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Lasciato il borgo di Ognina, ha inizio uno dei più suggestivi litorali della costa jonica di Sicilia, tre miglia di litorale basaltico interrotto da sette grotte, battezzato Costa dei Ciclopi. Risalendo, la prima località che s’incontra è Aci Castello, facilmente riconoscibile per la rocca basaltica a strapiombo sul mare, su cui è arroccato il Castello di origine normanna, edificato come difesa costiera.

La tappa successiva il villaggio di pescatori di Aci Trezza con il suo accogliente porticciolo turistico: due moli convergenti, il Nord banchinato, che termina con una piccola darsena, e il sud formato da due tronconi, orientati a est e nord-est.

La litoranea s'interrompe davanti a una grande rupe sormontata da un maniero normanno. Il fascinoso castello di Aci ha terrazze a strapiombo sul mare, resti di torri merlate, portali duecenteschi e un giardino che ospita una collezione di piante succulente. Ai suoi piedi una grande piazza, cuore della vita sociale di Acicastello. Un chilometro più avanti si raggiunge Aci Trezza, l'antico borgo di pescatori nel quale Giovanni Verga ambientò "I Malavoglia" e Luchino Visconti girò "La Terra trema".

 

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Di fronte alle case arroccate intorno al porticciolo e alla chiesa si spiega lo spettacolo naturalistico e il fascino omerico delle isole dei Ciclopi. La più grande, l'isola Lachea, è un microcosmo tutelato con flora e fauna rarissime. Ospita una stazione per gli studi biologici e di fisica del mare gestita dall'Università di Catania. Sul molo non è difficile trovare barcaioli disposti a portare turisti e bagnanti in un giro per le isole, oppure a organizzare un'uscita notturna con pescatori. Alla sera non si contano locali, pizzerie, ristoranti, gelaterie: la movida catanese invade la costa. Tra le palme del giardino botanico del Banacher, uno dei locali notturni all'aperto più belli d'Italia, si tira tardi fino all'alba per l'immancabile granita con brioche al mercato ittico in piazza della Marina, sempre ad Aci Trezza.

Ancora qualche chilometro tra i limoneti e le scogliere e si incontrano Capo Mulini, la timpa di Acireale, il belvedere di Santa Caterina, borghetti marinari come Santa Maria La Scala, Santa Tecla (dove nuotare è ancora piacevole), Stazzo, Pozzillo, Torre d'Archirafi. A ovest l'Etna cambia volto mentre a nord la sagoma di Taormina si fa più definita.

(Toto Roccuzzo)

 

 

C’è un piacevole via vai di barcaioli-taxi, di pescatori e di imbarcazioni per la visita della Costa, il chiosco “Luna Rossa” proprio sul molo e, sulla piazza del paese, un’infinita scelta di trattorie e ristoranti di pesce.

«Terra vergine e selvatica abitata da Ciclopi e Lestrigoni» così Omero definisce la Sicilia e da qui è nata la leggenda dell'identificazione dell'isola Lachea e dei faraglioni con i massi che Polifemo, accecato e furente, scagliò contro Ulisse e i suoi compagni.  

Accanto a questa leggenda è fiorita anche quella del fiume Aci, che ha dato il nome ai vari paesi che attraversava. Il mite pastorello Aci, era innamorato della dolce Galatea, ma Polifemo reso folle dalla gelosia perchè pazzamente innamorato della Ninfa5 uccide Aci con un enorme masso.

Gli Dei, mossi a pietà dallo strazio di Galatea trasformarono il pastorello in fiume che scorrendo perenne, trova‑ pace e ristoro tra le braccia di Galatea che l'attende nell'azzurro Ionio ove si fondono in un abbraccio senza fine.

La fantasia popolare ha probabilmente in tal modo spiegato eventi e cose naturali, ammantandole di una dolce poeticità. Polifemo potrebbe essere la personalizzazione dell'Etna, Galatea la spuma del mare, Aci il fiume‑ che sfociava nei pressi di Capo Mulini.  

La suggestione della costa e del paesaggio ha ispirato l'opera di G. Verga. Nei «Malavoglia», il poeta ha voluto immortalare la vicenda umana di umili pescatori.

(dal web)

 

 

Tre mesi più tardi (racconta Virgilio nel terzo canto dell'Eneide) da quel luogo passò Enea con la sua piccola flotta di esuli, in cerca della sua nuova patria.

Gli parve una costa disabitata e attraccò. Ma subito dalla boscaglia sbucò fuori un uomo irsuto e stracciato che corse loro incontro: era uno dei compagni di Ulisse, che era rimasto indietro e aveva dovuto vivere nascosto tra le selve, nutrendosi di bacche. Raccontò ai Troiani tutta la storia.

Enea si impietosi di lui e lo fece salire a bordo. Mollarono gli ormeggi e si allontanarono velocemente. Fu allora che da un monte sbucò Polifemo: tastava il terreno con un pino e a passi incerti si avvicinò alla riva, per medicarsi la piaga con acqua di mare. Forse fu un grido o il rumore dei remi che si tuffavano in acqua oppure l'odore di uomo che il vento portava sino alla riva. Aveva il viso stravolto e si mise a urlare; subito da ogni parte accorsero i Ciclopi, alti come montagne: una folla di giganti sulla riva che urlavano e agitavano i pugni rabbiosamente. La flotta di Enea intanto remava verso il largo.

Ora i Ciclopi non esistono più: ma davanti alla riva di Aci Treza restano, piantati nel mare, i massi che lanciò allora il Ciclope infuriato.

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“La sicilia degli Dei” di G. Guidorizzi e S. Romani – Raffaello Cortina Editore

 

 

I Ciclopi (in greco antico: Κύκλωπες) sono delle figure della mitologia greca. Sono in genere uomini giganteschi con un occhio solo al centro della fronte, a volte dipinto come unico organo visivo della creatura, altre volte invece accompagnato da una coppia di occhi. Compaiono in vari racconti della mitologia greca e la loro descrizione varia a seconda dell'autore: nella Teogonia di Esiodo vengono rappresentati come artigiani e fabbri eccezionali, figli di Urano e Gea, mentre nell'Odissea di Omero diventano delle creature rozze, violente e selvagge dedite alla pastorizia e, occasionalmente, all'antropofagia; di quest'ultimo gruppo fa parte uno dei ciclopi più noti, ossia Polifemo. Il nome deriva dal greco "κύκλος" (cerchio) e "ὤψ" (occhio)

Esistono due diverse tipologie di Ciclopi nella mitologia greca. In Esiodo (cfr. Teogonia) i tre Ciclopi Bronte, Sterope e Arge sono, come i Titani e gli Ecatonchiri (o Centimani), figli di Urano e di Gea. Questi Ciclopi sono esseri civilizzati e alleati degli dei olimpici. Vengono descritti come abilissimi artigiani, alti conoscitori dell'arte della lavorazione del ferro e la loro attività era fabbricare i fulmini di Zeus. Inoltre, sono dotati di conoscenza e intelletto straordinari. In Callimaco (cfr. Inno ad Artemide) i Ciclopi sono gli aiutanti di Efesto.

In Omero invece, che ne parla nell'Odissea (libro IX), i Ciclopi sono ridotti al rango di esseri mostruosi, dei giganteschi energumeni che vivono isolati l'uno dall'altro in caverne naturali e praticano la pastorizia per vivere, non disdegnando però di cibarsi di esseri umani. Oltretutto, a rimarcare la loro inferiorità rispetto ai Ciclopi originali, in Omero non sono più figli di Urano e Gea (quindi in qualche senso zii degli dèi e a loro antecedenti), ma soltanto del dio dei mari Poseidone. Omero dà solo il nome di uno di loro, Polifemo, che fece prigionieri Ulisse e i suoi compagni. Il suo accecamento da parte dell'eroe sarà causa della collera di Poseidone.

 

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Esiste in realtà una terza tipologia di Ciclopi, chiamati Gasterochiri. Questi sarebbero originari della Licia, seguirono Preto nell'Argolide quando questi tornò in Grecia. Erano muratori ed edificarono per lui le mura della città di Tirinto e per conto di suo nipote Perseo le mura di Micene e Midea.

Una qualche verità storica riguardo all'esistenza di una popolazione o tribù dal nome di "Ciclopi" ci viene data da Tucidide nel libro VI delle sue Storie allorquando si accinge a parlare delle popolazioni barbare esistenti in Sicilia prima della colonizzazione greca. Così scrive:

«Si dice che i più antichi ad abitare una parte del paese fossero i Lestrigoni e i Ciclopi, dei quali io non saprei dire né la stirpe né donde vennero né dove si ritirarono: basti quello che è stato detto dai poeti e quello che ciascuno in un modo o nell'altro conosce al riguardo.»

Il mito che descrive i Ciclopi con un unico occhio centrale, secondo alcune ipotesi, potrebbe essere nato a causa di alcuni ritrovamenti fossili di elefanti nani, vissuti in Sicilia al tempo del Paleolitico. La particolarità dei loro crani è di avere un grande buco al centro, che non è altro che il foro nasale dell'elefante. Tali resti fossili potrebbero quindi essere stati scambiati per uomini giganteschi con un occhio solo e infatti anche il filosofo Empedocle afferma che in molte caverne siciliane furono ritrovati fossili di una stirpe di uomini giganteschi oggi scomparsa.

L'ipotesi più attendibile rimane oggi quella secondo cui i Ciclopi, antichi fabbri, fossero in realtà degli artigiani emigrati da oriente fino alle isole Eolie dove si sono trovate tracce della lavorazione dei metalli durante la facies Diana (IV millennio a.C.). I riscontri archeologici potrebbero così confermare il mito che li voleva residenti proprio su tali Isole. La presenza di un occhio solo potrebbe essere una tradizione legata all'usanza di coprire con una benda l'occhio sinistro per proteggerlo dalle scintille o da un ipotetico tatuaggio sulla fronte rappresentante il Sole, elemento al quale questi antichi artigiani potevano probabilmente essere devoti.

Fonte Wikipedia

I Ciclopi sono figure favolose della mitologia greca, di statura gigantesca e fornite di un solo occhio in mezzo alla fronte (propriamente dal greco kuklops = dall'occhio rotondo).

In epoca arcaica gli antichi mitografi distinguevano tre stirpi di ciclopi: i figli di Urano e Gaia (il Cielo e la Terra), che appartengono alla prima generazione divina dei Giganti; i Ciclopi "costruttori", che avrebbero costruito tutti i monumenti preistorici che si vedevano in Grecia, in Sicilia e altrove, costituiti da blocchi enormi il cui peso e dimensione sembravano sfidare le forze umane (le "mura ciclopiche"); e i Ciclopi "siciliani", compagni di Polifemo, di cui narra Omero. Odisseo si scontrò con Polifemo e riuscì a fuggire dalla sua caverna coi compagni superstiti, solo dopo avergli accecato nel sonno il grande occhio con un palo arroventato. https://www.mimmorapisarda.it/2024/ulisse87.jpg

E' ipotizzabile che nell'Ellade dell'epoca primitiva con il nome di Ciclopi si indicassero i membri di una sorta di associazione di fabbri ferrai che avevano, tatuati sulla fronte, dei cerchi concentrici, allusivi alla potenza del sole, fonte primigenia del fuoco che alimentava le loro fucine. E la fucina nelle viscere dell'Etna non fa altro che spiegare la periodica fuoruscita di fumo e fuoco dalla bocca del vulcano.

I Ciclopi siciliani sono gli artefici del fulmine di Zeus, per questo motivo incorsi nell'ira di Apollo, il cui figlio Asclepio - dio della medicina - aveva risuscitato alcuni morti ed era stato pertanto fulminato da Zeus. Sono anche i fabbri degli dei, sotto la direzione di Efesto dio del fuoco, ai quali forniscono le armi. Abitano la Sicilia e le Eolie, in caverne sotterranee dove i colpi delle loro incudini e il loro ansimare fa brontolare i vulcani della zona, mentre il fuoco della loro fucina arrossa la cima dell'Etna. Omero li descrive come esseri selvaggi e giganteschi, muniti di un solo occhio al centro della fronte e dotati di forza smisurata, che allevano montoni, vivono allo stato di natura selvaggia e praticano l'antropofagia.

Virgilio nell'Eneide riprende in un certo senso dove l'Odissea aveva lasciato, quando i Troiani, sotto la guida di Enea, approdano in Sicilia e incontrano l'atterrito Achemenide, un compagno di Ulisse rimasto per sbaglio sull'isola, e Polifemo, avvertita la loro presenza, chiama a gran voce gli altri Ciclopi per catturarli.

Anche il dramma satiresco di Euripide, il Ciclope, è imperniato sulla figura di Polifemo, e in un idillio di Teocrito il gigante si umanizza in un giovane rozzo ma sentimentale, innamorato di Galatea. L'arte antica ha raffigurato Polifemo, sia nella scena dell'accecamento, sia in quella della fuga di Ulisse; e nel periodo ellenistico è rappresentato anche l'episodio di Galatea.

http://www.sullacrestadellonda.it/mitologia/ciclopi.htm

 

Gli antichi mitografi distinguevano tre specie di Ciclopi: i Ciclopi "urani", figli di Urano e di Gaia (il Cielo e la Terra), i Ciclopi "siciliani", compagni di Polifemo, che intervengono nell'Odissea, e i ciclopi "costruttori".

I Ciclopi "urani" appartengono alla prima generazione divina, quella dei Gianti. Hanno un solo occhio in mezzo alla fronte, e sono caratterizzati dalla forza e dall'abilità manuale. Se ne contano tre, chiamati Bronte, Sterope (o Asterope) e Arge, i cui nomi ricordano quelli del Tuono, del Lampo e del Fulmine. Dapprima incatenati da Urano, sono liberati da Crono, poi incatenati da quest'ultimo nel Tartaro, fino a che Zeus, avvertito da un oracolo che avrebbe potuto riportare la vittoria soltanto col loro aiuto, non li liberò definitivamente. Allora, gli dettero il tuono, il lampo, e il fulmine; dettero ad Ade un lmo che rendeva invisibili, e a Poseidone un tridente. Armati in tal modo, gli Dei Olimpici sfidarono i Titani, e li fecero precipitare nel Tartaro.    

Nella leggenda, i Ciclopi restano fabbri del fulmine divino. A questo titolo, insorsero nell'ra di Apollo, il cui figlio, Asclepio, era stato ucciso da Zeus con un colpo di fulmine per aver risuscitato alcuni morti. Non potendo vendicarsi su Zeus, Apollo uccise i ciclopi (o i loro figli, secondio una tradizione isolata), e ciò gli valse, come punizione, l'obbligo di servire, in qualità di schiavo, presso Admeto. In questa versione, i Ciclopi appaiono dunque come esseri mortali, e non dei.

Nella poesia alessandrina, i Ciclopi non sono considerati altro che demoni subalterni, fabbri e artigiani di tutte le armi degli dei. Fabbricano, per esempio, l'arco e le frecce d'Apollo e della sorella Artemide, sotto la direzione d'Efesto, il dio fabbro. Abitano le isole Eolie, oppure la Sicilia. Qui possiedono una fucina sotterranea, e lavorano con gran rumore. Sono proprio l'ansimare del loro fiato e il fracasso delle loro incudini che si sentono rimbombare in fondo ai vulcani siciliani. Il fuoco della loro fucina rosseggia la sera in cima all'Etna. E, in queste leggende legate ai vulcani, essi tendono a confondersi con i Giganti imprigionati sotto la massa delle montagne, e i cui soprassalti agitano talvolta il paese. Già nell'Odissea i Ciclopi sono ritenuti una popolazione di esseri selvaggi e giganteschi, dotati di un solo occhio e di forza prodigiosa, che vivono sulla costa italiana (nei Campi Flegrei, presso Napoli). Dediti all'allevamento dei montoni, la loro sola ricchezza consiste nel gregge.

 

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Sono volentieri antropofagi e non conoscono l'uso del vino e ne neppure la coltivazione della vite. Abitano nelle caverne e non hanno imparato a formare  città. Certi tratti di questi Ciclopi tendono a farli assomigliare ai Satiri, con la quale sono talvolta assimilati. Si attribuiva a Ciclopi (venuti, si dice, dalla Licia) la costruzione di tutti  i monumenti preistorici che si vedevano in Grecia, in Sicilia e altrove, costituiti da grossi blocchi il cui peso e dimensione sembravano sfidare le forze umane. Non si tratta più dei Ciclopi figli di Urano, ma di tutto un popolo che si era messo al servizio degli eroi leggendari, di Petro, per esempio, per fortificare Tirinto, di Perseo, per fortificare Argo ecc. Si affibia loro il curioso epiteto di Chirogasteri, cioè "coloro che hanno braccia al ventre", e ciò ricorda gli Ecatonchiri, i "Giganti dalle Cento Braccia", che sono, nella mitologia esiodea, i fratelli dei tre Ciclopi Urani.

Polifemo è il nome di due personaggi distinti.  Il primo è un Lapita, figlio d’Elato e d’Ippe. Suo padre "divino" è Poseidone. E’ il fratello di Ceneo. Sposò Laonome che, in una tradizione oscura, passava per essere sorella d’Eracle. Questo Polifemo partecipò alla spedizione degli Argonauti; ma restò in Misia, dove fondò la città di Cio. Perì nella guerra contro i Calibi.

Il secondo personaggio con questo nome, assai più celebre, è il Ciclope che ha una parte nell’Odissea. E’ figlio di Poseidone e della ninfa Toosa, ella stessa figlia di Forcide. Il racconto omerico lo presenta come un gigante orribile, il più selvaggio di tutti i Ciclopi. E’ pastore, vive del prodotto del suo gregge di pecore e abita in una caverna. Benché conosca l’uso del fuoco, divora la carne cruda. Sa che cos’è il vino, ma ne beve molto di rado e non sta attento agli effetti dell’ubriacatura. Non è totalmente insocievole poiché, nel suo dolore chiama gli altri Ciclopi in aiuto, ma è incapace di far loro capire quello che gli è capitato.

Dopo i poemi omerici, Polifemo diventa, in modo assai strano, l’eroe di un’avventura amorosa con la Nereide Galatea. E’ un Idillio di Teocrito che ci ha conservato il quadro più celebre del Ciclope galante, innamorato di una civetta che lo trova troppo villano. Lo stesso tema è ripreso da Ovidio. Esiste una tradizione secondo cui Galatea è innamorata del Ciclope e gli dà figli.  

(Lucio Cammarata)

 

 

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La leggenda vista da Litterio Scalisi. Litterio: Sig. La Rosa, mi lassassi stari, non mi dicissi nenti ca ancora mi batte il cuore e mi pussano le vene e mi tremano le gambe..., ho fatto gli esami! e se cci dico come è finita, lei manco cci crede .... . è successo che tutto il mondo è rimasto senza parole, con la bocca aperta, ca pecchè non se lo aspettava nuddo uno schezzo di questo, non ci credevo ai miei vavarelli quannu ho liggiuto "Litterio Scalisi: sbocciato ". Sig. La Rosa, dal dispiacere mi hanno m'pannate le corna degli occhi, ho avuto un furrioni di testa e ho svenuto, ca se lei mi dava un pizzilone io non lo sentivo e in quel momento preciso ho pinzato... "mi buttano ammezzo a una strada, io mi oppongo a questa sbocciatura. io cci faccio causa..."

La Rosa: ma a chi fa causa, scusi?

Litterio: ancora no sacciu ma a qualcuno u dinunziu;... il dispiacere ca mi ho preso, e tutti l'amici miei.. i parenti..i canuscenti... i vicini i casa, una collira di mortu! Mi hanno fatto persino le condoglionanze comu lutto, mi hanno mannato littri di solitudini,... telegrammi,... pacchi.

La Rosa: che cosa le hanno domandato all’esame??

Litterio: mi parli dell'uomo crectus, "L'uomo  ci dissi iù  è un uomo... bello... normale, ma se incontra ppe caso una donna ca è una casa di salute, di botto addiventa homo erectus, senza viagra. Poi mi dissi: mi parli di Creta..."Creta cci nn'è assai nda parti do Librinu e San Giorgio...

"E allora Corfù"??... mi disse iddu

“Corfù a fari chiccosa? ? " cci dissi iù

Poi all'ultimo mi disse: “parlami della Macedonia”

“In che senso?” ci dissi iù.

“Mi parli dell'antica Macedonia e mi dica almeno quattro nomi di "dei" https://www.mimmorapisarda.it/2024/ulisse14.jpg

Diana: Dea dè sigaretti, Minerva: Dea dei posperi; Mercurio: Dei termometri; Pollo Ca quannu mossi cu vuleva l'ala, cui petto, cui a coscia... " . Per completare l'opira, mi addomandò: “Parlami di Ulisse".

Iù, ca a storia di Ulisse a conoscevo megghio dei miei taschi u taliai 'ntrigno 'ntrigno nelle palle degli occhi e ci scattiai tuttu così 'nda facci,  u dubbai... "Ulisse era mpiscatore ca un giorno passò da Trizza per fare una chilata di pesce azzurro ma appoi vedendo quella bella vista do mari coi Faracoglioni, ci fici u cori nicchi nacchi, pecciò attraccò a vacca e si frimmò.

Non ava abbiatu ancòra l’ancora ca si prisintò il guardiano del faro, un certo Poli Fremmo. U veru nomu veramenti era Poli, sulu ca siccomu quannu era nicu era troppu tostu, so nanna ci diceva "Poli, Fremmo... " e ci 'arristau 'Poli Fremmo "

Questo Poli Fremmo era molto più alto di lei, signor La Rosa, e poco poco... più alto di mia......e quanno tuppuliani a so potta, dissi "Cu ieee?"

Ulísse, appena visti a Poli Fremmo ci desi 1000 lire ppò posteggio da barca e ci dissi; "tè ccà, dacci n'occhiu!" Poli Fremmo, ca giustu giustu era orbu di n'occhio, si offese e accuminiò a fari comu  m’pazzu: pigghiò due marinari ca erunu con Ulisse, e sì calò a tipu masculini cruri. Ulisse, arrivò a scappari, pigghiò u remu e ci spunnò l'autru occhiu e finì ca Poli Fremmo mischinu, macari vulennu, non potti chianciri mancu ccu n'occhiu.

Basta, doppu tanti petrapezie Ulisse arrivò a so casa. A casa però si pigghiò bello dispiaciri, un dispiaciri di chiddi ca ti fanu caminari cca testa bassa in quanto in cui attruvò a so mugghieri ccu tanti froci...

La Rosa: Proci!

Litterio:  Sù erunu Proci no sacciù! Però assumigghiavanu tutti pari a Ciiicciu... Comu Ulisse visti a so muggheri con tutti ddi froci si misi manu 'e capiddi, pigghiò pi 'mpegnu 'ncavaddu e ci u 'mannò a so muggheri. So muggheri comu visti du bellu cavaddu ci arrirenu l'occhi. Ulisse invece si pigghiò di nervi, nisciu l'accendino e ci desi a focu. Appoi con l'uccellulare ci telefonò a so muggheri e ci disse: "Troia,... brucia... chiama i pumperi ".

A stu puntu il maestro membro interno, si alzò con gli occhi di fora e mi fici una voltariore domanta: "Come si chiamava il figlio di Ulisse?

Iù ddocu mi alzai di scattu, lo fissai, mi fissò e ci dissi: "Mi si acconsenta, signò maestro, ma ci devo fare annotare che Ulisse, il matologico Ulisse che lei sta pallando, figli n’aveva dui e no uno come dici lei…. due…. unu masculu e una fimmina.

U masculi si chiamava Telecom, a fimmina Teletna.

 

 

 

 

 

 

Poco più di mille anni prima di Cristo, una sanguinosa guerra fra Greci e Troiani sconvolse molte città dell'Ellade. Valenti guerrieri di ambedue gli schieramenti si batterono con coraggio e valore per dieci lunghi anni. Malgrado l'audacia e l'ardimento dei combattenti, il conflitto non accennava a volgere a termine.

Un prode ed astuto combattente del campo greco, Ulisse, re di Itaca, escogitò un piano che consenti di rovesciare le sorti della guerra. Fece costruire un enorme cavallo di legno, lo portò in prossimità delle mura di Troia, dicendo che i Greci intendevano togliere l'assedio https://www.mimmorapisarda.it/ulisse/arancina.gife lasciavano il cavallo come dono di ringraziamento per la dea Minerva.

I Troiani, che non potevano sospettare quale inganno si celasse all'interno del cavallo, accettarono il dono e lo introdussero in città fra feste e canti.

Nottetempo, mentre i Troiani, felici, festeggiavano la partenza dei loro nemici, un numero imprecisabile di soldati uscì dall'enorme pancia del cavallo con armi in pugno. In breve la città fu messa a ferro e fuoco ed i Troiani furono sconfitti.  

Dopo dieci anni, la guerra si concludeva grazie all'astuto inganno di Ulisse. I Greci vincitori si spartirono il bottino e fecero vela per rientrare in patria. Proprio per Ulisse, l'ideatore del cavallo di legno, il destino aveva riservato un lungo viaggio di ritorno, pieno di pericoli e disavventure.

La sua flotta, spinta dai venti e dalle tempeste, giunse in Africa settentrionale e da lì, approfittando dell'Austro, il vento che spira dal sud, raggiunse la Sicilia. Ormeggiate le navi, scese a terra con dodici marinai per far provviste. Portava con se oggetti da barattare e fra questi anche alcuni otri di vino.

Arrampicandosi su per un ripido sentiero di montagna, il gruppo raggiunse una grotta. Ulisse fece segno ai compagni di fermarsi, guardò attentamente verso l'interno aguzzando la vista, ma la penombra non gli consentì di distinguere quel che c'era dentro. Spinto della curiosità decise di entrare. I suoi, a spada tratta, lo seguivano dappresso, pronti ad intervenire ad ogni minimo segno di ostilità.

Poco oltre la soglia della caverna, c'era un rudimentale focolare, con delle pietre disposte in cerchio. La cenere e i tizzoni freddi dimostravano che la grotta era abitata e che il padrone di casa era uscito da tempo.

I dodici si scambiarono qualche commento, poi, più curiosi che mai, entrarono in quella strana abitazione.

Andavano avanti con prudenza, esaminando attentamente ogni angolo. Sulla destra, seminascosto nella penombra, un enorme giaciglio, fatto di paglia, foglie secche e pelli di animali,confermava l'uso della caverna come dimora abituale di qualcuno.

A prima vista tutto sembrava normale, tuttavia la sproporzionata dimensione del pagliericcio incuriosì i dodici visitatori. Infatti era così grande che avrebbe potuto ospitare un uomo ben tre volte più alto del normale. Questo non spaventava per nulla i dodici prodi, che abituati ad affrontare situazioni ben più pericolose, più che preoccupati, erano curiosi di conoscere lo smisurato inquilino.  https://www.mimmorapisarda.it/2024/ulisse67.jpg

Continuarono ad addentrarsi per una decina di passi, senza scorgere alcun segno d'anima viva. Intorno c'era un gran silenzio e nell'aria si sentiva un forte odore di sterco di capra, che faceva capire quale attività svolgesse lo strano abitante della caverna. Più avanti, in un angolo buio, disposte ordinatamente in fila, delle enormi provole pendevano da un'asta di legno fissata orizzontalmente fra due pareti. Sotto di esse, poggiate sopra un piano, c'erano svariate forme di formaggio. Tutti questi elementi confermavano che doveva trattarsi della dimora di un pastore. Tuttavia, ciò che lasciava perplessi i dodici era la sproporzionata dimensione dei vari oggetti.

Non riuscendo a farsene una ragione, Ulisse ed i suoi compagni si erano fatti più guardinghi. Per precauzione procedevano carponi, per non farsi scorgere, nel caso ci fosse stato qualcuno nascosto da qualche parte.

Nella grotta, invece non c'era proprio nessuno. C'era soltanto un assoluto silenzio, che faceva aumentare il nervosismo, e tanto cattivo odore di escrementi di capra che rendeva l'aria insopportabile.

Al tramonto, s'udì il ritmico tintinnare di un campanaccio. I dodici si sentirono rincuorati. Dopo ore d'attesa, finalmente giungeva qualcuno.

Uno del gruppo andò sull'uscio e guardò verso l'esterno. Un gregge, guidato da un grosso ariete, risaliva lungo il pendio e si dirigeva proprio verso la grotta. Il pastore procedeva lentamente, per ultimo, portando sulle spalle un agnellino. Vestiva una pelle d'animale che gli lasciava scoperta la spalla destra. L'osservatore, lo guardò bene e rimase sorpreso per la sua enorme statura. Impaurito, corse subito ad avvertire i compagni.

I dodici greci, nel vedere quell'omaccione, si guardarono in faccia sbalorditi. Uno di essi suggerì di darsela a gambe prima che arrivasse il padrone di casa. Ma il consiglio fu subito scartato, poichè ormai il pastore era così vicino che si sarebbe sicuramente accorto della loro presenza e li avrebbe acciuffati con molta facilità. Non restava che nascondersi nel punto più buio della grotta ed aspettare.

Intanto il gregge aveva raggiunto l'ingresso e come un fiume in piena, dilagava all'interno della caverna. Le capre, nel massimo disordine, raggiunsero l'angolo a loro riservato e, belando, rimasero ferme, in piedi, in paziente attesa della mungitura. Per ultimo giunse il pastore. Appena dentro, si guardò intorno per assicurarsi che le bestie fossero entrate tutte, poi chiuse l'accesso facendo rotolare un grosso macigno, tanto pesante che neppure dodici buoi sarebbero stati capaci di smuovere.  

Intanto Ulisse si era rannicchiato in un cantuccio buio insieme ai compagni e da lì, sicuro di non potere essere scoperto, osservava attentamente quel che succedeva.

Il pastore si avvicinò al focolare, prese alcuni rami secchi e li accese, poi si chinò e soffiò sul fuoco per ravvivare la fiamma. A quel punto una vampata gli illuminò il volto. Non appena lo videro, i dodici si guardarono atterriti. Non avevano mai visto un viso così orribile. Il gigantesco pastore non aveva due occhi, come tutti gli esseri normali, ma uno soltanto, sormontato da un enorme sopracciglio nero che gli attraversava quasi tutta la fronte.

Adesso era tutto chiaro. Erano capitati nella terra dei Ciclopi, un popolo di giganti con un solo occhio, che viveva di pastorizia. Questi esseri giganteschi si cibavano di prodotti caseari, ma, di tanto in tanto, non disdegnavano dei bocconcini di carne umana. Quello nel quale erano incappati i prodi greci si chiamava Polifemo ed era il più vorace di tutti.

Il Ciclope, che non si era accorto della presenza degli intrusi, continuò a svolgere le normali attività di ogni giorno. Munse una capra, poi prese un pentolone lo riempì di latte e lo mise a scaldare sul fuoco. Appena pronto, lo versò dentro una grossa scodella e lo bevve tutto d'un fiato, quindi prese del formaggio e lo mangiò avidamente, a grossi bocconi.

Mentre compiva quasi meccanicamente questi semplici gesti, il suo unico occhio continuava ad osservare distrattamente, di qua e di là, senza alcun interesse particolare. Il caso volle che il suo sguardo andasse a posarsi nell'angolo buio, proprio dove erano nascosti i dodici. Non appena li vide, colto dalla sorpresa, diventò furente. D'istinto s'alzò in piedi e strinse i pugni per la rabbia.

L'occhio, roteando nervosamente, fissava guardingo a destra e a manca, come se cercasse qualche altro intruso nascosto chissà dove. Se avesse avuto sottomano uno di quei malcapitati, sicuramente lo avrebbe stritolato.

Dopo alcuni attimi, quando si rese conto che nella grotta c'erano solo quei dodici, puntò lo sguardo su di loro e con voce possente, tuonò: "Chi siete ? Cosa fate qui ? Come siete entrati ?" 

 

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Lo scaltro Ulisse si fece coraggio e uscì dal nascondiglio trascinando un otre di vino. Fece qualche passo verso il Ciclope e, con tono persuasivo, gli disse di chiamarsi Nessuno, che aveva combattuto nella guerra di Troia insieme ai suoi compagni e gli chiedeva ospitalità solo per una notte. Poi gli si avvicinò, gli pose l'otre ai piedi dicendo che era un dono portato espressamente per lui e lo ringraziava anche a nome dei compagni per l'ospitalità che gli avrebbe concesso.

Evidentemente le parole di Ulisse non furono troppo convincenti, poichè il gigante, per nulla preoccupato di rispettare i doveri d'ospitalità, non rispose neppure. Con la sua enorme mano abbrancò due uomini del gruppo e li uccise sbattendoli con violenza contro una parete, poi se li mise in bocca e li pasteggiò di gusto, sotto lo sguardo sgomento degli altri. L'astuto Ulisse, fingendosi indifferente davanti a tanta atrocità, aprì l'otre, riempì una grossa scodella di vino e gliela offrì. Polifemo la prese, guardò attentamente il contenuto, poi lo annusò, quindi, convintosi della bontà della bevanda, la tracannò tutta d'un fiato. Soddisfatto emise un sonoro sospiro per sottolineare che ne aveva apprezzato il sapore e si asciugò le labbra sbavanti con il dorso della mano.

 

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Il gusto del buon vino greco dovette riuscirgli gradevole, poichè, con la scodella in mano, il braccio teso ed eloquenti grugniti, fece capire che ne voleva ancora. Lo scaltro Ulisse assecondò prontamente il suo desiderio riempiendogli una seconda scodella. Polifemo la bevve e, con voce alterata per effetto dei fumi del vino, rivolgendosi al suo coppiere, gli disse:

"Tu, Nessuno, mi sembri più coraggioso degli altri. Per premio ti mangerò per ultimo!". Poi bevve una terza scodella, una quarta, una quinta, finchè stramazzò sul pagliericcio completamente ubriaco e si addormentò profondamente.

A quel punto i dieci del gruppo avrebbero potuto ucciderlo con estrema facilità, ma non avendo la forza di smuovere l'enorme macigno che chiudeva la caverna, sarebbero rimasti intrappolati. Così decisero di trovare uno stratagemma che permettesse loro di farsi aprire l'uscio della grotta dallo stesso Polifemo.

Rimasero svegli per tutta la notte, pensando al modo migliore per vendicare ì compagni uccìsi e per fuggire. Trascorsero ore ed ore discutendo, senza arrivare ad una conclusione vera e propria, fino a quando una fioca luce cominciò a filtrare attraverso un tenue spiraglio fra il macigno e le pareti dell'ingresso.

Gli animali sottolinearono l'arrivo dell'alba con un insistente corale belato, che svegliò il padrone di casa. Ulisse ed ì suoi, prevedendo che il nuovo giorno non sarebbe stato tanto fortunato, sì nascosero fra gli animali.

 

https://www.mimmorapisarda.it/2024/ulisse15.jpgLa strada del vino più antica d'Europa. Dai vini doc dell’ Etna al Cerasuolo di Caltagirone

 

Un privilegio assoluto di cui pochi parlano. Un itinerario economico e turistico , preistorico e moderno, che potrebbe offrire alla Sicilia migliaia di posti di lavoro, come sostengono il Corriere della Sera – Lavoro del 21. Maggio 1999 e la “ Guida al turismo del vino 1999 “ del Touring Club. “Italia Oggi “ il 24.sett.’99 titola un interessante inchiesta : “ Le strade del vino aprono al turismo 10 mila nuovi posti di lavoro “.Ma pochi siciliani, e pochissimi catanesi, se ne sono resi conto. Misteri delle furbizie campanilistiche e di bottega , limiti della scarsa frequenza alla lettura della storia antica e moderna, ignoranza demoralizzante dell ‘esistenza di tesori autentici che possono offrire sviluppo a un’isola che non può condizionare la propria economia aspettando in eterno elemosine statali ed europee che non vengono.

Il privilegio nasce dal fatto che nessuna provincia italiana, come la nostra, può vantare un itinerario economico antico di 4000 anni , che trova conferma nella vocazionalità moderna. Infatti, la via collinare che va da Kamarina a Catania, ( e viceversa ), passando da Caltagirone, era percorsa dai trafficanti Egei che venivano in Sicilia per comprare vino, olio di oliva e miele . Poi, sostengono diversi storici antichi, portavano questi prodotti in tutta l’area del Mediterraneo, con grande successo. ( Da fare invidia ai tempi moderni ).

Plinio il Vecchio sostiene che il vitigno Murgentia , coltivato dai Morgeti nella zona di Caltagirone, forniva un vino “ che non doveva mancare in nessuna mensa regale di tutte le capitali del Mediterraneo” . ( Oggi il probabile erede è il CERASUOLO DOC )

Questo percorso, corrisponde ad una vasta area della Sicilia orientale con vocazione agricola di grande rilievo economico e commerciale. Chttps://www.mimmorapisarda.it/2024/ulisse15.jpgi riferiamo agli agrumi pigmentati ed all’olio di oliva che vanno da Catania a Caltagirone, ai fichidindia di Militello V.C., ai carciofi di Niscemi ed alle primizie di Acate, Vittoria , Comiso e Kamarina. Dunque , una vocazionalità agricola consolidata nei millenni che dovrebbe stimolare felici ritorni. Inoltre , le città attraversate , ( Lentini, Scordia, Militello, Mineo, Grammichele, Palagonia, Caltagirone, Acate, Vittoria, Comiso e Kamarina ) , sul piano turistico e culturale , offrono monumenti e testimonianze storiche ricchissime, che vanno dalla tavoletta di cultura egea di Militello V.C. , ai musei di Caltagirone e di Kamarina, dove si conservano collezioni di anfore di terracotta , uniche nel suo genere e dalle coppe vinarie di cultura micenea del museo di Adrano . 

Un itinerario per tutti i gusti dei visitatori, un paesaggio che si mantiene, malgrado tutto, costituito – diceva Piovene - di tutte gradazioni di verde esistenti in natura, e che tocca province diverse. E poi, colline e coste marine dal fascino più diverso , concentrate in poche diecine di chilometri . Il forestiero avrebbe l’ imbarazzo della scelta.

Molte “strade“, purtroppo, sono state inventate sulla carta per ragioni pubblicitarie, ma nessuna ha questi supporti storici ed economici, come hanno meritato la “ Strada della seta “, quella “ del sale “ ecc. ecc. .

Per fare decollare questo originale itinerario, che non ha pari, mancano poche opere innovative e pochi spiccioli da spendere, anche se mulini ad acqua , abazie, monasteri , casali secenteschi attendono il restauro previsto dai fondi CEE. ( Che mai la Sicilia ha preteso ).

A parte il carente entusiasmo per valorizzare i propri tesori , che caratterizza i siciliani, basterebbe , per il momento, una dettagliata guida stradale , i cartelli indicatori, ed una campagna di propaganda pubblicitaria opportuna.

Ma forse le cose belle che costano poco hanno poca credibilità.

C’è da considerare, in fine , che “ La strada del vino più antica di Europa “ consentirebbe un flusso turistico diversificato da non esaurire in poche ore. Faciliterebbe lunghe soste per la visita ai centri dell’interno . Tutta la Sicilia orientale trarrebbe grandi benefici da questo nuovo modo di far turismo, gastronomia ed economia vinicola , con i suoi famosi vini a D.O.C.

fonte © Salvatore Cosentino   www.vini-imakara.it

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nota: Il titolo inserito dal sottoscritthttps://www.mimmorapisarda.it/ulisse/vino.gifo è frutto di puro "campanilismo". In verità Omero scrisse che Polifemo si ubriacò del vino offertogli da Ulisse (che era stivato nella sua nave) proprio perchè il vino greco era molto più buono di quello del ciclope, coltivato in modo grezzo nelle terre siciliane. A testimonianza che la viticoltura ellenica era già estremamente organizzata e molto più all'avanguarda rispetto a tutte le altre civiltà del tempo. 

Ma che vino era?  Ci troviamo nel mondo greco, quasi 1000 anni prima di Cristo, e lo stesso Omero ci dice che si tratta di un vino proveniente dalla Tracia, la parte di Grecia verso il Mar Nero. Ce lo descrive come un vino a bacca rossa purissimo e molto forte (pare sia l’attuale Mavrud dei Balcani), che per essere bevuto va assolutamente mescolato con l’acqua. E questo l’astuto Ulisse lo sa, per questo lo dà in purezza, e senza annacquarlo, a Polifemo facendolo  addormentare. Del resto quel vino a Ulisse glielo aveva donato il sacerdote Marone, che, sotto la sua ebbrezza, lo utilizzava per predire il futuro.

Nell'antica Grecia, Maronea era famosa per la produzione di vino. Il suo vino era stimato in tutto il mondo. Secondo il mito greco, sarebbe stata fondata da Marone. Era ubicata sulle colline di Aghios Gheorgis ed era una delle più antiche città della Tracia. Omero la menziona nell’Odissea, quando narra la città saccheggiata da Ulisse risparmiando, da lui identificato come un sacerdote di Apollo. Marone, in cambio, avrebbe offerto ad Odisseo vino, oro e argento.

(M.R.)

 

Polifemo si sedette pigramente sul gìaciglio, si stiracchiò le braccia emettendo un sonoro sbadiglio, poi, ancora pieno di sonno, si alzò e si dìresse verso il gregge con sguardo assente. Non era ancora completamente sveglio e, muovendosi automatìcamente, si avvicinò ad una pecora e la munse. Riempì un'intera scodella di latte, che bevve ingordamente, mentre era ancora caldo. Poi si guardò intorno con insaziabìle appetito, alla ricerca dei suoi gustosi ospiti. Non appena li vide tese la mano e ne afferrò due. Con la stessa freddezza della sera precedente, li uccise fracassandoli contro una parete, e li mangiò sotto gli occhi atterriti degli altri.

Quando fu sazio, si avvicinò all'ingresso e con estrema facilità fece rotolare il grosso macigno. Un abbagliante fascio di luce intensa illuminò l'interno della caverna. Gli animali, ansiosi di raggiungere il pascolo, facendo ressa sull'uscio, in breve uscirono tutti, sotto il vigile controllo di Polifemo, che, prontamente, richiuse l'ingresso, in maniera da impedire al gruppo dei prodi greci di squagliarsela.

Adesso Ulisse ed i suoi erano rimasti soli nella grotta. Questo dava loro il grande vantaggio di esamìnare accuratamente ogni angolo e di prendere in considerazione ogni opportunìtà per battere Polifemo.

Perlustrarono l'ambiente in lungo ed ìn largo. Oggetti, attrezzi e quant'altro potesse tornare utile al loro scopo fu analizzato con cura. Poggiato ad una parete, lo scaltro re di Itaca vìde un grosso palo ricavato da un solìdo ramo d'ulivo. Lo scrutò attentamente, ne constatò la robustezza, poi rimase in silenzio, a riflettere sull'uso che ne avrebbe fatto. Dohttps://www.mimmorapisarda.it/2024/ulisse12.jpgpo qualche minuto di attenta riflessione, ordinò di appuntirne una delle due estremità e di nasconderlo sotto lo sterco, poi spiegò ai compagni il suo piano.

Verso il tramonto giunse il Ciclope. Più ansioso che mai di gustare quegli ottimi filetti di carne umana, aprì l'ingresso della caverna, fece entrare il gregge, munse una capra ed accese il fuoco sul quale mise a scaldare una scodella di latte.  

I prodi greci, che ormai si erano ridotti ad otto, presi dalla paura, cercarono di nascondersi nell'angolo più buio. Ciascuno di loro pregava ardentemente tutti gli dei dell'Olìmpo perchè non fosse trasformato in cena per il Ciclope. Neppure Ulisse, al quale era stato detto che sarebbe stato mangiato per ultimo, si sentiva al sicuro.

Quando lo sguardo di Polifemo si soffermò nel nascondiglio, gli otto si sentirono raggelare il sangue. Due di loro, da lì a poco, avrebbero fatto la medesima atroce fine dei loro compagni uccisi il giorno precedente. Malgrado la paura, però, non s'udì un lamento o un'imprecazione. Tutti rimasero fermi al Toro posto, in attesa che il destino si compisse.

Inesorabile, la gigantesca mano del mostro si avvicinò a quei poveretti, ne afferrò due e, con il solito macabro rituale, li uccise e li mangiò.

A quel punto, Ulisse si fece avanti con un otre pieno dì vino. Lo aprì e riempì una scodella. Il Ciclope la afferrò e bevve tutto d'un fiato, poi chiese dell'altro vino. Con smisurata avidità tracannò circa sei scodelle colme fino all'orlo, finchè, completamente ubriaco, stramazzò sul pagliericcio e dormì profondamente.

Per i sei eroi era giunto il momento di vendicare i compagni uccisi e di liberarsi dalla crudele prigionia. Cautamente, Ulisse si avvicinò al mostro e, sentendolo russare sonoramente, si rese conto che il vino lo aveva reso innocuo per un bel po'. Quando ritenne di potersi muovere con una certa sicurezza, ordinò ai suoi compagni di prendere il palo di legno nascosto sotto lo sterco e di metterlo sul fuoco per arroventarne la parte appuntita. 

Dopo una decina di minuti, la punta diventò incandescente. A quel punto Ulisse e gli altri cinque sollevarono il palo, si avvicinarono a Polifemo, che dormiva saporitamente, e, tutti insieme, concentrando al massimo i loro sforzi, gli conficcarono la punta infuocata nell'occhio.

Nella grotta echeggio un urlo bestiale. Il Ciclope in preda ad un atroce dolore, si dimenava nel tentativo di liberarsi, mentre i sei, per creare un effetto più devastante, spingevano e facevano ruotare il palo dentro l'orbita. L'occhio, ormai spappolato per effetto del colpo ricevuto, emetteva un crepitio come se friggesse, mentre nella grotta, pervasa dal fumo e da un odore acre di carne bruciata, l'aria era diventata irrespirabile.

- Si compiva così l'anatema della ninfa Galatea. -

Eseguita l'azione, i sei marinai si allontanarono rapidamente nell'angolo più oscuro della caverna per non farsi acciuffare. Polifemo, dolorante, continuava a gridare, mentre con ambedue le mani tentava di sfilarsi il palo dall'occhio. A viva voce chiamò i suoi amici Ciclopi, che giunsero in breve tempo. Lungo il pendio che portava all'ingresso della grotta se ne radunarono almeno una ventinahttps://www.mimmorapisarda.it/2024/ulisse20.jpg, pronti ad intervenire in aiuto del loro compagno. La Toro presenza creò qualche attimo di tensione fra i Greci. Infatti, se i giganti fossero entrati nella grotta, per loro sarebbe stata la fine.

"Polifemo, perchè ti lamenti ?", urlò uno dei Ciclopi dall'esterno.

"Nessuno mi acceca!", gli rispose dolorante Polifemo con voce roca e cavernosa.

"Se nessuno ti acceca, perchè ci fai alzare in piena notte?"; e credendo che il loro compagno fosse in preda ad un incubo, si allontanarono seccati.

Quando giunse l'alba, malridotto e dolorante com'era, Polifemo avrebbe preferito restarsene coricato, ma l'insistente belato del gregge lo convinse ad andare al pascolo. Come al solito rimosse il macigno che chiudeva l'ingresso e si mise sulla soglia. Per evitare che i prigionieri fuggissero, palpava accuratamente il dorso delle pecore man mano che uscivano.

Lo scaltro Ulisse, che aveva considerato ogni evenienza, legò i suoi compagni sotto il ventre degli arieti più grossi, mentre egli stesso si aggrappò sotto il lanoso capomandria. Con quest accorgimento, malgrado il Ciclope verificasse col palmo della mano il dorso degli animali, non potè accorgersi della fuga dei suoi ospiti.

- Ancora una volta l'astuzia di Ulisse aveva avuto la meglio sulla forza.- Appena fuori dalla grotta, il gruppo dei sei corse precipitosamente verso la nave, dove l'equipaggio aveva gia preparato tutto per la partenza. Aiutandosi con la vela e con i remi, in breve tempo le navi si allontanarono dalla costa.

Intanto Polifemo, che aveva intuito quel che era successo, andando avanti a tentoni, cercò di raggiungere i fuggitivi, ma ormai era troppo tardi. Le imbarcazioni si dirigevano velocemente verso il largo. A quel punto, Ulisse, sentendosi sicuro di non poter essere raggiunto, dalla prora della nave, con tono di scherno e non senza una buona dose d'orgoglio per averla fatta franca, rivolgendosi al Ciclope, gli urlò "Polifemo! se qualcuno dovesse chiederti chi ti ha accecato, dirai che non è stato nessuno, ma Ulisse, re di Itaca!".

Il Ciclope era fuori di se. Livido di rabbia, concentrò i suoi sforzi, afferrò la cima di una collina e la scagliò verso la direzione dalla quale veniva la voce di Ulisse.

Il gesto non ebbe alcun effetto. La nave fluttuò lievemente per le onde prodotthttps://www.mimmorapisarda.it/2024/ulisse4.jpge dalla caduta in mare del macigno e proseguì con la vela spiegata. Polifemo non si diede per vinto. Afferrò la cresta di un'altra collina e la scagliò contro le navi. Ma anche questo tentativo fallì miseramente.

- Gli increduli possono verificare: le cime delle colline sono ancora lì, nel mare di Acitrezza, a poche centinaia di metri dalla costa -.

In preda allo sconforto, Polifemo aprì le braccia al cielo ed invocò suo padre Poseidone, il dio del mare.

"Padre - implorò il Ciclope - fa che Ulisse soffra come io sto soffrendo e giunga in patria dopo infinite peripezie, senza navi e senza compagni".

Invece, Ulisse ed i suoi, con vento favorevole, in meno di un giorno di navigazione giunsero nelle isole Eolie, dove dimorava Eolo, il dio dei venti.

L'accoglienza fu sincera e calorosa. Il signore dei venti ospitò lui e l'equipaggio per un mese intero nella sua reggia. Quando fu il momento della partenza, Eolo voile fargli un grande dono. Gli regalò un otre contenente tutti i venti eccetto uno: il vento di ponente, grazie al quale la nave sarebbe stata spinta fino all'isola di Itaca. Nel consegnargli l'otre, gli raccomandò di non aprirlo per nessuna ragione, altrimenti i venti sarebbero usciti e, spirando tutti insieme, avrebbero causato una terribile tempesta. Ulisse lo ringraziò e ripose l'otre in un angolo della stiva, poi si preparò a salpare. 

La partenza fu favorita da una dolce brezza, l'unica che potesse spirare, poichè gli altri venti erano chiusi dentro l'otre. Il mare era calmo e la prua fendeva l'acqua, sollevando due onde schiumose che lambivano le fiancate, lasciando una lunga scia dietro la nave.

Dopo due settimane di tranquilla navigazione, la nave giunse in vista dell'isola di Itaca. Erano trascorsi più di dieci anni dalla partenza ed i reduci della guerra di Troia erano lieti di rivedere finalmente la loro patria, i loro familiari, la loro casa. L'equipaggio era ansioso di arrivare. I vogatori con gli occhi bassi ed i nervi tesi,  spingevano sui remi con tutta la loro forza. Sulla nave c'era un gran fermento. Qualcuno recitava orazioni per ringraziare gli dei, altri si apprestavano a preparare la nave per l'ormeggio, altri ancora radunavano le loro cose per essere fra i primi a sbarcare. https://www.mimmorapisarda.it/2024/ulisse27.jpg

Quando mancava ormai poco tempo all'arrivo, improvvisamente, Ulisse sentì gli occhi chiudersi per un'inspiegabile stanchezza.

Un sonno pesante scese su di lui costringendolo a sedersi in un angolo e a dormire profondamente. Nettuno, che non aveva dimenticato le implorazioni del figlio Polifemo, stava mettendo in atto la sua vendetta. Mandando ad Ulisse un sonno pesante, gli aveva tolto il controllo della nave.

Intanto i compagni, che per tutto il viaggio avevano sospettato che dentro l'otre ricevuto in dono da Eolo ci fosse del vino, approfittarono del sonno del loro capo, per aprirlo e brindare alla conclusione del viaggio.

Non appena l'ultimo laccio che chiudeva l'otre fu sciolto, i venti uscirono tutti insieme e presero a spirare ognuno per la sua naturale direzione. All'istante, turbini violentissimi sollevarono onde gigantesche; si scatenò una burrasca che infuriò per giorni e giorni con inaudita violenza. Le navi furono sballottate di qua e di là. Alcune si inabissarono, altre, malridotte, continuarono a vagare per i mari per dieci lunghi anni, finchè il fato non fu compiuto.

Prof. Melchiorre Trigilia   https://win.lasiciliainrete.it/STORIAECULTURA/TRIGILIA/ULISSE/ulisse.htm

 

 

 

 

 

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I Greci trovarono l'ulivo che dall' Asia minore, 7500 anni prima, si era diffuso in tutta l'area mediterranea. Sarebbe stata Athena a regalare la prima pianta d'ulivo all'umanità, piantandola nell'acropoli di Atene. L'ulivo, oltre ad avere proprietà alimentari e medicali divenne simbolo di pace e riconciliazione.

I Greci portarono nuove tecniche per l'estrazione dell'olio. L'ateniese Aristeo insegnò ai Siciliani come estrarre l'olio inventando u trappitu (frantoio). I Siracusani eternamente grati gli dedicarono un tempio. A Cassaro (SR) è stato rinvenuto un frantoio arcaico scavato nella roccia con una serie di vasche comunicanti.

I Greci erano ghiotti di olive, ne perfezionarono e ne difesero la coltura, le preparavano in tanti modi, modificando e migliorando i sapori dei cibi.

I Greci aggiunsero alla già fiorente agricoltura siciliana la coltura del cedro, del mandorlo, del castagno e del carrubo che ha trovato l'habitat favorevole nel ragusano. Leggendo i poemi omerici (IX-VIII sec. a.C.) si viene quasi investiti dalle fragranze di miele, vino, formaggi, rudimentali salsicce, agnelli maialini allo spiedo conditi con aromi.

Nel XX libro dell'Odissea Ulisse passeggia nervosamente meditando la vendetta sui proci "come quando un uomo volta e rivolta sulla fiamma ardente una salsiccia piena di grasso e di sangue, impaziente che sia presto arrostita, cosi da una parte all'altra si volgeva Ulisse e meditava".

Da queste primitive salsicce, preparate solo con sangue e grasso, derivano i nostri saporiti insaccati

Achille (libro IX dell'Iliade) preparando il banchetto per gli ambasciatori achei «poggió un grande tagliere davanti alla vampa del fuoco, sopra ci mise una spalla di pecora ed una di capra pasciuta, ed anche il dorso di un maialetto, tutto fiorente di grasso. Gli reggeva i pezzi Automedonte, e Achille divino tagliava. Sminuzzò per bene le carni e le infilò sugli spiedi [...] pareggiata la brace, vi poggiò sopra gli spiedi. La griglia e lo spiedo erano un "affare" di uomini, mentre alle donne era riservata la cucina. Ancora oggi nelle gite fuori porta è l'uomo che governa il fuoco e "cuoce".

I Greci vengono conquistati dalla gastronomia siciliana. Trascurarono gli ingombranti arrosti omerici, le focacce di orzo (maza) e le terribili salse al silfio, che possedeva un sapore d'aglio che aveva un aroma sgradevole. Il siciliano Anchestrato ne fa una la ricetta di pesce la "razza bollita" a metà della stagione invernale condita con formaggio e silfio. A volte questa pianta veniva utilizzata come digestivo, contro la tosse, l'influenza e le verruche. I Romani, che lo chiamavano laser, la utilizzavano spesso.

In varie ricette è presente il silfio "Prepara, lava e friggi il pesce che desideri. Triterai e sminuzzerai del pepe, cumino, seme di coriando lo, radice di silfio, origano, ruta, verserai dell'aceto, aggiungerai una carota, miele, vino cotto, elio, garum, mescolerai e verserai nella pentola e lo farai finchè bolla. Quando sará bollito, bagnerai il pesce fritto, spargerai del pepe e lo servirai. Le salse greche e romane dovevano essere degli intrugli terribili.

La saporita cuccia di grano (cocciu = chicco) si prepara sia come piatto dolce sa salato, in occasione delle feste padronali e risale ai riti in onore della dey greca Demetra. I Siracusani, il 12 dicembre  amano ricordare l'usanza di preparare la cuccia ad un miracolo della Santa Patrona Lucia durante la terribile carestia del 1646.

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Fonte: SPIGOLATURE STORICHE SULLA CUCINA DI SICILIA – Gino Schilirò – Aracne editrice 2019 - © tutti i diritti riservati - esclusiva concessione del Prof. Schilirò per  il sito web mimmorapisarda.it

Masculina da magghia. La cornice è quella del golfo di Catania: un arco che va da Capo Mulini a Capo Santa Croce, nel comune di Augusta. Una porzione di mare tutelata in parte dalla Riserva Naturale Marina delle Isole Ciclopi e solcata ogni giorno dalle piccole barche dei pescatori del golfo. Qui, secondo la stagione, si pescano aguglie, spigole, tonni, triglie, sgombri, e masculini. I pescatori li chiamano anche anciuvazzu o ancora anciuvurineddu: molti nomi per le piccole, guizzanti acciughe, le stesse catturate dai liguri e dalle menaidi cilentane. Le stesse che, diceva padron ’Ntoni ne I Malavoglia, «sentono il grecale ventiquattr’ore prima di arrivare, (…) è sempre stato così, l’acciuga è un pesce che ha più giudizio del tonno». Ad aprile, si comincia a calare le tratte (così chiamano a Catania le reti menaidi, che hanno maglie di un centimetro di lato e sono lunghe circa 300 metri): il momento giusto è la notte fonda, quasi sul fare dell’alba. https://www.mimmorapisarda.it/2024/ulisse95.jpg

La Menaide è una barca bassa a sei o otto remi e con una vela, con scafo lungo e stretto, usata per la pesca di alici in acque profonde.

La tecnica è la stessa praticata in tutto il Mediterraneo già dai tempi di Omero. Questo meccanismo di cattura (l’imprigionamento della testa dell’alice nelle maglie della rete, da cui il nome da magghia) provoca un dissanguamento naturale che rende il pesce più gustoso e quindi pregiato. In Italia le flottiglie che praticano la pesca tradizionale con la menaide sono poche: si trovano a Pisciotta, in alcuni piccoli centri della costiera del Cilento a Cetara, in Sardegna e nel golfo di Catania.

Qui le famiglie che vivono di questo mestiere antico sono una trentina: un gruppo sparuto – che si divide fra i porticcioli di San Giovanni li Cuti, Ognina, Aci Trezza – e qualche civitotu (così si chiamano gli abitanti del quartiere catanese della Civita) al porto di Catania. Attualmente, i masculini da magghia sotto sale non sono in commercio: si possono ancora assaggiare soltanto in qualche ristorante di Catania o nelle dispense delle famiglie dei pescatori. Il neonato Presidio sta tentando di riorganizzarne la produzione e la commercializzazione.

I masculini si vendono freschi sul mercato catanese di piazza Pardo ( ‘a Piscaria) oppure vengono messi sotto sale dalle mogli dei pescatori. La tecnica di salagione è la stessa di tutto il Mediterraneo, ma qui esiste una preparazione assolutamente unica, inventata dai pescatori catanesi per sfamarsi durante le molte ore trascorse in mare. Si tratta di una conserva fatta con pezzetti di alici e con le teste che rimangono impigliate nelle maglie della menaide. Impossibili da vendere, questi “scarti” erano consumati in barca. Tornati a riva, le donne di casa mettevano ciò che rimaneva sott’olio di oliva, in vasetti di vetro o in piccoli orci di terracotta (i cugnitti) e all’occorrenza se ne prelevava una parte per cucinare sughi e salse.

 

 

 

 

 

 

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ACICASTELLO è una  caratteristica cittadina sul mare, famosa per il suo castello in pietra lavica, eretto nel 1.076. Alcune sale del castello ospitano il museo civico. Ai piedi del castello vi è una splendida scogliera su un mare limpido dai vividi colori. Soprattutto d'estate è meta di turisti e villeggianti, che invadono le sue spiagge rocciose, le sue vie e la sua superba piazza a picco sulla scogliera lavica per godere lo scenario di luci e di colori e la magica atmosfera tipicamente mediterranea. 

La colata del 1169 fu di enormi proporzioni, se ne vede testimonianza nella costa che va da Acicastello ad Ognina, spettacolare per altezza, raggiunge anche i 30 m sul mare, e movimentata dalla presenza di anfratti e grotte che creano un suggestivo paesaggio dato dalla grandiosità dell'insieme, dallo scuro colore della lava e dall'azzurro del mare.

 

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panorama di Acicastello - foto Antonio Treccarichi

 

Altre grotte esistono nel territorio compreso tra Acicastello e Ficarazzi nella zona denominata «Timpa Rosa». Una in particolare è assai interessante per avere tracce di abitati archeologici.

La grotta è un classico esempio di scolamento lavico, ove insieme alle formazioni geologiche quali i «denti di cane» vive una fauna tipica da grotta quali i ragni e i pipistrelli. I pochi cocci rinvenuti parlano del periodo denominato «Castellucciano», databile intorno al 1800‑1400 circa a.C. In questa età, mentre in altre zone della Sicilia era uso scavare le tombe a grotticella artificiale nel calcare, nelle zone laviche intorno all'Etna (es. Adrano), data la durezza della lava, si sfruttavano come sepolture le grotte che si erano formate all'interno delle varie colate laviche di età molto antica.  

Certo è necessario operare una ricerca approfondita nella zona al fine di ben individuare i vari periodi archeologici che si sono susseguiti nel territorio di Acicastello, visto che esistono parecchie testimonianze che vanno dal neolitico al periodo bizantino: resti di asce litiche, strumenti di selce e ossidiana, ceramica preistorica, fram~ menti di età greco~ellenistica, romana, bizantina. Le fonti classiche parlano del fiume Aci e in relazione a questo fiume è la statio di Acium a 9 miglia da Catania e a 24 da Naxos, citata nell'itinerarium Antonini.

Vissuto sempre ai piedi del Castello fu chiamato dagli Arabi «Al‑Yag». Esistono tracce di un passato medievale in un troncone di mura costruite utilizzando la pietra lavica. Il suo nome è legato alla leggenda del fiume Aci, che un'epigrafe settecentesca posta sul prospetto della chiesa di S. Mauro definisce «Acensitim faecunda parens»: madre feconda degli Acesi.

 

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I terribili cataclismi del 1169, terremoto, maremoto, e una colata lavica di notevoli diniensioni,, dispersero gli abitanti della zona che si trasferirono nelle zone vicine. Colpito dal terremoto del 1693 fu ricostruito nel 1718.

Costruito su un'immensa rupe, prodotta da un'eruzione sottomarina, formata da un ammasso di pillows di lava, il Castello s'innalza scuro e imponente sulla piazza, come la prua di un'immensa nave.

L'impianto attuale di chiara impronta normanna lascia intravedere qua e là resti di passate civiltà. Resti di una probabile porta romana e una grotta che ricorda le tholos Micenee del XIII sec. a.C. ci inducono a pensare che il Castello, proprio per la sua posizione, sia stato abitato da civiltà diverse non esclusi Fenici, Greci e Romani per i quali il nome era «Rocca Satumia».  

La prima battaglia menzionata dalla storia fu quella che nel 414 a.C. vide in lotta Magone generale cartaginese contro Leptine siracusano. La vittoria dei Cartaginesi consolidò il loro dominio sulla Sicilia Orientale. La posizione che il Castello occupa non passò inosservata agli Arabi ed ai Normanni, che tanta parte ebbero nella cultura della nostra terra.

 

 

Distrutto in un primo tempo (902) dagli Arabi fu poi ricostruito dal Califfo Al‑Moez.  

Circolò per anni la leggenda che nel suo museo esistesse la testa del ciclope Polifemo, in quanto per molto tempo si credette d'aver trovato il cranio del Ciclope con un solo occhio. La scienza ha vanificato questa leggenda, idenficando il cranio con quello dell'elefante Falconeri, per l'appunto il nostro elefante nano.

Non mancano a completamento della sezione i fossili dei vegetali, tronchi, foglie, alghe e i pesci fossili su tripoli del Messiniano risalente a circa 8.000.000 di anni fa, periodo in cui, chiusosi lo Stretto di Gibilterra, il Mediterraneo si prosciugò lasciando grossi laghi.

 

 

L'uomo è stato l'ultimo a comparire sulla terra ed ha seguito un lento e faticoso processo detto appunto di ominazione. I calchi dei crani acquisiti presso il Museo dell'Uomo di Parigi ci consentono di seguire attraverso lo studio e l'analisi dei tratti somatici tutte le modificazioni che hanno portato l'uomo da un aspetto simile alla scimmia all'aspetto attuale.

A questa parte si aggancerà la sezione archeologica con i manufatti del paleolitico, mesolitico, neolitico nonché di età greca, romana, medievale.

A ciò si aggiungerà una sezione dedicata al materiale archeologico subacqueo frutto in una recente donazione, che permetterà di studiare la navigazione, la storia commerciale e storia politica della nostra zona.  

 

 

 

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Le indicazioni la identificherebbero con Aci Trezza, borgo marinaro in provincia di Catania, in cui si stagliano i faraglioni o Isole dei Ciclopi, otto scogli basaltici di origine vulcanica che, secondo la leggenda tramandata da Omero, vennero scagliati da Polifemo contro Ulisse in fuga. Acitrezza è una delle tante perle della nostra isola, luogo d’incantamento, che incuriosisce anche per l’origine incerta del suo nome: la prima ipotesi la farebbe derivare dai “tre pizzi” dei faraglioni; la seconda, dell’Arciprete De Maria, dalle fabbriche di laterizi che avrebbero dato il nome alla contrada “Acis Lateritie”; un’altra ancora da uno scoglio, che si trova “a venti passi dalla ripa”, chiamato Trizza e, per metonimia, passato all’intera zona, dove sorse successivamente il paese. Noto grazie a Giovanni Verga, che vi ambientò i Malvoglia, e a Luchino Visconti, “La Terra trema”, è un luogo dell’anima da visitare, quando sarà di nuovo possibile. Imperdibili sono: il “Museo della Casa del Nespolo”, piccola abitazione di due stanze che si affacciano su un cortile con il famoso nespolo, da cui il nome, un tuffo nel suo meraviglioso mare e, per concludere, una indimenticabile granita, possibilmente, alle mandorle.

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Viaggiando in Sicilia con Ulisse, il più arguto degli eroi - Giusi Patti Holmes

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Tra mitologia e folklore La riviera dei Ciclopi, lungo cui si snoda il Parco Letterario Giovanni Verga, è nota per le vicende mitologiche pervenuteci dai grandi poeti dell'antichità: Omero e Virgilio. La leggenda vuole che i tre faraglioni, situati lungo la costa di Acitrezza, siano i  massi lanciati da Polifemo, contro la nave di Ulisse che fuggiva, il gigante Polifemo ritorna ancora nel mito di Aci e Galatea, geloso dell'amore tra i due giovani il Ciclope uccide Aci scagliandogli addosso un enorme masso.

 

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 "L'Arcipelago" dei Ciclopi, intorno al 1750,  diventa teatro di una nuova e originale tradizione popolare rappresentata dalla pantomima "U pisci a mari". La rappresentazione è legata ai festeggiamenti in onore di San Giovanni Battista, patrono di Acitrezza, che si svolgono ogni anno il 24 giugno. La pantomima rappresenta, con i toni della parodia, l'antica arte della pesca del pesce spada. Tutta la cultura , la storia, la tradizione di un popolo indissolubilmente legato al mare, si trova in questa messinscena che per l'occasione riempie il paese. Uno squarcio di vita quotidiana che ispirò in passato il verismo di Verga.

 

 

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ACITREZZA - Giù dai Faraglioni: a pesce, a testa sotto, a capriola. È il tuffo-show più seguito dei Ciclopi, nel catanese, dove gli aficionados dell'Isola Lachea aspettano ogni giorno i tre tuffi acrobatici di «Conan, Bastiano di Acitrezza». Vedere un uomo mascherato che si arrampica sulla roccia ripida ed aguzza dei Faraglioni e si butta in acqua facendo un volo di almeno 20 metri non è certo uno spettacolo da perdere: così dagli scogli, dalle barche, dai pedalò e dai materassini bagnanti e turisti non ne mancano uno, e lui onora ogni giorno l'appuntamento con il suo pubblico in costume da bagno mollando per qualche minuto i remi della barca di legno su cui si guadagna da vivere.

Nessuno fiata mentre scala la roccia a mani nude, si cala sulla testa la maschera nera e si affaccia pericolosamente dallo strapiombo: appena un attimo a respiro sospeso, gli occhi seguono piroette e traiettoria calcolando nel vuoto la distanza minima dalle rocce, poi la tensione si scioglie nell'applauso finale. Lui rispunta a galla e risale su, regalando a tutti altri due tuffi da batticuore. «Mi faccio chiamare «Conan» - spiega lui, rivelando riccioli biondi ed occhi azzurri da normanno - ma il mio nome vero è Bastiano.

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La maschera nera? È un paraorecchie, ma protegge anche la testa perchè l'impatto è fortissimo quando entro in acqua a velocità».

I turisti fanno a gara per immortalarlo con le macchine fotograficne dei telefonini e qualcuno registra anche dei video-souvenir: «Mi hanno detto che sono pure su internet - aggiunge - ma io questi video su Youtube non li ho visti mai». Gli altri barcaioli, che fanno di continuo la spola tra il molo al porto e l'Isola Lachea, sono ormai abituati al loro collega «Conan» e si limitano a rispondere con mezze frasi alle domande sempre più curiose dei turisti sul suo conto. I tuffi, infatti, stanno diventando sempre più celebri tra chi arriva in piena Riserva Isole Ciclopi. Bastiano di Acitrezza si volta verso i «Faragghiuneddi», cioè gli altri scogli vulcanici che formano il piccolo arcipelago: «a fine luglio - annuncia indicando il Faraglione Medio, alto e franoso - mi butto da là sopra, quaranta metri d'altezza». L'occasione è speciale: con quel tuffo «Conan» festeggerà i suoi 60 anni.

corrieredelmezzogiorno.corriere.it 

 

 

Non lontani dalla costa, vicino la località chiamata oggi "Capo Molini", in un luogo poco accessibile da terra e più facilmente dal mare, esiste una piccola sorgiva ferruginosa chiamata dalla gente locale "il sangue di Aci" per il suo colore rossastro. Notare quale soave spiritualità pervade questa storia che non spiega nient’altro che un fenomeno geologico. Nella località chiamata oggi "Capo Molini" esistette un modesto villaggio chiamato, in memoria del pastorello del mito greco, Aci. Nell’XI° sec. d.c.d.C.D.C. un terremoto distrusse il villaggio, provocando l’esodo dei sopravvissuti, i quali fondarono altri centri nei dintorni.In memoria del nome della loro città d’origine, i profughi vollero chiamare i nuovi centri col nome di Aci, al quale fu aggiunto in seguito un appellativo per distinguere un villaggio dall’altro: così Aci Castello (per un castello costruito su di un faraglione prodotto da un’eruzione sottomarina che poi fu raggiunto da una colata lavica nell’XI sec., trasformandolo in un promontorio); Acitrezza (per la presenza di tre faraglioni antistanti il Paese); Aci Bonaccorsi, Aci Catena, Aci S. Antonimo, Aci Platani, Aci Sanfilippo.

  

 

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La storia di Aci è raccontata da Ovidio nelle Metamorfosi. Aci era un giovane innamorato della ninfa Galatea, che però era corteggiata dal Ciclope. Un giorno il Ciclope scoprì insieme Aci e Galatea e scagliò un masso contro Aci, uccidendolo. Da sotto il masso che aveva schiacciato Aci, cominciò a sgorgare un filo di sangue, rosso; anziché coagularsi, il liquido scuro divenne un ruscello, che prese il colore dell'acqua e cominciò a scorrere verso il mare. Gli dèi, impietositi da quell'amore, avevano trasformato Aci in un fiume, che oggi non c'è più.

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La ricchezza di sorgenti d’acqua dolce nella zona etnea, venne dai Greci spiegata con il mito di Aci e Galatea.

Aci, era un pastorello che viveva, pascolando il suo greghttps://www.mimmorapisarda.it/2024/ulisse22.jpgge, lungo i pendii dell’Etna. Di lui era innamorata la bella Galatea che aveva respinto le proposte amorose di Polifemo.

Galatea era una splendida ninfa del mar Ionio, che, durante le belle aurore, era solita sedersi su uno scoglio e aspettare che il sole la rivestisse di perle.

Una mattina la leggiadra fanciulla fu notata dal ciclope Polifemo, che abitava in una grotta sui fianchi dell’Etna e, spaventata, si tuffò subito nell’azzurro mare.

Un pomeriggio, il pastorello Aci avanzò con il suo gregge fino alla spiaggia, suonando dolcemente la zampogna.  

Galatea, dal profondo del mare lo udì e corse ad ascoltare quelli che a lei sembravano i sospiri di un sereno tramonto.

La ninfa, incantata da quella musica, pregò il giovanetto di andare ogni giorno per farle sentire la zampogna. Così tutti i giorni Galatea, adagiata sulla sabbia, ascoltava silenziosamente il canto del pastorello.

Un triste giorno furono scoperti dal ciclope. Il gigante non riusciva a dimenticare quella fanciulla vestita di rosea luce e tutti i giorni, mentre il suo gregge brucava l’erba, si sedeva di fronte al mare, sperando di rivedere la ninfa per chiederle di sposarlo. Quindi cercò subito un pretesto per litigare: accusò Aci di essere il ladro dei suoi pascoli e, scagliandogli un macigno, lo colpì a morte.

Galatea, disperata e sconsolata chiese ed ottenne dal padre Oceano che Aci venisse trasformato in un fiume.

La bianca Nereide, sconsolata, con l’aiuto degli dèi, trasforma il corpo morto di Aci in sorgive di acqua dolce, che scivolano giù, lungo i pendii dell’Etna, mormorando suoni melanconici di struggente nostalgia. Ancora oggi il fiume Aci scaturisce da sotto una rupe di lava e spinge il suo corso fino a mescolarsi, nel mar Ionio, con la spuma dell’infelice Galatea.

L'Etna, simbolo antropomorfo sessualizzato . Così rievoca l'epopeica conquista di quell'inferno cosmico il poeta Rapisardi, novello Stesicoro di sicule teogoníe.

I Castellucciani videro il vulcano come un elemento soprannaturale e l'affrontarono in senso antropomorfico. La grande voragine centrale assimilarono all'organo vulvare della Terra mater e concepirono il fragore delle sue viscere quale processo segreto di gestazione, e le pietre e i sali minerali da essa generati, vivi e fertili, capaci di procreare a loro volta, allo stesso modo di come essi erano stati generati.

Non per un caso l'Etna è per le popolazioni etnee «a muntagna»: elemento femminile per antonomasia. La sessualizzazione del vulcano è la semplificazione dei fenomeni relativi alla fertilità dei suoli della regione, fecondati dagli umori volatili propagati per lunghissimo raggio.

Al culto neolitico delle pietre era intimamente legato l'altro dell'ascia: attrezzo che fendeva la terra congiungendosi con essa. Testimonianza di tale pratica antropomorfica si rileva nell'ascia levigata di pietra verde trovata nell'isoletta Lachea, luogo in cui in epoca arcaica lo scoglio di mezzo ebbe nome Galatea, simbolo dell'abbondanza delle culture e dove, secondo fonti letterarie pre‑alessandrine, Polifemo personificazione poetica del demos etneo preellenico ‑innalzò alla ninfa marina un santuario a voler sottolineare la fertilità del pascolo dell'Etna. I secentisti favoleggiarono essere l'ubicazione di questo tempio nelle contrade a settentrione di Catania e gli connessero il toponimo Licatia, identificando Galatea con la greca Leucotea. Se ne indicavano perfino gli avanzi nelle vigne del monastero benedettino (oggi villa Papale), zona ricoperta poi dalle lave del 1381 che raggiunsero il mare.   https://www.mimmorapisarda.it/2024/gal.jpg

L'Etna, quale primitivo aspetto del mondo fertile ideomorfizzato nella Mater genitrix dispensiera di malve, biade e asfodeli, ricevette nelle regioni catanesi culto particolare. Dipoi i coloni elleni perfezionarono la sua figura mitologica identificandola con Demeter, che aveva il suo lato contrastante nella sterilità invernale, seppure quale momento di indispensabile equilibrio del ciclo vegetativo.

Il dualismo limite di fertilità‑sterilità, gioia‑morte, estate‑invemo, collocò Demeter in intimo rapporto con Persefone, ossia «il seme», o più semplicemente Kore: la gioventù, la figlia passiva rapita dal dio degli inferi attraverso la bocca dell'Etna; ma che puntualmente tornava sulla terra col sopraggiungere della primavera, sotto forma di natura che sboccia.

In nessun luogo della Sicilia Demeter fu tanto venerata come a Catania, i cui segni più evidenti si rilevano nella monetazione della città. Le Tesmoforie duravano qui dieci giorni e culminavano il 16 agosto con offerta di mylloi, le focacce di sesamo e miele a forma vulvare: forme sopravvissute nei panuzzi e cudduri 'nciminati dell'attuale pezzatura di pane. 1 misteri, riservati esclusivamente alle donne, si svolgevano in un Demetreion celebrato da Cicerone (in Verrem, IV, 45) ove era un antichissimo oracolo sessuale della dea, mentre in un naos separato si svolgeva l'estasi misterica invocando Basilis Persefone che portava alla conoscenza della verità.

Una lastra epigrafica che ne attesta il culto, scoperta nei pressi del Bastione degli Infetti (via Torre del Vescovo), sembrerebbe confermare la tradizione popolare che indicava in quest'area il luogo ove era situato il santuario. Un encomio greco d'un monaco catanese del IX secolo ne attesta la distruzione ad opera del vescovo Leone intorno al 725; ma è più probabile che, come afferma il Privitera, la costruzione sia crollata a causa di un terremoto, forse nel 778, o più verosimilmente nel disastroso cataclisma del 797 ricordato da Paolo Diacono, che con epicentro nel Mediterraneo orientale colpì duramente la Sicilia e Creta. Un bassorilievo votivo con due Kore, copia tardo‑ ale ss andrina di fattura dorica, trovato negli anni Trenta insieme con altri frammenti fra i materiali di riporto in piazza S. Nicolella, sembrerebbe confermare l'ipotesi che il Demetreion sfracellò dalla collina sul declivio in seguito a un forte crollo.

Una eco del culto di Demeter a Catania si coglie nella convinzione popolare che il 15 agosto, festa dell'Assunzione di Maria, sia il giorno più ventoso dell'anno: brano di mito dellefurie di Demeter alla ricerca disperata di Kore, discesa all'averno dopo la messe.

Aci e Galatea - Giardini pubblici di Acireale

 

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Narra una leggenda popolare che il corpo del pastorello ucciso da Polifemo si sia smembrato in nove parti cadute dove poi sono state fondate Aci Bonaccorsi, Aci Castello, Aci Catena, Aci Platani, Acireale, Aci S. Filippo, Aci S. Antonio, Aci S. Lucia ed Aci Trezza. La costa viene anche chiamata Riviera dei Ciclopi.

Percorso nella memoria verghiana, si snoda attraverso i luoghi suggeriti dall'Autore. Parte dal Castello, con la drammatizzazione della novella "Le storie del Castello di Trezza", e prosegue per Acitrezza, dove si rivisitano i luoghi de "I Malavoglia": la casa del nespolo, le viuzze, la piazza, la fontana, la chiesa.

" Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza […], tutti buona e brava gente di mare, proprio all'opposto di quel che sembrava dal nomignolo, […] Alla domenica, quando entravano in chiesa, l'uno dietro l'altro pareva una processione"

Si ripercorrono anche i luoghi del celebre film "La terra trema" di Luchino Visconti, girato con attori locali, i pescatori di Trezza.

 

 

 

 

Proseguendo la navigazione verso nord, si incontra la bella baia di Capo Mulini (peccato per qualche complesso alberghiero di troppo), la Torre del faro o di S. Anna, a pianta quadrata e sempre in materiale lavico, e il settecentesco Torriglione (Torre Alessandrano): su questo tratto di costa sono fittissime le coltivazioni di agrumi (la costa è detta anche “dei Limoni”), fino al balzo improvviso della Timpa, una scogliera vulcanica un tempo difesa dai pirati, oggi Riserva naturale.

 

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ACIREALE. Se Catania è la regina del Barocco della costa ionica, allora Acireale, giusto a 15 km a nord, deve essere riconosciuta come la Principessa, giacendo regalmente guardando al mare, posizionata in una grande terrazza di lava.

Vista dal mare, questa terrazza spunta come un monte verde, un molo roccioso riflesso nelle cristalline acque dello Jonio, un muro di antica lava che riposa in un piedistallo acquatico, un insieme della verdura del Mediterraneo immersa nel mare per essere tenuta sempre fresca.

L'alto monte con un altezza di oltre 140 metri corre parallelamente verso il mare per 7 chilometri, cominciando a Capomulini e continuando con i monti di Don Masi, Santa Caterina e Santa Maria la Scala, finendo di fronte Santa Tecla. Il monte è composto di sedimenti almeno le ultime due maggiori eruzioni, e la sua vegetazione include alberi di ortica, oleandri e carrube. La lava è colorata di arancione dall'acqua piena di metallo, formando una fonte che corre in una piccola baia, un punto di frequente ancoraggio per gli yatch.

Una cattedrale di lava lungo il mare si fonde con i bastioni delle fortezze del 17° secolo di Tocco, che possono essere difficilmente distinguibili tra le terrazze di lava vulcanica.

 

Santa Tecla

La leggenda narra che l'insistenza del nome Aci, caratterizzante ben sette località, derivi dall'ampia eco avuta dalle sfortunate vicende amorose del bel pastore Aci e della neride Galatea che di lui s'innamorò suscitando l'ira del ciclope Polifemo. Questi, folle di gelosia e di dispetto, si liberò del rivale scagliandogli contro, dalle vertiginose altezze del Mongibello (oggi Etna), sua infernale dimora, un enorme macigno che sommerse l'amante  sfortunato.

Il sommo Giove, impietosito dal dolore di Galatea, volle tramutare l'amore dei due giovani in un gaio e imperituro fiumicello. Ma il fiume non ebbe miglior sorte del pastore, se è vero - come vuole un'altra credenza - che il nome deriva invece alle località dal fatto d'essere state, un tempo, tutte lambite dalle acque del fiume Aci, sommerso dalle tante eruzioni dell'Etna che si sono succedute nei secoli.

 

 

Per gli storici, il toponimo comune risale alla migrazione cui il terremoto del 1169 costrinse gli abitanti della località fondata dai Greci e successivamente detta Akis dai Romani. Questi lasciarono l'originario insediamento e diedero luogo a diverse borgate che conservarono nella loro denominazione l'eponimo di Aci.

La storia del comune di Acireale è discontinua, segnata dai terremoti e dalle eruzioni dell'Etna che più volte hanno sconvolto l'assetto del territorio, l'ultimo dei quali fu il catastrofico sisma del 1693. Alla fervida attività di ricostruzione post terremoto si deve la sua attuale veste barocca.

Nel 1873 furono costruiti, per iniziativa del barone Agostino Pennisi di Floristella, gli edifici delle Terme di S.Venera (consulta il sito http://www.terme-acireale.com ), di pregevole fattura neoclassicheggiante e del Grand Hotel des Bains, che divennero presto un punto di attrazione di rilievo europeo.  

 

 

 

 

Le acque di Acireale, classificate come sulfuree salsobromoiodiche radioattive e ricche di idrogeno solforato presentano delle eccellenti virtù terapeutiche. Allo stabilimento fu affiancato nel 1987 quello di S. Caterina. Lo stabilimento attuale ospita un centro medico idrologico dove, attraverso bagni, fanghi e inalazioni, vengono curate malattie reumatiche e osteoarticolari, otorinolaringoiatriche dell'apparato respiratorio, angiologiche e dermatologiche; inoltre, vi è un reparto di fisiokinesiterapia per i trattamenti riabilitativi.  

  Ad Acireale si celebrano solennemente i Santi Venera e Sebastiano.

Alla prima, Patrona della città, vissuta nel II sec, gli acesi dedicano i festeggiamenti per ragioni climatiche il 26 luglio anziché il 14 novembre. Il seicentesco fercolo d'argento della Santa viene portato in processione per le vie cittadine, accompagnato dalle Cannalore, alti legni intagliati e decorati portati a spalla dai rappresentanti delle antiche corporazioni di arti e mestieri.  

 

Santa Tecla

 

 

 

Santa Maria la Scala, un piccolo villaggio di pescatori che sta intorno ad una chiesa costruita intorno al 17° secolo ai piedi del monte. Un tempo usata com porto da numerose nave mercanti da Trapani, Malta e Lipari, tracce del porto originale e del vecchio castello posso ancora essere scorte.

 

 Piccoli come possono essere questi posti, il piacere che danno è immenso. Santa Tecla, non come potrebbe essere pensato come nome di origine cristiana, proviene invece dall'Aravo "sciant tagla", la quale significa un posto di ancoraggio, che ha i resti di una torre.

Poi in vicina successione viene Scillichenti, Stazzo con le rovine del suo vecchio porto di scambio, dove la pietra lavica era caricata per l'esportazione, e Pozzillo, con un porto e una sorgente ricca di minerali.

I piccoli villaggi di pescatori seguono la costa, costellati di hotels della massima qualità, un preludio alle spiagge a nord di Riposto e Torre Archirafi, sparse di scogliere levigate, crostacei sono pescati in prevalenza qui, come possono essere visti dalle boe che segnano i punti in cui vivono i crostacei.  

 

Stazzo e Scillichenti

Stazzo è un borgo nel comune di Acireale, luogo speciale ai piedi dell' Etna e di fronte a una costa stupenda e particolarissima di scogli lavici, unica nel suo genere. È caro soprattutto ai siciliani che lo frequentano da sempre.

L' ho conosciuto per la prima volta circa 23 anni fa e ne sono stata colpita. Qui intorno, in questa provincia, è racchiusa la storia, la vita e l' essenza della Sicilia.

Purtroppo ritrovando Stazzo dopo tanti anni vedo che non di e' evoluto per nulla, anzi tante cose sono addirittura peggiorate, regnano ancora l' incuria, la sporcizia, l' abusivismo. Ognuno si chiude le strade, gli accessi. Le costruzioni abusive non vengono demolite, non c'è la volontà di valorizzare la bellezza di questo luogo con un lungomare fruibile, una zona pedonale, dei servizi, delle attività e negozi, dei parcheggi, un centro sportivo.

Peccato perché sarebbe veramente un luogo magico.

Fonte https://www.tripadvisor.it/ShowUserReviews-g2209743-d15070618-r911662637-Spiaggia_di_Stazzo-Stazzo_Acireale_Province_of_Catania_Sicily.html

 

 

RIPOSTO. Dove i beni venivano depositati prima di essere trasportati lontano dall'isola, ha una spiaggi fatta di ciottoli, e una futura vocazione come posto di mare, dal centro per la costruzione di navi e importante porto come un tempo era, quando il vino e i frutti di cedro  venivano esportati, e più tardi lo zolfo.

Il porto di Riposto è posizionato solo secondo a quello di Catania della riviera Ionica, e un'ottima destinazione per turismo nautico per i visitatori di Taormina e le Gole dell'Alcantara, facendo di esso il porto del Monte Etna, allungandosi dal mare alla neve, in mezzo a campi di viti, cedri, orchidee e formazioni di lava.

 

 

Per il bagno, la spiaggia pubblica di Sant'Anna è perfetta. La spiaggi di Fondachello ha numerosi campeggi, e giunge fino alla foce del fiume Freddo, con la sua eccezionale vita subacquea, seguito dal litorale di Cottone, altrettanto famoso con campeggiatori, e la costa di Calatabiano, con il castello di San Marco, una residenza fortificata costruita alla fine del 17° secolo e posizionata nell'opulento verde di un bosco di pini che ospita anche campeggi, le attrezzature della spiaggia e un centro di vacanza rurale. Queste sono gli ultimi avamposti della Riviera del Monte Etna prima che il fiume Alcantara sia raggiunto, un invito aperto ad essere esplorata con passione.  

 

 

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Poseidone odiava Ulisse, protagonista dellOdissea, in quanto aveva accecato suo figlio il ciclope Polifemo. Polifemo chiese al padre, una volta che Ulisse ed i compagni furono fuggiti, di vendicarsi per lui e di non farlo tornare a casa; per questo Poseidone non partecipa al concilio degli dei, durante il quale decidono di far tornare a casa Ulisse.

La collera del Dio Nettuno fece sì che Ulisse non tornasse a casa per anni ed anni, vagò per il mare Mediterrane fino ad arrivare all'Isola del Dio dei venti Eolo, attribuita a quella di Lipari.

Quindi, clicca su "ITACA" per continuare il viaggio.

 

 

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