Negli anni in cui visse
Agata, a metà del III secolo, l'impero romano aveva già
raggiunto la massima estensione territoriale. I suoi confini
andavano dalla Penisola iberica alla Mesopotamia, dalla
Britannia all'Egitto, abbracciando popoli, lingue, religioni e
costumi molto diversi tra loro.
Il governo centrale si era
preoccupato di dare uniformità alle terre conquistate imponendo
a tutti la lingua latina, le leggi di Roma e la propria
religione, ma non era in grado di amministrarle e di
controllarle direttamente. Per questo aveva affidato ogni
provincia a un proconsole o a un governatore, funzionari che
godevano sia dei poteri civili che di quelli militari:
imponevano e riscuotevano le imposte, amministravano la
giustizia, comandavano l'esercito.
Ai tempi dell'imperatore
Decio, Catania era una città ricca e fiorente, che per di più
godeva di un'ottima posizione geografica. Il suo grande porto,
nel cuore del Mediterraneo, rappresentava uno dei più vivaci
punti di scambio commerciale e culturale dell'epoca. Le fonti
storiche narrano che era amministrata dal proconsole Quinziano,
uomo rude, prepotente e superbo.
Con moglie e famiglia, una
corte numerosa, le guardie imperiali e una schiera di servi,
alloggiava nel ricco palazzo pretorio, un enorme complesso di
edifici con annesse aule giudiziarie e carceri, in cui si
svolgevano tutte le attività pubbliche della città.
LE PERSECUZIONI
Sin dal 264 a.C., anno in cui
con la prima guerra punica Roma sottrasse l'isola ai
Cartaginesi, in Sicilia era stata imposta la religione pagana
dei Romani, col suo carico di divinità popolane e goderecce,
esempi di corruzione e di dissolutezza nei costumi.
Quando la comunità cristiana
iniziò a essere abbastanza ampia, intorno al 40 d.C., si
abbatterono su di essa le prime persecuzioni. Inizialmente con
Nerone, a metà del primo secolo, ebbero carattere soltanto
occasionale. Poi, nel corso del Il secolo, fu data loro una
base giuridica mediante una legge che vietava il culto
cristiano.
Di questi primi secoli la
Chiesa ricorda numerosi martiri che, con il loro coraggio e la
determinazione nell'accettare la morte per Cristo,
contribuirono ad accelerare la diffusione del cristianesimo.
All'inizio del III secolo,
l'imperatore Settimio Severo emanò un editto di persecuzione.
Egli stabilì che i cristiani dovessero essere prima denunciati
alle autorità e poi invitati a rinnegare pubblicamente la loro
fede. Se accettavano di tornare alla religione pagana avevano
diritto al libellum, una sorta di certificato di conformità
religiosa, ma se si rifiutavano di sacrificare agli dèi,
venivano prima torturati e poi uccisi. Con questo sistema,
freddo e calcolatore, l'imperatore cercava di fare apostati,
cioè persone che abbandonavano la fede cristiana, e non martiri,
che erano considerati più pericolosi dei cristiani vivi.
Poi, di fronte al diffondersi
del cristianesimo e temendo che l'aumento dei fedeli potesse
minacciare la stabilità dell'impero, nel 249 l'imperatore Decio
ordinò una repressione ancora più radicale: tutti i cristiani,
denunciati o no, erano ricercati d'ufficio, rintracciati,
torturati e infine uccisi.
AGATA «LA BUONA»
In quegli anni, a metà del
III secolo, a Catania nasceva Agata. La data non è mai stata
storicamente accertata con esattezza, ma fu calcolata a ritroso
partendo da un'altra che invece è certa, cioè il martirio
avvenuto nel 251. La tradizione popolare e gli antichi atti
vogliono che Agata, al momentò del martirio, fosse poco più che
adolescente. Per questo motivo si fa risalire la sua nascita
intorno all'anno 235. Una voce aggiunge anche il giorno:
l’8 settembre, facendolo
coincidere con una delle date più importanti del culto mariano,
quella della nascita della Madonna.
La sua era una famiglia
nobile e ricca. Possedeva case e terreni coltivati, in città e
in provincia. Il padre Rao e la madre Apolla decisero di
chiamarla Agata, che in greco significa «la buona». In questo
nome c'era già racchiuso il suo destino: bontà e purezza furono,
infatti, le doti che distinsero Agata sin dalla prima infanzia.
La tradizione popolare
identifica nei ruderi di una villa romana, al centro della
città, la casa natale di Agata. In questo luogo in seguito è
stato posto un piccolo altare che, in ogni periodo dell'anno, è
tanto ricco di fiori da sembrare un giardino a primavera.
Dei suoi primi anni di vita
non ci sono giunte testimonianze documentate, ma si può
supporre che sin dalla più tenera eta Agata abbia ricevuto dai
genitori una buona educazione e che dal loro esempio abbia
appreso il valore delle virtù cristiane: la preghiera, la
rinuncia alle ricchezze terrene, il coraggio nello scegliere
Cristo.
Agata trascorreva le giornate
della sua adolescenza in un sereno ambiente familiare. Era
obbediente ai genitori, che amava profondamente, ma più di ogni
cosa amava Dio. Fuggiva il lusso e la vita mondana, che invece
erano al centro degli interessi delle coetanee di pari grado
sociale.
Cresceva in santità: metteva
tutto il suo impegno nelle semplici cose di ogni giorno per
imitare e testimoniare Gesù. E fu questo allenamento quotidiano
alla rinuncia e al sacrificio che le permise di prepararsi ad
affrontare la grande prova del martirio. Ma Agata cresceva anche
in bellezza: il suo corpo era slanciato, i lineamenti delicati,
le labbra rosee, i capelli biondi. La voce del popolo l'ha
descritta per secoli così, e in questo modo l'arte sacra l'ha
sempre raffigurata. Qualcuno ha pensato di trovare una conferma,
sia dell'altezza che del colore dei capelli, nelle ricognizioni
fatte periodicamente sulle reliquie della santa.
Come un bocciolo di rosa, la
sua bellezza era nella grazia delle forme e nel pudore che le
rivestiva. Bellezza, candore e purezza verginale facevano di
Agata una creatura davvero angelica.
LA CONSACRAZIONE A DIO
Molto presto, già negli anni
dell'infanzia, Agata ebbe chiaro nel cuore il desiderio di
donarsi totalmente a Cristo. Per lo Sposo celeste provava un
sentimento semplice e spontaneo, ma anche così forte che era
impaziente di pronunciare il voto di verginità.
Nel segreto dell'animo si era
già promessa a Dio e, quando non aveva ancora compiuto 15 anni,
sentì che era giunto il momento di consacrarsi solennemente. il
vescovo di Catania accolse la sua richiesta e, durante una
cerimonia ufficiale chiamata velatio, le impose il flammeum, il
velo color rosso fiamma che portavano le vergini consacrate.
Agata da quel giorno divenne
sposa di Cristo. Aveva atteso con ansia e trepidazione quel
momento e aveva pregato tanto Dio di poter offrire a lui il suo
cuore puro. Così, dopo tanta attesa, la consacrazione la rese
profondamente felice, consentendole di vivere in preghiera e
meditazione.
LA FUGA E L'ARRESTO
Un giorno, il proconsole
Quinziano fu informato che in città, tra le vergini consacrate,
viveva una nobile e bella fanciulla. Decise allora che doveva
conoscerla. Ordinò ai suoi uomini che la catturassero e la
conducessero al palazzo pretorio: si trattava proprio di Agata.
L'accusa formale, in forza
dell'editto di persecuzione dell'imperatore Decio, era quella
di vilipendio della religione di Stato, un'accusa riservata a
tutti i cristiani che non volevano abiurare. In realtà l'ordine
del proconsole nasceva anche dal desiderio di soddisfare un
capriccio e un interesse personale: piegare a sé una giovane
bella e illibata e confiscarle i beni di famiglia.
Per sottrarsi all'ordine del
proconsole, Agata per qualche tempo rimase nascosta lontano da
Catania. Su questo punto storia e leggenda sono fortemente
intrecciate: più città si contendono il merito di aver dato
asilo alla veigine esule. Tra le ipotesi più accreditate, la
più probabile è quella secondo cui Agata si rifugiò a Galermo,
una contrada poco distante da Catania, dove i genitori
possedevano case e terreni.
Secondo un'altra tradizione,
che nasce con buona probabilità da un errore di trascrizione
degli antichi atti del martirio, Agata si sarebbe rifugiata,
invece che a Galermo, a Palermo. Un'ultima e poco attendibile
ipotesi, questa di tradizione non italiana, sostiene che Agata
si sarebbe nascosta in una grotta nell'isola di Malta.
Nei secoli, il popolo ha
arricchito di avventure leggendarie la fuga e l'arresto di
Agata. Una di queste narra che ella, inseguita dagli uomini di
Quinziano e giunta ormai nei pressi del palazzo pretorio, si
fosse fermata a riposare un istante. Nello stesso momento in cui
si fermò, si dice per allacciarsi un calzare, un ulivo comparve
dal nulla e la giovinetta poté ripararsi e anche cibarsi dei
suoi frutti. Ancora oggi, per rinnovare il ricordo di
quell'evento prodigioso, è consuetudine coltivare un albero di
ulivo in un'aiuola vicino ai luoghi del martirio.
Un'altra tradizione popolare
legata a questa leggenda vuole che, il giorno della festa di
sant'Agata, vengano consumati dolcetti di pasta reale, di
colore verde e ricoperti di zucchero, che nella forma ricordano
le olive, chiamati appunto «olivette di sant'Agata».
Tornando alla storia, Agata
rimase in esilio soltanto per poco tempo. Gli apparitores, gli
sgherri al servizio del proconsole, la raggiunsero con quella
facilità che è propria dei potenti e la condussero in tribunale
al cospetto di Quinziano.
IN
CASA DI AFRODISIA
Quinziano, non appena la
vide, fu rapito dalla sua bellezza. Un ardore passionale lo
invase, ma i suoi tentativi di seduzione furono tutti vani,
perché Agata lo respinse sempre con grande fermezza.
Il proconsole pensò allora
che un programma di rieducazione avrebbe potuto trasformare la
giovane e l'avrebbe convinta a rinunciare ai voti e a cedere
alle sue lusinghe. La affidò così per un mese a una cortigiana,
una matrona dissoluta, maestra di vizi e di corruzione, che
era conosciuta col nome di Afrodisia. La donna viveva in casa
con le sue figlie, nove secondo la tradizione, diaboliche e
licenziose almeno quanto lei.
Fu il mese più duro e
terribile per la giovane Agata. La sua purezzà era costretta a
subire continui insulti, cattivi esempi e inviti immorali. Per
farle dimenticare Gesù, Afrodisia la tentò con ogni mezzo:
banchetti, festini, divertimenti di ogni genere, le promise
gioielli, ricchezze e schiavi. Ma Agata disprezzava ognuno di
questi doni.
Quando lo strumento della
persuasione si rivelò incapace a piegare la sua ferrea volontà,
Afrodisia e le figlie tentarono di raggiungere lo stesso vile
scopo attraverso le minacce. «Quinziano ti farà uccidere», le
intimavano. Ma la vergine incorruttibile respingeva ogni
proposta, si mostrava insensibile a ogni minaccia, opponeva
rifiuti secchi usando parole di fuoco:
«Vane sono le vostre
promesse, stolte le vostre parole, impotenti le minacce.
Sappiate che il mio cuore è fermo come una pietra in Cristo e
non cederà mai». La giovane Agata fu sempre fedele al suo unico
Sposo; a lui offriva le sofferenze che pativa per la fede e
giorno dopo giorno la sua anima ne risultava sempre più
temprata.
Allo scadere del mese e di
fronte alla fermezza di Agata, Afrodisia non poté far altro che
arrendersi. Sconfitta e umiliata, riconsegnò la giovane a
Quinziano: «Ha la testa più dura della lava dell'Etna, non fa
altro che piangere e pregare il suo invisibile Sposo. Sperare da
lei un minimo segno d'affetto è soltanto tempo perso».
IL PROCESSO
Quinziano prese atto che
lusinghe, promesse e minacce non sortivano alcun effetto su
quella giovane tanto bella quanto innamorata di Gesù. Decise
allora di dare immediato avvio a un processo, contando così di
piegarla con la forza.
Convocata al palazzo
pretorio, Agata entrò fiera e umile. Procedeva a passi sicuri
verso il suo persecutore e, quando i suoi occhi limpidi
incontrarono quelli di Quinziano, li trovarono accesi di rabbia
e di desiderio di rivalsa.
Agata non era spaventata,
sapeva che lo Spirito Santo l'avrebbe assistita e le avrebbe
suggerito le parole da dire al tiranno. Ne era certa, perché
Gesù stesso lo aveva promesso ai suoi discepoli.
Si presentò al proconsole
vestita come una schiava, come usavano le vergini consacrate a
Dio, e Quinziano volle giocare su questo equivoco per
provocarla. «Non sono una schiava, ma una serva del Re del
cielo», chiari subito Agata. «Sono nata libera da una famiglia
nobile, ma la mia maggiore nobiltà deriva dall'essere ancella
di Gesù Cristo». Le affermazioni di Agata erano taglienti e
fiere, degne della semplicità di una vergine e della fermezza di
una martire.
«Tu che ti credi nobile»,
disse Agata a Quinziano, «sei in realtà schiavo delle tue
passioni». Questa fu una grave provocazione per lui, l'adrone
di quella terra e garante della religione pagana in Sicilia.
«Dunque, noi che disprezziamo il nome e la servitù di Cristo»,
domandò irritato il proconsole, «siamo ignobili?».
Per Agata, che parlava con la
forza della fede e illuminata dallo Spirito Santo, era arrivato
il momento di accettare la sfida e rilanciò:
«Ignobiltà grande è la
vostra: voi siete schiavi delle voluttà, adorate pietre e legni,
idoli costruiti da miseri artigiani, strumenti del demonio».
Quinziano a quelle parole si sentì come un toro ferito. Era
incapace di controbattere, non possedeva né le risorse
culturali di un oratore, né la saggezza e la semplicità delle
risposte ispirate dalla fede che aveva Agata.
Gli unici strumenti che
conosceva bene e che sapeva usare erano la violenza e le
minacce. In questo campo era sicuro di essere il più forte e
questi mezzi utilizzò: «O sacrifichi agli dèi o subirai il
martirio», minacciò spazientito. Ma, di fronte alla minaccia
delle torture, Agata non si lasciò intimorire: «Vuoi farmi
soffrire?», lo irrise. «Da tempo lo aspetto, lo bramo, è la mia
più grande gioia». Poi, con voce sicura, aggiunse: «Non adorerò
mai le tue divinità. Come potrei adorare una Venere impudica,
un Giove adultero o un Mercurio ladro? Ma se tu credi che queste
siano vere divinità, ti auguro che tua moglie abbia gli stessi
costumi di Venere».
Queste parole, pesanti come
macigni e affilate come lame, per Quinziano furono dure
sferzate al suo orgoglio. Seppe reagire soltanto con la
violenza e ricambiò con uno schiaffo l'umiliazione appena
subita. Per niente avvilita per la percossa, Agata gli rispose:
«Ti ritieni offeso perché ti auguro di assomigliare ai tuoi dèi?
Vedi allora che nemmeno tu li stimi? Perché pretendi che siano
onorati e punisci chi non vuole adorarli?». Erano parole
inconfutabili, ma Quinziano non volle arrendersi e ordinò che
la giovane fosse rinchiusa in carcere.
IL CARCERE E LE TORTURE
Per un giorno e una notte
Agata rimase chiusa in una cella del carcere, all'interno del
palazzo pretorio: diventata in seguito un luogo di culto, era
una cameretta interrata, buia e umida. Il soffitto era alto e
soltanto una finestrella irraggiungibile lasciava filtrare un
raggio di luce attraverso una spessa grata di ferro. Non le fu
dato né cibo, né acqua e una pesante catena le stringeva le
caviglie. Ma la giovane Agata non disperò mai e continuò a
pregare ancora più intensamente lo Sposo celeste.
La mattina successiva fu
condotta per la seconda volta davanti al proconsole. «Che pensi
di fare per la tua salvezza?», le domandò Quinziano. «La mia
salvezza è Cristo», rispose decisa Agata. Soltanto a quel punto
Quinziano si rese conto che qualunque tentativo di persuasione
era destinato al fallimento e, con uno scatto d'ira, ordinò di
sottoporla a orrende torture.
Ad Agata furono stirate le
membra, fu percossa con le verghe, lacerata col pettine di
ferro, le furono squarciati i fianchi con lamine arroventate.
Ogni tormento, invece di spezzarle la resistenza, sembrava darle
nuovo vigore. Allora Quinziano si accanì ulteriormente contro
la giovinetta e ordinò agli aguzzini che le amputassero le
mammelle. «Non ti vergogni», gli disse Agata, «di stroncare in
una donna le sorgenti della vita dalle quali tu stesso traesti
alimento, succhiando al seno di tua madre?».
L'ordine di Quinziano era un
gesto di rabbia e di vendetta: ciò che non aveva potuto
ottenere, ora voleva distruggere. Voleva vederla soffrire per
il dolore del martirio e per il pudore violato. Voleva
umiliarla nella sua dignità di donna, ma nessun segno di
turbamento segnò il volto né le parole di Agata: «Tu strazi il
mio corpo», disse, «ma la mia anima rimane intatta».
IL MIRACOLO DI SAN PIETRO
Agata fu riportata in cella,
ferita e sanguinante. Le piaghe aperte bruciavano, il dolore
era lancinante. Ma sapeva
che pativa per Gesù e questo
l'appagava. Così, mentre pregava in silenzio, con lo sguardo
rivolto al cielo al di là della grata, lo Sposo celeste volle
alleviarle il dolore e le mandò l'apostolo Pietro.
La notte successiva alle
torture, nel buio della cella, la fanciulla vide avvicinarsi una
luce bianca. Era un fanciullo vestito di seta con una lucerna
in mano. Lo seguiva un uomo anziano. Inizialmente Agata non
volle che l'anziano le porgesse i medicamenti che aveva
portato con sé per guarire le sue ferite. «La mia medicina è
Cristo», disse, rifiutando delicatamente l'aiuto «se egli
vuole, con una sola parola, può risanarmi».
Agata desiderava ardentemente
soffrire per Cristo, morire per lui, diventare una martire per
amore. Sapeva che il chicco di grano può dare frutto soltanto
se muore e così anche il suo sangue, versato per gli ideali del
vangelo, poteva essere il seme di un'umanità rinnovata in
Cristo. «Le pene che io soffro», spiegò all'anziano visitatore,
«completano il mio lungo desiderio, coltivato sin
dall'infanzia».
Ma quando l'uomo la rassicurò
e le disse di essere l'apostolo di Cristo, Agata chinò il capo e
accettò che su di lei si compisse la volontà di Dio. Aveva
aspettato tanto, ma, obbediente alla volontà del suo Sposo,
abbandonò un desiderio che era suo per accettare quello del
Padre.
Il prodigio non tardò: quando
l'uomo scomparve nel buio, Agata si accorse che le ferite
erano guarite, il suo seno era rifiorito e il suo spirito si
era rinvigorito.
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LA CONDANNA A MORTE
Dopo quattro giorni di cella,
all'alba del quinto fu condotta in tribunale per la terza volta.
Quinziano fu sbalordito e incredulo nel vedere rimarginate le
ferite sul corpo di Agata e volle sapere cosa fosse accaduto.
Agata gli rispose fiera: «Mi ha fatta guarire Cristo».
Quella giovane fanciulla,
così bella e fragile ma anche così determinata, doveva apparire
al proconsole come la più pesante delle sconfitte personali. La
sua stessa presenza era ormai imbarazzante e Quinziano volle
liberarsi di quell'incubo con l'ordine definitivo: «Uccidetela»,
gridò. Per Agata fu decisa la morte più atroce: un letto di
tizzoni ardenti con lamine arroventate e punte infuocate.
L’ordine
fu eseguito immediatamente: Agata fu gettata sulle braci,
coperta soltanto dal suo velo da sposa di Cristo. Mentre il suo
corpo veniva rivoltato sui carboni ardenti e trafitto da punte
di ferro e lamine taglienti, la sua anima, che si era conservata
pura, ardeva più forte per il Signore.
A questo punto, secondo la
tradizione si sarebbe verificato un altro miracolo, a
testimoniare la chiara santità di Agata: il fuoco, che
straziava il suo corpo, non bruciò invece il velo. Per questa
ragione il «velo di sant'Agata» diventò da subito una delle
reliquie più preziose. Più volte portato in processione di
fronte al fuoco delle colate laviche dell'Etna, ha avuto il
potere di far arrestare il magma.
Le fonti storiche dicono che,
quando Agata fu spinta nella fornace, un violento terremoto
scosse l'intera città di Catania. Tutti pensarono che fosse il
grido di dolore della sua terra per l'orrendo delitto. Silvano e
Falconio, i due perfidi consiglieri di Quinziano che avevano
controfirmato la condanna a morte, finirono travolti dal
crollo del palazzo pretorio.
Si narra anche che Quinziano
fosse riuscito a fuggire, ma poco tempo dopo morì annegato
mentre tentava di attraversare in barca il fiume Simeto, vicino
a Catania. Il suo corpo non fu mai ritrovato e per questa
ragione una leggenda popolare vuole che di tanto in tanto il
fantasma del proconsole vaghi inquieto in quelle zone; mentre
c'è chi sostiene di vedere le acque del fiume, in certi periodi
dell'anno, ribollire ancora per lo sdegno.
La folla dei catanesi che
aveva assistito al supplizio di Agata l'accompagnò alle porte
del carcere, dove venne condotta agonizzante, e vegliò su di
lei negli ultimi istanti prima della morte.
Tutti poterono assistere al
suo ultimo gesto. Con le poche forze che le erano rimaste,
Agata unì le mani in preghiera e, di fronte alla folla
commossa, recitò con un filo di voce uesta orazione spontanea:
«Signore, che mi
creato e custodito fin dalla
mia prima infan zia e che nella giovinezza mi hai fatto agire
con determinazione, che togliesti da me l'amore terreno, che
preservasti il mio corpo dalle contaminazioni degli uomini, ti
prego di accogliere ora il mio spirito». Era il 5 febbraio 251.
LA «TAVOLA DELL'ANGELO»
I cristiani che avevano
assistito al martirio e alla morte di Agata raccolsero con
devozione il suo corpo e lo cosparsero di aromi e di oli
profumati, come era in uso a quell'epoca. Poi con grande
venerazione lo deposero in un sarcofago di pietra, che da
allora fino ai nostri giorni è stato sempre oggetto di culto a
Catania.
Le fonti narrano che, quando
il sepolcro ormai stava per essere chiuso, si avvicinò un
fanciullo, vestito di seta bianca e seguito da altri cento
giovanetti. Presso il capo della vergine depose una tavoletta
di marmo, che oggi è una preziosa reliquia custodita nella
chiesa di Sant'Agata a Cremona, con l'iscrizione latina «M.S.S.H.D.E.P.L.
», che in italiano significa «Mente santa e spontanea, onore a
Dio e liberazione della patria». Questa iscrizione, detta anche
«elogio dell'angelo», è la sintesi delle caratteristiche della
santa catanese ed è anche una solenne promessa di protezione
alla città.
SAN
BIAGIO, DETTA ANCHE CHIESA DI SANT'AGATA ALLA FORNACE (CARCAREDDA)
La chiesa costruita nel XVIII secolo dopo il
tremendo terremoto del 1693, sorge sul luogo ove, secondo la
tradizione, era ubicata
la
fornace in cui Sant'Agata subì il martirio. Infatti, dopo essere
stata rinchiusa in carcere per non aver voluto abiurare alla sua
fede, venne prima sottoposta alle torture con il fuoco e quindi le
furono asportate le mammelle.
La fornace dove S. Agata subì il Martirio non
era per quei tempi una fornace comune, ma una fornacella
appositamente costruita per il martirio umano. Essa consisteva in
una semplice buca poco profonda scavata nel terreno, capace a
contenere carboni accesi e vasi infranti resi incandescenti dal
fuoco.
Ciò che oggi è rimasto dell'antica fornace è
assai poco. Si osservano alcuni avanzi proprio sotto la mensa
dell'altare.
Dopo la morte di S. Agata vi sorse una piccola
edicola per ricordare il luogo del Martirio. Verso il XVI sec. venne
edificata la vera e propria chiesa consacrata a S. Biagio, in
sostituzione di un'altra chiesetta allo stesso Santo
intitolata.Abbattuta dal terremoto del 1693, venne ricostruita con
le attuali dimensioni dal Vescovo Riggio agli inizi del 1700.
Su un imponente frammento delle mura di Carlo
V, sorge la Chiesa che è stata costruita davanti al carcere dove la
santa patrona della città, S. Agata fu rinchiusa durante il
processo, portata dopo il martirio, guarita dall'apostolo Pietro e
dove esalò l'ultimo respiro il 5 febbraio 251 d.C.
Il portale è normanno ed apparteneva alla
facciata dell'antico duomo , salvato dalle macerie del 1693; fu
rimosso da Gian Battista Vaccarini, che soprintendeva ai lavori per
il prospetto del nuovo tempio da lui disegnato, e collocato fino al
1750 nel Palazzo Senatorio.
Secondo la tradizione in questo luogo venne
tenuta prigioniera Sant'Agata prima di subire il martirio. Gli
archeologi hanno confermato che i due ambienti carcerari all'interno
della chiesa, in effetti, corrispondono al tempo della vita di
Agata. A destra dell'altare si apre un angusto passaggio (due porte)
che conduce in un locale di epoca romana, considerato il carcere di
Sant'Agata da cui discende la denominazione della chiesa. Vicino
all'altare del Crocefisso si trovano due lastre di pietra lavica che
secondo la tradizione apparterrebbero a Sant'Agata che qui venne
imprigionata, nel gennaio del 251, prima di subire il martirio; in
una di queste sono impresse le orme di due piedi che, secondo la
tradizione, avrebbe lasciato la santa catanese.
Il Santo Carcere fu ampliato con la navata
d'ingresso fino ad incastrare le mura cinquecentesche in cui fu
aperta la finestrella che la tradizione indica quale luogo in cui
Sant'Agata fu guarita da San Pietro. In verità si tratta dei resti
del Bastione del Santo carcere, costruito da Carlo V nel 1530 che
difendeva la porta nord (chiamata Porta del Re) della città di
Catania.
Di fronte la finestra, nel piazzale, un albero
di ulivo fu piantato davanti, per ricordare l'evento miracoloso.
Quinziano. La leggenda narra che la vergine Agata sulla strada che
la portava al processo e quindi all’atroce tortura del taglio dei
seni, si chinò per allacciarsi una scarpa, in quel luogo, come per
renderle omaggio spuntò un albero di olivo.
I catanesi presero l’abitudine di raccogliere
le olive prodotte dall’albero per conservarle o donarle come frutti
miracolosi. Ho provato a trovarne una. Niente! Non ho mai visto, a
Catania, un'aiuola così pulita!
Venne eretta tra le rovine del palazzo del
proconsole romano e consacrata nel 262 d.C., quando Costantino
permise ai cristiani l'esercizio pubblico del sacro culto. Eretta
nel 313 d.C. , fu cattedrale della città di Catania fino 1091 quando
il conte Ruggero dispose la costruzione dell’attuale cattedrale
consacrata nel 1094.
La chiesa è ubicata in via S Maddalena. Sotto
l'altare maggiore vi è posto un sarcofago in pietra di epoca romana,
senza coperchio originale, dove fu conservato la salma della Santa
prima che venisse portata a Costantinopoli.
In questo sepolcro andò Santa Lucia per
implorare alla santa la guarigione della madre. In memoria di questa
visita il 13 Dicembre si festeggia la martire siracusana.
A sottrarre le reliquie della santa fu il
generale bizantino Giorgio Maniace, incaricato di riconquistare la
Sicilia che dal 975 era sotto la dominazione araba. Furono portate a
Costantinopoli nel 1040 e deposte nella chiesa di Santa Sofia nel
1126 per ben 86 anni.
Nelle adiacenze dell'ingresso, protetta da una
teca, è collocata la cassa in legno che per oltre 500 anni custodì
le spoglie di sant'Agata, riportate a Catania dall'ufficiale
francese Giliberto aiutato da Goselmo che le rapirono a
Costantinopoli e le riconsegnarono a Catania al Vescovo Maurizio il
7 Agosto 1126.
Nella chiesa vi è anche un sotterraneo
all'interno del quale si trova un altare, con un dipinto di S.
Agata. Nelle pareti vi sono fenditure contenenti reliquie. Il
sotterraneo, dove Agata subì il processo e le vennero strappate le
mammelle, è composto da tutta una serie di sottopassaggi che
anticamente si collegavano a Sant'Agata al carcere e a San Biagio.
Cunicoli che a tutt'oggi sono rimasti chiusi.
CATANIA AL TEMPO DI AGATA
Il
sepolcro di epoca romana nel convento del Carmine Forse la tomba di
Sant'Agata
Nei giorni della festa "rivive"
un'importante testimonianza. Una piccola parte del monumento è
visibile nel cortile della caserma Santangelo Fulci, mentre la
restante parte, dei padri carmelitani, è adibita a deposito per gli
ambulanti della fiera. Impegno per il restauro
Se ne vede appena uno spigolo, in
uno dei cortili interni dell'ex convento del Carmine, eppure questa
tomba di epoca romana, costruita in blocchi squadrati di pietra
lavica, potrebbe essere la prima sepoltura di Sant'Agata.
Un monumento dimenticato e finora
inaccessibile, chiuso com'è all'interno del «Centro documentale
dell'esercito», meglio conosciuto come ex distretto militare di
Catania di piazza Carlo Alberto. Eppure è ad un colonnello di questa
caserma, il dottor Corrado Rubino, ora in pensione, che si deve lo
studio e il rilievo della tomba e i successivi lavori di restauro
condotti sotto la supervisione della Sovrintendenza. Lavori cui ha
dato un contributo fondamentale l'Accademia di Belle Arti che ha
stanziato i fondi necessari, ha aperto, per la prima volta, un
cantiere di studio e di lavoro per i propri allievi, e realizzato,
grazie ad un suo docente, l'arch. Enrico La Rosa, una ricostruzione
virtuale in 3D del monumento.
Si tratta di una tomba «a casa»,
cioè di una costruzione a pianta quadrata, ampia 100 mq, e alta 6
metri dalla risega di fondazione che oggi si trova 90 centimetri
sotto la quota del cortile della caserma. Una costruzione rifinita
con una modanatura a forma di timpano spezzato di origine traianea.
«Si tratta - spiega il colonnello Corrado Rubino, che è anche anche
archeologo - di una tomba di epoca romano imperiale, databile tra la
fine del II e l'inizio del III secolo dopo Cristo, in piena epoca
Severiana, cioè tra Marco Aurelio e la dinastia dei Severi. Di
questo tipo di tomba esistono molti altri esempi all'isola sacra di
Ostia, ma sono di dimensioni molto più piccole e realizzate in
mattoni. La lava, del resto, è un materiale tipico della nostra
terra. Caso unico, la costruzione era perfettamente rivestita anche
nella parte posteriore, indizio del fatto che doveva essere un
edificio isolato».
Un monumento del quale si era
persa la memoria tanto che il vincolo della sovrintendenza risale al
2007. Eppure, già nel 1923, ne aveva parlato Guido Libertini in una
nota del «Der Alte Catane» indicandolo, erroneamente, come la
possibile tomba di Stesicoro. Nel 1926, però, corregge l'errore, ma
lo fa con un articolo pubblicato in una rivista specializza di
scarsa diffusione. Nel 1990 l'archeologo Wilson lo definisce il
«monumento inaccessibile» e, negli stessi anni, il prof. Torelli, in
una guida della Sicilia, ne parla come di una tomba romana. «Del
resto - spiega il dottor Rubino - l'area dove sorgeva questa tomba,
in epoca romana, era una grande necropoli monumentale, che, non a
caso, fiancheggiava la via Pompeia, la strada consolare che univa
Messina a Siracusa. Strada che - in questo tratto - era ad un
livello inferiore di 4 metri rispetto alla colata lavica preistorica
su cui era stata edificata questa tomba che, dal basso, doveva
apparire enorme, imponente, spettacolare. Non solo. Nella facciata
sud si aprono quattro finestrelle disposte a raggiera in modo che i
raggi del sole, entrandovi, convergevano in un unico punto, su un
sepolcro che ne veniva illuminato conferendogli un'aurea sacra».
La tomba di una persona speciale,
dunque. «La possibile sepoltura di Sant'Agata», sostiene il
colonnello Rubino rifacendosi a fonti secentesche, agli storici
Caetani, De Grossis e Vito Amico. E non sarebbe un caso se, fino a
qualche anno fa, la chiesa del Carmine, insieme a quella di
Sant'Agata la Vetere, erano le sole dove il fercolo di Sant'Agata
entrava. Perché, se non per un'antica memoria? E del resto anche il
convento del Carmine, dopo il terremoto del 1693 che lo rase quasi
al suolo, fu ricostruito prevedendo un ampio corridoio che,
dall'ingresso della chiesa, sviluppandosi lungo la facciata, porta
direttamente alla tomba romana. Un non senso dal punto di vista
architettonico, spiegabile soltanto con l'importanza del sito. Va
ricordato, inoltre, che, sotto le macerie del terremoto, perirono
quasi tutti i frati carmelitani e il convento fu ripopolato da
confratelli che arrivavano da Trapani, figli di un'altra storia, di
un'altra tradizione. Forse anche questo spiega la progressiva
perdita della memoria del luogo.
Infine, il monumento fu sottratto
alla devozione popolare quando quella parte del convento divenne,
dopo i moti del 1848, caserma borbonica. Eppure - racconta il
colonnello Rubino - della memoria di Agata, il suo probabile
sepolcro non più accessibile, i frati carmelitani lasciarono traccia
dedicandole una teca, nel secondo altare di sinistra della chiesa,
con la scritta «Hic fuit Agatae virginis et martiris». Teca che
accoglie una giovane donna con il volto di cera, in realtà costruita
per la baronessa Rosanna Petroso Grimaldi, trucidata a 22 anni, nel
1783, dal marito, il marchese Orazio di Sangiuliano.
Oggi la tomba romana non è di
immediata lettura perché ne è stato restaurato soltanto un angolo
esterno, nella piccola parte, un quarto, che appartiene alla caserma
Santangelo Fulci. La restante parte è dei padri carmelitani che la
danno in affitto come deposito agli ambulanti del mercato di piazza
Carlo Alberto. Non solo. Neppure la parte di proprietà dei militari
è stata riportata alla condizione originaria tant'è che, irriverente
ironia della storia, mostra ancora le vasche dove venivano immersi,
in acqua e zolfo, i giovani militari affetti da malattie veneree.
Questa, infatti, era la «sala celtica» del reggimento dedicata ai
malati di sifilide. Nel 1991 i lavori del Genio Civile hanno portato
alla luce, lungo la parete di una scala, parte del muro esterno
della tomba. E altri lavori di recente sono stati fatti
dall'Accademia di Belle Arti che, con la generosa autorizzazione del
comandante Fontana, ha demolito parte del magazzino dei viveri della
caserma che impediva la vista e la fruizione del monumento.
Un monumento che adesso va
recuperato e restituito alla città, con l'impegno di tutti, a
partire dall'ammistrazione comunale e dalla sovrintendenza.
Pinella Leocata La Sicilia,
4.2.2015
La processione lungo
le mura com'era
prima del terremoto
Pinella Leocata La Sicilia,
42.2013
Il «giro esterno» della
processione di Sant'Agata prende il nome dal tragitto seguito
anticamente dal fercolo quando la Santa «benediva» tutta la città
percorrendone il confine disegnato dalle mura di Carlo V, allora
integre, prima delle devastazioni della colata lavica del 1669 e poi
del terribile terremoto del 1693 quando metà della popolazione morì
sotto le macerie e le mura furono in parte demolite. Nella mostra
dedicata a Sant'Agata, allestita dalla direttrice Rita Carbonaro
alla Biblioteca Ursino Recupero, sono in esposizione alcune
suggestive tele di Renzo Di Salvatore che, sulla base di fonti
storiche, ricostruisce le mura e le porte di città com'erano a quel
tempo. E' così possibile «vedere» i luoghi dove, prima del grande
terremoto, si svolgeva la processione il cui percorso è rimasto
invariato fino ad oggi, in un contesto urbano profondamente diverso.
La ricostruzione delle
fortificazioni è stata elaborata a partire da più fonti: la pianta
di Tiburzio Spannocchi del 1578 e quella di Francesco Negro del
1637, la relazione che, nel 1621, Raffaele Lucatello elaborò su
ordine del luogotenente del Re, don Francisco Lanes conte di Castro,
e la topografia di Sebastiano Ittar del 1830. In mostra anche
antichi e rari corali dedicati a Sant'Agata, una pergamena con il
più antico sigillo con l'effigie della Patrona risalente a 1115,
cioè al nucleo originario della biblioteca dei Benedettini, e poi
testi rari, elementi in bronzo similoro provenienti dal primo
fercolo di Sant'Agata, una collezione di immaginette dedicate alla
martire catanese provenienti da tutto il mondo, una galleria di foto
della festa a firma di Salvo Sallemi e Francesco Barbera,
l'interpretazione postmoderna della processione ad opera di Laura
D'Andrea Petrantoni. La mostra è aperta fino al 6 febbraio, dalle 9
alle 13.
LA FESTA DI
SANT'AGATA
(di Jean Houel)
-Al calar della sera (del quarto
giorno),i nobili vennero a riprendere il Senato e lo condussero alla
piazza della Cattedrale;essi fecero il giro della piazza e i
senatori, scesi dalla grande carrozza, andarono di nuovo a sedersi
su un lungo banco con gli ufficiali di giustizia, in mezzo alle
bandiere.....
Il carro,sontuosamente
illuminato, veniva al seguito di queste piramidi (di lumini);dietro
procedeva il corpo di giustizia e l'enorme cereo reale. Allora tutta
la città si abbandonava a una gioia tumultuosa e delirante. Da ogni
parte si sente gridare:Viva Sant'Agata!Per tutta la notte la città
resta sveglia. La grande campana della Cattedrale suona ogni
mezz'ora;ogni ora si sente una salva di cannone e già molto tempo
prima che spunti l'alba la popolazione affolla il sagrato della
chiesa.
Ed eccoci al quinto giorno allo
spuntare del sole le porte della Cattedrale si aprono all'improvviso
e l'interno della chiesa appare splendente di luci. La folla lancia
grida di gioia;prende il busto di Sant'Agata e lo porta sotto un
arco di trionfo, chiamato la Bara. Il busto, in argento e a
grandezza naturale, occupa la parte anteriore dell'arco,dietro si
pongono le reliquie della santa, il suo velo,la sua mano, il suo
piede, una delle sue mammelle, un braccio;non si è potuto infatti
ritrovare tutto il suo corpo......È sul lungomare che si svolge la
processione e che si può ammirarla per intero,ed è qui che bisogna
prendere posto per godersela bene. Essa è aperta da tutte le torce
,grandi e piccole,trasportate da tanti uomini quanti ne richiede il
loro peso.....tutte queste torce occupano un grande spazio, perché
gli artigiani
appartenenti
alle diverse corporazioni si raggruppano attorno alla loro torcia,
come intorno a una bandiera, e inoltre molta gente viene a
mettervisi in mezzo ballando in tondo, saltando, facendo mille
contorsioni, e gridando continuamente:Viva Sant'Agata! Vengono poi
gli sbirri o guardie degli ufficiali di giustizia, poi le guardie di
giorno e di notte. I nobili ,i senatori e il Vescovo li seguono,
tutti a cavallo....Molta gente che impugna una bandiera cammina
confusamente davanti a una moltitudine di barette che reggono grossi
ceri. Seguono poi dei saltatori e una quantità di uomini che
trascinano, servendosi di una robusta corda, la bara, o l'urna, di
Sant'Agata, benché questa sia portata da cento uomini, cinquanta per
ogni lato.
Due uomini seguono la bara, l'uno
dietro l'altro e con un campanello danno il segnale di fermarsi o
riprendere la marcia tutti insieme. Dopo il pranzo la processione
ricomincia, la Santa viene portata in giro per il resto della città,
e poi riportata nella Cattedrale facendola entrare per la stessa
porta dalla quale era uscita, sempre facendosi largo in mezzo alla
folla, e sempre benedetta, applaudita e invocata.
Quando la Bara è entrata nella
chiesa, si mette il busto della Santa sotto un baldacchino e le
reliquie sotto un altro, e si portano entrambi sull'altare, poi
nelle nicchie dove stanno abitualmente. Le grida del popolo e la
benedizione dei preti mettono fine alla cerimonia.
Non devo dimenticare di dire che
vi sono in questa processione molti penitenti bianchi, cioè uomini
avvolti in un sacco bianco che li rende irriconoscibili, e che molti
peccatori si conciano allo stesso modo. Invece molte donne, di ogni
condizione sociale, si coprono, col pretesto della penitenza e della
modestia, con la mantella nera,cioè un grande velo che le nasconde
totalmente dalla testa ai piedi,tranne un occhio soltanto che serve
loro da guida;in tal modo nel loro velo nero le donne sono
altrettanto irriconoscibili di quanto non lo siano gli uomini nel
loro sacco bianco. Così mascherate,esse seguono la processione e
corrono attraverso tutta la città, fermando ogni uomo che conoscono
o che fanno mostra di conoscere; concittadini o stranieri,
preti,monaci, gente di ogni specie, senza eccezione alcuna:a questi
chiedono e si fanno dare la fiera,che consiste per lo più in
dolciumi o qualche altra sciocchezza. Gli attacchi delle donne, la
difesa che oppongono gli uomini, i loro tentativi di indovinare chi
esse siano, tutto ciò dà luogo talvolta a delle schermaglie verbali
assai piccanti.....tali scherzi,sotto il velo della religione, ne
portano di ancora più scabrosi.....ma in mezzo al gaudio pubblico ed
universale, qualsiasi testimonianza di gioia appare legittima e non
sembra altro che una innocua espressione di piacere o di amicizia:io
sono stato testimone di molte scene di questo tipo. Ma qual è il
paese in cui le feste, i pellegrinaggi, le cerimonie religiose non
hanno prodotto degli abusi?-
(da "Viaggio pittoresco delle
isole di Sicilia, Malta e Lipari",1782/1789)
(grazie a Milena Palermo
di OBIETTIVO CATANIA Facebook)
La prima uscita dopo
la guerra
Nelle prime settimane del 1944 i
catanesi, liberati dall'incubo e dal terrore dei bombardamenti,
ebbero la sensazione di essere entrati nel tanto desiderato
dopoguerra. Il pensiero correva veloce a Sant'Agata, alla sua
fastosa festa patronale invernale che ha sempre unito tutti i
catanesi attorno alla vara, portata in trionfo per la città. Le
ferite inflitte dalla guerra nel tessuto urbano e nei cuori dei
cittadini, però, erano state tante e profonde e i danni provocati
dai bombardamenti erano stati ingenti e ancora non riparati.
In questo contesto di
comprensibili difficoltà, i sacerdoti capitolari della basilica
Cattedrale, detti i canonici di Sant'Agata, avevano deciso, dietro
richiesta del sindaco Carlo Ardizzone all'arcivescovo Carmelo Patanè,
di riportare le venerate reliquie dell'amata protomartire
concittadina tra il suo popolo, di farle uscire dal Duomo rimasto
miracolosamente intatto durante le incursioni aree.
La notificazione ai cittadini da
parte della Chiesa catanese fu accolta con grande e rinnovato
entusiasmo: «Per venire incontro al desiderio vivissimo dei
cittadini si è deciso che la processione di tutte le insigni
reliquie di Sant'Agata, il giorno 5 febbraio, si svolga alle ore 16
fuori del Duomo, per via Etnea fino a piazza Stesicoro e ritorno,
per la stessa via, in Cattedrale. Interverranno i Capitoli della
Cattedrale e della Real Collegiata, il Clero e il Seminario
Arcivescovile. I devoti di Sant'Agata sono invitati a seguire la
processione indossando il tradizionale sacco».
Nel pomeriggio di sabato 5
febbraio il cattivo tempo non permise lo svolgimento della
processione. Il breve e ridotto «giro» interno fu effettuato nel
giorno dell'ottava. Parteciparono al devoto giro il sindaco, il
prefetto Antonino Fazio e i rappresentanti dell'esercito alleato.
Con grande soddisfazione dei catanesi alla processione fu permesso
di proseguire fino all'ingresso della Villa Bellini. La cronaca
registrò così quello straordinario evento: «La celebrazione non ha
avuto le manifestazioni esteriori le quali per tanti riflessi
possono anche turbare il raccoglimento di cui le grandi e potenti
emozioni hanno bisogno perché possano esprimere tutta la loro
significazione. E' stato un accostamento quale è consentito dal
tempo in cui viviamo e quale lo desiderava lo stato della coscienza
pubblica».
La Sicilia, 2 febbraio 2014 -
Antonino Blandini
Nel volume "Tradizione,
tecnologia e territorio", il saggio ricostruisce le ipotesi
sull'epigrafe di Iulia Florentina e il santuario della martire
catanese - Sergio Sciacca
Lo abbiamo ripetuto più volte su
queste colonne: chi vuole andar in cerca di tesori nascosti non ha
che da indagare tra le strade di Catania: tra via Etnea, la Posta
centrale, S. Maria di Gesù, l'Antico Corso. Ovviamente trattandosi
di tesori nascosti da parecchi secoli, non è detto che saltino fuori
alla prima indagine. Ma certamente ci sono. Da un secolo all'altro
ne sono venuti alla luce, quasi sempre casualmente, alcuni campioni.
Ora c'è pure la mappa. Una informazione che mira a divulgare anche
tra i non specialisti le attuali acquisizioni della ricerca
archeologica che a Catania, ha uno dei suoi centri di maggiore
rilievo nel Mediterraneo.
E' appena uscito (presso Bonanno
Editore) il secondo volume di "Tradizione, Tecnologia e Territorio",
raccolta di saggi, generalmente archeologici, firmati da alcuni
degli studiosi più attenti della locale Università. Uno dei più
interessanti è quello realizzato da Antonio Tempio (autore di
diversi importanti studi sulla storia etnea dall'antichità al
Barocco), dedicato alla epigrafe di Iulia Florentina, nome assai
caro ai dottori di antichistica e oggetto di cruccio per diversi di
essi.
Stiamo infatti parlando di una
bella lastra di marmo incisa in latino attribuita al IV-V sec. d. C.
rinvenuta l'8 luglio del 1730, dalle parti di San Domenico, che mise
in moto gli eruditi europei, dal Muratori al Mommsen (nei rispettivi
secoli) e che adesso è attentamente custodita... al Louvre di
Parigi. Varrebbe la pena di scoprire l'autore del trasferimento, ma
lasciamo l'Erostrato moderno al suo anonimato.
L'epigrafe (in latino, ma a quei
tempi a Catania molti si servivano del greco) racconta della
sepoltura di una ragazzina (forse di Paternò) alla quale i genitori
costernati vollero procurare un monumento funerario vicino al
santuario agatino, passando dalla iniziale condizione di "pagana"
(=paesana) a quella di benedetta dalla santa patrona. Insomma questa
epigrafe nostra, ma per pubblicare le cui foto bisogna chiedere il
permesso a Parigi, è uno degli attestati più chiari della diffusione
del culto cristiano, attraverso il culto dei santi. Sui dettagli il
lettore troverà amplissime informazioni nel volume. Ma dove,
esattamente, fu trovata la lapide? E dunque, dove si trovava il
santuario agatino?
Lo scopritore del 1730 era sua
eccellenza Giovanni Rizzari, dei duchi di Tremestieri che presso il
convento dei Domenicani (più o meno dove adesso c'è il giardino
Bellini) aveva un terreno, e, siccome era attento affarista, volle
creare un bacino d'acqua per irrigare i propri gelsi (che
chiaramente servivano per l'industria della seta che prosperava a
Catania e faceva guadagnare tanti denari ai proprietari e agli
operai, senza nessun inquinamento). Mentre si scavava per il
suddetto bacino (che probabilmente era una gebbia, ma i dotti del
tempo scrivevano in latino e la indicano con vari nomi) saltò fuori
il prezioso marmo, che sua eccellenza annesse al proprio museo
archeologico e che in secondo tempo passò in quello del di lui
fratello. Ma le indicazioni sono vaghe e ognuno degli storici
successivi localizza a modo suo il rinvenimento.
Perché? Forse perché il fortunato
scopritore non aveva intenzione di entrare nei dettagli. Vicino ai
suoi terreni anche il Principe di Biscari aveva i propri interessi
(ed era ancora più eccellenza dei Rizzari, ed aveva un museo
personale assai più vasto del loro): ma sta di fatto che da quella
zona (fino al convento di S. Maria di Gesù) saltarono fuori altre
iscrizioni, in latino e in greco, confermando l'idea che il luogo
del martirio agatino doveva essere a poca distanza.
Dove? Facile pensare alla chiesa
di S. Agata la Vetere, ma nel Cinquecento si avevano altre idee e in
una mappa con raffigurazione dei monumenti più importanti, viene
indicato un torracchione vicino all'anfiteatro della attuale piazza
Stesicoro. Forse il supplizio della Santa Martire avvenne nell'Arena
(come a Roma nel Colosseo) e la cappella votiva fu eretta nei suoi
paraggi? Forse il torracchione è stato inglobato in qualcuno dei
palazzi che costeggiano i ruderi antichi, e magari oggi ospita
qualcuno dei negozi di via Manzoni?
Fatto è che la devozione agatina
non si è manifestata solo nelle processioni, ma anche in una
assiduità assai vasta e condivisa, nei confronti della sua memoria.
La consapevolezza della quale è quel tesoro che val la pena di
cercare tra le pagine del volume appena edito, per poi proseguire
tra gli stalli blu di sostare e il bailamme della perenne movida.
29/07/2014
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