganciata la squadra
nerazzurra, alla 4° giornata, torna solitaria in testa,
laureandosi poi campione d’inverno con 1 giornata
d’anticipo.
Alla 17° giornata il Milan, unica
vera inseguitrice dei nerazzurri, perde ad Avellino e
l’Inter. vittoriosa sull’Udinese. scappa a +5. Alla 22°
i nerazzurri vincono il derby ed allungano a +8.
Il 23 marzo, alla fine della 24°
giornata, avviene un fatto clamoroso: la polizia arresta
dei calciatori tra i quali molti di Serie A (tra questi
Giordano, Paolo Rossi e Albertosi) che vengono accusati
di scommesse clandestine e di truffa ai danni di Massimo
Cruciani, un commerciante romano di frutta all’ingrosso.
Cruciani era fornitore di frutta per un ristorante
romano (“Le Lampare“, di proprietà di un certo Alvaro
Trinca) e qui è entrato in contatto con alcuni
calciatori della Lazio, di cui 4 (Cacciatori, Giordano,
Manfredonia e Wilson), gli avrebbero assicurato la
possibilità di truccare i risultati delle partite, per
poter così scommettere e guadagnare forti somme di
denaro.
In molti casi però le combine non
hanno funzionato e Cruciani si è ritrovato sommerso di
debiti e così il commerciante romano si è deciso a
denunciare il tutto alla Procura della Repubblica. Parte
quindi un processo che, dopo il secondo grado alla CAF,
dà questi verdetti: Milan e Lazio retrocesse in Serie B
ed Avellino, Bologna e Perugia che nel campionato
successivo partiranno da -5. Oltre alle squadre vengono
condannati anche i calciatori coinvolti nello scandalo,
ma pochi mesi dopo verranno assolti perché “il fatto non
sussiste”.
Tornando al calcio giocato,
l’Inter si laurea campione d’Italia con 2 giornate
d’anticipo, in uno dei campionati più brutti degli
ultimi anni. Il tecnico artefice di questo scudetto è
Eugenio Bersellini e l’undici tipo era questo: Bordon in
porta, in difesa Bini libero, Mozzini stopper, Canuti
terzino destro e Beppe Baresi terzino sinistro; a
centrocampo Pasinato e Marini come mediani, Caso ala
tornante destra e Beccalossi interno; in attacco abbiamo
Altobelli centravanti e Muraro ala sinistra. Tra i
titolari però troviamo spesso Oriali che gioca sia come
terzino ad entrambi i lati che come mediano.
Ecco il cammino dei nerazzurri
verso lo scudetto: INT-PES 2-0 (12’DOMENICHINI AUT., 69’ORIALI)
UDI-INT 1-1 (28’ALTOBELLI, 89’VAGHEGGI) INT-LAZ 2-1
(17’BECCALOSSI, 42’GIORDANO, 71’MARINI) BOL-INT 1-2 (7’MASTROPASQUA,
36’BINI, 40’BECCALOSSI) INT-NAP 1-0 (61’ALTOBELLI)
CAT-INT 0-0 INT-MIL 2-0 (14′ E 84’BECCALOSSI) TOR-INT
0-0 INT-JUV 4-0 (48′, 50′ RIG., E 79’ALTOBELLI, 74’MURARO)
AVE-INT 0-0 CAG-INT 1-1 (63’SELVAGGI, 76’ALTOBELLI)
INT-PER 3-2 (4’BECCALOSSI, 19′ E 89’ROSSI, 75’ALTOBELLI
RIG., 87’PASINATO) ROM-INT 1-0 (61’DI BARTOLOMEI RIG.)
INT-FIO 0-0 ASC-INT 1-1 (3’ALTOBELLI, 59’MORO) PES-INT
0-2 (34’BECCALOSSI, 62’PASINATO) INT-UDI 2-1 (42′ E
51’ALTOBELLI, 45’ULIVIERI) LAZ-INT 0-0 INT-BOL 0-0
NAP-INT 3-4 (19′ E 32’MURARO, 22’PASINATO AUT., 35’IMPROTA,
57’ALTOBELLI, 71’BARESI, 81’GUIDETTI) INT-CAT 3-1
(15’BECCALOSSI, 36’ORIALI, 60’ALTOBELLI, 78’BRESCIANI)
MIL-INT 0-1 (77’ORIALI) INT-TOR 1-1 (20’GRAZIANI, 82’MURARO)
JUV-INT 2-0 (32’BETTEGA, 79’FANNA) INT-AVE 3-0 (16’CASO,
68’ROMANO AUT., 82’AMBU)INT-CAG 3-3 (3’BARESI AUT.,
6’SELVAGGI, 33’MURARO, 49’ORIALI, 50’MOZZINI AUT.,
57’ALTOBELLI) PER-INT 0-0 INT-ROM 2-2 (18’PRUZZO, 36’ORIALI,
43’TURONE, 88’MOZZINI)FIO-INT 0-2 (6’ORIALI, 39’RESTELLI
AUT.) INT-ASC 2-4 (25’TORRISI, 44’MARINI AUT.,
55’BELLOTTO, 58′ E 73′ RIG. ALTOBELLI, 66’ANASTASI)
http://www.calciogazzetta.it/altro/la-storia-di-un-campione-trattata-da-calcio-gazzetta/storie-di-calcio-campionato-197980-il-trionfo-dellinter-e-lo-scandalo-scommesse/
I 60 ANNI DI SPILLO
EUGENIO
E REGOLATEZZA (maggio 1980)
MILANO.
Lo chiamano "allenatore di campagna" e della gente
semplice, quella che misura ancora il tempo con il sole. Di questa
gente Eugenio Bersellini ha mantenuto la modestia, la capacità
ormai rara di commuoversi, la grande dignità, la possibilità di
tenere dentro di se anche le emozioni più violente che, al massimo,
confessa con un lievissimo tremore della voce. Uomo attaccato alla
realtà delle cose di tutti i giorni, Bersellini non si è scomposto
nemmeno quando - a due minuti scarsi dalla fine della partita -
Mozzini ha colpito il pallone che ha trafitto Tancredi dando all'Inter
la gioia del dodicesimo scudetto, una gioia che inseguiva da nove
anni. E dire che la stessa azione ha provocato una incontrollabile
crisi di pianto in Onesti, l'alter ego di Bersellini. Lui -
l'Eugenio - invece niente: stesso tono di voce pacato, stessa
freddezza nell'esaminare i pro e i contro della partita, stessa
determinazione nel dire, "da domani si ricomincia"... Come
se vincere uno scudetto fosse cosa che capita tutti i giorni. E
queste parole pronunciate proprio mentre, pochi metri più in là,
Fraizzoli sottolineava di non riconoscersi in "questo"
calcio e, conseguentemente, di essere incapace di gioire come
avrebbe voluto. Fa una certa impressione vedere tanta emotività nel
presidente e tanta freddezza nel mister, ma forse è anche grazie a
questo cocktail di caratteri che l'Inter ha vinto il titolo.
RIMPIANTI.
"Lo scudetto è arrivato - ci ha detto Bersellini - ma non è
che sia soddisfatto in pieno di quello che ha fatto la mia squadra.
Non mi riferisco tanto all'ultima partita, che i ragazzi hanno
giocato in uno stato di enorme tensione, quanto a quello che è
stato fatto durante tutto il campionato. So di essere un
perfezionista, un incontentabile, ma troppe cose, provate e
riprovate in allenamento non sono state realizzate in partita. Mi
riferisco in particolare agli schemi, agli incroci, alla confusione
che vedo ancora sulle... palle morte. Su quelle, cioè, che vengono
giocate da fermo, su punizione o su corner. Ma c'è di più. Questo
anno abbiamo vinto lo scudetto, d'accordo, però giocavamo meglio
dodici mesi fa quando l'inesperienza finiva sempre col
fregarci...". A questo punto, l'immagine del Bologna che
giocava come si gioca il paradiso (e che non vinceva il titolo) è
entrata negli spogliatoi di San Siro...
CANDORE.
Capita la stessa cosa per molto meno, figuriamoci quando una squadra
vince il campionato. Tutti lì, attorno al mister. Per
complimentarsi con lui, per dirgli che è bravo, per ricordargli che
c'era un altro come lui... ma in Cina e l'hanno ammazzato. Ma
Bersellini è uno che da quest'orecchio mostra di non sentirci e lo
dice chiaro e netto: "In questa impresa io ho una parte di
merito, d'accordo, ma il merito maggiore e della società che mi ha
aiutato a fare la squadra che desideravo. Quando arrivai all'Inter,
tre anni fa, vidi tre ragazzini che mi parvero subito ben dotati:
alludo a Pancheri, Baresi e Ambu che, infatti, adesso sono titolari.
Era chiaro, però, che non bastavano e l'anno successivo pescai
Altobelli, Beccalossi e Pasinato che sono stati tra i punti di forza
della mia terza e migliore stagione nerazzurra. Quindi, se abbiamo
vinto il dodicesimo scudetto della storia dell'Inter, il maggior
merito, lo ripeto, va alla società: io mi tengo solo quello
dell'impegno e della serietà nel lavoro cui si potrebbe aggiungere
un po' di psicologia e tanto dialogo con i giocatori. Io non sono
certo di quelli che dicono ai propri ragazzi che sono i migliori di
tutti. Al contrario: al massimo dico loro che, sì, possono ottenere
determinati risultati..., ma solo a certe condizioni. E siccome all'Inter
ho sempre avuto la fortuna di avere a che fare con della gran brava
gente, i risultati mi hanno dato perfettamente ragione".
MISSIONE
COMPIUTA. Tre anni or sono l'Inter si affidò alla troika
Bersellini-Mazzola-Beltrami: il loro programma era di rinvigorire e
ristrutturare la squadra nelle prime due stagioni per poi renderla
competitiva nella terza. Oggi, quindi, possiamo parlare di missione
compiuta. "Forse con un minimo di anticipo rispetto ai
programmi - precisa Bersellini - ma non sarò certamente io a
lamentarmi. Adesso, comunque, è proibito dormire sugli allori: il
difficile, ami, comincia proprio adesso, visto che sin d'ora
sappiamo che il prossimo anno avremo il doppio impegno Campionato
Coppa dei Campioni". A questo punto, il discorso sullo
straniero diventa immediato. Stando alle voci di corridoio, all'Inter
sono indecisi tra un centrocampista e una punta: nel primo caso
Beltrami tenterebbe un ultimo aggancio nei confronti di Hansi Muller
mentre nel secondo di nomi non se ne tanno. La decisione definitiva,
ad ogni modo, spetta a Bersellini.
PRESENTIMENTO.
San Siro stava sempre più somigliando ad un deposito di locomotive
sotto pressione quando Mozzini - mai a segno da quando gioca nell'Inter
e autore di cinque gol nel Torino - azzeccava un collo destro pieno
che definire "colpo della domenica" è il minimo.
"Che succedesse proprio questo - confessa Bersellini - non
l'avrei mai immaginato, che però sì arrivasse al colpo di scena ci
avrei giurato. All'inizio del secondo tempo l'ho detto: pareggiamo
di sicuro e con uno dì quei gol che la gente non si aspetta. Non
direi proprio di aver sbagliato pronostico".
DEDICA.
Nella carriera di un allenatore - soprattutto se di campagna - uno
scudetto non è certo cosa che capiti spesso per cui merita ben più
di un premio in denaro e di una bottiglia di champagne. Uno scudetto
significa il raggiungimento di un traguardo sperato sopra ogni altra
cosa. La relazione di un sogno per tanto tempo covato in fondo al
cuore ma cosa si prova in un momento così? "Una gioia enorme.
Ma anche un grosso pugno nello stomaco e subito sei preso dalla
commozione: come in un film vedi tutto quello che hai fatto, rileggi
tutta la tua vita; ripercorri la tua carriera sin dal primo giorno.
E poi pensi a qualcuno come per fargli vivere accanto a te questo
meraviglioso istante. Anche a me è capitato tutto questo. Anche a
me è venuta in mente una persona". Chi? "Una persona che
appartiene a Eugenio Bersellini uomo e non a Eugenio Bersellini
allenatore dì calcio. E' per questo che non ne faccio il nome, che
questa emozione la tengo esclusivamente per me
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Coppa dei Campioni 1981 - Inter - Real Madrid (1-0)
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Dopo il Mondiale di
Spagna, Fraizzoli si trovò a fare i conti con le nuove
leggi sul trasferimento dei giocatori, perse due
giocatori importanti (Oriali e Bordon) e ne fu molto
amareggiato: forse in quel momento cominciò a pensare di
lasciare la presidenza ma, come era nel suo carattere,
volle preparare con cura la successione.
Per iniziare chiamò
nel Consiglio Ernesto Pellegrini e lo fece
vicepresidente. Era un periodo molto combattuto, si
trattava di decidere una volta per tutte di staccare il
cordone ombelicale e come ricorda lo stesso Ivanoe,
tutto cominciò con l’ insonnia: “Continuavo a rigirarmi
nel letto, la Renata una notte mi disse: Ivan, basta,
vendi l’Inter, così torneremo a vivere“.
da
http://storiedicalcio.altervista.org/blog/ivanoe_fraizzoli.html
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Era l’autunno ’83:
Ivanoe Vittorio Fraizzoli, ex pugile (peso medio, si
allenava alla palestra “Bosisio”) e ciclista mancato,
diede ragione a sua moglie, tifosa dell’Inter come
e più di lui, e decise che era venuto davvero il tempo
dell’addio.
Chiamò Ernesto Pellegrini, allora vice – presidente, che
per lettera gli aveva manifestato la propria
disponibilità a succedergli e l’operazione venne chiusa.
A tempo di record e in gran segreto. Finchè il 15
gennaio ’84, la domenica di Sampdoria Inter 0-2, nello
spogliatoio deserto di “Marassi”, chiamò Mazzola e
Beltrami, consigliere delegato e d.s. nerazzurri e
confessò : “Ragazzi, ho venduto l’Inter“.
La notizia uscì tre
giorni dopo e, il 19 gennaio, Fraizzoli spiegò il suo
addio: “Con il cuore non si possono più dirigere le
società; questo calcio non lo riconosco più. Io sono un
uomo d’altri tempi. Il mio calcio era quello di via
Goldoni, una serie di traumi mi hanno spinto a lasciare,
l’ultimo questa estate, quando Bordon e Oriali, due
figli per me, se ne sono andati alla Samp e alla
Fiorentina. Io mi sento un De Amicis, ma i De Amicis che
vogliono scrivere il libro “Cuore” con le squadre di
calcio sono fuori moda“. Scoppiò in lacrime e lasciò.
da
http://storiedicalcio.altervista.org/blog/ivanoe_fraizzoli.html
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