Dopo gli ultimi click al Desert Wiev del Grand Canyon lasciamo l'Arizona e in direzione Est entriamo subito nella Navajo Nation, esattamente nel Painted Desert (Il Deserto dipinto) percorrendolo lungo la statale 160.

La prima sosta tecnica è a Cameron, piccola cittadina Navajo che una volta aspettava interminabili mandrie di bisonti per sopravvivere ed oggi, sempre per sopravvivere, aspetta interminabili mandrie di turisti da svuotare nei suoi negozi di souvenir indiani "made in China".

Dopo un centinaio di chilometri si arriva a un bivio storico di Kayenta: si abbandona la 160,  che arriva fino in Colorado, e si gira a sinistra per un'altra strada che è una leggenda della storia americana: la mitica U.S.163, meglio conosciuta come Navajo Road.

 

 

In quei pressi la nostra autista Anna, intuendo il motivo della mia agitazione, mi dice "Buenos dias, Mimmo.... sièntate aquí, junto a mì" autorizzandomi - come sempre, peraltro - a stare vicino a lei, ma quel giorno eccezionalmente in piedi sulla porta d'ingresso del bus (non lo facciamo sapere alla Polizia stradale dello Utah).

Grazie a quella messicana che non dimenticherò, potevo già vedere i primi capolavori della giornata. La "Navajo Road" si inginocchiava davanti ai miei occhi con la sua straordinaria, variabile, famosa prospettiva e come in una pellicola a tre dimensioni mi faceva rivedere in un colpo solo "Easy Rider", "Indiana Jones", "Odissea nello spazio" e, in fondo alla strada, un barbuto profeta che girandosi verso di noi mentre lo sorpassiamo ci dice "sono un po' stanchino, tornerei a casa". Caro Forrest, quanto avrei voluto darti un passaggio!

Quella strada, con i suoi effetti ottici all'orizzonte, mi correva davanti come i binari della Central Pacific e, man mano, mi presentava la sua produzione: le grandi mittens, sempre più vicine, familiari a chiunque e che nessuno al mondo potrà mai negare di riconoscere, o almeno credo. Caspita.... sui giornaletti, sulle scatole dei formaggini o nelle figurine Panini le avranno pure viste!

Quello che voglio dire è che ognuno di noi, nessuno escluso, almeno una volta nella propria vita ha avuto davanti a sè un'icona che rappresenti la storia di qualcosa, o di un movimento, una moda, una tendenza. Oppure di un luogo.

Prendiamo, per esempio, la Torre Eiffel. Anche un bambino direbbe subito che sta a Parigi e sarebbe riconosciuta anche da chi odia la Francia, a conferma che tutto è associato ad immagini, e tutte le immagini associate a un nome, più o meno noto. Quindi, in questa specie di geografia della memoria, tutti sarebbero capaci di dare un nome a qualcosa che visivamente ricordano.

 

 

Ma se dicessimo "Monument Valley?

Più della metà risponderebbero "No, non la conosco". 

Non è vero, la conosci. La conosci e non sai di saperlo. L'hai vista centinaia di volte nei fumetti di Tex Willer, di Zagor, di Black Macigno e di Capitan Miki, sulle strisce di Jacovitti. Inconsapevolmente l'hai vista passare davanti ai tuoi occhi in film che hanno ripassato mille volte in tv. L'hai vista sui diari di scuola, sulle etichette dei jeans, su mille e mille poster. 

Tanto per fartelo capire: se ti faccio vedere quest'immagine, che ti ricorda? Ah, era questa?

Ah, addesso sai cos'è! Quella forma è uno dei simbolo più significativi degli Stati Uniti d'America!

A dir la verità, per molti anni non è stata proprio niente, soltanto un gruppo di stupendi monoliti rossi in mezzo a questa sterminata e meravigliosa valle all'interno della  riserva Navajo, esattamente al confine fra l'Arizona e lo Utah, e che fino agli anni Trenta aspettava soltanto di essere valorizzata, conosciuta, apprezzata. Oggi è famosa non tanto per il suo nome, ma per la sua immagine (a conferma di quello che dicevo prima) diventata leggendaria grazie all'opera di un  leggendario cineasta americano che plasmò le due forme di granito con la storia americana fino a farle diventare le principali icone del West. E poi, soprattutto, per un poco conosciuto Mr. Harry Guildings che per aiutare i Navajos sfruttò giustamente la bellezza di quelle pietre rosse facendole conoscere a John Ford, certo che avrebbero fatto presa nella fantasia del suo genio.

Quando Harry riuscì a far lavorare i suoi indiani come comparse nei film di Ford pensate a cosa dev'essere stato per un popolo  che nella sua terra è stata confinato in una riserva e in questa, pur di campare, doveva addirittura recitare la parte del cattivo che perseguita coloro che invece l'hanno buttato fuori di casa. Purtroppo quei nativi americani sapevano qual era la verità; sapevano perfettamente chi erano i buoni e chi i cattivi, di come andò esattamente la storia e di come, al contrario, fu scritta.

Grazie a Guilding e signora, e al cinema di Ford,  la valle diventò famosissima e nacque  un vero e proprio villaggio, tutt'ora esistente a San Juan County, e che si mantiene soltanto col turismo.  Ma gli indiani non dimenticarono chi li aiutò, e prova di questa riconoscenza sono tutte le lapidi e gli oggetti appartenuti ad Harry e la sua consorte Leone (detta Mike) e che si possono vedere al museo a loro intitolato, accanto al camerino che John Wayne usava per i suoi film.

E' chiaro che il nostro itinerario, i nostri percorsi e tutto ciò che facciamo sono simili a quelli di altri tour organizzati che sono passati da queste parti;  ma già arrivare sotto i monoliti rossi di San Juan County che giganteggiano sul Guilding's, scorgere quel fin troppo famoso orizzonte abbagliato dal sole dell'ovest, fermarsi di fronte a quella bandiera americana che sventola in una veranda in legno che ricorda tanto l'ultimo avamposto dell'esercito dell'Unione nella guerra contro Cavallo Pazzo, credetemi, fa davvero tremare le gambe. Chi è appassionato (non solo, ci metto anche i profani) di cinema americano può capirmi.

Quello spiazzo sarà stato largo duecento di metri, ma ogni passo sapeva di Settimo Cavalleria, di Spaghetti Western, di Sergio Leone, di di bisonti al galoppo, di incolonnamenti a cavallo per due, C'era una volta il West, Mucchio selvaggio. Ecco, tutto.... tutto, ogni granello rosso trasudava Western, leggendari duelli fra mitici pistoleri e sfide all'Ok Corrall; con la fantasia si poteva addirittura avvertire l'odore di polvere da sparo sprigionato dalle canne dei Winchester. Bastava sedersi in quella veranda, chiudere gli occhi, respirare profondamente e immaginare di far confessare a Geronimo il piano per distruggere Custer a Little Big Horne. 

E questa, credo, sia stata l'esatta sensazione che Ford avvertì non appena si affacciò in questo paradiso che era un po' casa sua. Infatti una zona della valle gli è stata dedicata proprio perchè qui il grande regista amava sedersi al tramonto per ripassare i copioni. Il posto si chiama John Ford's Point.

Come poteva rimanere insensibile di fronte a quel set cinematografico in cui non doveva toccare niente, colui che ha fatto "vedere" al mondo la conquista del West? In quella sceneggiatura già pronta azionò parecchie volte i suoi ciak leggendari e, come si fa con i soldatini, animò la scena mettendoci dentro gli indiani cattivi che insidiavano i bianchi salvati all'ultimo momento dalle giacche blu del grande John Wayne. Arrivano i nostri, tutti felici e contenti al suono della tromba della Cavalleria.

A proposito, che ci faccio di fronte al ritratto del Grinta? Già, siamo all'ingresso del ristorante del Guilding's. Vi proporranno un piatto tipicamente Navajo: il Tacos. Scegliete quello mini, perchè già il "medio" è una spaventosa focaccia  di insalata verde, cipolla, peperoncino con quasi mezzo chilo di fagioli rossi sopra, difficilmente da digerire. I camerieri sono Navajios e, come già anticipatoci da Renè, ho potuto constatare di persona il loro perenne umore: triste,  con un'aria scura e corrucciata, mai un sorriso, una battuta. Niente. Sembra che le loro facce ricordino ancora la grande amarezza, tramandata da generazione in generazione, che il Governo Americano causò in loro quando furono confinati nelle riserve. Ancora non  hanno dimenticato e li vedi lì, costretti a guidare le jeep invece dei loro mustangs, vendere ai turisti bijotteria fatta dai cinesi e spacciata per Navajo. I loro volti sono ancora fieri come un tempo, ma il loro animo è devastato.  

Oggi, pian piano, i rappresentanti politici si stanno rendendo conto del danno che i loro Governi arrecarono duecento anni fa al popolo pellerossa e riconoscendosi finalmente degli autentici invasori, stanno chiedendo scusa a  veri americani che per tanto tempo sono stati emarginati al più basso rango sociale e privati di ogni diritto civile. Monument Valley stessa era stata tolta e poi, dopo tanto tempo, riconsegnata ai Navajo.

Vi porteranno sul grande parcheggio che si affaccia sulla valle e....... trovarsi all'improvviso lì, davanti a quegli altari, senza scattare una fotografia è un grave peccato. Almeno prendete pollice e indice sinistro, pollice e indice destro, uniteli in diagonale davanti ai vostri occhi, inquadrate quelle meraviglie e immortalatele nel photoalbum della vostra vita perchè sono flash indimenticabili.

Siamo già sulle jeep che le guide indiane usano per i loro tour nella valle. Le strade nella valle non sono asfaltate e per questo sollevano una gran massa di fine polvere rossa che si insinua nelle vostre narici e nelle vostre fotocamere. Quindi, se non volete guai provvedete ad adeguate protezioni. Il nostro autista Navajo era l'unico, fra i suoi compagni, dotato di un pizzico di spirito. Allo scorgere di ogni nuovo, stupendo paesaggio, ci scimmiottava con espressioni di meraviglia italiote: "Mammmma mmiia" ma con la tipica cadenza pellerossa. Quale nome di battaglia immaginavo Aquila Rossa, Lupo della notte, Alce tonante. Macchè, si chiamava Bernardo!

Un suo collega, invece, è il pellerossa Navajo più presente in internet. E' quello con la camicia rossa (sempre la stessa) a cavallo (sempre lo stesso) quando si cerca una fotografia in rete del John Ford's Point (per fortuna non è cambiato)! Il famoso indiano adesso l'ho visto dal vivo. Amico, ma quella camicia quanto te la cambi? 

Gli indiani ritengono questo luogo sacro, e quei panettoni che svettano in cielo i Totem lasciati in terra dalle loro divinità. Sembrerà una sciocchezza, ma venendo qui e affacciandosi su questo autentico altare ti vengono addosso autentiche crisi mistiche.... e a quel punto capisci che gli indiani avevano proprio ragione.

Dopo aver visto questo luogo magico, chi può dar loro torto? Maometto, Manitù, Buddha, Odino, .......

Quel giorno io sapevo esattamente dove stavo per mettere i piedi. Ero emozionato già da qualche chilometro perchè pensavo di non riuscire mai a vederla, che in vita mia l'avrei solo immaginata. Peggio di un frate gesuita, nei pacchetti di viaggio l'ho cercata con ostinazione fino ad ottenere ciò che volevo; non ci avrei mai rinunciato, perchè un viaggio negli USA non è niente senza vedere questo autentico simbolo americano. Invece quel giorno l'ho vista, respirata, toccata, calpestata. 

Mentre i miei compagni di viaggio consumavano  megabit di clik su quelle pietre di ferro rosso disegnate da Dio, su quella jeep facevo un po' di conti con la mia esistenza calcolandole l'IVA, l'IRPEF e tutto il resto. E' inevitabile, chiunque passi da qui si autorilascerà una ricevuta fiscale sul proprio cuore facendo pace con se stesso, rimettendosi in regola con l'Ufficio Tributi dell'anima.

In tal senso io sono stato un grande evasore fiscale, ma quel pomeriggio ho sanato i debiti perchè a Monument Valley ho pagato tutte le tasse alla mia coscienza. Il mio commercialista è stata Madre Natura.

Cpl. Rapisarda - 7th U.S. Cavalry Regiment (from Forth Apache)

 

 

non importa come si chiami l'architetto, ma qui lo dici davvero: Dio esiste!

 

https://www.mimmorapisarda.it/2022/212.jpg

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Non è un parco nazionale, in quanto parte della riserva Navajo, dunque territorio che appartiene ai nativi americani. La Monument Valley è l'icona degli Stati Uniti occidentali; si trova al confine tra Utah e Arizona in un'area isolata ed estesa che dista più di 70 km dalla cittadina più vicina: Kayenta. Cercate quindi qui un hotel dove pernottare, ve ne sono diversi, e fate rifornimento.

La strada che conduce alla Monument Valley nella parte terminale è altrettanto famosa: segue un percorso rettilineo in leggera discesa che dà al viaggiatore l'impressione di calarsi all'interno della valle, con i suoi panorami mozzafiato. La strada principale che conduce al luogo è la Highway 163: a destra e sinistra capita di notare cavalli selvaggi e le isolate abitazioni Navajo con i tradizionali Hogan, nonchè molti cani in libertà, quindi prudenza e attenzione a non fargli del male!
Il territorio è prevalentemente pianeggiante ad eccezione delle celeberrime formazioni rocciose dette butte o mesas, sfondo di moltissimi film western come il celebre Ombre Rosse di John Ford, fumetti come Tex, pubblicità. Se il buon tempo vi accompagna, da non perdere è il tramonto, altrimenti preferite il mezzogiorno. Sosta di rito nella Monument Valley è il mitico Goulding's Lodge, dove si fermavano John Wayne e gli altri grandi dei film western; potrete vedere la cabina dove alloggiava proprio John Wayne e naturalmente vi è anche un negozio di souvenir e un piccolo museo di vita western e di cinema, tutto gestito dai nativi americani.

 

 

 

 

 

 

(da un diario di viaggio) Forrest Gump descrive la Monument Valley come "il luogo nel quale non si distingue dove finisce la terra e comincia il cielo", ho avuto la fortuna di toccare con mano l'esattezza di questa sensazione al tramonto, quando il rosso della terra e delle rocce si confonde col rosso del cielo in uno spettacolo unico al mondo. Per gli appassionati di cinema, e non solo, Monument Valley è una tappa obbligatoria se si visita il sud-ovest degli Stati Uniti; situata a cavallo di due stati, Arizona e Utah, rappresenta un luogo sacro per gli indiani Navajo che abitano la zona. Attraversandola comprendiamo subito perché gli indiani l'abbiano eletta luogo sacro: gli enormi picchi di roccia (alti alcune centinaia di metri) che svettano dalla pianura sembrano giganteschi totem che, con un po' di fantasia, assumono sembianze di esseri viventi, da un gigantesco cammello ad un enorme elefante; le sfumature di colori che cambiano nell'arco della giornata, dal rosa al viola, ne conferiscono un ulteriore aspetto sovrannaturale.
Alla Monument Valley ci si può arrivare da sud (Kayenta) o da nord (Mexican Hat), l’ingresso è situato sulla statale 163 e bisogna pagare un pedaggio di due dollari e mezzo, essendo gestita direttamente dagli indiani i pass per la visita dei parchi (Golden Eagle, ecc.) qui non sono accettati. L’ingresso alle corriere è vietato, come è vietato entrare nel parco dopo le 19. Circa un chilometro dopo l’ingresso del parco arriviamo al Visitor Center (aperto tutti i giorni) da dove inizia la visita vera e propria. Da qui ci possiamo inoltrare, con la nostra macchina (attenzione: che non sia troppo bassa o lunga più di 9 metri, non riuscirete a percorrere la strada) in un percorso sterrato e tortuoso fra nuvole di polvere rossa, che per circa 30 chilometri ci accompagna fra le guglie della valle. Seguiamo le indicazioni della cartina che c’è stata consegnata all’ingresso, fermandoci ai piedi dei vari monumenti per gustarci la pace e la tranquillità del luogo. Soffermiamoci in particolare al John Ford Point un punto panoramico, che prende il nome dal grande regista, e scattiamo una foto sul cavallo (un dollaro) nel punto utilizzato in molte inquadrature di film western storici, tanto per sentirci un po’ John Wayne. Il percorso dura un minimo di due ore a una velocità di crociera di circa 20 chilometri orari.

Alcune zone del parco non sono accessibili ai mezzi privati e dovrete rivolgervi a guide Navajo per tour in jeep o minibus. Consiglio vivamente di partecipare ad un’escursione in jeep che vi consentirà di visitare luoghi altrimenti irraggiungibili (come archi naturali) e soprattutto di visitare villaggi indiani con le loro abitazioni tipiche (gli hogan: capanne di argilla e legno) e avvicinare gli indiani Navajo, solitamente restii. Le escursioni si possono prenotare al Visitor Center o direttamente dagli indiani che ve le proporranno all’interno del parco.

 

 


Il modo più emozionante per vivere la Monument Valley resta comunque quello dell’escursione a cavallo, la durata varia da due ore a due giorni con pernottamento sotto le stelle o in una tenda o ancora in un hogan, non importa essere esperti cavallerizzi (è consigliato anche ai bambini) occorre invece un grande spirito d’adattamento.
Esistono alcune regole di comportamento per la convivenza con gli indiani, innanzi tutto il rispetto di usi e costumi diversi dai nostri (penso che sia un consiglio inutile per chiunque dotato di un po’ di buonsenso), avere pazienza (gli indiani hanno ritmi molto diversi dai nostri) quindi mai avere e soprattutto fare fretta, mantenere il buon umore e essere gentili; una cosa da ricordare quando si parla con gli indiani è di non guardarli direttamente negli occhi e non fotografarli, gli potreste rubare l’anima (anche se devo dire che, spesso, per un dollaro questo principio può venire meno).

Passiamo ad alcuni consigli pratici: per il pernottamento potete trovare molte sistemazioni. Partiamo con l’unico hotel in prossimità del parco: il Goulding’s Lodge (dotato anche di campeggio).E’ l’hotel simbolo del luogo (qui hanno alloggiato i principali esponenti del cinema americano da John Ford a John Wayne fino a John Travolta), sede del Monument Valley Museum rappresenta un pezzo di storia americana, assolutamente da visitare anche se molto caro, economico invece il ristorante che propone ottime specialità Navajo con uno straordinario panorama.
Specialità indiane anche a Kayenta (40 chilometri a sud del parco) al Golden Sand ristorante caratteristico frequentato in maggioranza da Navajo, cucina semplice ed economica.
I posti migliori per pernottare, oltre naturalmente al Goulding, si trovano a nord della valle, a Mexican Hat o preferibilmente (se avete voglia di fare un’altra mezz’ora di macchina) a Bluff un grazioso paese western, dove oltre ad un paio di ottimi bed and breakfast (soprattutto il Calabre) si possono trovare alcuni motel, consigliamo il Mokee Motel, il cui proprietario, un cowboy grande e grosso con tanto di cappello a larghe falde, è di una gentilezza e cortesia unica, è lui che dopo aver telefonato a tutti i ristoranti di Bluff per conoscere i menù ci ha consigliato il Cow Canyon Trading Post, un delizioso ristorante, abbastanza economico ma con una cucina molto raffinata, dove per la prima volta dopo tanti giorni siamo riusciti a bere un ottimo bicchiere di vino.

 

 

 

(da un diario di Viaggio)  La Monument Valley è senza dubbio uno dei motivi principali per cui la gente decide di visitare il sud-ovest americano. Quale agenzia non ha almeno un poster della Monument Valley appeso in bella vista? Quante guide agli States hanno in copertina i mittens della Monument? Chi di noi non ha desiderato intraprendere un viaggio per poter vedere questi luoghi?
Raramente ho visto un posto tanto fotogenico. Non è difficile innamorarsi di un luogo così ancor prima di andarci ed è altrettanto facile sentirne la mancanza sfogliando il proprio album fotografico. Questa è un po' la magia della Monument Valley e non sono in molti quelli che riescono a sfuggirvi. La Monument Valley è dunque tutto questo e molto altro ancora. Per quanto riguarda la mia personale esperienza il "molto altro ancora" include molte cose positive ed alcune negative. Ma andiamo per passi.

La I-163
La cosa che senza alcuna ombra di dubbio mi è piaciuta di più della Monument Valley è stato arrivarci. La scenic byway I-163 che conduce all'ingresso della Monument è forse la più bella strada che ho percorso nel mio viaggio negli States ed ad essa ho dedicato tempo fà una recensione. Le ultime miglia prima della Monument sono qualcosa di unico che vi porterà decine di volte a fermare la macchina sul lato della strada per poter ammirare e fotografare i panorami. Arrivando da nord vi troverete i mittens e le altre formazioni rocciose della Monument che spuntano alla vostra sinistra in lontananza. Se non avvertirete un senso di deja vu, allora probabilmente avete vissuto da eremiti tutta la vostra vita. La sensazione di "sacralità" che si avverte passando per queste terre è qualcosa di unico ed il coinvolgimento emotivo è totale. Molte sensazioni si mescolano percorrendo questa strada e ricordi di cose viste al cinema si affiancano a pezzi di libri e a storie del vecchio west lette o sentite da ragazzi.

 

 

 

(diario di viaggio) La Monument Valley si raggiunge deviando verso sud-est lungo la I-163 imboccando una strada asfaltata che porta fino all'ingresso della Monument stessa. La deviazione si trova a circa 33 Km a nord di Kayenta o a 36 Km a sud di Mexican Hat. Appena lasciata la I-163 si passa per un breve tratto di strada letteralmente pieno di negozietti navajo ai lati della carreggiata. E' difficile resistere alla tentazione di fermarsi e non è una cattiva idea concludere qualche affare aiutando l'economia navajo.
Poche miglia dopo si arriva al vero e proprio ingresso dove si pagano 5$ a persona che permettono l'ingresso nella Monument un numero indefinito di volte nell'arco della giornata. Il giorno successivo ricordate che dovrete pagare nuovamente il biglietto.
Al visitor center otterrete tutte le informazioni necessarie ma se avete intenzione di approfondire la visita della Monument con un tour organizzato da guide Navajo, allora dovrete rivolgervi fuori dal visitor center ad un chioschetto apposito. I tour organizzati costano una trentina di dollari a persona e prevedono solitamente almeno il giro canonico della valle più un passaggio per la Hidden Valley (non accessibile con mezzi propri). Ricordate che i tour differiscono per durata e numero di cose da vedere. I tour più corti solitamente corrispondono a ciò che è possibile far da soli in macchina col vantaggio di andare in giro per la valle su un 4x4 che garantisce sicurezza sulla strada sterrata anche in caso di flash flood. I tour più lunghi invece danno la possibilità di visitare aree della valle altrimenti non accessibili e durano dalle 3 ore alla mezza giornata. I tour che mi proposero sembravano tutti del tipo mordi-fotografa-e-fuggi e quindi ho desistito. Il giro della valle può essere affrontato tranquillamente con una berlina ma attenzione alle condizioni meteorologiche variabili. Non deve essere bello trovarsi nel mezzo del giro impantanati nel rosso fango della Monument!

 

Per quanto concerne un possibile alloggio, consiglio vivamente l'Hampton Inn di Kayenta che per circa 100$ offre delle bellissime camere ed include la colazione nel prezzo. La piccola Kayenta offre anche un altro paio di alberghi oltre a alcuni fast-food ed altri negozietti. Un'altra soluzione potrebbe essere Mexican Hat che però per esperienza mi è sembrata veramente poco più di una ghost town. Ricordate che i pochi alberghi riempiono velocemente le camere e sarebbe consigliato prenotare con un certo anticipo anche perché in zona non c'è quasi nulla oltre a Kayenta e Mexican Hat.
Il giro in macchina
All'entrata vi sarà consegnato un foglio di carta con una mappa del giro da fare ed alcune informazioni sulla Monument Valley. Tra queste mi sembra il caso di menzionarne una che altrimenti potrebbe causare qualche problema: mentre l'Arizona segue l'ora solare tutto l'anno, la Navajo Nation segue l'ora legale da Aprile ad Ottobre. Questo significa che in questo periodo in territorio navajo (Kayenta compresa!) vi troverete un'ora davanti a altre città dell'Arizona come Flagstaff, Page, Phoenix o al Grand Canyon tanto per citarne alcune.

 

 

Tornando al tour, parafrasando Henry Ford (che presentando la sua macchina diceva "Il cliente può richiedere il colore che vuole purché sia nero"), alla Monument potrete scegliere il percorso che preferite purché sia quello obbligatorio. Se venite da settimane passate nei parchi nazionali in massima libertà, qui vi sentirete bruscamente forzati ma ricordate sempre di essere in casa navajo e di dover rispettare le loro regole.

Di base il tour consiste in 11 view points corrispondenti sostanzialmente ad altrettante formazioni rocciose. Passerete all'inizio per i famosissimi Mittens e Merrick Butte per poi ammirare il John Ford's Point e altre bellissimi viste della Momument. La mia vista preferita è probabilmente quella che si gode dal view point di The Hub, guardando però in direzione del Thunderbird Mesa. Da qui si vede la Monument che si apre e si ha forse la migliore idea possibile di come dovessero essere questi luoghi quando erano ancora incontaminati.

Mi raccomando di non perdere il tramonto alla Monument quando i colori di rocce, terra e cielo si incendiano e diventando quasi irreali
Concludendo, il giro è interessante ed in un paio d'ore si completa. La sensazione lasciatami è stata di parziale insoddisfazione. Grandi, grandissimi scenari ma troppa poca libertà di esplorare nonostante fossi perfettamente conscio del rispetto dovuto alla privacy indiana. La cosa che forse mi è piaciuta di più è stato l'avvicinamento lungo la I-163.
Nonostante queste sensazioni "in loco", la Monument rimane tra i luoghi che più mi mancano guardando le foto del viaggio e ripensando a quei momenti. Questa, come dicevo all'inizio, è la magia di questo posto dove la rossa terra si innalza verso il blu del cielo e la vita sembra sospesa tra l'una e l'altro mentre il tempo non passa mai.

 

IL TOUR E LA MAPPA DELLE FAMOSE MITTENS

 

Gli undici view point  1.The Mittens & Merrick Butte  2.Elephant Butte  3.Three Sisters   4.John Ford's Point   5.Camel Butte   6.The Hub
7.Totem Pole & Yei Bi Chei  8.Sand Springs   9.Artist's Point    10.North Window  11.The Thumb

 

Broom snakeweed, a low shrub with numerous small, yellow flowers.

QUANTE VOLTE ABBIAMO VISTO NEI FILM WESTERN QUESTI CESPUGLI DISSEMINATI LUNGO LE VALLI DEL WEST?

TRATTASI DEL  "BROOM SNAKEWEED" (Gutierrezia sarothrae)

 

 

 

 

 

 

E' stato il regista John Ford a rendere famosa questa zona. Intorno agli anni 30 Ford scopri' la valle che in seguito divenne lo scenario indiscusso dei film western piu' famosi come Il massacro di Fort Apache o Ombre Rosse. Una curiosita': i Navajo non osservano l'ora legale per cui nei loro territori vale sempre e solo l'ora solare. Una strada lunga 25 chilometri non asfaltata si insinua tra i giganteschi massi rocciosi sparsi in pieno deserto. La visita di puo' effettuare con la propria auto oppure con le jeep degli indiani che abbinano al tragitto negli sterrati un commento in un inglese molto poco comprensibile. E' un paesaggio di incredibile bellezza che raggiunge il suo massimo splendore nel tardo pomeriggio quando le ombre iniziano ad allungarsi e l'oscurità scende su questo rosso mondo incantato.
Clima: estati molto calde con temperature intorno ai 40 gradi. Accessi al parco: unico accesso dalla strada 163 chiamata anche Navajo Road
 

 

 

 

di Alessandro de Giorgi

Un viaggio da sogno? No. Un viaggio da favola? Neppure. Un viaggio da cinema? Esatto. Se siete appassionati di grande schermo, sul comodino tenete il santino di John Ford e avete sempre sognato di visitare il Far West e dintorni, questo è il viaggio che fa per voi. Una cavalcata nel lontano Ovest americano, fra paesaggi da urlo e le tracce dei più prestigiosi set della storia del cinema. Prendetevi un paio di settimane di ferie, e seguiteci. Si parte, ovviamente, da Los Angeles, la mecca. Una visitina agli studios di Hollywood, tanto per gradire, e poi via verso Santa Monica, magari passando per l’osservatorio posto dentro Griffith Park, una location che ha ospitato scene di “Gioventù Bruciata” e “Terminator”.

Perché visitare i teatri di produzione è divertente, ma molto più chic e originale scoprire gli “esterni” dove hanno preso luce e forma le pellicole da leggenda. Nei dintorni di Santa Monica, ad esempio, a Rancho Las Virgenes, nel 1927 la Paramount comprò 2400 acri di terreno, trasformandoli nel Paramount Ranch. Qui, sullo sfondo delle montagne californiane, hanno “girato” e recitato Cecil B. DeMille e John Ford, Gary Cooper e Marlene Dietrich, Cary Grant, Henry Fonda, Glenn Ford, John Wayne e Diane Keaton, in pellicole come “Il Virginiano”, “Sfida all’Ok Corral”e “Reds”. Dopo gli Anni 50 il ranch è stato usato anche da produzioni televisive come “Rin Tin Tin”, “Hazard”, “Mash” (quest’ultima soprattutto nella zona di Malibù Creek) e “Charlie’s Angels”. Finito di curiosare, mettere il timone verso nord-est, e dirigersi verso la Valle della Morte, nel cuore del magnifico e per certi versi terribile parco nazionale, dove sarà bene arrivare all’alba o – meglio – al tramonto. Distese di sabbia come nel Sahara, campi di sale pietrificato, picchi impressionanti alti fino a 4000 metri, canyon dai mille colori, temperature che d’estate raggiungono facilmente i 60 gradi. La varietà dei paesaggi offerti da questo incredibile ed estesissimo lembo di terra, visitato ogni anno da milioni di turisti (prenotate in anticipo a Furnace Creek o a Panamint Valley), ha ospitato praticamente ogni genere di pellicola. Ricordate la scena di “Guerre Stellari” in cui Luke Skywalker contempla la pianura con il suo binocolo a infrarossi? E’ stata filmata poco a sud di Furnace Creek, a Stovepipe Wells, mentre da Dante’s View (occhio a non salire per i ripidi tornanti durante le ore più calde, o rischiate di giocarvi il radiatore!) sempre Luke e Obi Uan Kenobi contemplavano le lontane frontiere “aliene”. Non ci sarà bisogno invece di spiegare agli appassionati di Michelangelo Antonioni cos’è Zabriskie Point.

Prima davanti al cartello, e poi di fronte allo spettacolo fantasmagorico delle rocce sedimentarie che disegnano un paesaggio lunare, a pochi chilometri da Furnace Creek, potranno rivivere le emozioni del capolavoro datato 1970 del maestro ferrarese. Reno, nel Nevada, è decisamente fuori mano rispetto al nostro itinerario, ma se siete appassionati de “Gli Spostati”, il film maledetto che riunì Marylin Monroe, Clark Gable e Montgomery Clift, potete arrivare fin lassù e dare un’occhio a Pyramid Lake, dove fu girata la scena dei cavalli selvaggi. Non lontano, vicino a Carson City, sulla Route 28 costeggiando il lago Tahoe potrete invece trovare il ranch che ha ispirato “Bonanza”. Las Vegas vale invece sicuramente una visita, innanzitutto per il divertimento e poi per scoprire qua e là le location de “Il Cavaliere elettrico” (1979) con Robert Redford e Jane Fonda, o “Un Uomo da marciapiede” (1969, con Jon Voigt e Dustin Hoffman) o ancora “Urban Cowboy” (1980, con John Travolta). Il vero cuore del sogno americano a 35 mm, quello che è stato ribattezzato “Il paese di John Ford”, è però senza dubbio la Monument Valley. Qui, in mezzo alle incredibili cattedrali di roccia rossa (visitatele al tramonto, è un ordine!) che sorgono improvvise al confine fra Arizona e Utah, vi sen tirete davvero dentro un film, specie al “John Ford Point”. Emozione pura. L’elenco dei western e dei film girati in questo angolo di Paradiso è infinito, da “Ombre Rosse” a “Sentieri Selvaggi” (ricordate che panorami mozzafiato, uscendo con John Wayne da quelle case nella prateria?), da “Soldati a cavallo” a “I dannati e gli eroi” a “Sfida infernale”. O ancora, uscendo dall’ambito western, “I dieci comandamenti”, “2001- Odissea nello spazio”, “Easy Rider”, “Ritorno al futuro”, “Indiana Jones e l’ultima Crociata” (non perdetevi la visita guidata con gli indiani nei recessi più nascosti della valley), fino a “Forrest Gump” e alla sua corsa sulla statale 163, appena a sud di Redland Pass. 

Nel Canyon de Chelly, quasi al confine fra Arizona e New Mexico Sono stati girati “Il grande paese” e “L’oro dei Mckenna” mentre nella vicina riserva degli indiani Hopi è stato realizzato “La collina del demonio”. Se invece vi hanno emozionato “Butch Cassidy , “Getaway” e “La più grande storia mai raccontata” allora il vostro posto è lo Utah. John Ford ha girato qui, a Professor Valley, nella zona di Moab, il suo “Rio Grande”, Steven Spielberg “Indiana Jones e il tempio maledetto”, nello strepitoso parco di Arches dove Sergio Leone ha diretto alcune scene di “C’era una volta il West”. Attorno a Moab è stato filmato anche quasi tutto “Thelma e Louise”: la scena finale, quella del salto nel canyon delle due protagoniste braccate dall’elicottero della polizia ha come scenografia uno strapiombo sotto Dead Horse Point, sul Potash Trail (seguite la state route 279 verso ovest per 15 miglia). I manichini usati per la scena sono conservati negli uffici della Moab to Monument Valley film Commission. Se invece vi ha commosso la scena in cui Paul Newman, in “Butch Cassidy”, porta sulla canna della bicicletta Katharine Ross con in sottofondo “Raindrops keep fallin’ on my head” di Burt Bacharach, fiondatevi a Grafton, sul Virgin River, vicino allo Zion Park (6 miglia a ovest di Springdale sulla state route 9). Anche il Colorado, fra Boulder, Gunnison e Durango, ha offerto molte delle sue valli e dei suoi canyon a pellicole cult, da “Viva Zapata” a “Il Dormiglione”, da “Cat Ballou” a “Il Grinta”, ma siccome il tempo (e le righe) ormai scarseggiano, vi suggeriamo solo un sopralluogo: a Estes Park, circa 30 miglia a nord di Boulder, sulla Us numero 36. Troverete un vecchio hotel vittoriano, lo Stanley Hotel, dove da giovane lavorò un certo Stephen King. Il nome non è quello del film (Overlock), ma se il titolo “Shining” vi dice qualcosa, non arrivateci con un maggiolino Volkswagen…

 

 

 

 

 

 

Regista statunitense. Di etnia irlandese, a diciott'anni, lascia la fabbrica in cui lavora e raggiunge il fratello maggiore, Francis, già impegnato come attore e regista a Hollywood, assumendo il nome di John, che subito cambia in Jack, mutando anche il cognome in Ford. Come Jack F. dirige, tra il 1916 e il 1923, una serie di film d'avventura per la Universal, in particolare molti two reels con H. Carey. Riprende il nome John per dirigere Il cavallo d'acciaio (1924), un western di grande successo che già rivela un'alta padronanza del mezzo. Tra due rulli, medi e lungometraggi sono decine i film che il giovane F. firma. Quattro anni dopo, nel 1928, realizza L'ultima gioia (insulso titolo italiano di Four Sons), con il quale vince il premio per il miglior film dell'anno. L'avvento del sonoro non intacca minimamente la sua prolificità. Gira una serie di film d'avventura, fino a che non torna a segnalarsi con La pattuglia sperduta (1934), cui fa seguito Il mondo va avanti (1934), gustosa parodia del genere gangster appena agli inizi ma già in gran voga. L'anno successivo ottiene l'Oscar per Il traditore (1935), un'opera che mette in scena la rivolta irlandese, la cui drammaticità appare accentuata dalla scelta di una cifra stilistica palesemente intrisa di tonalità espressioniste. Gira poi, tra gli altri, un notevole Maria di Scozia (1936) e un avvincente mélo di ambientazione caraibica, Uragano (1937). Nel 1939, esattamente a quindici anni di distanza dal suo western più acclamato dell'epoca del muto, con Ombre rosse realizza uno dei capolavori della storia del cinema, e si avvia a diventare il più grande regista dei film della Frontiera. Una diligenza in fuga, inseguita da un'orda di apaches, mentre scorrono visioni sfolgoranti della celeberrima Monument Valley: tratto da un breve racconto di E. Haycox, e forse vagamente ispirato a Boule de suif di Maupassant, nella memoria storica dello spettatore Ombre rosse si identifica tout court con il genere western, di cui rappresenta una svolta decisiva. Anzi, per la sua originalità, per il suo metro stilistico, per il profilo esistenziale dei personaggi, si presenta come il paradigma del western a venire. Lo sguardo di F. esplora il microcosmo che popola la diligenza, luogo topico della vicenda, senza complicità: una prostituta, un medico alcolizzato, un baro di professione, un banchiere ladro, un venditore di liquori, la moglie incinta di un ufficiale di cavalleria (che partorirà lungo la strada), uno sceriffo e un fuorilegge raccolto lungo il cammino; donne e uomini soli diversi, gettati in un ambiente estraneo e ostile, di cui vengono messi a nudo le debolezze, le paure, gli eroismi inaspettati. Mai prima di quest'opera straordinaria i caratteri degli uomini della Frontiera erano stati così nettamente delineati. Mentre con Ombre rosse guadagna un altro Oscar, F. si avvia a diventare il poeta dei grandi spazi, ma anche dei sentimenti, dei drammi, dei piccoli eroismi quotidiani. Tenace, metodico, a volte aspro, ma anche tenero, appassionato e ironico, alla fine della carriera avrà frequentato quasi tutti i generi, e la sua filmografia consisterà di oltre 150 titoli. Intanto la sua vena non accenna a esaurirsi.

Gira subito Alba di gloria (1939) e La più grande avventura (1939), e immediatamente dopo un altro dei suoi maggiori film, Furore (1940), tratto dal romanzo di J. Steinbeck. Un'opera singolarmente dura nel panorama fordiano – a volte incline al conformismo – una denuncia del disastro sociale e degli scenari di miseria indotti dalla depressione seguita alla grande crisi del '29. Di un livello inferiore appaiono Viaggio senza fine (1940) e La via del tabacco (1941), mentre si rivela più ispirato Com'era verde la mia valle (1941). La guerra per tre anni interrompe l'attività del regista, mobilitato come ufficiale e addetto alle riprese di materiale di propaganda e di documentazione (notevoli The Battle of Midway, 1942, e We Sail at Midnight, 1943). Ferito da una scheggia, decorato e congedato, ritorna al western nel 1946, realizzando Sfida infernale, un autentico capolavoro. Tema portante del film è la vendetta, con relativo scontro finale che scioglie l'intreccio.

 Ma il vero fulcro dell'opera risulta il personaggio interpretato da un magistrale H. Fonda (un Wyatt Earp pacato, tranquillo e al tempo stesso determinato): una figura quasi antifordiana, per così dire, che si trova al centro di un'opera felicemente sospesa tra epica e romanticismo. Indimenticabile la sequenza in cui Fonda/ Earp danza con il mantello della sua dama appoggiato sul braccio: è dapprima impacciato, intimidito, ma presto si lascia prendere dal ballo con grande eleganza; lo sguardo quasi adorante e insieme malizioso della donna viene in primo piano e invade lo spazio con una forza emotiva coinvolgente. Seguono altri western memorabili, in particolare Il massacro di Fort Apache (1948), I cavalieri del Nord-Ovest (1949), Rio Bravo (1950), che vanno a formare una trilogia dedicata alla cavalleria, particolarmente amata. Non amava, però, l'eroismo folle dei guerrafondai, come il famoso generale Custer, cui somiglia il colonnello testardo e tronfio, completamente privo di esperienza, che finisce massacrato insieme con i suoi uomini in Il massacro di Fort Apache. Peraltro, in questo primo titolo della trilogia F. non lesina quell'ironia, quel delizioso umorismo, quella definizione degli ambienti che sono tratti costanti del suo cinema. Qui H. Fonda e J. Wayne sono direttamente a confronto. Ma le parti sembrano invertite: Fonda è caparbio e sprezzante, mentre Wayne – solitamente calato nella parte dello yankee a tutto tondo – veste i panni problematici di un ufficiale che sembra avere rispetto per i nativi americani. Wayne riprende qualche anno dopo il suo ruolo di cavaliere senza macchia e senza paura, coriaceo, solitario, specchio delle «virtù» americane, in un altro caposaldo del western, Sentieri selvaggi, girato nel 1956, dopo incursioni di F. in altri generi, tra i quali la commedia – con gli splendidi Un uomo tranquillo (1952) e Il sole splende alto (1953) – e il dramma – con La lunga linea grigia (1955). Senza abbandonare quello che è stato considerato il genere principe del cinema americano, frequenta altre forme della narrazione filmica, come nel drammatico Le ali delle aquile (1957), nell'antirazzista L'ultimo urrà (1958), nel poliziesco 24 ore a Scotland Yard (1958), oppure nella sapida commedia I tre della Croce del Sud (1963), ma è ancora nei paesaggi – reali e mentali – dell'amata Frontiera che la sua tempra di inarrivabile artigiano della settima arte continua a esaltarsi e a innovarsi.

Non a caso, dopo aver magistralmente contribuito a codificare il genere, sul finire della carriera apre la strada anche al filone «revisionista», quello filo-pellerossa (il cui prototipo è rappresentato da L'amante indiana, 1950, di D. Daves), che investe il western cosiddetto «crepuscolare» degli anni '60/'70. Infatti, dopo aver reso un altro omaggio alla cavalleria del Sud-Ovest con Soldati a cavallo (1959), realizza Cavalcarono insieme (1961), questa volta affidando le parti principali a J. Stewart e R. Widmark, l'uno un attempato sceriffo, l'altro un giovane ufficiale, che devono riportare a casa alcune donne bianche rapite anni prima dai comanches. Il fatto che alcune di queste, ormai integrate nella vita della tribù, rifiutino di tornare al mondo «civilizzato», la dice lunga sulla decisione del regista di rinunciare a J. Wayne. L'anno seguente, in L'uomo che uccise Liberty Valance (1962), ultimo capolavoro di F., Wayne ritorna, accanto a J. Stewart, con il suo profilo di uomo duro e generoso, segnato però da un rivolo di malinconia, da una vena di sofferenza solitaria, cui il tocco fordiano conferisce ancora una volta quella sorta di tristezza epica che incarna la potenza del mito e della leggenda. Anche Il grande sentiero (1964), film per la verità poco riuscito, è un tentativo di riscattare i nativi americani, questa volta gli Cheyennes. F. gira il suo ultimo film, Missione in Manciuria, nel 1966.

 

FAMOUS LOCATION

 

 

 

 

 

 

Claudia Cardinale in calesse in una scena di "C'era una volta il West" del grande Sergio Leone, il Ford di casa nostra.

 

 

 

 

 

 

Gli indiani ringraziano John Ford: ricchi e felici con i suoi capolavori
Roberta Pasero
da Monument Valley
È notte di luna piena alla Monument Valley e al calar della sera si allungano le ombre rosse sulla terra infuocata d'arancio. Le pietre monolitiche s'illuminano dei raggi di luna: diventano ombre d'argento, poi ombre blu, poi nere, il silenzio si fa più forte e tutto si trasforma in batticuore. Ma questo non è un film. Questa non è Hollywood, anche se per anni, tanto tempo fa, Hollywood qui ha raccontato i suoi sogni  più belli, questa è la Monument Valley, è la Navajo Land. Questa è la terra delle ombre lunghe attraversata dal confine di due Stati, Utah e Arizona, giusto a ovest della frontiera tra Colorado e New Mexico, "dove lo spazio è abbastanza e il tempo è abbastanza", come usano dire gli indiani nativi e dove le tre sorelle, il re sul trono, la roccia dell'aquila, la proboscide dell'elefante, la diligenza e tutte le altre rocce di sabbia indurita dal tempo ad ogni sguardo assomigliano sempre a qualcosa, a qualcuno, ad altro.
"Yà àt èèh!", welcome, benvenuta. Ha la pelle bruciata dal sole e gli occhi neri nascosti dal cappello di pelle Ashley Echohawk, una delle guide indiane che conduce i visitatori tra le pieghe del deserto, che narra i segreti di una terra per milioni di anni abbandonata al suo destino prima che gli indiani Anasazi e i Navajo le dessero vita e che il cinema, soprattutto, le facesse fare il giro del mondo.

 "La fortuna della Monument Valley cominciò negli anni Venti, cominciò con i Goulding, Harry, un commerciante di pecore del Colorado, e la sua giovane moglie Leone, detta "Mike", racconta Echohawk arrotolando le foglie di tabacco. "Furono i primi bianchi ad installarsi qui e a fare piccoli commerci con gli indiani: loro ci procuravano farina e riso per non morire di fame e noi in cambio pagavamo con i tappeti e i gioielli d'argento e turchesi, come quelli che ancora adesso fanno le nostre donne. Vede laggiù quella costruzione di mattoni rossi? Era il loro trading post, quello che oggi è diventato il museo di questa vallata, la nostra memoria storica".

Ma vennero gli anni della Grande Depressione e gli affari dopo qualche tempo non bastarono più per vivere anche in una terra dove non c'erano troppe distrazioni, così Harry Goulding ebbe un'idea: cosa c'era di meglio come scenografia di quelle montagne rosse che aveva imparato a conoscere roccia per roccia? "Così un giorno del 1938 partì per Hollywood per tentare l'ultima carta", ricorda il nativo americano navajo. "Si presentò agli Studios, domandò di Mr. Ford, di John Ford, ma il regista non c'era. Non si perse d'animo, ma lo attese per tre giorni e tre notti davanti al suo ufficio e quando Ford finalmente arrivò Goulding gli mostrò alcune foto della Monument Valley. Per il regista fu un colpo di fulmine, quello era il posto che aveva sempre cercato. Così tre giorni dopo arrivarono cento persone della troupe e il mese successivo stava già girando proprio qui tra queste montagne il suo capolavoro Ombre rosse".
Indica il John Ford Point, ormai segnato anche sulle cartine stradali, dove il regista amava ritirarsi in solitudine per studiare le inquadrature, per rivedere il copione, per immaginare il percorso di indiani, fuorilegge e diligenze in un set che non aveva certo bisogno di effetti speciali.

 Ombre rosse fu la prima pellicola sonora di una lunga interminabile serie girata qui (la prima in assoluto fu il film muto del 1925 The Vanishing American di George B. Seitz), e grazie anche alla Monument Valley vinse due Oscar e John Wayne venne acclamato divo. E John Ford decise di girare qui nel corso degli anni altri sei film: Sfida infernale, Il massacro di Fort Apache, I cavalieri del Nord-Ovest, La carovana dei mormoni, Rio Bravo, I dannati e gli eroi, Il grande sentiero.
Inquadrature che rivivono nella Film Room del museo, un tempo utilizzata dalle troupe per collocare pellicole, macchine da presa e tutto quanto serviva per girare e ora dedicata alle memorabilia cinematografiche, dalla sedia da regista di John Ford ai ciak, dai poster agli oggetti immortalati in decine e decine di film.

"Da allora la nostra vita qui alla Monument Valley si trasformò" spiega Ashley Echohawk. "Il cinema ci aveva portato la ricchezza, ci fece cambiare vita: molti indiani cominciarono a fare le comparse nei film e i nostri amici Goulding investirono i guadagni costruendo il general store, il motel, la pompa di benzina, la scuola, il ristorante, insomma una vera e propria cittadina che ha permesso a noi Navajos di sopravvivere e di lavorare nella nostra terra e che ancora oggi ci consente di vivere dignitosamente".
Non una città di cartapesta, costruita per esigenze di copione, ma un vera e propria cittadella fatta di costruzioni rosse come i pinnacoli delle rocce monolitiche che l'avvolgono, che senza il cinema non sarebbe mai esistita. Perché, come diceva John Ford, raccontando come mai era rimasto folgorato dalla Monument Valley, "l'attore protagonista di tutti i miei film western che ho girato qui, la vera star, è stata la terra, nient'altro che la terra". La terra delle lunghe ombre rosse.

 

 

 

 

 

 

 

il  nome Navajo deriva dal termine Navahuu che in lingua Tewa, parlata da alcune popolazioni del sud ovest, significa Campo coltivato in un piccolo corso d'acqua. In lingua Navajo si usa il termine Diné (talvolta citato nella letteratura come Dineh) che significa Il popolo.

Dal punto di vista etnico i Navajo appartengono al ramo Athabaska meridionale, originario dell'Alaska e del nord del Canada e in realtà appartengono all'insieme delle nazioni Apache che intorno al 1500, provenienti dal nord, si stanziarono in un vasto territorio che si estende dall'Arizona al Texas occidentale e dal Colorado al nord del Messico entrando in conflitto con le popolazioni Pueblo che vivevano in quei territori. A differenza delle altre popolazioni amerindie gli Apache non avevano una sola identità di nazione o tribù, ma erano distinti in clan o gruppi familiari estesi, fondati su base matrilineare (gli uomini andavano a vivere presso la famiglia della sposa). Ciascun gruppo si considera una nazione.

Dal punto di vista linguistico appartengono al ramo Na-dené, la stessa tipologia linguistica degli Athabaska del nord e degli Apache in senso stretto.
I Navajo discesero dalle regioni fredde dell'America settentrionale e si insediarono, poco prima del contatto con gli Europei nel bacino del San Juan, affluente del fiume Colorado, intorno al 1500 in parte dei territori degli attuali Colorado, Nuovo Messico e Arizona. Da popolo di invasori si trasformarono in una nazione seminomade vivendo principalmente di agricoltura e secondariamente di allevamento. Col passare del tempo questa attività li distinse culturalmente dal resto degli Apache, dal momento che le altre popolazioni indiane e gli spagnoli identificavano i Navajo come una tribù di abili coltivatori.

Una prerogativa condivisa con il resto delle popolazioni Apache era il frequente ricorso alla razzia ai danni di Europei e Pueblo allo scopo di incrementare la proprietà in cavalli e pecore. Contrariamente a quanto si racconta nell'epopea western, gli Apache e i Navajo non avevano il culto della guerra e del coraggio e nella loro struttura sociale mancavano associazioni assimilabili a società di guerrieri come nelle popolazioni delle Grandi Pianure: i fatti di guerra consistevano in realtà in razzie e azioni di guerriglia tese a sfuggire alle rappresaglie. Il valore individuale nella cultura Apache e dei Navajo si misurava non nell'atto di coraggio bensì nell'efficacia della razzia e nell'entità dei beni posseduti (cavalli e bestiame). La guerra pertanto assumeva i caratteri di una tattica di guerriglia in cui si evitava lo scontro fine a sé stesso, ma solo dettato dalla necessità di giungere ad uno scopo economico.

La struttura sociale delle nazioni Apache e dei Navajo, polverizzata in gruppi familiari estesi senza livelli di organizzazione di grado più alto, il rifiuto della guerra aperta, il ricorso alla razzia come attività economica resero queste popolazioni avversari difficili per gli Stati Uniti e in effetti furono tra le ultime nazioni indiane ad arrendersi definitivamente.

In prossimità della Guerra di secessione americana, il governo degli Stati Uniti per garantirsi l'appoggio dell'Arizona e del Nuovo Messico decise di porre fine al problema delle razzie e di confinare le popolazioni più bellicose, in particolare i Mescalero e i Navaho a Bosque Redondo, una riserva del Nuovo Messico. L'operazione con i Navajo, di cui fu incaricato il colonnello Christopher Carson, si sarebbe dovuta svolgere pacificamente per mezzo di trattative, tuttavia la difficoltà di trattare con un'organizzazione sociale polverizzata e dispersa in un vasto territorio portò allo scoppio di una campagna di guerra durata quasi un anno (1863-1864). Il risultato fu una tragedia: agli oltre 1000 caduti durante la guerra si aggiunse la deportazione a piedi di circa 8000 Navajo verso Bosque Redondo con una marcia forzata di 300 miglia, nel corso della quale persero la vita le persone più deboli.

Il confinamento a Bosque Redondo, durato 5 anni, è segnato come la pagina più nera della storia dei Navajo. La riserva era ubicata in un territorio malsano, quasi privo di vegetazione e poco vocato all'agricoltura. I rifornimenti di vettovaglie da parte dell'esercito erano scarsi e di cattiva qualità ed erano frequenti gli scontri con i Mescalero, con i quali si condivideva il confinamento.

Il ritorno ai territori d'origine segnò una drastica mutazione nella storia dei Navajo. La popolazione tornò all'attività agricola ma intensificò l'allevamento, l'artigianato (in particolare la tessitura e la lavorazione dell'argento) e cessò con le razzie. Diversi Navajo integravano il reddito, quando non era sufficiente, con il lavoro salariale. Il nuovo corso fu così favorevole che la ricchezza dei Navajo crebbe a livelli tali da spingere il governo degli Stati Uniti a regolamentare l'incremento dei capi di bestiame allevati a causa dell'eccessivo numero.

Il popolo dei Navajo conta oggi circa 250.000 persone e costituisce il gruppo etnico più numeroso fra i nativi americani, stanziato in un territorio del nord est dell'Arizona. Il territorio dei Navajo, che supera in estensione ben 10 dei 50 stati degli USA, gode di autonomia amministrativa e la nazione rappresenta uno dei pochi esempi di conservazione di una forte identità amerindia all'interno della società statunitense. Pur mantenendo vivi i propri valori (lingua, cultura, tradizione), i Navajo si sono adattati al progresso nell'ultimo secolo organizzandosi in una struttura sociale autonoma moderna e integrata come nazione all'interno di una nazione.

Uno degli elementi di vanto dei Navajo come cittadini americani fu l'uso della lingua dei Navajo come codice di comunicazione durante la seconda guerra mondiale e il fondamentale apporto dato ai risultati delle battaglie dell'esercito americano contro i giapponesi da parte dei "code talkers" Navajo (letteralmente "coloro che parlano il codice").

Durante la seconda guerra mondiale un codice segreto delle forze armate americane, mai decodificato dal controspionaggio giapponese, era basato sul linguaggio navajo, una lingua complicata e a quel tempo praticamente sconosciuta in tutto il mondo, al di fuori degli Stati Uniti.

(fonte: Wikipedia)

 

 

 

 

Le guerre dei Navajo

Come gli Apache che li avevano preceduti due secoli secoli prima, anche i Navajo si staccarono dagli altri popoli del ceppo atapascano, abitanti l'odierno Canada, per emigrare verso il Sud-Ovest. La data approssimativa dell'arrivo dei Navajo nel territorio compreso tra i tre fiumi, Rio Grande, San Juan e Colorado, è quella del 1050 d. C. Come gli Apache, i Navajo erano in origine un popolo nomade e guerriero, che integrava il suo sostentamento ottenuto con la caccia, anche con incursioni contro i Pueblo prima, e poi anche contro gli spagnoli.

 
 Al contrario degli Apache il loro modo di vivere e la loro economia si modificavano a seconda del contatto con i Pueblo e con gli spagnoli: infatti adottarono certe attività come la tessitura, la ceramica e l'agricoltura, dagli indigeni che a volte vivevano in mezzo a loro. Inoltre, i Navajo non mangiavano subito le pecore che ottenevano con le scorrerie sugli spagnoli, come facevano invece gli Apache, ma le allevavano per ricavarne, oltre al cibo, anche la lana, diventando dei veri esperti allevatori. I Navajo avrebbero potuto così mantenersi autonomamente, ma restavano comunque un popolo primitivo. Quando i messicani si spinsero verso nord in frequenti scorrerie contro i Navajo per rapire bambini da vendere come schiavi, i Navajo reagirono energicamente e si vendicarono con incursioni ai villaggi messicani. E questo ciclo continuò con soldati messicani che arrivarono per punirli e Navajo che lasciavano i loro villaggi per riprendere poi la vita di predoni non appena i soldati si ritiravano. Quando nel secolo XIX i giovani Stati Uniti cominciarono a portare molta attenzione verso l'Ovest si ebbero le prime agitazioni con il Destino Manifesto, e i Navajo attaccarono gli esploratori e i mercanti anglo-americani che invadevano il loro territorio attraverso le vie di Santa Fe e di Gila. Poi, durante l'usurpazione e l'occupazione del Sud-Ovest da parte degli americani, i Dine, che era il nome usato dai Navajo e che voleva dire "la gente", sfidarono l'esercito degli Stati Uniti.
Nel 1846, durante la Guerra Messicana provocata dall'annessione del Texas agli Stati Uniti, il colonnello Stephen Kearny guidò un esercito di 1.600 uomini lungo il Sentiero di Santa Fe verso la provincia messicana del Nuovo Messico. Durante la conquista delle città messicane, tra cui Santa Fe, Kearny informò gli abitanti, sia messicani che inglesi, che in futuro sarebbero stati protetti come cittadini degli Stati Uniti, contro gli indiani che invece sarebbero stati puniti per qualunque azione compiuta contro di loro.
I navajo, che come indiani non vennero considerati cittadini, non ottennero le stesse protezioni contro le continue razzie che eseguivano i messicani per avere schiavi, e anzi il risultato di questa assoluta mancanza di giustizia fu che i nuovi conquistadores iniziassero presto campagne militari contro gli indiani.
Il colonnello Doniphan organizzò i suoi volontari del Missouri in tre colonne con un totale di trecento uomini. I Navajo non avevano ancora mostrato ostilità contro le truppe americane, che queste cominciarono le operazioni, adducendo la ragione che gruppi di Navajo continuavano a rubare bestiame dai villaggi Pueblo e messicani. Le truppe di Doniphan passarono dei momenti difficili nelle alte zone del basso Plateau del Colorado durante i mesi invernali. Pochi Navajo si fecero vedere e l'operazione di Doniphan si ridusse in un'esercitazione di sopravvivenza contro la stagione rigida come nemico. I Navajo si resero conto di quanto stava accadendo, in quanto i loro esploratori riferivano che gli americani erano venuti per restare. Firmarono un trattato quell'anno e un altro nel 1849.
La situazione delle razzie e controrazzie continuava comunque, e dal 1850 in poi i militari lanciarono una serie di campagne non decisive contro i Navajo. Il fulcro della contesa tra esercito e indiani era rappresentato dal terreno da pascolo intorno a Fort Defiance in una valle alla fine del Canyon Bonito. I soldati volevano il terreno per i loro cavalli e siccome i Navajo continuavano ad usarlo come facevano da generazioni, i soldati cominciarono a sparare contro gli indiani che razziavano le mandrie dell'esercito per recuperare le loro perdite. Il 30 aprile 1860 i Navajo guidati da Manuelito e il suo alleato Barboncito, assediarono Fort Defiance e quasi conquistarono il posto, prima di essere respinti. Per vendicarsi il colonnello Edward Canby condusse le truppe nelle montagne Chuska in cerca dei Navajo. Questi attaccarono la colonna di fianco e fuggirono prima del contrattacco dei bianchi. Era un insuccesso dei bianchi, ma siccome gli indiani volevano badare ai loro campi e ai loro greggi per assicurare cibo al popolo, i capi dei Navajo furono d'accordo nel trattare una tregua che fu raggiunta nel 1861.
La fine della tregua, che durò ben poco, fu determinata da un incidente verificatosi durante il periodo della Guerra Civile, in occasione di una corsa di cavalli a Fort Fauntleroy. I Navajo sostennero che un soldato aveva tagliato le redini di un loro cavallo, ma i giudici militari non vollero ripetere la corsa. Gli indiani si ribellarono, vennero bombardati e dodici di loro furono uccisi.
Nel frattempo truppe confederate e dell'Unione combattevano per il Nuovo Messico e verso la primavera del 1862 le giubbe grigie erano state cacciate dalla regione e le giubbe blu, cioè la colonna californiana, erano giunte per occupare il territorio. James Carleton era stato designato nuovo comandante del dipartimento del Nuovo Messico e rivolse innanzi tutto la sua attenzione sulla pacificazione con gli indiani. Scelse come comandante Christopher Carson.


Il problema consisteva, visto il persistere dei saccheggi e delle scorribande degli Apache e dei Navajo, nel rimuovere gli indiani dalle zone dell'ormai esteso insediamento messicano e anglo-americano lungo le vallate e le piste. Come posto per il trasferimento degli indiani fu scelto Bosque Redondo, nella valle del fiume Pecos. Là, nella parte orientale del territorio, gli indiani sarebbero stati sotto il controllo della guarnigione di Fort Sumner che era molto ben fortificato.
Dopo contese con i Mescalero nel 1862, agli inizi del 1863 Carleton e Carson rivolsero la loro attenzione ai Navajo. Carson inviò offerte, e alcuni capi come Delgadito e Barboncito, che avevano constatato l'efficiente campagna dell'esercito contro gli Apache, furono favorevoli alla pace, ma non alla cessione dei loro territori in cambio dei piccoli terreni non fertili delle pianure del Pecos, posti troppo vicini ai loro nemici Mescalero. Così decisero di seguire la via del combattivo Manuelito che non desiderava alcun accordo con l'esercito sin dall'incidente di quella corsa coi cavalli.
Carleton mandò un ultimatum ai Navajo il mese di giugno 1863, con scadenza un mese dopo. Il termine passò e Carson mobilitò la sua truppa di volontari del Nuovo Messico. Invece di effettuare inseguimenti di gruppi di Navajo attraverso tortuosi canyon, Carson lanciò un'offensiva crudele ma efficiente contro Dinetah, il "Paese dei Navajo". I suoi uomini percorsero senza pietà il territorio, confiscando bestiame, distruggendo campi e frutteti e vivendo con i prodotti degli stessi indiani. Durante quella campagna, durata sei mesi, i soldati uccisero solo 78 indiani su una popolazione stimata di 12.000 individui ed ebbero pochissime vittime tra loro. Ma ottennero lo scopo di sconvolgere il modo di vivere degli indiani e di abbattere il loro morale.
Poi nel 1864 Carson fece un'azione contyro l'inespugnabile Canyon Chelly. Bloccò il Canyon che aveva pareti molto ripide da un lato con soldati guidati dal capitano Albert Pfeiffer da est. Gli indiani formarono sacche di resistenza e alcuni di loro gettarono massi sulla rupe di Pfeiffer dai bordi del canyon, ma dopo poco tempo i soldati snidarono i difensori e conquistarono il "sacro forte" dei Navajo. Verso la metà di marzo quasi 6.000 Navajo, affamati e demoralizzati, si erano arresi all'esercito e iniziava così il loro trasferimento. I soldati scortarono in una prima marcia forzata 2.400 Navajo attraverso il Nuovo Messico. Alla fine dell'anno altri 2.000 indiani si erano arresi e fu la resa più numerosa avvenuta in tutte le guerre indiane. I 4.000 Navajo comandati da Manuelito fuggirono verso i confini occidentali del loro territorio. Manuelito stesso, il più intransigente dei capi navajo, cedette a quella guerra di logoramento e si arrese a Fort Wingate il 1° settembre 1866.
Bosque Redondo fu un disastro per i Navajo: suolo poco fertile, scarsi rifornimenti, malattie, ostilità dei Mescalero. Finalmente nel 1868, dopo il trasferimento del generale Carleton, una delegazione di capi navajo, tra cui Manuelito e Barboncito, ottenne il permesso di andare a Washington per patrocinare la loro causa e ottenne, firmando un nuovo trattato con gli ufficiali, una riserva nelle montagne Chuska. I Navajo tornarono così nella loro patria e cominciarono a rifarsi una vita senza più guerreggiare con l'uomo bianco.
da www.sentierorosso.com

ARTIGIANATO

 

Dagli ultimi decenni del 1800 la ditta S.A. Frost's Son di New York fondata nel 1858, che importava prodotti specifici per «Indian Traders», intrattenne assidui contatti con il genovese Raffaele Costa. .
L'immagine della libellula, insieme a rane, girini, lucertole, serpenti, farfalle, creature emblematiche della sopravvivenza in ambienti aridi, si ritrovano nei gioielli e negli oggetti funzionali ai rituali, collegati alla pioggia e alla fertilità del terreno.
Un'altra forma, comunemente modellata nei gioielli antichi e rimasta nella contemporaneità, è quella dell'uccello volante, con le ali aperte che ricordano una croce. Gli uccelli sono sovente rappresentati perché considerati messaggeri tra la terra e le entità sacre del cielo. Gli spiriti della pioggia trovano diverse rappresentazioni nei «simbolismi magici della pioggia» che propiziano il raccolto
Uno tra questi è il «serpente piumato», che dimora nelle nuvole e ha lingua di luce. II serpente è anche collegato con la terra e l'acqua, scivola come acqua ed emerge dal terreno, incarnando le potenti forze del mondo.
Anche il kokopelli è un'altra figura emblematica delle culture pueblo dell'Arizona e New Mexico. Giunse forse intorno al XIV secolo importato dal Messico e presumibilmente in origine rappresentava un mercante che porta conchiglie e piume, in particolare le rosse piume dell'Ara Macao, dal Messico alle aree delle popolazioni pueblo. Tra gli Hopi rappresenta un suonatore di flauto che regge un sacco di semi e per questo è associato alla fertilità, simbolo d'abbondanza e in genere di buon auspicio.
Tra i più importanti italiani a commerciare con gli statunitensi fu il genovese Raffaele Costa, di cui rimane interessantissima corrispondenza, conservata oggi nell'archivio storico della ditta Liverino, che la acquisì insieme ai beni che gli eredi della fabbrica genovese misero in vendita negli anni '60. Questa fortuita acquisizione può essere considerata come un passaggio di testimone dalla tradizione genovese della lavorazione e commercializzazione del corallo alla intraprendenza degli imprenditori di Torre del Greco.
Negli anni '70 molte ditte torresi realizzarono importanti affari con Navajo e Zuni, incrementando la valorizzazione e l'utilizzo del corallo nel sud-ovest degli Stati Uniti e favorendo la reciproca conoscenza delle tradizioni culturali.
Il Frost non fu l'unico commerciante del vecchio West a stimolare la creatività dei nativi americani importando corallo dall'Italia. Anche C.G. Wallace incoraggiò lo sviluppo dell'artigianato ed esercitò una grande influenza sulla produzione del corallo
Nel 1927 acquisto il suo -trading post» nel villaggio Zuni. Sostenne l'impiego di tecniche innovative, il mosaico con corallo, tra gli artigiani zuni e navajo residenti a Zuni , favorendo anche la collaborazione tra i due gruppi.
Fu lui ad iniziare un'importazione diretta di corallo dall'Italia per i nativi, senza passare per la mediazione del Frost. Durante la depressione del 1930, Wallace creò una base economica per numerosi artisti e acquisì un gran numero di lavori dei nativi, elevando le creazioni zuni da un livello regionale a nazionale. In una lettera datata 27 febbraio1937, inviata da Wallace sempre alla ditta Costa di Genova, è la conferma d'ordine di quattro collane in corallo per un valore complessivo di 48 dollari, con la richiesta supplementare di poter avere collane con grani «più grandi, quanto i più grossi delle collane ordinate».
In altra corrispondenza datata 13 gennaio 1940 Wallace richiedeva i prezzi di collane in corallo che sappiamo dalla risposta del Costa costare 14 dollari l'una, cifra in ogni caso ragguardevole per l'epoca. La sua eredità contribuì indubbiamente ad elevare il numero degli artigiani ad un migliaio (gioiellieri, ceramisti, intagliatori di feticci) su una popolazione di 9000 residenti a Zuni.
Negli ultimi sessanta anni l'innovazione dei gioielli del sud-ovest fu determinata in massima parte da tre artisti: il navajo Kenneth Begay e i due hopi Preston Monongye e Charles Loloma, il cui talento artistico e le capacità tecniche hanno inspirato generazioni di successivi designers indiani.
Kenneth Begay creò disegni innovativi, sempre ispirati ai modelli navajo, utilizzando nuovi materiali e tecniche abbinate alle tradizionali, turchese e corallo ad oro e diamanti, ottenendo raffinate ed espressive creazioni. Preston Monongye incorporò immagini katsina nei suoi lavori, famosi per la tecnica di fusione nel tufo

I gioielli di Charles Loloma combinano un profondo rispetto per la tradizione con l'abilità di cambiare concetti stereotipati degli Indiani d'America. Nato nel 1921 da una famiglia di Hopi tradizionalisti, partì da una formazione di ceramista e pittore ed arrivò alla gioielleria nella metà del 1950. Loloma armonizza elementi del suo background hopi, come la tecnica dell'intarsio di pietre dure a mosaico, con un senso estetico contemporaneo. La sua abilità fu quella di rendere pregi le imperfezioni della natura, sottolineando nel suo disegno le ruvide proprietà del metallo. La sua eredità fu ripresa dalla nipote Verma Nequatewa, che seppe abilmente disegnare il gioiello attorno alla forma pura della materia, come il corallo. I gioielli contemporanei del sud-ovest sono caratterizzati dall'uso d'argento, turchese e corallo
Questo semplice accostamento racchiude in sé l'anima di due tradizioni ornamentali: quella dei Pueblo, da millenni abili lapidari e quella dei Navajo, valenti argentieri che per primi, come abbiamo detto, dalla metà dell'800 praticarono e diffusero l'arte anche ad altri gruppi nativi. Oggi i gioielli dei Navajo, Zuni e Hopi hanno raggiunto fama mondiale e coprono una gamma molto vasta di tipologie realizzate per le loro richieste e per la domanda del mercato turistico e internazionale.
I gioielli zuni prodotti dalla prima metà del secolo scorso divennero sempre più elaborati utilizzando oltre al turchese e al corallo anche materiali compositi.

Oggi la produzione orafa, che assicura un introito alla metà dell'intera popolazione zuni, pone l'enfasi sul turchese e il corallo, inserito in piccoli e sottili castoni (tecnica detta needlepoint) o in mosaici con madreperla, turchese, corallo e giaietto, estremamente elaborati e molto apprezzati dai collezionisti di tutto il mondo. Molti sono oggi i Navajo che indossano gioielli prodotti da Zuni.
Durante la Grande Depressione e nel dopoguerra, a causa delle ristrettezze economiche, alcuni materiali preziosi furono sostituiti con celluloide riciclata da batterie usate, microsolchi e oggetti d'uso quotidiano. Nacquero così i monili definiti « battery-backed jewelry» in cui la tradizionale tecnica a mosaico veniva mantenuta, utilizzando per le piccole tessere materiali riciclati o facilmente reperibili per i bassi costi.
Potenti spiriti delle rocce sono i feticci, rappresentati in diverse forme animali o umane che si pensa siano state pietrificate dal soffio dello spirito stesso che vi dimora. Agiscono come mediatori tra il soprannaturale e l'umano e donano a chi li possiede la forza dell'animale rappresentato.
Per questo devono essere trattati in modo appropriato, secondo rituali precisi. Hanno particolari funzioni nelle cerimonie e sono decorati con specifici e significativi ornamenti. Sovente recano frammenti di corallo e turchese. È impossibile definire quanto antico sia l'uso di questi modelli. Tuttavia il modo in cui i Pueblo e Navajo hanno continuato a fare uso di queste forme nel tempo, ha rinsaldato il significato di molti esempi del passato preistorico.
Molto popolari tra Navajo e Zuni sono le collane squash blossom, esibite in numerose cerimonie del ciclo agricolo.
Composte da una mezzaluna centrale, o naja, hanno sempre un numero variabile di boccioli di melograno in abbinamento. I Navajo fecero propria la naja adottandola dalla simbologia ispanico moresca, prima per le briglie dei cavalli, più tardi come pendente delle collane

Questa simbologia con il tempo prese una direzione del tutto propria staccandosi dall'originale modello, arricchendosi di pietre e altre lavorazioni.
L'associazione con le danze per la fertilità dei raccolti fa tornare in mente la simbologia primigenia, comune a molte culture antiche, della luna crescente come rappresentazione di liturgie naturalistiche.
Non sembra tuttavia che gli Indiani abbiano assegnato un significato simbolico a questo segno, anche se è tenuto in gran considerazione.I Navajo usano il termine yo ne maze disya gi (letteralmente «grano che sboccia») per indicare la collana squash blossom, niente che si possa direttamente ricollegare al melograno. Indipendentemente dai possibili significati simbolici, la collana è testimonianza dei contatti tra i nativi americani e gli spagnoli e tra i Navajo, che per primi usarono questa tipologia, e i Pueblo, in particolare gli Zuni che la adottarono, aggiungendo il turchese alle collane di solo argento.

 

 

 

 

 

 

ALCUNI PROVERBI NAVAJO

 

 

Attento mentre parli. Con le tue parole tu crei un mondo intorno a te.


Evitate di dare dispiaceri ai vostri simili, ma al contrario,

vedete di procurare loro gioia ogni volta che potete


La lingua può impiccare l'uomo più veloce di una corda.


Lungo il cammino della vostra vita fate in modo

di non privare gli altri della felicità.
 

Non ereditiamo il mondo dai nostri padri,

ma lo prendiamo in prestito dai nostri figli.


Non giudicare il tuo vicino finché non avrai camminato

per due lune nelle sue scarpe.


Quello che hai visto ricordalo perché quello

che non hai visto ritorna a volare nel vento. 


Un arco non dorme mai.


Meglio avere meno tuoni nella bocca e più luce nella mano.

 

 

 

 

 

 

Nei fumetti, il popolo dei Navajo è la tribù a cui appartiene Tex, di cui è il capo con il nome di Aquila della Notte. Ma l'assistente di Tex si chiama Kit Carson, stranamente il nome del più grande nemico del popolo Navajo.

c cura di Sergio Mura

Entrato a far parte della mitologia popolare persino da vivo, Kit Carson fu un trapper, scout, agente indiano, soldato e autentica leggenda del West.
Nato alla vigilia di Natale del 1809, Carson passò la maggior parte della sua prima infanzia a Boone’s Lick, nel Missouri.
Suo padre morì quando lui aveva appena 9 anni e la necessità di lavorare impedì al giovane Kit di studiare.
Divenne pertanto apprendista di un mastro sellaio a 14 anni, ma lasciò la casa per trasferirsi a Santa Fe, nella zona del New Mexico nel 1826.
Dal 1828 al 1831 Carson si appoggiò a Taos, New Mexico, come campo base per continue spedizioni di caccia al fine di procurare pelli da vendere e questa attività lo portò spesso nel West, fino alla California.
Più tardi, nel corso degli anni 30 del secolo scorso la sua vita da trapper lo condusse molte volte nelle Montagne Rocciose e attraverso tutto l’ovest americano. Per un certo periodo, nei primi anni 40, lavorò come cacciatore alle dipendenze di William Bent a Forte Bent.
Come accadeva più volte ai cacciatori bianchi, anche Kit Carson si trovò più volte integrato nel mondo dei pellerossa; viaggiò e visse tra gli indiani al punto che le sue due prime mogli furono una Arapaho e una Cheyenne. Carson era un personaggio abbastanza inconsueto nel variegato mondo dei trapper, soprattutto in virtù di un forte autocontrollo e per il modesto stile di vita.
“Pulito come il dente di un segugio”, secondo l’opinione di un conoscente, e uomo “la cui parola era più certa del sorgere del sole”, così Carson veniva ricordato oltre che per i suoi modi modesti e per il suo indomabile coraggio.
Nel 1842, mentre ritornava nel Missouri in visita alla famiglia, Carson ebbe la ventura di incontrare John C. Fremont che presto lo assunse come guida.
Negli anni successivi Carson aiutò Fremont facendogli da guida verso l’Oregon e la California e attraverso gran parte delle Montagne Rocciose e del Great Basin. La sua attività al servizio di Fremont, celebrata nei reportage scritti da Fremont stesso sulle sue spedizioni, ne fecero assai presto una specie di eroe nazionale, rappresentato nella narrativa popolare come un rude uomo di montagna capace di gesta sovrumane. La fama di Carson crebbe a dismisura nel momento in cui il suo nome veniva associato ad alcuni momenti chiave dell’espansione americana verso ovest. 

Era ancora al servizio di Fremont come guida quando Fremont stesso si unì alla rivolta dei cittadini americani in California, poco prima dello scoppio della guerra con il Messico del 1846. Sempre Carson guidò le armate del Generale Stephen Kearney dal New Mexico alla California per rispondere alla sfida agli Stati Uniti della banda di Andrés Pico in risposta all’occupazione americana di Los Angeles.
Alla fine della guerra, Carson ritornò nel New Mexico con l’intenzione di dedicarsi alla vita del canchero.
Nel 1853 lui e il suo socio portarono un enorme gregge di pecore fino alla California dove i prezzi legati alla corsa all’oro gli garantirono un buon profitto. Nello stesso anno fu nominato agente indiano federale per il nord del New Mexico e tenne questo incarico fino allo scoppio della guerra civile che lo impegnò dal 1861. Carson giocò un ruolo piuttosto importante e memorabile nella guerra civile nel New Mexico e diede una mano ad organizzare i reparti volontari di fanteria dello stato che si videro in azione a Valverde nel 1862.

La gran parte delle sue azioni militari, comunque, furono condotte contro la popolazione Navajo che aveva rifiutato di essere confinata in una lontana riserva inventata dai governanti.

A partire dal 1863 Carson intraprese una brutale guerra per distruggere l’economia alla base della vita dei Navajo, marciando fino al cuore del loro territorio e distruggendo i loro raccolti, i frutteti e il bestiame. Quando gli Ute, Pueblo, Hopi e Zuni, che per secoli erano stati preda dei razziatori Navajo, iniziarono a trarre vantaggio dalla debolezza dei loro tradizionali nemici seguendo i bianchi nella guerra, i Navajo non furono più in grado di difendersi. Così, nel 1864 la maggior parte di loro si arrese a Carson che costrinse quasi 8000 Navajo, uomini, donne e bambini, a intraprendere quella che sarebbe stata chiamata “la lunga marcia” di quasi 600 chilometri dall’Arizona a Forte Summer, New Mexico, dove rimasero confinati e decimati dalle malattie fino al 1868.
Dopo la guerra civile, Carson si trasferì in Colorado con la speranza di accrescere i suoi affari di allevatore e li morì nel 1868.
Negli anni seguenti i suoi resti furono trasportati in un piccolo cimitero vicino la sua vecchia casa a Taos

http://www.farwest.it/?p=238

 

 

 

 

 

 

 

CI HA SEMPRE INCURIOSITO L'INTERPRETAZIONE CHE LEI HA DATO DEL PERSONAGGIO DI KIT CARSON. HA QUALCOSA DA DIRE IN PROPOSITO?
Il mio Carson non ha nulla a che fare con il personaggio storico. Il pard di Tex è un allegro compagno d'avventure, un uomo mite anche se implacabile quando le circostanze lo richiedono. Il vero Kit Carson, invece, era un individuo spregiudicato e cinico, colpevole addirittura di aver combattuto gli stessi Navajos con mezzi tutt'altro che leali.

 

(da un'intervista a L.G. Bonelli, disegnatore di Tex Willer)

 

 

Los Angeles Hollywood Arizona Grand Canyon Mon. Valley Page-Bryce C.
Zion-Utah Las Vegas Sierra Nevada Yosemite Pacific Coast San Francisco