Il più grande centravanti del calcio italiano.

"Qualcuno coniò il termine "centravanti" un po' troppo presto, perchè colui che doveva davvero impersonarlo doveva ancora nascere. Il 13.11.1943 il "centravanti" fu chiamato Roberto, e di cognome Boninsegna, e da grande voleva sempre seminare il terrore fra le difese avversarie.

Non un uomo, ma una bestia che annusa il gol nell'aria di rigore e che, a discapito anche della sua incolumità, cerca con ossessione il dio Palla al solo fine di infilarlo (ad ogni costo) oltre quella linea sul prato lunga sette metri. Parecchie volte ha rischiato grosso pur di andare in gol, il suo orgasmo settimanale. Un magnifico attaccante, buono fuori ma terribilmente spaventoso dentro quell'area di rigore.

Con tutto il rispetto per le altre stelle che hanno solcato i campi italiani, non ricordo altri centravanti che potevano incarnare tale ruolo.In confronto ai primi corazzieri, lui e Muller erano un po’ bassotti, ma tanto devastanti agli occhi dei difensori che, quando entravano in azione, li vedevano come giganti spaventosi capaci di acrobazie folli, stacchi di testa poderosi, cannonate potenti e dannate incursioni al limite del ricovero in neurochirurgia per le tacchettate ricevute in testa.

Bonimba era proprio così, non aveva paura di niente ed aveva una forza incredibile. Marcarlo da difensore doveva essere terribile. Lo si vedeva spuntare all’improvviso dalla nebbia, entrava in area di rigore con un aspetto che già ti faceva paura con un ghigno che quasi la diceva tutta “devo metterla dentro, devo metterla dentro, ad ogni costo” accompagnato da quel malessere ossessivo, ansimante, che gli si scatenava in corpo quando correva sull’erba di uno stadio e scorgeva una porta a trenta metri dal suo piede sinistro.

Dopo Riva e Boninsegna non ho visto altri panzer italiani degni di questo nome. Un altro come quei due deve ancora nascere.

 

 

 

Le sue squadre

 

 

Storie di cuoio. Boninsegna e gli Invincibili del ’56.

I ragazzi della foto sono quelli del Sant’Egidio. Sono Gli invincibili di Bonimba.

Titolo omonimo del libro scritto dalla penna storica di Adalberto Scemma, detto “Muro”, uno dei protagonisti di quella straordinaria formazione («nonostante la presenza di Boninsegna, ero il capocannoniere, pur rimanendo un gregario »). La storia degli “Invincibili” del Sant’Egidio è quella dei 14-15enni che oltre a non perdere in campo («imbattuti per sessanta partite di fila, dalla nevicata del 1956 fino al ’59, battendo squadre di 18enni») non si sono mai persi di vista: un’amicizia calda e indissolubile da sessant’anni a questa parte. E te li ritrovi imperterriti «seventeenagers» - dice ridendo Scemma, il primo degli accosciati nella foto -, poster in carne ed ossa, che anche questa sera si danno appuntamento alla trattoria del “Cina”, per brindare alla vita. Anche il “Cina” è uno degli undici «oriundi», perché «tutti arrivavamo dai quartieri distanti dalla parrocchia di Sant’Egidio, l’unica veramente consacrata a “San Pallone”». Lì, nel 1952 venne fondata la squadra, l’orgoglio del vicario, don Sergio Negri e del fido don Nardino Menotti, «gli assistenti spirituali che uscivano dalla grazia di Dio solo in occasione dei derby feroci contro gli Aquilotti». Erano stati loro i primi storici “invincibili”, i rivali della formazione del collegio degli orfani confinante con il campo del Sant’Egidio, l’Anconetta. «La foto l’abbiamo scattata lì»: il primo a sinistra è don Negri e dall’altra parte in piedi, quel ragazzone in giacca e cravatta, era il mister. «L’indimenticabile Massimo Paccini». Era stato un terzino di posizione Paccini, arrivò fino alla serie B con il Mantova e poi con la Cremonese, ma a 26 anni smise incidente in campo - e iniziò la sua missione di allenatore che alternava allo studio notarile presso cui lavorava. «Il “Pacio” con spirito da Azione Cattolica aveva anticipato i sistemi del “modello Ajax” di Crujff - spiega Scemma - , al Mantova che guidò nella stagione 1972-’73 a fine allenamento portava i giocatori della prima squadra ad allenare quelli del settore giovanile». Cose che aveva già sperimentato al Sant’Egidio e poi nel Guastalla che guidò alla vittoria del titolo nazionale giovanile con in squadra un fantasista tutto «Eugenio e sregolatezza», lo showman Gene Gnocchi. Paccini si dava e concedeva tutto ai suoi ragazzi, unico veto, la bicicletta. «Pensava che guastasse il tono muscolare e poi tanto all’arrivo il primo era sempre lui, Bobo Boninsegna.

 

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Era un “ragnetto” Bobo, il più piccolo di tutti, ma quando colpiva di testa saliva già in cielo, a tredici anni correva i cento metri in 13 secondi e anche come ciclista ci staccava per via di quelle gambe forti e possenti come due tronchi di quercia». Boninsegna, il futuro “Bagonghi” - il nano acrobatico del circo Togni - o “Bonimba” nel lessico familiare a Gianni Brera, prima dei 277 gol in carriera in Serie A (con Cagliari, Inter, Juventus…) e della “partita del secolo”, Italia-Germania 4-3 (semifinale Mondiali di Messico ’70), era stato il «ragnetto» dalle orecchie a sventola del Sant’Egidio e il cocco di mamma Elsa che all’ottavo mese di gravidanza andava a a vedere al campo il suo Bobo. «Al custode che gli chiedeva se volesse partorire allo stadio, l’energica signora Elsa, la moglie del Bruno sindacalista della cartiera Burgo (dove Bonimba è tornato a festeggiare i suoi 70 anni con gli operai cassaintegrati) rispondeva indicando l’amica che l’accompagnava: “Non si preoccupi, lei fa la levatrice”». Era la mamma dei fratelli Vaini, Sandro e Paolo, il primo campione di nuoto e uno dei “fuori foto” del Sant’Egidio (con Francesco Madesi e il “centauro” Ermanno Bertolini) l’altro compagno di squadra di Boninsegna al Potenza, stagione 1964-’65 (5° posto in B, record insuperato dai lucani). Prima di arrivare al mitico Bonimba - il terzo dei ragazzi nella foto - di fianco a don Negri, sta il «jolly» Gianni Ferroni. «Ognuno di noi possedeva una sola maglia - da far lavare a casa - e un soprannome. Quello di Gianni era e rimane il “Ferro”. Aveva iniziato da portiere, ma ai piedi metteva delle scarpe da basket - suo primo amore - così scivolava sempre e alla seconda papera lo spostammo all’attacco. Non è arrivato al calcio che conta, ma in compenso ha fatto bene come ispettore commerciale». Dhttps://www.mimmorapisarda.it/2024/invi2.pngopo di lui sta la “la Freccia”. «Giorgio Alfano, ala destra, è diventato direttore dell’Inps di Mantova e adesso finalmente si gode la pensione». Segue Renzo Campanini, «Il Ciampano, difensore alla Cesare Maldini, con annesse “maldinate”.

Cadè che l’aveva avuto nel Mantova diceva che era da Nazionale, ma si fracassò un ginocchio e a 21 anni ha chiuso con il calcio. Ha ripiegato da ragioniere felice alla Belleli». Ai tavoli della trattoria “Amici Miei” arriva carico di tortelli e lambrusco il “Cina”, al secolo Franco Salardi. «Questo locale l’ha messo su apposta per noi Invincibili», confermano in coro i seventeenagers. «Il “Cina” doveva esordire nel Mantova, ma gli fregò il posto Gioia, altro ex-S’Egidio - , che si fece un decennio di Serie A nel Mantova, Lazio, Varese, Messina, Parma. La fascia da capitano? Il nostro capitano storico era “Pedro” Roberto Pedrazzoli (il secondo da sinistra degli accosciati), oggi apprezzato pittore e per quindici anni assessore alla cultura». Il “Cina” quel giorno ottenne la fascia - una stringa di scarpa - dopo che Paccini l’aveva degradato in seguito a una rissa furibonda. Botte da orbi tra le pozzanghere con uno degli Aquilotti, «Sergio Salamini, meglio noto come il “Mago”, lanciato in tv da Enzo Tortora che lo faceva seppellire o ipnotizzare le galline in diretta». Il primo degli accosciati, Giancarlo Fornasari, poteva diventare un giocatore da ammirare in tv, in mondovisione, e invece oggi i suoi compagni lo sfottono con affetto alternando il soprannome de “il Naso” a quello di “Occasioni perdute”. «Fornasari è stato un Mariolino Corso che rifiutò la Juve rispondendo sfacciato a “Farfallino” Borel: “No grazie, io tifo l’Inter”. All’Inter lo chiamarono con Boninsegna, ma “il Naso” non si presentò al provino, Bobo giocò ala sinistra al suo posto, segnò cinque gol e da lì iniziò quella storia da campione che tutti conosciamo.... Mentre Fornasari con il Mantova, in B, perse l’ultimo treno, e in trasferta ha continuato ad andarci, ma come funzionario della Belleli costruzioni ». Vita apparentemente meno agitata, quella di Alberto Ponti, (il “Ponci”) «terzino destro, anima delicata, faceva il fiorista, ma in campo diventava una iena». Nessuno era più passionale e generoso di un figlio del popolo - nato nell’ “etiopico” quartiere Tigrai - del portiere Giancarlo Sganzerla. «Lo “Stildo” ovvero la volpe. Come metà di quella nostra squadra poteva tranquillamente arrivare in Serie A con Bonimba, ma Sganzerla si è perso nel dilettantismo e una vita da rottamaio, prima della morte precoce che l’ha portato via da noi». Un brindisi a Stildo e una lacrima per quella meglio gioventù del pallone mantovano che si è presa la rivincita, fuori dal campo, con il geniale “Nacka”. Il biondino, ultimo della foto che si ispirava, anche somaticamente, al “Nacka” Skoglund dell’Inter. «Il nostro “Nacka” è Bruno Scardeoni: mezzala destra che all’Inter ci giocò pure. Andò al Genoa chiamato dall’ungherese György Sárosi, che lo paragonava a Kubala. Oggi “Nacka” Scardeoni è uno dei massimi esperti d’arte del ’600-’700. Solo un carattere fragile, da poeta, mandò in frantumi il suo, il nostro sogno: fare almeno una presenza in Serie A...». Sogno realizzato da Bonimba ieri, e oggi, da un “nipote” del Sant’Egidio, quel Kevin Lasagna che con il Carpi ha addirittura realizzato il suo primo gol in A, a San Siro, all’Inter di Mancini.

E allora, in alto i nostri calici: gli “Invicibili” non muoiono mai.
https://www.avvenire.it/agora/pagine/boninsegna-

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Ecce Bonimba

 

E' il novembre del 1943. Nasce a Mantova, in piena seconda guerra mondiale, Roberto Boninsegna. Celebre attaccante dell'Inter, dove ha militato dal 1969 al 1976 (vincendo lo scudetto, nel 1971). Ha giocato poi nella Juventus, conquistando due scudetti, nel 1977 e nel 1978. Con la Nazionale, ricorda ''AgenziaInforma'', 22 partite e nove reti, una di queste contro la Germania Ovest nella mitica semifinale dell'Azteca finita 4-3 e un'altra nella finale del '70 persa contro il Brasile. Fu soprannominato ''Bonimba'', termine coniato dal giornalista sportivo Gianni Brera. Attualmente e' direttore tecnico del Mantova e del Trento.

A trentatre anni un uomo è considerato un giovane uomo, ma un giocatore di calcio è irrimediabilmente un vecchio calciatore e la sua carriera viene già considerata sul viale del tramonto Quando arrivò alla Juventus, nell’anno 1976/77, Roberto Boninsegna stava toccando proprio questa quota. Alle spalle, una carriera lunghissima, non priva di soddisfazioni ma che, a quel punto, era ragionevole considerare più o meno conclusa.

Era arrivato all’Inter a quattordici anni, il suo idolo da bambino era Skoglund. Cinque anni di settore giovanile, quindi aggregato alla prima squadra. Eppoi a Prato: «La considerai una bocciatura. Herrera disse che era Allodi a non credere in me, Allodi diede la colpa a Neri, allenatore della Primavera. Fatto sta che mi ritrovo in B prima a Prato, poi a Potenza. Giocavo all’ala sinistra, quelli che stavano accanto a me segnavano tanto: Taccola a Prato, Bercellino a Potenza. Poi mi sono detto: contano i goal, adesso li faccio io. E sono diventato più egoista, ho cominciato ad accentrarmi».

Poi il debutto in A col Varese. Ironia della sorte a San Siro contro l’Inter: «E ne prendiamo 5».

Ma a Varese prende anche 11 giornate di squalifica, poi ridotte a 9: «In Varese - Cagliari un difensore devia in tuffo di pugno un mio colpo di testa. Per l’arbitro Bernardis di Trieste è calcio d’angolo! Gli dico di tutto, lo spintono anche. E finisco a Cagliari. Non mi aspettavo di essere acquistato dalla squadra rossoblu; a Varese avevo segnato solo 5 goal da ala sinistra e loro avevano Riva. Vengo spostato al centro dell’attacco. Sono tre stagioni indimenticabili, conquisto la Nazionale».

Il presunto dualismo con Riva: «Tutto falso. Eravamo come fratelli, abbiamo vissuto per due anni nella stessa camera, tornavamo insieme in auto dall’allenamento. Abbiamo smentito per anni, poi ci siamo stancati di farlo. È vero, in campo era diverso. Ci mandavamo a quel paese».

Cagliari è soprattutto Manlio Scopigno: «Un allenatore fuori dal comune, un po’ fannullone, tatticamente bravissimo. Non sbagliava mai i cambi, anche perché noi del Cagliari eravamo davvero pochi».

Ironico, disincantato con la battuta sempre pronta: «Una volta mi sono presentato in smoking all’allenamento del mattino. Arrivavo da Venezia in aereo, dopo il Carnevale. Scopigno mi guarda e dice: “Almeno potevi toglierti i coriandoli dai capelli”.
Un giorno Scopigno mi dice: “Il Cagliari ha bisogno di soldi, gli unici che hanno mercato siete tu e Riva e Gigi non vuole andar via”.
Gli risposi che avrei accettato soltanto l’Inter. Affare fatto: tornavo a casa in cambio di Domenghini, Gori e Poli più un conguaglio. Non ho rimpianti per non aver vinto lo scudetto col Cagliari. Se non mi avessero ceduto, difficilmente sarebbero riusciti a rafforzare la squadra. L’Inter finì seconda, dietro il Cagliari. Io segnai il goal della vittoria interista a San Siro che fece riavvicinare la Juventus al Cagliari».

Lo scudetto con l’Inter arriva la stagione dopo, 1970/71, anno in cui Boninsegna vince anche la classifica, successo che bisserà nel campionato seguente: «Veramente i titoli di capocannoniere sono 3. Nel 1974 mi tolsero un goal all’ultima giornata contro il Cesena; dissero che era autorete per una deviazione in barriera».

Boninsegna all’Inter gioca sette stagioni: uno scudetto, 113 goal in campionato e disputa, il 31 maggio 1972, a Rotterdam, la finale della Coppa dei Campioni, persa contro la grandissima Ajax di Cruijff.

In Nazionale pareva avere la strada chiusa: per la fase finale del Mundial messicano, per esempio, gli era stato preferito Anastasi, ma poi un casuale incidente aveva messo fuori causa lo juventino. E Boninsegna visse così la bella avventura messicana, segnando 2 goal importanti: alla Germania Ovest nell’indimenticabile incontro di semifinale vinto nei supplementari per 4-3 ed al Brasile nella finale persa per 4-1. In totale è stato 22 volte azzurro e ha realizzato 9 goal.

Nato a Mantova, il 13 novembre 1943, per vocazione e professione ha fatto il centravanti, un attaccante pericoloso, forte e combattivo malgrado un fisico ritenuto non eccezionale. Alto 1 metro e 74, il peso forma oscilla sui 74 chilogrammi; forse, quando nell’estate del 1976 arrivò alla Juventus, accusava peso superfluo, ma con qualche sacrificio presto tornò in piena efficienza. Volle chiarire subito, con i fatti, di non aver accettato il passaggio alla Juventus soltanto per strappare un ultimo, ricco ingaggio. Poteva far ancora bene, lo sentiva ed accettò con entusiasmo la scommessa sul futuro.

Nei primi giorni di vigilia della stagione juventina, disse: «Al calcio muovo una critica, quella di soffocare i giovani. Io sono riuscito a strappare alla scuola un diploma, quasi violentando la mia volontà. Sono un impulsivo, sincero, franco fino alla sfrontatezza ed all’inizio di carriera ho stentato parecchio».

Si considerava «estroso, bizzarro e lunatico, un fiammifero che si accende per niente, però sempre pronto a pagare in prima persona, a chiedere scusa». Lo giudicano un duro, in campo e fuori, ma è soltanto persona concreta, ordinata, quasi una rarità nel mondo molto provvisorio del pallone.

«Alla Juventus ho conosciuto due personaggi eccezionali: Boniperti e l’avvocato Agnelli. Una domenica resto a casa per una colica renale, la Juventus pareggia. L’indomani mi chiama al telefono l’Avvocato.
“Boninsegna”, mi dice, “guarisca presto, la Juventus ha bisogno di lei. Domenica voglio vederla in campo”.

Io già mi sentivo molto meglio».

La Juventus anni settanta era un meccanismo quasi perfetto, Boninsegna, detto Bonimba, s’inserisce alla perfezione. Non una delle sue qualità sembra appannata: lo sviluppato senso tattico, la grande capacità combattiva, il tiro forte e preciso, soprattutto il fiuto del goal molto spiccato. Il bilancio di tre stagioni è lusinghiero: 93 partite e 35 goal un concreto contributo alla conquista del 17° e del 18° scudetto bianconero.

Troverà il modo di farsi ammirare anche in campo europeo, risultando protagonista nella conquista della Coppa Uefa: «Quando sono arrivato a Torino, non avrei mai pensato di vincere due scudetti, una Coppa Uefa ed una Coppa Italia; ero però conscio del mio ottimo stato fisico e del fatto che, dovendo sostituire un beniamino della tifoseria come Anastasi, avevo il dovere di dare sempre il massimo. Le cose, soprattutto nelle due prime stagioni, andarono davvero bene, tant’è che Boniperti mi offrì la possibilità di un quarto anno di contratto, a quasi trentasette anni. Ma, a quella veneranda età, preferì la sicurezza di un posto al Verona, in serie B, alla certezza di un impiego part-time con i bianconeri».

Boninsegna ha incarnato alla perfezione lo stile di quella Juventus, che era acciaio puro. La cosa divertente è che all’epoca della campagna acquisti molti storsero il naso, dicendo che la Juventus si era invecchiata prendendo gli scarti delle milanesi (l’Inter diede Boninsegna e soldi per Anastasi). Al primo Juventus - Inter (a Torino) fu 2-0 per i bianconeri, con doppietta proprio di Boninsegna; lo fecero marcare da tale Mariano Guida, troppo tenero e molle per poter contenere un “Bonimba” letteralmente scatenato.

Finale Coppa Uefa nello stesso anno: Boninsegna è infortunato, il Trap lo schiera ugualmente, non riuscirà a finire il primo tempo, sostituito da Bobo Gori. Ingaggia un duello con lo stopper spagnolo a suon di ceffoni, una cosa impressionante. Palesemente non era in grado di giocare, ma menò come un fabbro il malcapitato difensore basco; il loro duello entusiasmò lo stadio.

Ancora: dopo il disastro di Germania 1974, la nuova Italia di Bernardini gioca in Olanda la prima partita di qualificazione agli europei. La formazione era un po’ cervellotica: qualche vecchio (Boninsegna, Juliano, Morini), qualche virgulto della nuova generazione (Antognoni, Rocca, Roggi) qualcuno della generazione di mezzo (Anastasi, Causio, Orlandini che marcò, si fa per dire visto che non gli fece neanche il solletico, il magico Cruijff). Boninsegna non solo segnò di testa dopo cinque minuti, ma ingaggiò un duello da bucaniere con Rijsbergen, il biondo stopper olandese, altro tipino non proprio accondiscendente. Per la cronaca vinse l’Olanda per 3-1, con doppietta del papero d’oro.

Dopo tre brillanti stagioni in bianconero, l’arrivederci senza falsa commozione. Il destino lo porta a Verona, in serie B, ma decide di chiudere: è il campionato 1979/80. Il calcio italiano perde uno dei suoi grandi protagonisti.

Una volta ha confidato: «Sposai mia moglie dopo sette anni di fidanzamento. È da una vita che so tutto di lei e lei di me. E siccome siamo entrambi appagati e felici, mi ritengo un privilegiato».

Quando smette di giocare, una lunga esperienza come selezionatore della Rappresentativa di C («Speravo di far carriera in federazione»), due anni come tecnico del Mantova poi basta.

Boninsegna non è di quelli che dice “Ai miei tempi era un’altra cosa”, anche se ammette che per dieci anni è andato a dormire alle 22:30 facendo vita da atleta: «Il calcio è sempre bello. E se giocassi oggi con tutti questi esterni a fare cross, chissà quanti goal segnerei».


Bonimba festeggia i 70 anni alla Cartiera Burgo

«Qui mio padre operaio e sindacalista»
Il campione ha ricordato i successi sul campo e ha espresso solidarietà agli operai in mobilitazione da febbraio
 

L’ex calciatore Roberto Boninsegna festeggia il compleanno alla cartiera di BurgoL’ex calciatore Roberto Boninsegna festeggia il compleanno alla cartiera di Burgo
Calciatore generoso sul campo, uomo altruista nella vita: 70 candeline accese per Roberto Boninsegna, che rispolvera i successi di una carriera per festeggiare il proprio compleanno insieme agli operai della Cartiera Burgo di Mantova, là dove il padre Bruno lavorò a cavallo tra gli anni ’50 e ‘60, riempiendo di ricordi la sua memoria di bambino. È così che pezzi di storia si intrecciano, grazie allo spirito audace e a una buona dose di talento del campione che ribaltò il risultato della leggendaria partita Italia-Germania 4 a 3 ai mondiali del 1970 (conta 22 presenze e 9 reti in maglia azzurra) e in 5 anni segnò cento gol con la maglia dell’Inter. «Mi viene ancora la pelle d’oca a pensarci - racconta - non eravamo certo i favoriti contro i tedeschi: furono 90 minuti difficili e nemmeno troppo belli, ma quei supplementari furono eccezionali. Come il mio tiro rasoterra, che non facevo mai ma lì fu perfetto». Settanta anni sono sufficienti per analizzare le profonde differenze tra epoche sportive e approccio umano. Bonimba - così è rimasto, grazie a Gianni Brera - che oggi è allenatore e dirigente sportivo, è stato anche un campione del Cagliari di Gigi Riva, contribuì alla vittoria della Juventus in due campionati, una Coppa Italia e nel 1977/’78 della prima Coppa Uefa per la squadra torinese.
LA TELEFONATA DI GIANNI AGNELLI - Di quegli anni Boninsegna racconta la telefonata di Gianni Agnelli, che lo chiamò appena seppe che il giocatore era stato colpito da una colica renale per dirgli «Mi raccomando, domenica la Juve ha bisogno di te». Parlare con lui è come aprire pagine di ricordi leggendari: compaiono i litigi inevitabili con Trapattoni, l’amicizia fraterna con Riva, la simpatia di Manlio Scopigno. «Capii solo con il tempo l’egoismo della punta, che mi valse tanti gol in carriera. Più che generoso forse ero solo intelligente, il mio era un vero gioco di squadra, non prendevo iniziative ignorando i compagni. Un attaccante deve rimanere lucido. Balotelli, tanto per fare un paragone attuale, è più simile a Gigi Riva che a me: lui finalizza sempre, ha un approccio diverso». Tra i suoi sogni c’è il campionato inglese e osservando nuove rivelazioni e antiche fedi prevede che Juventus, Napoli e Roma possano davvero contendersi lo scudetto di questa stagione.
SERATA CONVIVIALE A BURGO - A Bonimba gli operai della Burgo, che da febbraio a oggi non hanno mai abbandonato l’area mensa trasformandola in luogo d’incontro e di cultura, hanno dedicato una serata conviviale di festa con filmati storici dei gol e ricordi vividi del padre, che fu membro della commissione interna di fabbrica e attivo rappresentante nelle lotte sindacali. «La Burgo in quegli anni è cresciuta tanto, era un esempio di lavoro e successo, lo vedevo osservando e ascoltando mio padre a casa. Le lotte dei lavoratori erano per lo più sul fronte del diritto alla salute, quando si riparavano naso e bocca con i fazzoletti. Ricordo il latte che gli davano da bere per contrastare i veleni che respiravano. È morto a 61 anni. La Burgo era sulla mia strada: se non avessi sfondato come calciatore, mi dicevano, «un posto in fabbrica ce l’hai di sicuro».
06 novembre 2013 - Valeria Dalcore

 

 

Carriera da allenatore

1989-1994          Italia Italia U-19               Osservatore

1994-1998          Italia Italia U-20               Osservatore

1998-2001          Italia Italia U-21               Osservatore

2001-2003          Mantova

   

 

 

La Nazionale

 

 

 

 

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QUELLA LUNGA NOTTE ALL'AZTECA

 

No, non ci doveva proprio essere in Messico, il grande Bonimba. Ma il destino invece decise che proprio lui sarebbe stato tra i protagonisti di quell'indimenticabile Mondiale...

Quel Messico 70 è stato quasi come un Quarantotto, le fiamme di Italia-Germania, match storico che, chissà, avrà trovato posto anche nei libri dei bambini. Non si scopre più niente, c'è solo il brivido che frusta la schiena, ancora oggi.

 "Ma è un mondiale del quale si può parlare all'infinito; almeno per me, che vi sono stato paracadutato quando sembrava lo dovessi vedere in tv. La mia soddisfazione, anche se il Brasile ci ha puniti nella finale, è stata doppia".

 Roberto Boninsegna, detto Bobo, è mantovano di tempra schietta. "Quel mondiale, il primo del dopoguerra favorevole all'Italia, non sarà mai

dimenticato da chi lo ha masticato dal primo all'ultimo giorno".

Già, l'avvio pesante, il fortunoso tiraccio di Domenghini con la Svezia, il bagliore col Messico, l'angoscia e i fuochi artificiali di Italia-Germania, la resa in finale di un pugno di azzurri scarico come uno schiacciapate appena usato. Ma Bobo ha ancora qualcosa di suo da raccontare...

 Perchè doppia, la tua soddisfazione?

"Perchè io non c'entravo, erano già tutti in Messico quando una notte sono stato buttato giù dal letto dal ragionier Bianchi che mi ha detto: va domattina al consolato messicano di Milano e poi prendi il primo aereo e fila ai mondiali. Al consolato sbatte contro Pierino Prati, anche tu qui? Sì, ci hanno richiamati. Che cos'era successo? Anastasi era stato ricoverato all'ospedale a Roma per un intervento inguinale. Lui era il titolare. Così con Valcareggi erano partiti in ventuno, mentre dovevano essere ventidue. Era mancato un attaccante e Valcareggi si rese conto che due soli attaccanti, Riva e Gori, per un mondiale erano pochi, così recuperarono Prati ed io, già scartati!"

 E vi siete trovati in ventitrè...

"Certo, e questa è stata una brutta e deprimente faccenda. Arrivati al mattino, la sera si è scatenato il toto-rientro anticipato. A chi tocca? A noi appena arrivati no, agli inamovibili da sempre nemmeno, ma uno ci doveva essere. E ci fu, il ragazzo più buono di tutti. Bisognava vederlo, Giovanni Lodetti, uno dei milanisti. Uno straccio, quando gli comunicarono che doveva ripartire per l'Italia, settemila chilometri. E' stato un atto crudele, inumano".

Chi comandava, Mandelli?

 

"Mandelli va bene alla Confindustria. Sì, allora comandava lui".

E intanto scoppiò il casino con Rivera, cui Mandelli aveva fatto capire che non sarebbe partito titolare. Rivera voleva fare fagotto e tornare a casa, così raccontava Rocco che arrivò di corsa per calmarlo. E poi dopo qualche partita il compromesso, la staffetta.

"La mia opinione è questa: Rivera e Mazzola erano due grandissimi giocatori ai quali nessuna nazionale avrebbe rinunciato. Ma là ci furono anche altri fattori che incisero nelle decisioni. La stampa era divisa a metà sui due giocatori. E la stampa ha il suo peso, perchè non mi si venga a dire che è stato il gruppo dell'Inter a far fuori Rivera. Questa è una bugia colossale. Nè io, nè Bertini, nè Facchetti, nè Burgnich abbiamo aperto bocca, anche perchè non siamo mai stati interpellati. Io non vivevo in clan; avevo i miei amici, Albertosi, Poletti, Gori, Prati".

 E Mazzola c'entrava nella decisione di far fuori Rivera?

"Beh, il "baffo" forse, anche perchè era parte interessata. Il problema io lo vidi così: scelta politica.  Altrimenti la staffetta che si fece dopo non aveva ragione di esistere. I due, grandi giocatori, non potevano scendere in campo insieme, perchè erano diversi in tutto, nel carattere, nel senso di posizione, nella mentalità in campo, nel gioco.

Però visto come erano andate le cose, Valcareggi ha commesso un errore colossale a non far entrare in campo Rivera nel secondo tempo di Italia-Brasile. Mi stava anche bene che lo lasciasse in panchina per tutte le altre partite, ma quella no. Se c'era una partita nella quale ci doveva essere Rivera era proprio quella col Brasile".

La sera prima, si diceva, i giocatori riuniti avevano deciso che per Rivera non c'era posto. C'era anche il gruppo interista...

"Io non ho partecipato a riunioni, eppoi, ripeto, non facevo parte di nessun gruppo o di clan. Valcareggi a me non ha mai chiesto niente. I miei rapporti con lui sono stati difficili. Ho sempre sofferto per entrare in nazionale. In Messico sono stato classificato il secondo centravanti dopo Gerd Muller, però non appena la nazionale si è ritrovata dopo i mondiali io ho avuto posto solo in tribuna".

 Valcareggi come tecnico com'era?

"Un brav'uomo".

 Ma chi comandava?

"Franchi, era l'unico dirigente all'altezza. Mandelli come capogruppo d'èquipe è fallito in Messico, come fallì poi Allodi in Germania".

 Ma questa staffetta perchè è nata?

"Valcareggi al principio aveva visto giusto, o Mazzola o Rivera. E fece giocare Mazzola che aveva fatto un grande campionato con l'Inter, aiutandomi anche a fare parecchi gol. Mazzola copriva di più, con Rivera rischiava di più. Ma poi gli imposero la staffetta. Non la decise lui. Fu una strana spedizione quella. Buoni risultati, ma sempre polemica, caos, i giornali non ce li facevano leggere, ma sapevamo lo stesso che infuriavano pareri contrastanti".

Come bilancio, Mexico '70 è stato buono per l'Italia. O no?

"Senz'altro. Io dico di più, avevamo una squadra fortissima, la migliore che l'Italia abbia espresso nel dopoguerra: Albertosi, Burgnich, Facchetti, Bertini, Rosato, Cera, Domenghini, Mazzola o Rivera, Bonsinsegna, De Sisti, Riva".

 Ma nell'82 abbiamo vinto i mondiali in Spagna.

"Giusto, ma lo abbiamo vinto in Europa. In Centro e Sud America non ha mai vinto una squadra europea, e noi ci siamo andati vicini".

 Ma si poteva vincerlo, quel mondiale?

"Vincerlo non so, ma si poteva fare di più. Due sono i motivi che ci hanno impedito di batterci meglio col Brasile nella finale: primo, i supplementari con la Germania; secondo, la non utilizzazione di Rivera. Ripeto, avevamo una grande nazionale, però gestita male".

 E dopo il rocambolesco 4 a 3 con la Germania eravate sicuri di battere anche il Brasile?

"No, questo no. Però, rientrati in ritiro ci siamo messi a tavola molto euforici, e adesso sotto col Brasile, urlavamo. Invece il giorno dopo eravamo morti. Quei centoventi minuti di gioco erano stati micidiali. Così, al Brasile che aveva Pelè, noi abbiamo regalato i supplementari e Rivera. Un vantaggio troppo grosso. Abbiamo resistito un'ora. Loro hanno fatto il secondo gol con Gerson al 66'.

Albertosi era un pò in tilt sin dalla drammatica partita con i tedeschi, quando s'era arrabbiato prima con Poletti per il secondo gol e con Rivera per il terzo. Non era il solito Ricky. Arrivò tardi su quel tiro di Gerson che si poteva parare. I brasiliani erano freschi e non stressati come noi. In semifinale con l'Uruguay avevano avuto vita facile. Noi siamo stati stroncati dalla mezz'ora storica con la Germania. Dopo il gol di Gerson ne abbiamo subito un altro balordo: Pelè era in fuorigioco quando diede la palla a Jairzinho. Ad ogni modo abbiamo fatto di più di quanto dovevamo fare".

Però avevate fatto molta fatica nelle prime tre partite, quelle con Svezia, Uruguay e Israele.

"Non è vero. Eravamo in fase di carburazione, ma abbiamo giocato piuttosto tranquilli. Con la Svezia abbiamo fatto subito gol con Domenghini, un gol trovato, grazie al portiere Hellstrom, d'accordo, ma pur sempre il gol che ci bastava. Con l'Uruguay lo zero a zero andava bene sia a noi che a loro. Con Israele dovevamo vincere nettamente, ma un segnalinee ci giocò brutti scherzetti, annullandoci due o tre gol. Per più di un'ora giocammo senza preoccupazioni, ma nel finale vivemmo attimi di autentica paura, perchè gli israeliani si erano fatti più intraprendenti. Bastava un loro gol e per noi sarebbe stata finita. Insomma, difendemmo lo zero a zero. In quella partita Rivera era entrato per la prima volta nel mondiale, sostituendo nel secondo tempo Domenghini, poi la staffetta la fece con Mazzola".

 Il pubblico, com'era stato a Puebla e Toluca?

"Niente di particolare. In pratica non lo abbiamo mai avuto con noi. Subito dopo giocammo con il Messico, che noi eliminammo per 4 a 1 e perciò ci ritrovammo il tifo contro all'Azteca quando affrontammo la Germania. I messicani erano per i tedeschi, che tra l'altro davano da lavorare a molta gente con la Volkswagen. Diciamo che durante tutti i mondiali il pubblico non ci è mai stato esageratamente contro, ma nemmeno mai a favore".

E gli ultimi sei minuti di Rivera col Brasile?

"E chi li ha capiti?" 

Al ritorno a Fiumicino fischi, insulti, delirio solo per Rivera privilegiato dalle mamme d'Italia.

"Devo dire che tutto sommato il mondiale è stato per noi felice e positivo. Vicecampioni del mondo. Poi ha avuto riscontri incredibili, vice-campioni e criticati. Ma a Fiumicino la gente non ce l'aveva con noi giocatori. Cercava i dirigenti e forse qualche giornalista. La stampa spaccandosi in due, Mazzola e Rivera, aveva complicato molte cose. I tifosi cercavano Mandelli e Valcareggi. E' stato un epilogo amaro quando doveva essere trionfale per tutti".

 

Testo raccolto da Aldo Pacor

http://www.storiedicalcio.altervista.org/boninsegna_mondiali_messico_1970.html

 

 

 

 

Juventus e Cagliari nella storia di Bonimba

 

Parla Boninsegna, che giocò in entrambe le squadre: "Scopigno? Diverso dagli altri, un po' fannullone, tatticamente bravissimo. Riva? Ma quale dualismo, eravamo fratelli". Poi l'Inter e quindi la Juve: "Dissi: a Torino non vado. Poi conobbi Agnelli e Boniperti..."

 

MILANO, 2 febbraio 2008 - Torna Juventus-Cagliari. Il 2-2 del 15 marzo 1970 a Torino consegnò di fatto lo scudetto al Cagliari. Roberto Boninsegna quella partita non la giocò perché era all’Inter, ma sia nella Juve che nel Cagliari ha lasciato il segno. Eccome. Mantovano, 64 anni, oggi osservatore per l’Inter e commentatore de La 7, è stato uno dei più grandi attaccanti del calcio italiano.

UNA VITA ALL’INTER - Era arrivato in nerazzurro a 14 anni, il suo idolo da bambino era Skoglund. Cinque anni di settore giovanile, quindi aggregato alla prima squadra. E poi a Prato. "La considerai una bocciatura. Herrera disse che era Allodi a non credere in me, Allodi diede la colpa a Neri, allenatore della Primavera. Fatto sta che mi ritrovo in B prima a Prato, poi a Potenza. Giocavo all’ala sinistra, quelli che stavano accanto a me segnavano tanto: Taccola a Prato, Bercellino a Potenza. Poi mi sono detto: contano i gol, adesso li faccio io. E sono diventato più egoista, ho cominciato ad accentrarmi". Poi il debutto in A col Varese. Ironia della sorte a San Siro contro l’Inter: "E ne prendiamo cinque". Ma a Varese prende anche undici giornate di squalifica, poi ridotte a nove. "In Varese-Cagliari un difensore devia in tuffo di pugno un mio colpo di testa. Un po’ come Couto, Per l’arbitro Bernardis di Trieste è calcio d’angolo! Gli dico di tutto, lo spintono anche. E finisco a…Cagliari".

A CAGLIARI CON RIVA - "Non mi aspettavo di essere acquistato dal Cagliari: a Varese avevo segnato solo 5 gol da ala sinistra e loro avevano Riva. Vengo spostato al centro dell’attacco. Sono tre stagioni indimenticabili, conquisto la Nazionale". E il dualismo con Riva? "Tutto falso. Eravamo come fratelli, abbiamo vissuto per due anni nella stessa camera, tornavamo insieme in auto dall’allenamento. Abbiamo smentito per anni. Poi ci siamo stancati di farlo. E vero, in campo era diverso. Ci mandavamo a quel paese". Ma lei rubò a Riva il gol dell’1-1 nella finale mondiale del 70 col Brasile. "No, è stato Gigi a piombarmi addosso. E a proposito di quella finale se Valcareggi avesse fatto giocare insieme Mazzola e Rivera nel secondo tempo, facendo uscire uno stanchissimo Domenghini, chissà".

FUMO DI SCOPIGNO - Cagliari è soprattutto Manlio Scopigno, "un allenatore fuori dal comune, un po’ fannullone, tatticamente bravissimo. Non sbagliava mai i cambi, anche perché noi del Cagliari eravamo davvero pochi". Ironico, disincantato con la battuta sempre pronta. Celebre il "disturbo se fumo?" pronunciato a notte fonda interrompendo un poker dei suoi giocatori che ovviamente fumavano tutti. Ricorda Boninsegna: "Una volta mi sono presentato in smoking all’allenamento del mattino. Arrivavo da Venezia in aereo dopo il Carnevale. Scopigno mi guarda e dice: 'Almeno potevi toglierti i coriandoli dai capelli' ". Un’altra volta eravamo in trasferta a Roma, l’allenatore viene raggiunto da moglie e figlia. Scopigno si presenta con un regalino per la bambina. "Cosa c’è nel pacchetto? " gli chiede la moglie. E lui "Sigarette". E nelle batture finali di quel Juve-Cagliari del '70, quando Cera si avvicina alla panchina del Cagliari e chiede: "Quanto manca?". Scopigno, con la sigaretta in bocca, risponde: "A che cosa?".

RITORNO A CASA - "Scopigno mi dice: il Cagliari ha bisogno di soldi, gli unici che hanno mercato siete tu e Riva. Gigi non vuole andar via. Gli risposi che avrei accettato soltanto l’Inter. Affare fatto: tornavo a casa in cambio di Domenghini, Gori e Poli più un conguaglio. Non ho rimpianti per non aver vinto lo scudetto col Cagliari. Se non mi avessero ceduto, difficilmente sarebbero riusciti a rafforzare la squadra. L’Inter finì seconda dietro il Cagliari. Io segnai il gol della vittoria interista a San Siro che fece riavvicinare la Juve al Cagliari". Lo scudetto con l’Inter arriva la stagione dopo, 1970-71, anno in cui Boninsegna vince anche la classifica, successo che bisserà nel campionato seguente. "Veramente i titoli di capocannoniere sono tre. Nel '74 mi tolsero un gol all’ultima giornata contro il Cesena: dissero che era autorete per una deviazione in barriera. Oggi sarebbe gol cento volte". Boninsegna all’Inter gioca sette stagioni: uno scudetto, una finale di Coppa Campioni, 113 gol in campionato.

LA LATTINA? TUTTO VERO - "Lo so che non ci crede nessuno, ma io quella lattina in testa l’ho presa per davvero". 20 ottobre 1971, Moenchengladbach, ottavi di finale di Coppa dei Campioni, Borussia-Inter. Verso la mezzora del primo tempo la lattina. "Sentii una gran botta alla testa, svenni per 10-15 secondi. Volevo tornare in campo, ma il dottor Quarenghi mi fece andare negli spogliatoi dove anche il funzionario Uefa constatò che avevo un grosso bernoccolo in testa. Non mi fecero rientrare, eravamo convinti che ci dessero partita vinta e invece si rigiocò a Berlino. Arrivammo in finale ma contro l’Ajax non ci fu nulla da fare. Peccato".

LA JUVE, LA COLICA E L’AVVOCATO - Estate 1976, Fraizzoli mi chiama a Viareggio dove sto in vacanza e mi dice: "Ti devo cedere alla Juve" e io : "Come ti devo cedere? Ma non è lei che comanda? Presidente, alla Juve ci va lei". E invece in tre stagioni conquista due scudetti, una coppa Uefa e una coppa Italia. "E ho conosciuto due personaggi eccezionali: Boniperti e l’avvocato Agnelli. Una domenica resto a casa per una colica renale, la Juve pareggia. L’indomani mi chiama al telefono l’Avvocato. Boninsegna, mi dice, guarisca presto, la Juve ha bisogno di lei. Domenica voglio vederla in campo. Io già mi sentivo molto meglio…". Quando smette di giocare, una lunga esperienza come selezionatore della Rappresentativa di C ("Speravo di far carriera in federazione"), due anni come tecnico del Mantova poi basta. Boninsegna non è di quelli che dice "Ai miei tempi era un’altra cosa", anche se ammette che per dieci anni è andato a dormire alle 22,30 facendo vita da atleta. "Il calcio è sempre bello.. E se giocassi oggi con tutti questi esterni a fare cross, chissà quanti gol segnerei".

Giuseppe Bagnati

http://www.gazzetta.it/Calcio/Primo_Piano/2008/02_Febbraio/02/bonimbacagliarijuve.shtml


 “HURRÀ JUVENTUS” DEL MAGGIO 1979:

Il Risorgimento di questo nostro povero ricco calcio italiota passa inevitabilmente attraverso un centravanti longobardo, mantovano precisamente, dalla pedata gloriosa e dalla carriera carica di onori. Parliamo chiaramente di Boninsegna detto ormai, da tutti quelli che seguono, da vicino o da lontano, le vicende del pallone, Bonimba.

Bonimba è una parte di noi e non poteva che essere la Juve la squadra del suo crepuscolo avventuroso e però grandissimo. Ora, si pone il problema, scrivendo di questo attaccante che è presente e però già storia, monumento, mito, il problema dicevamo di raccontarlo proprio limitandolo e limitandoci al crepuscolo glorioso, agli anni juventini.

Il “professional” dalla carriera lunghissima e spesso trionfante meriterebbe forse una narrazione estesa, totale, dalle origini. Ma in tal modo si perderebbe il fascino di tanti particolari, sfumature, sfaccettature di questo personaggio, legate all’oggi ed allo ieri ma non all’altro ieri.

Perciò raccontiamo in chiave tecnica e romantica il personaggio Bonimba dal momento del suo avvento alla Juve. Poco tempo è passato, ma la vicenda è ugualmente densissima di momenti importanti e persino decisivi, per far luce in profondità su questo attaccante risorgimentale, capitato per caso sui palcoscenici disincantati di questo nostro calcio anni sessanta e settanta.

Un minimo di premessa, comunque, ci vuole. Boninsegna esplode, come cannoniere, senza macchia e senza paura, nell’isola che è già, o sta per diventare, il regno di un altro longobardo dal sinistro tonante, Gigi Riva vale a dire. Il Cagliari di quella seconda metà degli anni sessanta si appresta a recitare la favola bella della grandezza assoluta, ed intanto si costruisce una dignità ed un prestigio sulle prodezze di questi due compari assetati di goal e di gloria.

Si capisce comunque che il Risorgimento di Bonimba sarà più sofferto, più combattuto di quello di Luigi Riva da Leggiuno. Ed accade infatti che lo scudetto più sbalorditivo dei tempi moderni, quello vinto appunto dal Cagliari, non vede più, al fianco di Riva, il Bonimba mantovano, nel frattempo approdato, meglio riapprodato, all’Inter.

Il Mundial messicano ed il successivo scudetto vinto con i nerazzurri ripagano comunque ampiamente Boninsegna del mancato trionfo isolano. E si apre la lunga parentesi nerazzurra, gioie tante, specialmente all’inizio, e dolori qualcuno di troppo, specialmente negli ultimi tempi.

E siamo alla Juve, estate 1976. Un ciclo che pare finito, spezzato dal Torino, e che invece in casa bianconera stanno preparandosi a riaprire subito con gli innesti più opportuni e più discutibili, sulla carta, che mai siano stati effettuati. Bonimba è appunto la novità più clamorosa, più contraddittoria se vogliamo.

Se ne va Pietruzzo Anastasi, il. funambolo dei nostri sogni goliardici, ed arriva lo stagionato bomber longobardo in cerca di rivincite. Qualche perplessità è d’obbligo. Ma non c’è manco il tempo di esternarle e già Bonimba è splendidamente protagonista.

L’età non conta se il fisico e lo spirito sono integri. Ora, il fisico di Bonimba è da guerriero e lo sorregge un temperamento senza pari. Un concentrato di volontà di rivincita, di abnegazione, di dedizione ad una causa immediatamente fatta propria. Ci sono le premesse per una stagione esaltante.

Bonimba-Bonimba, il tifoso della Curva Filadelfia crede immediatamente nel campione in cerca di resurrezione, e il bomber ripaga. Il campionato 1976/77, che sarà il campionato di tutti i record bianconeri, è subito nel segno di questo centravanti dal cuore antico e dalla pedata virtuosa. Olimpico, 3 ottobre, prima di campionato nel sole, Lazio che arremba, Juve che vince con doppietta di Bobby-gol e decisiva zampata di Boninsegna. Il centravanti si ripete sette giorni più tardi battendo il Genoa con goal di puro possesso, secondo il più genuino repertorio dei cannonieri di mestiere. La Juve gioca sotto cieli sempre più azzurri, a Cesena il 28 novembre coglie la settima vittoria consecutiva su sette partite, è una diavoleria del vecchio Bobo questo successo risicatissimo sui romagnoli, strappato con unghie e denti ad una manciata di minuti dalla line.

Ma non c’è solo il campionato, perbacco. Coppa Uefa, è il secondo, importantissimo traguardo della “Signora”, da onorare con giusta determinazione. Manchester City al primo turno, il Comunale si infiamma nel retour-match, c’è un goal da rimontare, ci pensa Scirea prima del riposo. A qualificare la Juve per i turni che seguono è naturalmente Bonimba, impeccabile, sornione, appostato sempre al punto giusto per i cross malandrini di Causio e le sponde del compare goal Bettega. Sembra che ira Bobby e Bobo ci sia atavica confidenza, nascono dall’intesa fra questi due tipi umanamente e calcisticamente tanto diversi le cose più sorprendenti ed insieme esaltanti della Juve. Eliminato come abbiamo detto il City, ecco un altro Manchester sulla strada bianconera, l’United stavolta.

Ed è nuova, freschissima gloria per il centravanti della risorgente grandezza juventina. Bonimba uno e due, oplà, il gioco è fatto. La Juve che al Maine Road aveva perso col minimo scarto si diverte al Comunale, vincendo, anzi dominando, per 3-0 gli inglesi, primi due goal firmati dal centravanti che ad ogni goal sembra ringiovanire.

Ma la gloria europea non distrae dal cammino in campionato, che procede spedito per i bianconeri. nonostante l’intoppo di un derby perso. Il 9 gennaio la Juve torna Juve vera in occasione della insidiosa trasferta a Napoli. Una partita lineare, perfetta, mai in discussione. Ancora e sempre Boninsegna cannoniere, il raddoppio è di Scirea, 2-0 per la Juve splendidamente prima. Ed arriviamo al momento più esaltante, certo il più atteso per Bonimba: il 16 gennaio c’è Juve-Inter al Comunale. È la partita di tutte le rivincite, quella che riassume la ferrea volontà di riscossa del campione nei panni di ex.

Spesso, il desiderio di strafare condiziona in senso negativo, impedendo al “professional” di esprimere in campo tutto il proprio effettivo valore. Ma non è questo certamente il caso di Bonimba. La sua partita, pure evidentemente polemica, è esemplare per impegno e continuità, e soprattutto è condita di una esaltante doppietta che fissa il risultato sul 2-0 per la Juve. Una vittoria, doppia, la ennesima riprova dell’enorme talento di questo campione senza età. Il momento d’oro del centravanti dà respiro a tutta la squadra, rinfranca Bettega ed è la migliore garanzia che cl sarà raccolto abbondante a fine stagione.

Davvero singolare è la semplicità con cui Bobo va in goal, in campionato come in Coppa. Stopper giovani e mastini di stampo antico cercano di capirci qualcosa, adottando una guardia specialissima nei suoi confronti, ma con risultati invero scarsi. Bonimba è in effetti prototipo e ultimo esemplare di una generazione di centravanti indomiti, di solidissimo mestiere e coraggio non comune. C’è sempre una spiegazione per il goal anche più illogico: questione di colpo d’occhio, di prevedere anche le più infinitesimali distrazioni dell’avversario diretto o del portiere, per gabbarlo con toccatine piene di estro ed assolutamente estemporanee. Quel che comunemente si chiama opportunismo è in realtà cosa tremendamente complessa, una specie di dote naturale affinabile con l’esperienza ma che non si crea né si distrugge di incanto. Non c’è magia nei goal di Bonimba, come non è affatto magico l’incedere di quella Juve verso lo scudetto e la Coppa Uefa. Bonimba è “professional” al massimo grado in una Juve di “professional”, semmai entusiasma questa continuità nel segnare e far segnare.

Il campionato inneggia alla Juve rutilante costretta a vincere sempre per tener distante il Toro della ritrovata forza dirompente, Bonimba trasforma il lavoro della squadra in goal che sono moneta sonante, ed anche dal dischetto ripete l’opportunismo e la continuità d’azione di ogni momento, di ogni partita. I rigori di Bonimba non lasciano scampo, anche così si vincono le partite. Non si vince il derby di ritorno, 3 aprile 1977, sol perché il tocco diabolico di Boninsegna su punizione finisce contro l’incrocio dei pali di Castellini anziché mezza spanna più sotto. E pareggio soltanto, ma basterà. A Genova, 22 maggio, scudetto-day, l’apoteosi bianconera comincia nel momento in cui il centravanti di tutte le battaglie bianconere depone in rete il goal della sicurezza contro la Samp. Ed è giusto, sacrosanto omaggio alla più terrificante, sorprendente arma escogitata dalla Juve per tornare grande subito. Boninsegna, naturalmente.

L’anno secondo di Boninsegna juventino ricalca nella qualità, se non nella quantità, quello precedente. Dopo l’orgia di reti contro il Foggia (6-0, dopietta di Bonimba) ci sono momenti di ripensamento per il bomber e la squadra tutta, culminati con la bruciante sconfitta dell’Olimpico contro la Lazio.

Ma sette giorni dopo, il segnale della riscossa parte proprio dal piede di Bonimba, lesto a calciare in rete un pallone malandrino, sfuggito dalle mani di Carmignani portiere viola. Sull’onda di quel goal rapinoso, la Juve dilaga, e tutto torna come prima. Campione d’Inverno, poi (5 febbraio) vittoriosa sul Napoli con minimo sforzo, auspice l’eterno Bonimba: è la Juve ancora grande protagonista, è Bonimba sempre il suo cannoniere più rappresentativo. La doppietta di Bobo alla Lazio è altra pagina di gloria, e alla fine, a scudetto riconquistato, le cifre sono ancora tutte per l’inossidabile fuoriclasse. 11 reti aveva segnato nel 1976/77 su 29 partite di campionato disputate. 10 le reti del 1977/78, ma con appena 21 partite a disposizione. Un’impresa senza precedenti, degnamente ultimata contro il Vicenza, nella trionfale passerella del 18°.

Il resto è storia recente, presente vivo. La Juve 1978/79 ha ancora bisogno di Bonimba, ma gli anni passano e pure i rodomonte invecchiano. E canizie gloriosa, ma sempre canizie.

Il mestiere del centravanti è duro e senza pietà. Solo chi ha scorza durissima e cuore saldo può emergere e, soprattutto, durare. Bonimba, ultimo grande guerriero dell’area di rigore, contraddistingue con le sue imprese un’epoca intera, ed è intanto emblematico di uno stile ineguagliabile.

Il crepuscolo suo priva le cronache domenicali di una componente importante e, ahimé, insostituibile. E normale, Dietro i grandi che lasciano, c’è sempre un vuoto.

 

 

 

 

Boninsegna festeggia 70 anni: "Solo Inter, ma quanti tradimenti"

Bonimba: "Quella nerazzurra sarà sempre la mia squadra...Dissi a Fraizzoli di andare lui alla Juve"

 

13 novembre 2013 - MANTOVA

Boninsegna 70 non è soltanto un titolo del mondiale messicano. E’ anche un compleanno speciale per Roberto Boninsegna, da Gianni Brera ribattezzato Bonimba, mitico centravanti che oggi segna anche contro il tempo, con il suo contagioso entusiasmo. “Non mi sento 70 anni. Anzi, già che ci sono, chiarisco subito che i miei capelli sono naturali, senza tinta e senza trucco. Un dono di famiglia, perché mia mamma è morta a 91 anni e ne aveva ancora la metà neri”.

Voltandosi indietro, che cosa ricorda più volentieri?

I miei anni con l’Inter che sarà sempre la mia squadra, malgrado i tanti tradimenti clamorosi”. Per esempio? “Primo tradimento. Cresco nell’Inter e sto per esordire in prima squadra, a Bergamo nel ’63, a 19 anni. Herrera, però, schiera ancora Di Giacomo con un braccio ingessato e pochi giorni dopo mi mandano in prestito al Prato, in B. A fine stagione torno a Milano, sperando di rimanere almeno vicino a casa, ma Allodi mi dice: “O vai a Potenza, o smetti di giocare”. Sono costretto ad andare, sempre in B. Intanto l’Inter vince tutto e io soffro perché avrei potuto esserci anch’io”.

Poi, però, torna alla grande…

Ma dopo un altro giro largo, sempre in prestito, perché da Potenza mi mandano al Varese, in A, con cui debutto proprio contro l’Inter. Quindi la parentesi, bellissima, al Cagliari, dove vado a titolo definitivo. Finiamo secondi nel ’69 e sento che può arrivare lo scudetto, ma Scopigno mi dice che bisogna sacrificare uno tra me e Riva. Gigi non vuole lasciare la Sardegna e capisco che devo partire io, però dico che accetto soltanto se torno all’Inter. Mi accontentano, anche perché in cambio arrivano Gori, Poli e Domenghini, che non me l’ha mai perdonata”.

E finalmente amore ritrovato...

Arriviamo secondi proprio dietro il Cagliari, ma sono felice perché mi sento a casa e Corso mi ripete che con me la Grande Inter avrebbe vinto di più. La gioia più bella rimane quel gol in rovesciata, contro il Foggia a San Siro, nel giorno in cui festeggiamo lo scudetto del ’71. Per due campionati sono capocannoniere, ma in realtà sarebbero tre, perché nel ’74 mi tolgono un gol contro il Cesena, dicendo che era autorete e così vince Chinaglia. Sono gli anni della famosa lattina di coca-cola che mi colpisce in testa a Moenchengladbach e della finale di coppa dei Campioni persa contro il grande Ajax del grandissimo Cruijff. Stava finendo un ciclo, ma io sarei rimasto tutta la vita se non fossi stato tradito per la seconda volta”.

Come?

Sono in vacanza a Viareggio, a pranzo con mia moglie. Mi telefona Fraizzoli e mi dice che mi ha venduto alla Juventus. Gli rispondo testualmente: “Presidente, alla Juve ci va lei”. Invece, come la prima volta a Potenza, parto perché allora non ci si poteva rifiutare. E dopo tanti anni ho ancora la sensazione che Mazzola c’entrasse qualcosa con quella cessione, perché guarda caso uno a uno erano andati via tutti i grandi tranne lui”.

Un campione interista alla Juve, oggi sarebbe impensabile.

All’inizio è stata dura anche per me. Trovo compagni coi quali ci eravamo menati per anni, ma poi con i gol tiro tutti dalla mia parte, anche i tifosi. E in fondo andò meglio a me che ad Anastasi, passato all’Inter al mio posto e poi finito all’Ascoli, perché con la Juve vinco due scudetti e una coppa Uefa. Alla fine sarei rimasto ancora, perché Boniperti voleva rinnovarmi il contratto. Ma ormai mi ero stancato, perché Trapattoni mi lasciava sempre in panchina. E’ stato un grande professionista, che si preoccupava persino dei tacchetti delle scarpe, ma sulle sue scelte è meglio sorvolare. Non gli ho mai perdonato la panchina a Bruges nella semifinale di coppa dei Campioni del ’78. Stiamo perdendo, ma mi fa entrare soltanto nei supplementari e siamo eliminati. Io e Bettega scherzavamo sempre a fine partita e dicevamo: “Anche oggi Giovanni non ne ha indovinata una””.

Inter e Juve a parte, lei è stato anche vice-campione del mondo in Messico.

Segno contro la Germania, prima di fare a Rivera il passaggio del 4-3, poi segno ancora in finale, ma non ho mai un buon rapporto con Valcareggi, che sbaglia tutto. Lasciare fuori Rivera nella finale era come lasciare fuori Pelè nel Brasile. Quando perdiamo 3-1 e Rivera sta per entrare, Domenghini e Mazzola si rifiutano di uscire e allora Valcareggi chiama me. Sono così arrabbiato che esco e gli butto le scarpe verso la panchina”.

A parte queste arrabbiature, ha qualche rimpianto?

Non aver mai allenato l’Inter. Per 13 anni ho guidato la nazionale di serie C, lanciando tra gli altri Abbiati, Toldo, Montella, Di Biagio, Toni. Evidentemente, però, sono destinato al ruolo di amante tradito, come quella volta in cui Bedin mi anticipa l’invito dell’Inter per andare alla finale di Champions a Madrid tre anni fa. Poi, però, vengo a sapere che devo viaggiare con i dipendenti, non con i campioni della Grande Inter, e allora rimango a casa. Nessun problema, sono sempre interista, anche se non faccio nemmeno l’osservatore. Mi spiace, perché con Moratti due anni fa avevo avuto tre colloqui, prima di essere convocato in sede, quando sembrava che potessi fare il team manager. Parto presto da Mantova, ma quando arrivo a Lodi la sua segretaria mi dice che il presidente non può più ricevermi. Da allora non l’ho più sentito e da quest’anno non ho più nemmeno le tessere per San Siro”.

L’estate scorsa, però, era sulla crociera nerazzurra.

Mi hanno invitato e sono andato volentieri, anche se poi quando mi hanno consegnato le chiavi della camera, su tutti i documenti c’era il nome di Corso, che non aveva potuto partire all’ultimo momento. Pazienza, passano tutti, Moratti e Boninsegna, ma l’Inter rimane”.

E lei come la vede oggi?

Se recupera Milito, con tutti i titolari può sperare ancora nel terzo posto perché Mazzarri è bravissimo, altrimenti è da quarto-quinto”.

Thohir la convince?

Mi sembra un mistero. E poi, con tutto il rispetto per Ventola, che cosa si può pensare di uno che lo considera il suo interista preferito? Eppure io spero sempre”.

Anche in una sua chiamata all’Inter?

No, questo no. Dopo tutti i tradimenti, non voglio più pensarci”.

Alberto Cerruti

http://www.gazzetta.it/Calcio/12-11-2013/boninsegna-festeggia-70-anni-solo-inter-ma-quanti-tradimenti-201558655707.shtml

 

 

Bonimba, il bomber con la faccia da ring

 "Bonimba", un vero lottatore in campo: 70 anni di duelli, gol, squalifiche e scudetti. Ex centravanti di Cagliari, Inter, Juve e Nazionale

Tony Damascelli - Mer, 13/11/2013

 

Roberto Boninsegna compie oggi anni settanta. Vi racconto subito un aneddoto per farvi intendere di che cilindrata fosse uno dei più grandi centravanti italiani della storia calcistica. Dunque, dopo un risotto nella cascina di Barengo, dimora di Boniperti, Fraizzoli si convince a cedere l'attaccante alla Juventus, aggiungendo milioni e ricevendo in cambio Pietro Anastasi.

Boninsegna all'Inter stava pensando alla pensione ma era abituato a essere l'inquilino esclusivo dell'area di rigore, ne aveva tutti i diritti, avendo realizzato gol 113, numero da pronto intervento della polizia per molti difensori che tentavano di pararsi di fronte. Abituato, dicevo, ad avere qualunque pallone passasse per quel codominio finale, eventualmente anche un calcio di rigore da altri tirato doveva prevedere un passaggio sui suoi piedi, arrivato alla Juventus si ritrovò a fare i conti con la puzzetta sotto il naso dei bianconeri. 

Amichevole estiva a Busto Arsizio, Juventus contro Pro Patria. Insieme con Franco Costa abbiamo la fortuna di seguire la partita a bordo campo, Gaetano Scirea scende sulla fascia destra controllando con eleganza e passo leggero il pallone, Boninsegna, dalla parte opposta, agita le braccia e prende a strillare. «Gai, Gai, eccomi». Niente, Gai Scirea prosegue la sua corsa mentre gli strilli mantovani aumentano, il battitore libero juventino conclude la sua azione calciando verso le nuvole. Boninsegna raspa la terra, incomincia a rincorrere il compagno, lo raggiunge, gli si affianca, gli prende un lembo della maglietta bianconera, lo avvicina alla propria, come per fare la prova finestra del bucato, guarda fisso negli occhi il collega e urla: «Sono uguali, lo vedi? Lo vedi che hanno gli stessi colori? E allora dammela, dammela!». Scirea, attonito, accennò una smorfia,

Ecco, Roberto Boninsegna era questo, sempre, dovunque, comunque, a Busto Arsizio, all'Azteca, a San Siro, feroce, genuino. Auguri pieni a uno che non ha mai finto, non ha mai fatto il piangina, giacendo sul prato come i contemporanei odierni che al primo soffio si piegano come fiori appassiti. Brera lo ribatezzò Bagonghi perché era tozzo, basso come il nano del circo, ma scattante e capace di capriole e colpi di football incredibili. Cito a memoria un gol in "chilena", in rovesciata contro il Foggia, roba da Cirque du Soleil. Grazie a Ivanhoe Fraizzoli il Robertino evitò di finire in fabbrica alla Burgo cartiere dove suo padre gli aveva preparato, andando in pensione, il posto di lavoro. I fumi della fabbrica bruciarono i polmoni di suo padre e l'Inter salvò Bobo. Il football era cosa di sangue, la sua faccia da pugile, con il naso schiacciato da un jab, la potenza e prepotenza sul campo di gioco, erano il profumo di una carriera tosta. Così fu, proprio come un circense, girando il mondo, da Prato a Potenza a Varese, a Cagliari, addirittura a Chicago laddove quelli del Cagliari, da Pianta a Reginato, da Vescovi a Tiddia, con Niccolai, Longoni, Nenè, Visentin, Gerry Hitchens e Rizzo, si trasferirono per giocare nel '67 un campionato organizzato dalla United Soccer Association. Ovviamente Boninsegna si fece riconoscere segnando 11 gol, capocannoniere nella terra di Al Capone e John Dillinger.

In verità si fece riconoscere anche in Italia dove, dopo un tumultuoso Varese-Cagliari si beccò undici giornate di squalifica, per un rosario di parole dirette ad arbitro e assistenti. Il totale della carriera segnala 3 scudetti, 1 con l'Inter e 2 con la Juventus, 1 coppa Italia, 1 coppa Uefa e quel titolo di vicecampione del mondo in Mexico '70.

Ho visto pochissimi centravanti battersi come Boninsegna, le sue sfide con Rosato o Benetti, nei derby milanesi, o il muso a muso con il portiere del Manchester City Joe Corrigan, un metro e settantadue nostrani contro un metro e novantatrè dell'inglese, fanno parte di un album che tutti possono sfogliare e pochi possono capire. Quando stava per concludere la sua carriera nella Viadanese, affrontò l'arbitro tapino e gli disse: «sa perché lei non può andare a San Siro? No? Perché là corrono i cavalli e non gli asini»".

La torta è pronta, meglio non contare le candeline. Comunque sono sempre meno dei gol.

 http://www.ilgiornale.it/news/sport/bonimba-bomber-faccia-ringil-compleanno-lex-centravanti-966809.html

 

 

Ma era più forte il Cagliari con Bonimba o quello dello scudetto?


Sono passati più di 40 anni ma ancora adesso tra i tifosi del Cagliari non più giovanissimi, si discute se fosse più forte la squadra dello scudetto con Domenghini e Gori, o quella che lo sfiorò l’anno prima con Boninsegna centravanti. L’occasione per riparlare di Bonimba, che fece poi impazzire i tifosi dell’Inter e vinse ancor più con la Juve, viene offerta dal suo 69° compleanno (auguri!) che cade proprio oggi.

Roberto Boninsegna nasce a Mantova il 13-11-1943, e comincia a giocare ben presto nel settore giovanile dell’Inter, la squadra del cuore e del suo idolo Skoglund (lo stesso di Riva che stravedeva però anche per Nyers). E’ lo squadrone Euromondiale del mago Herrera che però non lo vede di buon occhio, anzi non lo vede proprio (anche se poi si sarebbe rimpallato la bocciatura con Allodi), e non gli concede mai la benchè minima chance.

Bobo I (per differenziarlo dal suo successore in rossoblù, Bobo Gori) comincia così una lunga stagione di prestiti, a Prato, in B, col mercato di novembre del 1963. Ha solo 20 anni, la squadra non è granché. Ci sono un paio di compagni noti. Maurilio Prini, tre volte nazionale, uno scudetto a Firenze nel ‘56 e un gol storico con la Stella Rossa che portò i viola in finale della Coppa Campioni del ‘57 persa col Real Madrid. E il portiere Mario Liberalato, futuro tipografo, raro nelle figurine Panini con la maglia del Milan con cui aveva appena sollevato l’anno prima la Coppa dei Campioni giocando i due incontri vittoriosi contro l’Us Luxembourg (6-0) e contro gli Inglesi dell’Ipswich (3-0), e facendo per il resto il secondo a Giorgio Ghezzi, detto il Kamikaze. Due anni prima sempre in rossonero aveva invece contribuito alla conquista dello scudetto giocando 7 volte.

In Toscana Bonimba segna un solo gol in 22 presenze e passa l’anno successivo a Potenza, sempre in B, dove si mette in mostra col promettentissimo e giovanissimo Silvino Bercellino (II, fratello dell’ex nazionale Giancarlo), grazie anche alla presenza in squadra di due esperti mantovani , Vaini e Pilade Canuti (fratello di Nazareno, futuro interista), che gli agevolano l’inserimento. Alla fine il Potenza arriverà quinto a soli tre punti dalla promozione in A, miglior risultato nella sua storia; il 19 enne Bercellino con 18 reti farà ritorno alla Juventus con cui aveva già esordito a 18 anni, segnando addirittura al Milan; e Bonimba, che di gol ne segna 9, verrà anche lui promosso in A col trasferimento a Varese.

In Lombardia il centravanti debutta finalmente nel calcio che conta proprio contro la sua Inter. E’ il 4 settembre 1965 e i nerazzurri le suonano ai varesotti per 5-2. Bonimba resta all’asciutto e rosica perché tra i marcatori c’è Bobo Gori, 19enne e più giovane di lui di due anni e mezzo, per il quale HH stravede, nonché causa indiretta del suo mancato ritorno alla base (finora). Roberto ala sinistra in un attacco a tre con il franco argentino Combin e Bagatti, segna la sua prima rete nella massima serie la domenica successiva in casa del Bologna campione d’Italia. Il Varese alla fine retrocede, ma il cartellino di Boninsegna è ancora dell’Inter che procedendo nel modo migliore per la sua maturazione lo cede, questa volta definitivamente, al Cagliari. Angelo Moratti in Sardegna ha messo su un colosso come la Saras, cose volete che sia per lui un regaluccio del genere. Tra l’altro sulla panchina isolana è arrivato Scopigno, allenatore messosi in luce a Vicenza e reduce da un esonero a Bologna. Il filosofo pur non essendoci mai passato può essere considerato un tecnico “in quota” Inter, in quanto a più riprese osservatore per i nerazzurri nei periodi di riposo forzato (sarà così anche nell’anno sabbatico reso necessario dopo lo scandalo della pipì nell’ambasciata italiana a Chicago durante un tournée di fine torneo dei rossoblù). Boninsegna a Cagliari ritrova due vecchi compagni delle giovanili interiste: il terzino fluidificante Pino Longoni, affermatosi in Sardegna al primo anno addirittura come rigorista con 3 centri dal dischetto nel 65-66, e Franco Masetto, una meteora che non avrebbe lasciato tracce, reduce da alcune buone stagioni ad Ascoli in C col Del Duca, dove aveva giocato in difesa formando una bella coppia di marcatori con lo spigoloso Carlo Mazzone.

“Il trasferimento a Cagliari non me l’aspettavo – avrebbe poi dichiarato Bobo – perché lì c’era Riva e anch’io fino ad allora giocavo all’ala sinistra”. Bonimba fa coppia fissa con Riva, sia in attacco che… in casa. Vivono nella foresteria di via Aosta prima e via Sanna Randaccio poi insieme agli altri scapoli. “Eravamo come fratelli, per due anni dormivamo nella stessa stanza. Certo in campo ci mandavamo anche a quel paese, ma poi tornavamo a casa con la stessa auto. Gigi faceva sempre chiasso fino a tardi e non si rendeva mai conto che a una certa ora bisognava anche a andare a dormire” raccontò l’attaccante mantovano in un’intervista a “Sfide” su Rai3 dedicata al Bomber. Il primo anno di Boninsegna nel Cagliari è quanto mai positivo: con Longoni e Greatti è tra i rossoblù sempre presenti con 34 gare su 34 e il bottino è di 9 reti. La metà di quelle che segna il Bomber in appena 23 incontri, ma Riva è Riva. Tra l’altro Bobo I si sblocca subito alla prima giornata segnando un gol nella bella vittoria di Lecco per 2-0. A fine stagione, nella tournèe in America, con il Cagliari denominato Chicago Mustangs, realizza 11 reti in 9 partite.

Nonostante siano due mancini che occupano la stessa zona del campo, Riva e Boninsegna convivono bene e l’exploit in azzurro del Bomber l’anno dopo convince Valcareggi a provare l’accoppiata anche in nazionale, facendo esordire il centravanti in una trasferta in Svizzera, cinque giorni dopo il suo 24° compleanno, terminata 2-2 (doppietta di Gigi). Ma la seconda stagione in rossoblù, con Puricelli in panchina, non riserverà a Boninsegna le stesse gioie. 5 reti, 19 presenze e il grande ritorno del vecchio Hitchens lo mettono un po’ in sordina. Tutta colpa di un’espulsione, giusto un mese dopo il debutto in nazionale: “In un Varese-Cagliari spinsi l’arbitro Bernardis per una sua decisione assurda e la cosa mi costò 11 giornate di squalifica poi ridotte a 9.” Ma che sia un centravanti di razza non c’è dubbio. In Mitropa Cup segna 4 gol (due doppiette al Banik Ostrava) in 6 partite. E a fine stagione nella Coppa delle Alpi esagera con 7 reti in 5 incontri. Sue vittime gli svizzeri del Lucerna (3 gol), dello Young Boys (altra tripletta) e i tedeschi dell’Heintracht Frankfurt.

Ci vuole comunque il ritorno di Scopigno per riportarlo al top. Nel campionato 68-69 il Cagliari conquista ben presto la testa della classifica e la mantiene per 14 giornate, quasi un intero girone. Purtroppo è proprio il crollo di realizzazioni di Boninsegna a far perdere le speranze di scudetto rossoblù. Nel girone di andata lui e Riva due siglano in coppia un bottino di 19 reti (11 Gigi, 8 Roberto), nel ritorno il Bomber si manterrà a 9 e Boninsegna ne farà solo 1.

“Non fui rammaricato per il mancato scudetto a Cagliari, anche perché perché in qualche modo contribuii io stesso a rinforzare la squadra andando all’Inter per Domenghini, Gori e Poli. Del resto Scopigno era venuto a fine stagione e mi aveva detto: tu e Riva siete gli unici che hanno mercato e per rinforzare la squadra uno deve partire, ma Gigi non vuole andare via. Gli risposi che avrei accettato la cessione solo per l’Inter e così fu. L’anno dopo feci il gol dell’ex a San Siro e l’Inter vinse una gara che per poco non costò al Cagliari il raggiungimento della Juve in classifica”.

Boninsegna una volta si beccò un’altra squalifica per colpa di Riva. Avvenne in Mitropa Cup col Wiener SK di Vienna: Riva stufo dei falli subiti a ripetizione da un difensore austriaco, a un certo punto gli rifilò un cazzotto che lo stese. L’arbitro Ensemberger erroneamente mostrò il rosso a Boninsegna che non c’entrava niente. Quel difensore era Norbert Hof che due anni dopo in nazionale si sarebbe vendicato spezzando tibia e perone del bomber al Prater.

Nei tre anni di militanza a Cagliari Boninsegna giocò anche 12 partite segnando 3 gol in Coppa Italia (il più importante fu quello della vittoria per 1-0 con la Juventus, che precedette l’1-1 del ritorno e divenne quindi decisivo per l’elimininazione dei bianconeri nei quarti dell’edizione 68-69) .

In totale con la maglia rossoblù giocò 117 partite e mise a segno 48 gol (83-23 in campionato di serie A; 12-3 in Coppa Italia; 9-11 nella tournée americana con i Chicago Mustangs; 8-4 in Mitropa Cup; 5-7 in Coppa delle Alpi).

Ma la vera carriera doveva ancora cominciare. Grazie all’infortunio di Anastasi la sera prima di partire per il Messico, venne ripescato in nazionale e giocò titolare tutte le 6 partite del Mondiale del 1970 segnando 2 gol: in semifinale contro la Germania Ovest (il primo del 4-3) e il provvisorio 1-1 nella finale persa 4-1 col Brasile. In totale giocò 22 partite e segnò 9 reti.

Con l’Inter Boninsegna giocò per 7 stagioni andando in doppia cifra per 6 volte in campionato e tre volte addirittura oltre i 20 gol. Vinse due titoli di capocannoniere (il primo con 24 reti, il secondo con 22. Quest’ultimo lo scippò a Riva, mentre un altro gli venne scippato da Chinaglia, sempre per il conteggio delle autoreti) e conquistò lo scudetto del 70-71. L’anno dopo sfiorò la Coppa Campioni giungendo alla finale persa con il formidabile Ajax di Cruyff per 2-0. In quella stessa edizione passò alla storia per la lattina di Moenchengladbach. Negli ottavi di finale l’Inter perse 7-1 in casa dei tedeschi ma lui uscì dal campo sul 2-1 intontito da una lattina di coca cola lanciata dagli spalti (che venne fatta poi sparire). In un clima infuocato, con l’arbitro olandese Dorpmans che perse la bussola e che si fece letteralmente prendere a calci nel sedere da Mariolino Corso (inutile dire che il mancino di San Michele Extra finì lì la sua avventura nella coppa), l’avvocato Prisco senza una giurisprudenza che in qualche modo potesse venire incontro alla sua tesi, ottenne incredibilmente la ripetizione della gara. L’incontro, giocato a Berlino dopo il 4-2 di San Siro per i nerazzurri, fece salire alle stelle le quotazioni del ventenne portiere Bordon che parò anche un rigore (di Sieloff) facendo ingoiare amaro allo squadrone di Vogts, Bonhof, Netzer, Wimmer e Heynckes.

Con l’Inter segnò 171 gol di cui 113 in campionato, giocando in totale 281 volte, quindi venne venduto nell’estate del ’76, a quasi 33 anni alla Juventus in cambio di Anastasi, di 5 anni più giovane. A Torino raccoglie in tutto e per tutto l’eredità di Altafini, gioca tre stagioni, vince altri due scudetti, una Coppa Italia e la prima coppa europea della storia juventina (la Coppa Uefa) giocando 94 partite e segnando 35 reti.

Da allenatore ha avuto minor fortuna come selezionatore azzurro della rappresentativa di serie C. In panchina nessuno gli ha mai dato una vera chance, ma lui si diverte ancora come direttore tecnico del suo Mantova.

http://nanniboi.com/2012/11/13/ma-era-piu-forte-il-cagliari-con-bonimba-o-quello-dello-scudetto/comment-page-1/

 

 

Io finito? Non fatemi ridere! (ago 75)


MANTOVA - Chi lo dava per fi­nito ha dovuto ingoiare il ro­spo senza avere neppure il tem­po di abbozzare una scusante. E' ba­stata la Coppa Italia (con il pun­tuale ritorno al gol) per rilanciare tutte intere le ambizioni di Roberto Boninsegna. Fuori ipotesi lo scudetto, dopo la campagna acquisti fifty-fifty dell'Inter, gli restano la Nazionale e la classifica cannonieri, due traguardi che Bobo si prefigge come stimolo a continuare. E' troppo abi­tuato a combattere per rassegnarsi a chiudere da comprimario. E chissà che non sia proprio la "rabbia in corpo" di Boninsegna a proiettare l'Inter in zona Juve.
A Mantova, Roberto vive gli ulti­mi scampoli di ferie attorniato dai vecchi amici, com'è consuetudine.. Ha fatto un paio di giorni a Cortina, una settimana a Viareggio per il torneo di tennis (tris fragoroso) poi è tor­nato a rifugiarsi sul lago, nel "casot­to" di Massimo Paccini, il suo vec­chio allenatore che guida ora la pattu­glia della Sampietrese. Di questa so­cietà dei miracoli della serie D: ottocen­to abitanti e millecinquecento spetta­tori a partita, Boninsegna è un po' il padrino, prodigo di consigli e di indicazioni. Impossibile non parlare di calcio. Si parte dai dilettanti dei tor­nei notturni ma il discorso finisce inevitabilmente sull'Inter. E' di pram­matica.
"Lo scorso anno - commenta Bo­bo - avevo detto chiaro e tondo co­me la pensavo: i risultati hanno poi fi­nito per confermare le mie previsioni. Era un'Inter senza capo né coda, raffazzonata alla meglio con giovani di belle speranze, ma niente più. Speranze in gran parte ingiustificate, poi...".
- Molti di questi giovani sosten­gono adesso che tu li "soffocavi", che facevi ben poco per dar loro una mano.
"Si fa presto a dire. Non ho mai avuto la vocazione della balia, e inol­tre da me si pretendono risultati, non suggerimenti. A parte ciò, non è un peccato mortale non essere da Inter, i ragazzini non li ho mai ostacolati. Ho sempre detto, però, che non tut­ti erano all'altezza di una squadra con ambizioni più o meno chiarite di scudetto. Non credo di essermi sba­gliato nel giudizio, viste le conclu­sioni...".
- Quest'anno, invece...
"Neppure questa è un'Inter da scudetto, almeno sulla carta. Però uno sforzo c'è stato. Bisogna anche consi­derare la pochezza che offriva il mer­cato".
- Per rimanere all'Inter hai pre­teso determinate garanzie?
"Non ho preteso la luna, sé è per questo. Ho buttato via un anno, e alla mia età non posso permettermi di gettare al vento un'altra stagione. Più che pretendere garanzie, ho vo­luto semplicemente che si ascoltas­sero anche le mie ragioni. Si vede che all'Inter ne hanno tenuto con­to, se è vero che Chiappella ha proposto il veto sulla mia cessione. In caso contrario, avrei chiesto di esse­re ceduto a una squadra con ambi­zioni solide. Ho bisogno di lottare per qualcosa di concreto, per sen­tirmi vivo; giocare così, senza sti­moli, è lontano dalla mia mentalità, non è più nemmeno sport".
- Con Chiappella e Fraizzoli avre­te sicuramente parlato anche di Maz­zola...
"Non è una novità ciò che pen­si di Sandrino. E' ancora un grosso giocatore, grossissimo anzi, che può svolgere determinati compiti da au­tentico fuoriclasse. Dipenderà da Chiap­pella trovargli la posizione più con­sona alle sue qualità".
- Libera...
"Ne parlano tutti bene: vedremo se riusciremo a integrarci. Brera sem­bra non avere dubbi in proposito, e io mi fido di ciò che dice Brera. E' un fatto, però, che dai tempi di Pellizzaro in poi non ho mai avuto un'ala autentica in grado di assecondar­mi. Sarò anche un pellagroso del gol ma senza spalle, con le difese che ci sono in circolazione, è un pò diffi­cile farsi largo".- Ti ha contestato anche Maria­ni, però...
"Giorgio è un amico e tutto som­mato mi è anche simpatico. Fuori dal campo non abbiamo mai avuto nien­te da dire; in campo... eravamo un po' troppo nervosi per sopportarci. Tutto qui".
- Che impressione t'ha fatto Chiap­pella?

 "E' un buon uomo e ha un'indubbia esperienza calcistica. Dovremo es­sere noi a metterlo in condizione di lavorare in pace. Quello dell'Inter è sempre stato un ambiente difficile per tutti. Le polemiche ci sono anche nelle altre società: noi non facciamo eccezione alla regola ma abbiamo l'in­credibile difetto di mettere ogni co­sa in piazza. Così si finisce sempre per vivere con i nervi a fior di pelle. Chissà, forse Chiappella è l'uomo giu­sto per fare da... cuscinetto. Perlome­no me lo auguro".
- I tuoi obiettivi sono abbastan­za dichiarati: Nazionale e classifica cannonieri.
"Non credo di essere troppo vec­chio per la maglia azzurra. E' chiaro però che voglio meritarmela, senza chiedere aiuti a nessuno. Riuscissi a trovare la forma dello scorso autun­no, non dovrebbe essere un proble­ma. Quanto alla classifica cannonieri, il discorso è invariabilmente legato alla Nazionale: i gol rappresentano il miglior trampolino per arrivare alla maglia azzurra".
- Previsioni scudetto: a chi van­no i tuo favori?
"La Juve è là, forse irraggiungibile per tutti noi. Si è notevolmente rin­forzata con Bobo Gori, che è un gros­so giocatore. Tra gli outsiders metto ovviamente il Napoli, il Torino e il Milan. Sull'Inter non mi esprimo per scaramanzia

 “Ecco perché Brera mi ha chiamato Bonimba”, da CremonaOggi

 

Il bomber mantovano Roberto Boninsegna pluriscudettato con Inter e Juve, vice campione del mondo a Mexico ’70, svela in un libro il suo rapporto con il grande giornalista sportivo morto 20 anni fa. E con i “Quaderni dell’Arcimatto” (curati da Adalberto Scemma) farà il suo debutto al Festivaletteratura.

Da bomber a scrittore. Dai tifosi ai lettori. Da “re” delle aree di rigore agli scaffali delle librerie. Roberto “Bonimba” Boninsegna, mantovano della più bell’acqua, classe (di ferro)1943, sta vivendo un altro magic moment. E’ da poche settimane in libreria un volume di 224 pagine in cui i big del giornalismo sportivo italiano – da Gianni Mura a Mario Sconcerti – rendono omaggio a Gianni Brera nel ventesimo della sua scomparsa, e i curatori del prezioso libro edito da “Fuorionda” (Adalberto Scemma, Alberto Brambilla) hanno voluto inserire , accanto alle illustri penne, pure la testimonianza del Bobo, pupillo del più straordinario cantore di sport del Novecento. Boninsegna non si è sottratto all’impegno. Anzi. Vi si è catapultato alla sua maniera: con schiettezza, ironia, senza orpelli e senza rossori. Risultato: tre pagine gioiello. Una rivelazione. Un inedito.

Secco l’incipit del cannoniere:”Devo a Gianni Brera se in qualche modo il mio nome è stato consegnato alla storia del calcio. Mi chiedo ancora oggi quanta importanza possa avere avuto, nel garantirmi una certa popolarità, quel soprannome, Bonimba, che Brera mi ha appioppato sin dai tempi del Cagliari”. (Boninsegna ha giocato tre stagioni con il club sardo prima di approdare all’Inter di mister Invernizzi e vincere subito la classifica dei cannonieri).

Aggiunge, a scanso di equivoci:” All’inizio, lo confesso, c’ero rimasto male. Perché Bonimba, scriveva Brera, era la sintesi di Boninsegna e Bagonghi.Proprio così: Boninsegna-Bagonghi era diventato prima Bonin-Bagonghi e subito dopo Bonimba, appunto”.

E spiega, subito dopo:”Bagonghi era una persona reale.Era un nano, agilissimo, che si esibiva nel Circo Togni.Naturalmente aveva la testa grossa e le gambe corte, come tutti i nani che si rispettano, e proprio per questo – da permaloso quale ero – mi era venuto in mente che Brera avesse costruito l’accostamento con Bagonghi per le dimensioni, rispettabili, della mia capoccia (di cappello porto almeno il 58). Così un giorno, incontrandolo dopo una partita, mi venne il desiderio di chiedergli il perché ed anche il percome di “Bonimba”.Lui mi rispose, guardandomi dal basso all’alto, che il soprannome derivava dal fatto che – pur piccolo di statura – riuscivo sempre a saltare più in alto dei difensori.Lo guardai dall’alto al basso, alzandomi ancora di più sulle punte dei piedi, e gli risposi ridendo che tra noi due il nano non ero certamente io. Dovette ammettere che in effetti, vedendomi dalla tribuna, aveva ricavato un’impressione sbagliata. E ridendo a sua volta, mi disse che nano mi aveva chiamato e nano dovevo restare.Con una concessione, però:ero un NANO GIGANTE”.

Il racconto prosegue, si accende:”Sono Bonimba, dunque, da 45 anni, erano le origini del Cagliari: io Bonimba, Giggirivva Rombo di tuono. Quei soprannomi sono passati alla storia, come tutti quelli che ha creato Brera. E mi chiedo spesso quanta memoria del sottoscritto sarebbe rimasta, tra gli amanti del calcio, se invece di Bonimba avessi continuato a chiamarmi semplicemente Boninsegna. E quanta memoria sarebbe rimasta se quel soprannome, Bonimba, l’avesso coniato un giornalista qualunque e non Gianni Brera. Sono arcisicuro che la mia storia personale avrebbe preso una piega diversa. Di Brera mi è rimasta ancora oggi cara una pagina dell’Arcimatto, la rubrica che teneva sul vecchio “Guerin Sportivo”.

Il contributo termina proprio con la pubblicazione di quel famoso articolo in cui il grande giornalista-scrittore pavese ammette di “stravedere” per Boninsegna “. Ma se scrivo che è un samurai con gli spuntoni di ferro sui gomiti e sulle ginocchia adusate gli faccio del male, lo illustro come un killer e non se lo merita, tanto l’è brao(…).

Dopo l’articolo di Boninsegna spicca un contributo di Pilade del Buono, uno che ha navigato per quasi 49 anni nei giornali (e dintorni) e che di Brera era un amico, un fan, un collega limpido (fu lui a portarlo al Giornale di Montanelli). Boninsegna , come sempre, è in buona compagnia. Un tempo c’erano con lui Riva, Albertosi,Facchetti, Jair, Mazzola, Corso. Oggi ci sono Gianni Mura, Mario Sconcerti, Darwin Pastorin, Elio Trifari.E Bonimba è sempre Bonimba. Dopo Ligabue potrebbe essere lui la sorpresa del prossimo Festivaletteratura. Già se ne parla 

Enrico Pirondini

 

http://www.fuoriondalibri.it/rassegna-stampa/dt/81/ecco-perch%C3%A9-brera-mi-ha-chiamato-bonimba%E2%80%9D-da-cremonaoggi.html

 

 

 

 

Le confessioni di Bonimba "Quando segnai di pugno"

 

Boninsegna svela i retroscena di una carriera da goleador. A partire da una delle prime reti realizzate con la mano. In un Inter-Lazio di 36 anni fa di GIOVANNI MARINO

Roberto Boninsegna ha compiuto 66 anni. In nerazzurro. "Faccio l'osservatore per l'Inter", dice con orgoglio e competenza. Perché Bonimba, indimenticabile goleador degli Anni Settanta, si è sempre sentito interista nell'animo. "Che dispiacere quando Fraizzoli mi cedette alla Juventus". E che dispiacere diede ai Bauscia quando rifilò due gol alla sua Inter in maglia bianconera: "Non fu una vera esultanza, la mia, ma solo una reazione di pura rabbia, caspita: io volevo stare dall'altra parte...". Roberto apre il libro dei ricordi e dei segreti nerazzurri. A partire da un caso tornato di prepotente attualità: il colpo di mano. Quella giocata "sporca" che ha mandato la Francia di Henry ai Mondiali a scapito dell'Irlanda di Trapattoni.

LA RABBIA DI FELICE PULICI - "Accadde anche a me di segnare con la mano. La sinistra, ovviamente", dice il mancino naturale tuttora al terzo posto tra i cannonieri di sempre dell'Inter. E racconta, con una straordinaria capacità di ricordare i dettagli: "C'è il sole ma fa freddo quella domenica di gennaio del 1973, a San Siro. Tanta gente sugli spalti. La Lazio di Maestrelli è la squadra rivelazione e si sta avvicinando a quel titolo che avrebbe colto l'anno successivo. Il match si mette subito male e Giorgione Chinaglia manda i biancocelesti in vantaggio su un giusto rigore. Noi stentiamo da matti. Ma nella ripresa ci gettiamo all'attacco un po' tutti. A un certo punto mi arriva un cross. Basso e veloce. Credo di Lele Oriali. Mi getto a corpo morto, sento la palla sfiorare i capelli e contemporaneamente, d'istinto, allungo il pugno sinistro. Che spinge la palla in rete. Praticamente un cazzotto. Pulici, il portiere, è incredulo. Per un attimo, poi si arrabbia".

L'URLO DI MASSA - Gol, uno a uno. Il pubblico esplode. "Io no, non esulto perché mi aspetto che l'arbitro annulli. Ma poi, alle mie spalle spunta Peppiniello Massa, la nostra ala destra, piccolino ma tecnico e poi simpaticissimo, praticamente uno scugnizzo napoletano e mi dice: "E' gol, è gol, dai abbracciami, abbracciami, forza Bobo muoviti, è il pareggio". E io lo faccio mentre Felice Pulici, giustamente impazzisce perché è l'unico avversario che ha visto davvero bene come è andata. L'unico testimone oculare al cento per cento". E l'arbitro, e il guardalinee? "Li assolvo perché, per come andò l'azione, era impossibile capire: la testa, i capelli, coprivano il pugno e allora, a parte una moviola dove si vedeva poco e male, non c'era altro mezzo tecnologico. Pulici e Massa sì che avevano visto, e forse, ma non benissimo, qualcosa aveva intuito anche Pino Wilson, il libero laziale". Soltanto la domenica sera e poi il lunedì con maggiore chiarezza venne fuori il "misfatto". "Già, ma quando nel dopo partita i giornalisti mi chiesero non negai: "Sì, l'ho toccata", risposi. Ho sempre cercato di agire nelle regole io e se chiedete a compagni e avversari dell'epoca vi diranno che cadevo in area solo se venivo letteralmente abbattuto, altrimenti restavo in piedi fino all'ultimo".

STAVOLTA TI FREGO IO - Bonimba le ha date e la ha prese dai difensori avversari. Ma tutti lo hanno sempre considerato un giocatore leale. In quel caso che successe? "Ragionai così: se l'arbitro me lo chiede ammetto che è un gol di mano. Altrimenti penso a quanti me ne hanno tolti ingiustamente i direttori di gara, a quanti rigori non mi hanno concesso e non dico nulla. Perché è questo che scatta nella testa dell'attaccante: una piccola rivincita con l'arbitro e i guardalinee rispetto ai torti subiti in precedenza (questo, assieme al fatto che sai benissimo che il risultato del match è sempre determinante per la tua squadra). Della serie: dai che stavolta vi ho fregati io... E poi, non per scusarmi, se non avessi avuto quel diavolo di un Massa vicino forse mi sarei fermato a braccia in giù e l'arbitro avrebbe capito. E comunque non era la gara decisiva per andare alla Coppa del Mondo e non era evidente nè come quello annullato in Nazionale a Pazzini nè come il colpo di Henry": Brutta quella cosa con la Francia, vero? "Tremenda per gli irlandesi, ma lì arbitro e guardalinee cosa facevano, dormivano? Purtroppo non si può fare più nulla. Il calcio ha le sue, magari discutibili regole, e non si può ripetere la partita. Non è mai accaduto e non accadrà".

A LEZIONE DA MEAZZA - Sessantasei anni, Bonimba, saluta la ricorrenza scorrendo i retroscena dei momenti particolari della sua carriera. "Beh, vedo come fosse oggi quando tornai all'Inter dopo gli anni di Cagliari. Che gioia pazzesca. Io avevo fatto tutta la trafila nelle giovanili. Poi il Mago, Helenio Herrara, mi mandò via, che sofferenza per me che ho sangue nero e azzurro nelle vene. Rientrare a casa, in quel 1970, fu il massimo. Vincere lo scudetto nel '71 e arrivare in finale di Coppacampioni l'anno dopo contro l'Ajax di Johan Cruijff, due imprese che porto nel cuore. Ma torniamo all'inizio di tutto: quando ero ragazzino ebbi la fortuna di essere allenato da un signore chiamato Giuseppe Meazza. Un monumento del calcio italiano. Mi incuteva timore: lo vedevo enorme, così serio, lo sguardo gelido. Invece era una pasta d'uomo e un profondo conoscitore di calcio. Che mi insegnò molto e mi cambiò la vita trasformandomi in bomber. Originariamente giocavo all'alla sinistra e mi piaceva servire assist ai compagni, mandarli in rete. Presto, però, capii che c'era poca gloria per chi non entrava nel tabellino dei marcatori e presi a calciare con maggiore frequenza in porta. Peppino Meazza comprese che ci prendevo abbastanza e mi spostò al centro dell'attacco. Da dove non mi sarei più mosso".

IL SEGRETO DEI RIGORI - "Fece di più Meazza - rammenta Boninsegna - mi rivelò un piccolo grande segreto del calcio: come si tirano i rigori. Una cosa che mi sono portato a lungo con me nell'Inter dove, ad un certo punto, ne segnai davvero molti, uno di seguito all'altro. La magia si infranse un pomeriggio a Firenze quando il portiere viola Superchi distendendosi sulla sua destra, deviò il mio penalty in angolo. Cosa mi disse il Maestro Meazza? Un dettaglio che risultò decisivo: "Roberto, non prendere mai la rincorsa centralmente, non lo fare mai. Scegli sempre una via laterale: o la destra o la sinistra. Il portiere non capirà". Aveva ragione, ovviamente".

IL GOL PIU' BELLO DI TUTTI - Ne ha fatto tanti in nerazzurro: "Centosettantuno gol, ma bisognerebbe aggiungerci 5 reti che mi hanno ingiustamente sottratto perché ci assegnarono delle vittorie a tavolino. Ricordo a Roma, con i giallorossi vincemmo 2 a 1, doppietta mia e invasione di campo dopo il rigore messo a segno al novantesimo. Conseguenza, 0 a 2 a tavolino e niente reti per me", dice con ancora chiaro rammarico. Il più bello? Nessun dubbio, la fantastica rovesciata di Inter-Foggia 5 a 0 (video), il match che sancì la matematica conquista dell'undicesimo scudetto interista, stagione '70-'71. "Colpi così ne vengono fuori uno, massimo due in una intera carriera. Quando vidi Giacinto Facchetti crossare compresi che non potevo fare altro che tentare di avvitarmi all'indietro e calciare mentre il pallone era alto, per aria. C'era il rischio di ciccarla, quella palla, o di spedirla fuori da San Siro. Venne fuori una esecuzione magnifica. Pensate, il portiere del Foggia, Raffaele Trentini, ancora oggi mi ringrazia con grande ironia: "Sai Bobo, l'hanno trasmessa così tante volte quella rovesciata che sono diventato famoso anche io". Ma ribadisco sono di quei colpi non puoi neppure pensare di ripetere un'altra volta nella tua vita sportiva. Di reti spettacolari ne ho segnate altre, come quando rischiai di spaccarmi la testa in un Inter-Napoli, ma quella al Foggia è una perla unica".

 LA LATTINA E LA RIVINCITA - Ultimo flashback, inevitabile, i due matches col Borussia di Netzer. A 66 anni compiuti, Bonimba, giuri che la lattina di quel tifoso tedesco la mandò ko? "Svenni. Persi totalmente i sensi. Per qualche minuto. Fu una botta forte alla testa. Nessuna scena. Quando rinvenni avevo davanti il volto preoccupato del massaggiatore Della Casa. Tra il primo e il secondo tempo, negli spogliatoi, scese il commissario Uefa, che mi toccò la fronte preoccupato. Il nostro medico, Quarenghi, mi disse che non potevo tornare in campo. Quel 7 a 1 è un falso storico, uscii io e poi si fece male Jair Da Costa, eravamo in 10 e per di più, mi disse Sandrino Mazzola, l'arbitro dopo la lattina aveva fatto dei segni inequivocabili, come a dire: giocate pure, tanto il risultato del campo non sarà questo. E infatti, nel replay a campi invertiti, vincemmo 4 a 2 alla grande. Io segnai la seconda rete. Ci fu un cross che passò tra Jair e un paio di tedeschi, arrivai di corsa e la buttai dentro col sinistro". Immagini degli anni felici di Bonimba nerazzurro. Che conclude alla sua maniera: "L'ho detto: non ho mai fatto scena. E ora che ci ripenso mi spiace per quel gol di pugno e per Felice Pulici, che era un gran portiere. Ma fu un riflesso. E non mi accadde mai più".

 g.marino@repubblica.it

http://www.repubblica.it/2009/05/rubriche/la-storia/boninmba-gol-di-mano/boninmba-gol-di-mano.html

 

  https://www.mimmorapisarda.it/inter/2021/25.jpg

 

 

Dino Panzanato e la “tentata decapitazione” di Boninsegna

 

15 DICEMBRE 2013 ALLE 01:56

 “Ogni volta che riguardo questa foto, penso sempre che chi l’ha scattata quel giorno mai e poi mai sarebbe riuscito a rifarla uguale. Sembra che siamo in posa da quanto perfetta è venuta. Perchè io a Boninsegna l’ho solo sfiorato, il mio calcio era assolutamente sotto controllo”.

Definire “storica” quest’immagine è il minimo. E Dino Panzanato, il calciatore in divisa bianca che sembra tentare con successo la decapitazione del centravanti avversario, la riguarda divertito per la milionesima volta. Una foto che risale al 21 marzo 1971: Inter-Napoli si gioca a San Siro ed è uno dei crocevia per la lotta allo scudetto che vede Milan e Napoli in testa dall’inizio del torneo, con l’Inter ad inseguire dopo un inizio stentato ed una rimonta esaltante. Panzanato è alla sua ottava stagione fra le fila dei partenopei (quattordicesima delle sedici in totale che lo hanno visto protagonista in serie A tra Vicenza, Inter, Modena e Napoli) e il suo diretto avversario di giornata, Roberto Boninsegna, lo conosce molto bene. Lo ha già marcato quando giocava nel Varese e nel Cagliari prima di affrontarlo con la maglia dell’Inter. Quel giorno di marzo, il Napoli venne sconfitto 2-1 dopo essere stato in inizialmente in vantaggio. Panzanato vide Boninsegna segnare un rigore e quel goal incredibile che la foto testimonia, raccogliendo di testa una punizione di Corso ed anticipando d’un soffio l’intervento di Panzanato.

Dino, ma l’ha colpito Bonimba?

“Assolutamente no! E’ arrivato appena prima di me sul pallone ed ha segnato un gol impossibile. Ma è tutta una questione di angolazione dell’inquadratura: come dicevo, sembra davvero che il fotografo l’avesse studiata con noi d’accordo nel metterci in posa. Ma già dal filmato che ci riprendeva dalla metà campo si poteva intuire che non l’avevo colpito. Eravamo anche amici con Bonimba”.

Due altre inquadrature dimostrano come l’impatto sia stato sfiorato. Boninsegna in una puntata del programma “Sfide” a lui dedicata, disse:

“E faccio un gol di testa che rischiai la vita con un piede di Panzanato a due centimetri dalla tempia”

Dino Panzanato, conosciuto nella sua Favaro Veneto come “Titta“, mosse i primi passi nella Mestrina. Adocchiato dagli osservatori del Lanerossi Vicenza, giocò nel capoluogo berico quattro stagioni esordiendo in serie A. La grande occasione sembrava il passaggio alla Grande Inter del mago Helenio Herrera, ma la troppa concorrenza in difesa gli consigliò il trasferimento dopo appena tre mesi a Modena. E fu la sua fortuna: un ottimo campionato, l’interesse del Napoli ed il grande feeling con la maglia azzurra e con la città partenopea dove rimase per otto stagioni e vi concluse pure la carriera da giocatore. Anzi, più precisamente da stopper.

 “Era un calcio meno veloce ma molto più tecnico. Schemi e tattiche potevano cambiare, ma la marcatura a uomo era rigida. Ero un numero 5 che seguiva attento il suo numero 9. Non li mollavo facilmente i centravanti e difatti contro di me hanno segnato poco”.

Ma c’è qualche attaccante che ha sofferto di più?

 “Quello che in assoluto mi ha fatto più penare è stato in realtà un mio compagno di squadra: in allenamento al Lanerossi Vicenza c’era Siciliano che mi faceva impazzire nella marcatura. Tra i grandi attaccanti che ho affrontato in carriera penso a John Charles ed a Milani. Però dico Anastasi come punta di movimento che ho avuto più difficoltà a marcare. Mi portava in giro continuamente, durissima contro di lui”.

Difensore corretto, ammonito con poca frequenza. Però una volta fu squalificato per 9 giornate. Come successe?

 “Fu durante un Napoli-Juventus del 1968. C’erano state delle provocazioni in campo al mio compagno Omar Sivori, continuamente stuzzicato da Favalli. Sivori nel finale di gara non ce la fece più a sopportare e reagì, venendo espulso. Una decisione che fece scoppiare un parapiglia con l’arbitro che decise di espellere anche me e Salvadore della Juve, oltre al mio allenatore Chiappella. Ci fu un seguito verso gli spogliatoi. So solo che alla fine il giudice sportivo squalificò me per 9 giornate (in primo grado erano addirittura 11) e Sivori per 6″.

 (Gli amici, che a qualcosa servono, hanno meno problemi a ricordare quello che un gentiluomo come Panzanato farebbe fatica ad ammettere: ovvero il “che ben che go fato, ciò!” al racconto davanti a un buon bicchiere in compagnia del “cartone” che avrebbe rifilato ad un Sandro Salvadore che rientrando negli spogliatoi avrebbe continuato a provocare il suo ex compagno Sivori. Titta ha difeso Omar, questo il succo della disfida).

 

http://www.driocasa.it/le-storie/dino-panzanato-e-la-tentata-decapitazione-di-boninsegna-2861/

 

 

 

Boninsegna: "Gli inizi, l'Inter. Oggi mi rivedo in Icardi"

di Alessandro Cavasinni   Fonte: Corriere dello Sport

Roberto Boninsegna, intervistato dal Corriere dello Sport, racconta la sua carriera e commenta il momento attuale anche dell'Inter.

 Come cominciò a giocare sul serio?

"Un giorno al campetto parrocchiale venne un distinto signore che, dopo avermi visto giocare, mi chiese se mi sarebbe interessato fare un provino con l’Inter. Io, da tifoso nerazzurro, pensai che mi stesse prendendo in giro: certo che mi interessava. Gli diedi l’indirizzo di casa e gli dissi di parlare con mio padre. Lo fece. Andai a due provini. Mi presero, per due anni feci la spola tra Milano e Mantova. Avevo tredici anni. Poi mi dissero che, siccome andavo bene, volevano che mi fermassi a risiedere in foresteria. Ci fu un dramma, in famiglia. Ero figlio unico, ero un bambino. Mia madre non era d’accordo. Ma alla fine, tra le lacrime, cedette. Ma anche io piangevo spesso, mi pesava la solitudine. E allora fuggivo, ogni tanto fuggivo. Vivevo in una stanza con altri ragazzi, c’era anche Bedin tra loro. Pensi che io avrei dovuto esordire in serie A in quella partita tra la Juve di Sivori e i ragazzi della Primavera che l’Inter, per protesta, mandò a giocare invece dei titolari. Ma quel giorno, mentre perdevamo nove a uno e Mazzola segnava il primo gol vero della sua vita, io stavo guardando la campagna, sul treno che mi riportava, fuggiasco, a casa dai miei».

 Lei non ebbe un buon rapporto con Helenio Herrera?

"Avevamo vinto il torneo di Viareggio, eravamo un gruppo di ragazzi molto forti, c’erano Mazzola e Petroni. Loro avevano un anno in più e furono chiamati in prima squadra. Herrera volle che io invece andassi in giro per l’Italia. Fui mandato a Prato e poi a Potenza. Dove, peraltro, sfiorammo la serie A. Ero in coppia con un bel giocatore, Bercellino II, che era in prestito dalla Juve. Lui fece diciotto gol e io dieci. Fu un anno bello, anche se non vedemmo una lira. Tornai a Milano con un bel mazzetto di cambiali e con il naso sfasciato da una gomitata durante una partita con il Trani. Il naso da pugile è ancora qui, invece delle cambiali Allodi mi disse che ci avrebbe pensato lui. Non ne ebbi più notizia".

 Comunque non la fecero tornare a Milano neanche questa volta, neanche dopo gli ottimi risultati di Potenza.

 

"No, mi mandarono a Varese. Giocavo ala sinistra perché il centravanti era Combin. Non eravamo male, ma fu un campionato sfortunato. Con noi giocavano Ossola e Maroso, i figli di due delle vittime dell’incidente di Superga. Ma finito quel torneo, siamo nel 1966, continuò il mio esilio da Milano, stavolta a Cagliari. Sembrava che l’Inter di Herrera, che in quel periodo vinceva tutto, proprio non mi volesse".

 Arrivò a Milano e trovò un HH, ma non era Helenio. Era Heriberto, del quale molti suoi colleghi non mi hanno parlato in termini esaltanti…

"Io non capivo quello che diceva e all’inizio non ingranai. Poi decisi, tra me e me, che dovevo giocare come sapevo. Da allora è stata una cavalcata bellissima, ho vinto tre volte, non due come dicono le statistiche ufficiali, la classifica dei cannonieri. Ho segnato 171 gol, ci siamo aggiudicati due scudetti e siamo arrivati alla finale di Coppa dei Campioni che perdemmo con l’Ajax di Cruyff".

 Ci fu il famoso episodio della lattina di Coca Cola che la colpì durante la partita con il Borussia...

"Ma lo sa che ancora oggi molti credono che io abbia fatto la sceneggiata? Altroché, quella lattina rossa mi arrivò in testa, bella piena, e io svenni. Volevo giocare ma il dottor Quarenghi mi disse che, con un bernoccolo come quello che avevo, era meglio evitare. Ancora oggi a Mönchengladbach ci sono dei club contro di me. Quando rigiocammo la partita io ricevetti molte lettere con la svastica… Ma per fortuna sono ancora qui".

 Poi all’Inter ritornò Herrera, quello vero.

"Sì, il Presidente Fraizzoli era tutto preoccupato che io potessi prendere cappello per questo. Lo tranquillizzai. Quando HH arrivò mi disse che lui, anni prima, mi avrebbe voluto tenere ma che era stato Allodi a volere che andassi in giro per l’Italia. Quando trovai poi in nazionale Allodi, lui mi disse il contrario, come sempre accade in questi casi. Io ci misi una pietra sopra".

 Che rapporto ebbe con Mazzola? 

"Siamo cresciuti insieme nelle giovanili. Durante una trasferta della Nazionale, in Germania Est, io, che allora giocavo nel Cagliari, gli dissi che mi sarebbe piaciuto tornare all’Inter. Credo che lui si adoperò perché questo accadesse. Era un grande trequartista, per me il migliore del mondo dopo Cruyff. Era anche capace di finalizzare in rete e gli piaceva molto farlo. Con Sandro il rapporto si è incrinato negli ultimi anni in cui abbiamo giocato. Lui voleva fare il regista e io pensavo che non fosse quello il suo ruolo. Discutemmo di questo. La mia sincerità mi costò il trasferimento dall’Inter, ancora una volta. Ero a Forte dei Marmi, a pranzo, d’estate. Mi chiamò Fraizzoli e mi disse che dovevo andare alla Juventus. “Ci vada lei, alla Juve”, gli risposi. E aggiunse, come per giustificarsi, che in società si pensava che fosse opportuno acquistare un centravanti di movimento e non un regista. Io capii che Sandro aveva avuto un ruolo e mi dispiacque. Ma non tutto il male venne per nuocere".

 C’è oggi un centravanti italiano che le assomiglia?

"Io ero un classico centravanti d’area, che fornisce alla squadra riferimento e profondità. Che finalizza molto. Mi erano simili Vieri, Casiraghi. Oggi Icardi. E poi mi piace Pavoletti. Non lo conoscevo. Secondo me è un talento. Il problema è che i ragazzi italiani giocano poco e arrivano in prima squadra tardi".

 

http://m.fcinternews.it/ex-nerazzurri/boninsegna-gli-inizi-l-inter-oggi-mi-rivedo-in-icardi-212886

 

 

 

Roberto Boninsegna: metafora di un centravanti di sfondamento

 

Bonimba ha fatto le fortune di Inter,Cagliari e Juve con gol di inaudita potenza!Vicecampione con l’Italia nel 1970,era uno che non si piegava mai!

Gli amanti del cinema cult degli anni ottanta certamente ricorderanno la pellicola Don Camillo (1983) diretta e interpretata dall’istrionico Terence Hill. Nel film, che pur discostandosi dall’originale vive comunque nell’eterna rivalità fra Peppone e Don Camillo, c’è nel finale una memorabile partita di calcio fra le squadre dei due antagonisti. Una gara che diventa una battaglia, con colpi proibiti e la classica rissa al novantesimo. Fra sorprese e volti noti in scena, spicca nel team di Terence Hill-Don Camillo la presenza di un campione vero, un fuoriclasse prestato per una volta al cinema: Roberto Boninsegna. Nella finzione, ma soprattutto nella realtà, Bonimba (mai soprannome fu più giusto) ha rappresentato e interpretato come pochi il ruolo del centravanti di sfondamento, un combattente nato per segnare e forte come un carro cingolato. L’energia, il temperamento e la grande decisione gli hanno regalato una carriera di gioie e successi; la potenza nelle conclusioni e i suoi micidiali colpi di testa hanno riempito i tabellini dei gol nel campionato italiano dal 1963 al 1980.

Il bomber Roberto Boninsegna nacque a Mantova il 13 novembre del 1943 e iniziò giovanissimo una carriera calcistica che, come vedremo, sarà cadenzata anche da curiose fatalità. A 20 anni le prime stagioni in serie B, nel Prato e nel Potenza, mentre l’esordio nella massima serie fu merito del Varese nel 1965. Ingaggiato inizialmente dall’Inter, Roberto fu ceduto al Cagliari dove giocò dal 1966 al 1968 formando una coppia micidiale con Gigi Riva (con cui, però, non mancorono attriti) e realizzando 23 reti in 83 gare. Scambiato con Domenghini, tornò all’Inter nel 1969 per restarci fino al 1976 vincendo uno scudetto (1971) e due titoli di capocannoniere (nel 1971 con 24 gol e  nel 1972 con 22, uno in più di Riva). Boninsegna stava vivendo uno dei suoi periodi migliori che, oltretutto, coincise con le prime meritate convocazioni in una delle nazionali azzurre più forti e amate di sempre. E proprio con l’Italia si concretizzò il primo episodio curioso, ma gioioso, della sua vita.

Nel maggio del 1970 gli azzurri erano pronti a partire per il Messico dove si svolgevano i campionati del mondo. La notte prima della partenza Anastasi ebbe un malore e fu costretto suo malgrado a restare in Italia. Roberto Boninsegna, che non era nell’elenco dei convocati, era fresco sposo e in viaggio di nozze ma fu chiamato d’urgenza! Il bomber, sorpreso ma in fondo felice, raggiunse i compagni in tutta fretta e desideroso di dare il suo contributo alla causa. E il suo mondiale fu certamente da ricordare, nonostante un inizio balbettante. L’allenatore Ferruccio Valcareggi lo schierò titolare in 6 circostanze, e Bonimba lo ripagò con due gol storici. Indimenticabile quello in semifinale con la Germania Occidentale (Roberto apri le danze per il leggendario 4-3), bello anche se inutile quello nella finalissima persa 4-1 col Brasile di Pelé.

Con l’Italia, dove in totale collezionò 9 gol in 22 apparizioni, Roberto forse avrebbe potuto dare di più, ma in ogni caso il mondiale del 1970 rafforzò enormemente la sua popolarità. A 33 anni, quando per molti addetti ai lavori la sua carriera sembrava in declino, Boninsegna firmò a sorpresa per la Juventus. La Vecchia Signora, come spesso succede, aveva visto giusto e fu ripagata a dovere dal sempre letale Bonimba… Per lui, tre stagioni ad altissimo livello con ampio repertorio di gol e successi: due scudetti (1977 e 1978), una Coppa Italia (1979) e una Coppa UEFA (1977).

Il successo nella competizione internazionale fu motivo di doppia soddisfazione per Roberto, che aveva un personale conto in sospeso in merito… Anni prima, infatti, il bomber azzurro fu il protagonista sfortunato di una brutta avventura. Il 20 ottobre 1971, durante la partita di andata degli ottavi di finale della Coppa dei Campioni della sua Inter contro il Borussia Monchengladbach, Bonimba fu colpito in pieno volto da una lattina lanciata dagli spalti dai poco ospitali tedeschi. Attimi di panico, con Boninsegna costretto a lasciare il campo e col Borussia che si impose per 7-1. Per fortuna, e giustamente, l’Uefa non omologò il risultato della gara che fu annullata e ripetuta in campo neutro. L’Inter, che nel frattempo aveva vinto la partita di ritorno 4-2, riuscì a strappare un pareggio (0-0) nella ripetizione dell’andata qualificandosi così ai quarti. Per la cronaca, i milanesi arrivarono fino alla finale di Rotterdam, dove però furono battuti 2-0 dall’Ajax di Cruijff.

Del resto, l’immagine di Bonimba ferito ma non sconfitto è indicativa e sovrasta la citata disavventura. Roberto Boninsegna era tanto duro e granitico in campo quanto coriaceo nella vita. Il suo carattere deciso e un po’ ribelle, ad esempio, non era stato apprezzato dal totem Herrera, che infatti lo silurò chiedendone la cessione al Cagliari. In Sardegna, poi, entrò in conflitto pure con Gigi Riva, ma in fondo contesti del genere erano inevitabili; una sorta di proporzione diretta fra le qualità tecniche e quelle temperamentali. La sua combattività e la sua energia rispecchiavano fedelmente la collocazione in campo: il centravanti puro, quello capace di sfondare le difese avversarie. Boninsegna era spavaldo, temerario, micidiale nel tiro dalla media distanza e insensibile al gioco duro degli stopper più agguerriti e attrezzati. Probabilmente raggiunse la maturità tecnica e agonistica nell’Inter, aiutato da una squadra che giocava tutta per lui: Mazzola, Corso, Jair erano abili nel trovarlo smarcato e gli fornivano assist deliziosi che lui trasformava in oro colato. Ma è chiaro che anche Cagliari e Juventus devono dire grazie all’immenso Bonimba, che chiuse ad alti livelli nel Verona (1980); e nella lista dei privilegiati inseriamoci anche Terence Hill che, nella sua squadretta dell’oratorio nel film Don Camillo, scelse lui solo come bomber! Insomma, centravanti di sfondamento in tutti i sensi…

Lucio Iaccarino

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collezione Francesco Di Salvo

 

ROBERTO BONINSEGNA - IO, PROPRIO IO

 

Paolo Balbi, 14 Febbraio 2016

 

In mezzo a mille difetti, solo per limitarmi ai maggiori, ho però un pregio: sono sempre pronto a cambiare le mie idee di fronte all’evidenza. Riguardo al campione - all’uomo - che ho incontrato, non ho avuto dubbi e dopo 45 anni continuo a pensarla nello stesso modo, o meglio, il contatto personale mi ha rassicurato con tante conferme.

 Sarà la mia età, sarà che quand’anche indossasse lo smoking, lo vedrei comunque con una maglia nerazzurra e un numero 9, saranno tanti ricordi, ma al vocabolo “calciatore” associo d’istinto non Pelé, non Maradona, Ronaldo - tutti e due - e non Messi, ma Roberto Boninsegna. 

 Anche rimanendo nell’insieme “Campioni dell’Inter”, sottoinsieme “Teste Pensanti”, nel quale riconosco certamente figure come Picchi, Facchetti, Rummenigge o Zanetti, chi incarna il modello è comunque lui.

 Nell’ufficialità dell’immagine pubblica appare una persona schietta, che ha sempre manifestato con determinazione le proprie idee, senza compiacere chi di turno sarebbe stato nella posizione di procurargli vantaggi, non un giocoliere da circo con il pallone incollato al piede, né una docile pedina in uno schema, non un soldatino disciplinato, ma una persona con le proprie intemperanze e i propri spigoli, una persona che si è messa e si mette in discussione, una persona vera e per questo affidabile.

 Incontrare un personaggio pubblico può riservare delusioni ma, in quest’occasione, a tu per tu tutti i caratteri dell’immagine pubblica si dimostreranno, se possibile, anche più evidenti.

 Un'intervista faccia a faccia con Roberto Boninsegna in esclusiva per www.asolacalcio.it non è cosa di tutti i giorni e quindi sono a Mantova con largo margine di anticipo sull’ora dell’appuntamento, sole, aria frizzante, una brezza quasi di primavera, non sembra nemmeno di essere in pianura padana: un paio di caffè, qualche sigaretta e una telefonata mi fanno passare in fretta il tempo, scelgo un tavolino tranquillo in fondo al foyer del Teatro Sociale e intanto rivedo la lista delle domande pronte.

 Arriva puntuale; una stretta di mano forte e calorosa, un particolare mi fa subito sorridere: quando lui vinceva ovunque e lo guardavamo in mondovisione, da ragazzi ci sembrava una figura di una generazione precedente a noi, ora potrebbe essere un fratello; la natura gli aveva presto dato l’aspetto del guerriero nel pieno della sua maturità, poi il tempo è stato generoso e non ha più scalfito quell’immagine.

 Una faccia che si apre in un affabile sorriso, con la trasparenza di chi non si sente in dovere di apparire come il prossimo lo vorrebbe vedere.

 Mi scorrono rapide davanti agli occhi immagini della semifinale e della finale del campionato del mondo del ’70 con la Germania di Beckenbauer e il Brasile di Pelé, della finale di Coppa dei Campioni con l’Ajax di Cruijff e mi rendo conto che ho davanti qualcuno per il quale Gianni Brera si è scomodato a coniare uno di quei soprannomi che sfidano il tempo, non gli nascondo l’emozione della situazione e mi rassicura: “tranquillo, non è proprio il caso, siamo qui per fare due chiacchiere tra amici…”, ci possiamo dare del tu e iniziamo.

 Certamente non è possibile sapere come diventare Boninsegna, tu quando hai capito di poterlo diventare?

 L’ho capito una domenica mattina in un campetto di periferia, quando un signore che era un osservatore dell’Inter mi disse “Ti piacerebbe venire a provare all’Inter?”. Io lo guardai un po’ perplesso e gli dissi di venire a casa mia, a parlare con mio padre, i miei genitori erano abbastanza severi. Venne, parlò con mio padre, capimmo che era una cosa seria e andai a Milano al Redaelli, feci due prove e mi presero, lì capii che come inizio c’era qualcosa di buono.

  Tutto questo da giovanissimo?

 Sì, giocavo nella Sant’Egidio, nella categoria giovanissimi e avevo 15 anni: dalla Sant’Egidio, passai direttamente all’Inter.

  Il calcio dilettantistico dovrebbe essere divertimento e sacrificio sin dai pulcini?

 Solo divertimento è impossibile, il risultato è sempre determinante, ma bisognerebbe far capire che finché si gioca a 7 o a 9, il risultato viene dopo, lo sport fa bene ai ragazzi e il calcio è aggregazione; in particolare si dovrebbero educare i genitori e far loro capire che fino a quell’età quello che è importante non è il risultato, ma che i ragazzi facciano dello sport. Quanto al sacrificio, inizialmente è maggiore quello dei genitori, che devono accompagnare i figli e venirli a prendere, organizzarsi con gli orari per allenamenti e partite in relazione alla scuola e ad altre attività svolte abitualmente.

E' compito delle società far divertire, ma compito comune della scuola e della famiglia far accettare il concetto di sacrificio?

E’ compito anche dei genitori e per questo devono essere educati; alle partite sulle tribune succede di tutto e anche durante gli allenamenti capita che ci siano genitori che urlano al proprio figlio di non ascoltare quello che dice l’allenatore, di spostarsi in una certa zona del campo o di non rispettare le decisioni dell’arbitro: una testa calda può rovinare l’ambiente, per questo è compito delle società, quello più difficile, anche l’educazione dei genitori.

Consideri che debba esserci professionalità anche nelle società dilettantistiche o le buone intenzioni sono sufficienti?

Le buone intenzioni non sono sufficienti, bisognerebbe trovare istruttori che capiscano di calcio, quindi non solo insegnanti di educazione fisica ma, per dare una base al ragazzo, anche degli ex giocatori che insegnino il gesto: vedo che adesso i ragazzi corrono, sono preparati atleticamente, ma come gesto tecnico siamo indietro, vedo giocatori che non sono capaci di stoppare la palla o di calciare; ci vorrebbero più istruttori specifici soprattutto nelle categorie dei dilettanti.

Quando io ero alla Sant’Egidio avevamo degli allenatori che avevano giocato a calcio: dell’insegnante di educazione fisica c’è bisogno, ma è quello che ti sviluppa il fisico, non la tecnica. Quanto ai dirigenti, per lo più genitori di giocatori o di ex giocatori, è necessario che non tendano a fare i tecnici; la chiarezza delle competenze è una buona base di partenza: come i genitori devono fare i genitori e non sostituirsi ai tecnici o all’arbitro, così i dirigenti devono fare i dirigenti e lo devono fare al meglio, anche loro senza invadere le competenze tecniche.

 Come possono acquisire professionalità istruttori e dirigenti se LND, FIGC e CONI offrono poche occasioni di formazione?

Questo è un problema, credo che lì subentri la passione che è indispensabile: senza i dirigenti non si fa niente e servono tanta passione e l’ambizione di formarsi.

Che rapporti può avere una società dilettantistica con una professionistica?

 Un rapporto dovrebbe comunque esserci: i ragazzi nascono nelle società dilettantistiche e sui campi delle parrocchie e le società professionistiche vanno a pescare nei loro settori giovanili; la buona riuscita di un calciatore deve rappresentare un vantaggio per la società che l’ha formato e per quella che lo sceglie.

 Ci possono essere convenzioni e contratti, ma il rapporto non deve essere di natura commerciale, possono andare bene anche forniture di abbigliamento e attrezzature ma soprattutto le società professionistiche devono mandare sui campi i loro allenatori.

 Nel settore giovanile è meglio che il tesseramento sia libero o che ci sia una maggiore tutela per le piccole società? Attualmente chi lavora bene è premiato?

 Una tutela per le piccole società ci deve essere, perché il loro lavoro implica delle spese di gestione, dall’acquisto del materiale, alla manutenzione di campi, all’organizzazione delle trasferte: tutto questo impegno non deve diventare solo un beneficio per la società che preleva il giocatore, pur nel rispetto dei regolamenti.

  Se lo sport ha un ruolo sociale, è lecito attendersi il rispetto di questo ruolo anche dal calcio?

 Sul fatto che lo sport abbia un ruolo sociale non c’è dubbio, è un ruolo che il calcio, come ogni altro sport, deve assolutamente sostenere: la diffusione dei principi di lealtà, collaborazione, disciplina, aggregazione e oggi più che mai di integrazione, deve essere uno degli obiettivi.

 Per raggiungere un risultato, occorre educare i bambini, gli istruttori, ma soprattutto i genitori: quello è il lavoro nel quale le società devono impegnarsi maggiormente?

  Le società dilettantistiche sono tante: devono far sentire la propria voce nei confronti di LND, FIGC, UEFA e FIFA? La regola “non vedo, non penso, non leggo, non scrivo e non parlo” sembra un nascondiglio sicuro per tanti.

 Quali potrebbero essere le iniziative efficaci?

Certo che devono far sentire la propria voce; a livello federale i dilettanti, tramite l’affiliazione alla LND, pesano per il 33 % e le 15.000 società dilettantistiche hanno un’importanza determinante, ma devono scegliere bene i loro delegati: senza il loro appoggio è difficile decidere, dilettanti e Lega Pro insieme potrebbero ad esempio avere un controllo assoluto su tutta l’attività federale, escludendo la possibilità che a decidere siano le società più grandi, da anni spesso sotto ricatto da parte di gruppi di tifosi violenti e razzisti; il Presidente Lotito ha scelto di togliere tutti i privilegi ai gruppi di tifosi laziali, ma adesso è costretto a girare sotto scorta e la società paga per le giuste sanzioni nei confronti di una frangia del pubblico.

  E’ realistico sperare di vedere dei personaggi puliti ai vertici di LND, FIGC, UEFA e FIFA in tempi brevi?

 I fatti dei quali abbiamo notizia relativamente a personaggi come Blatter o Platini non fanno certo bene al calcio e anche se, più che negli altri sport, diventa sempre più importante non, come diceva il Barone Decoubertin, partecipare, ma vincere, non è accettabile che sul campo o fuori qualcuno cerchi di farlo con mezzi illeciti, rubando, drogandosi e corrompendo: si può vincere in quel modo, ma non è giusto, è una vittoria di Pirro, che non lascia niente.

 Chi ricorre a quei mezzi dovrebbe avere il coraggio di guardarsi allo specchio e capire che vincere così non è vera gloria.

  Per guadagnare il compenso di un anno di Messi un operaio deve lavorare circa 1600 anni e con tutta l’ammirazione che ho per l’atleta, non è un cardiochirurgo che salva delle vite, ci vorrebbe una misura sugli ingaggi?

 E’ vero, Messi non salva delle vite e una misura sarebbe giusta.

 Messi è un giocatore che porta pubblicità, televisioni, sponsor e denaro da ogni direzione: più guadagna Messi e più guadagneranno a cascata i suoi compagni di squadra, la generalità dei giocatori di serie A e marginalmente anche quelli di serie B.

In serie C no, e a fronte di qualche calciatore nel mondo che ha compensi di quell’entità, c’è una moltitudine di onesti lavoratori del calcio che in serie C guadagnano venti o trentamila euro all’anno e che a fine carriera, se sono stati bravi, forse riescono a comperarsi un appartamento e dovendo iniziare un lavoro da zero e in là con gli anni, rimangono solo con grossi problemi; restano nel mondo del calcio se hanno la fortuna e la capacità di riuscire a fare gli allenatori, ma non c’è spazio per tutti e di questo non si parla mai, invece sarebbe corretto sottolineare più che le cifre che guadagnano cento o duecento calciatori al mondo, la disparità tra questi e gli altri.

  Senza discostarsi troppo dal discorso, corruzione, illegalità, doping, diffusi comportamenti anti sportivi in campo e fuori: nel calcio non manca niente e ci si indigna sempre meno. Dipende solo dal gran numero di praticanti e appassionati e dal volume di denaro che circola, o c’è una mentalità ammalata?

 Le cifre sono tutte in quella direzione, sia il numero di praticanti e di appassionati, che le somme di denaro, lecito e non, legate al mondo del calcio: con il calcio guadagna tantissima gente e dove girano tanti soldi, è facile che sia attratta la delinquenza piccola e grande.

 

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 Non è un’esclusiva del calcio e non è neppure una consolazione, ma è fresca la notizia di gare truccate anche nel tennis e anche lì ci sono molti praticanti, molti appassionati e girano tanti soldi.

 Nel mio periodo erano caduti alcuni giocatori importanti, ora i nomi illustri non corrono il rischio di bruciarsi per delle cifre, che in rapporto ai loro ingaggi sono trascurabili, in situazioni che a lungo andare, prima o poi, saltano fuori.

 Sono per fortuna pochi ma, mi dispiace, devo dire che attorno al calcio girano dei personaggi inqualificabili.

  Attualmente sei impegnato con qualche attività nel calcio? Di recente avevo sentito di qualche tuo contatto in Toscana?

 No, al momento nessun impegno, in Toscana ho avuto delle proposte interessanti, ma alla mia età non ho assolutamente intenzione di spostarmi con la famiglia, sono padre e nonno felice e non vedo il motivo per non continuare ad esserlo, nella mia Mantova, coinvolgendo magari qualcun altro nelle mie scelte.

  Capisco che un cambiamento così radicale possa non essere percorribile, ma in zona è possibile che non ci siano delle proposte adeguate?

 Nessuna proposta in zona, ma va bene così, sono soddisfatto di come mi stanno andando le cose e le soddisfazioni non mi mancano.

 Le società sportive della zona sono avvisate, questa dovrebbe essere una sveglia come la sirena di una fabbrica: ad Asola cerchiamo di lavorare bene e di crescere in qualità ma, viste le dimensioni e le possibilità della società, non mi sentirei proprio all’altezza di offrire un progetto adeguato a Roberto Boninsegna, anche se sognare non costa nulla… Presidente, ad Asola abbiamo qualche idea?

 Le mie domande sarebbero finite ma se ce ne fosse il tempo, potremmo scambiare ancora due chiacchiere.

 Sì, ho ancora un po’ di tempo.

 Stavo notando che il trascorrere degli anni continua a rispettarti e lasciarti in perfetta forma…

collezione Francesco Di Salvo

 

 Più apparenza che sostanza, ma non mi lamento.

 Riesco ancora a giocare due partite a tennis, di doppio, ogni settimana, magari il giorno dopo sono da buttare, ma tengo botta, perché atleticamente ho ancora bisogno di correre.

 Vedi, quando giocavo recuperavo in fretta, prendevo delle legnate che non si immaginano, non c’erano tutte le telecamere che ci sono adesso e c’era chi aveva meno scrupoli, quindi ne prendevo veramente tante: ne prendevo e ne rendevo; quando capivo che uno entrava per fare male, prima o poi nell’arco della partita lo ripagavo, magari porgevo la guancia, ma gli restituivo quello che gli spettava, tutto alla fine rientrava nella lealtà del gioco.

 Voglio dirti ancora qualche cosa; anche se quella domenica mattina avevo capito che mi si stavano aprendo delle grandi opportunità, non mi sarei mai immaginato che un giorno avrei giocato un campionato del mondo, facendo goal in semifinale e in finale; tutto questo senza trovare nessuno che mi abbia aiutato, anzi, ho visto succedere delle cose molto strane, ci sono stati giocatori che mi sono passati davanti e che poi sono spariti dalla scena, ho dovuto subire le decisioni della società, all’epoca i giocatori non avevano voce in capitolo, e così sono partito dall’Inter, per ritornarci solo dopo essere andato in prestito al Prato, al Potenza, al Varese e venduto al Cagliari; una volta ricomprato ho avuto grandi soddisfazioni e avrei potuto continuare ma, per ciò che a qualcuno all’epoca era sembrato un buon affare, sono stato rivenduto un’altra volta, alla Juventus: ho continuato ad avere le mie soddisfazioni, mi sono tolto qualche sassolino dalla scarpa e tutto ha contribuito a formarmi caratterialmente, non ho mai avuto paura di nessuno da ragazzo e sono diventato ancora più forte successivamente.

 Sai che mi sta venendo in mente un episodio che mi accadde da ragazzino, proprio ad Asola? Un mio amico allenava il Rodigo e una domenica andai a vedere Asola - Rodigo: finì con una scazzottata generale in campo e in tribuna, io mi rifugiai sul nostro pullman…

 Se è per questo, non dimentichiamo che ti abbiamo avuto in campo ad Asola per dare il calcio d’inizio di una partita a scopo di beneficienza, organizzata dalla Croce Rossa locale: a vedere Asola-Rodigo io non c’ero, ma nell’altra occasione sì…

Grazie Roberto, grazie per la disponibilità in termini di tempo e argomenti; in bocca al lupo per tutto e goditi la tua bella famiglia a tempo pieno adesso: dubito che proprio a nessuno frulli in testa l’idea di presentarti un bel progetto e farti un’offerta che non si può rifiutare.

http://www.asolacalcio.it/volta-la-carta/589-roberto-boninsegna-io-proprio-io.html

grazie a Francesco Di Salvo per le foto fornite