Dopo gli ultimi click al Desert Wiev del Grand Canyon lasciamo l'Arizona e in direzione Est entriamo subito nella Navajo Nation, esattamente nel Painted Desert (Il Deserto dipinto) percorrendolo lungo la statale 160. La prima sosta tecnica è a Cameron, piccola cittadina Navajo che una volta aspettava interminabili mandrie di bisonti per sopravvivere ed oggi, sempre per sopravvivere, aspetta interminabili mandrie di turisti da svuotare nei suoi negozi di souvenir indiani "made in China". Dopo un centinaio di chilometri si arriva a un bivio storico di Kayenta: si abbandona la 160, che arriva fino in Colorado, e si gira a sinistra per un'altra strada che è una leggenda della storia americana: la mitica U.S.163, meglio conosciuta come Navajo Road.
In quei pressi la nostra autista Anna, intuendo il motivo della mia agitazione, mi dice "Buenos dias, Mimmo.... sièntate aquí, junto a mì" autorizzandomi - come sempre, peraltro - a stare vicino a lei, ma quel giorno eccezionalmente in piedi sulla porta d'ingresso del bus (non lo facciamo sapere alla Polizia stradale dello Utah). Grazie a quella messicana che non dimenticherò, potevo già vedere i primi capolavori della giornata. La "Navajo Road" si inginocchiava davanti ai miei occhi con la sua straordinaria, variabile, famosa prospettiva e come in una pellicola a tre dimensioni mi faceva rivedere in un colpo solo "Easy Rider", "Indiana Jones", "Odissea nello spazio" e, in fondo alla strada, un barbuto profeta che girandosi verso di noi mentre lo sorpassiamo ci dice "sono un po' stanchino, tornerei a casa". Caro Forrest, quanto avrei voluto darti un passaggio! Quella strada, con i suoi effetti ottici all'orizzonte, mi correva davanti come i binari della Central Pacific e, man mano, mi presentava la sua produzione: le grandi mittens, sempre più vicine, familiari a chiunque e che nessuno al mondo potrà mai negare di riconoscere, o almeno credo. Caspita.... sui giornaletti, sulle scatole dei formaggini o nelle figurine Panini le avranno pure viste! Quello che voglio dire è che ognuno di noi, nessuno escluso, almeno una volta nella propria vita ha avuto davanti a sè un'icona che rappresenti la storia di qualcosa, o di un movimento, una moda, una tendenza. Oppure di un luogo. Prendiamo, per esempio, la Torre Eiffel. Anche un bambino direbbe subito che sta a Parigi e sarebbe riconosciuta anche da chi odia la Francia, a conferma che tutto è associato ad immagini, e tutte le immagini associate a un nome, più o meno noto. Quindi, in questa specie di geografia della memoria, tutti sarebbero capaci di dare un nome a qualcosa che visivamente ricordano.
Ma se dicessimo "Monument Valley? Più della metà risponderebbero "No, non la conosco". Non è vero, la conosci. La conosci e non sai di saperlo. L'hai vista centinaia di volte nei fumetti di Tex Willer, di Zagor, di Black Macigno e di Capitan Miki, sulle strisce di Jacovitti. Inconsapevolmente l'hai vista passare davanti ai tuoi occhi in film che hanno ripassato mille volte in tv. L'hai vista sui diari di scuola, sulle etichette dei jeans, su mille e mille poster. Tanto per fartelo capire: se ti faccio vedere quest'immagine, che ti ricorda? Ah, era questa? Ah, addesso sai cos'è! Quella forma è uno dei simbolo più significativi degli Stati Uniti d'America! A dir la verità, per molti anni non è stata proprio niente, soltanto un gruppo di stupendi monoliti rossi in mezzo a questa sterminata e meravigliosa valle all'interno della riserva Navajo, esattamente al confine fra l'Arizona e lo Utah, e che fino agli anni Trenta aspettava soltanto di essere valorizzata, conosciuta, apprezzata. Oggi è famosa non tanto per il suo nome, ma per la sua immagine (a conferma di quello che dicevo prima) diventata leggendaria grazie all'opera di un leggendario cineasta americano che plasmò le due forme di granito con la storia americana fino a farle diventare le principali icone del West. E poi, soprattutto, per un poco conosciuto Mr. Harry Guildings che per aiutare i Navajos sfruttò giustamente la bellezza di quelle pietre rosse facendole conoscere a John Ford, certo che avrebbero fatto presa nella fantasia del suo genio. Quando Harry riuscì a far lavorare i suoi indiani come comparse nei film di Ford pensate a cosa dev'essere stato per un popolo che nella sua terra è stata confinato in una riserva e in questa, pur di campare, doveva addirittura recitare la parte del cattivo che perseguita coloro che invece l'hanno buttato fuori di casa. Purtroppo quei nativi americani sapevano qual era la verità; sapevano perfettamente chi erano i buoni e chi i cattivi, di come andò esattamente la storia e di come, al contrario, fu scritta. Grazie a Guilding e signora, e al cinema di Ford, la valle diventò famosissima e nacque un vero e proprio villaggio, tutt'ora esistente a San Juan County, e che si mantiene soltanto col turismo. Ma gli indiani non dimenticarono chi li aiutò, e prova di questa riconoscenza sono tutte le lapidi e gli oggetti appartenuti ad Harry e la sua consorte Leone (detta Mike) e che si possono vedere al museo a loro intitolato, accanto al camerino che John Wayne usava per i suoi film. E' chiaro che il nostro itinerario, i nostri percorsi e tutto ciò che facciamo sono simili a quelli di altri tour organizzati che sono passati da queste parti; ma già arrivare sotto i monoliti rossi di San Juan County che giganteggiano sul Guilding's, scorgere quel fin troppo famoso orizzonte abbagliato dal sole dell'ovest, fermarsi di fronte a quella bandiera americana che sventola in una veranda in legno che ricorda tanto l'ultimo avamposto dell'esercito dell'Unione nella guerra contro Cavallo Pazzo, credetemi, fa davvero tremare le gambe. Chi è appassionato (non solo, ci metto anche i profani) di cinema americano può capirmi. Quello spiazzo sarà stato largo duecento di metri, ma ogni passo sapeva di Settimo Cavalleria, di Spaghetti Western, di Sergio Leone, di di bisonti al galoppo, di incolonnamenti a cavallo per due, C'era una volta il West, Mucchio selvaggio. Ecco, tutto.... tutto, ogni granello rosso trasudava Western, leggendari duelli fra mitici pistoleri e sfide all'Ok Corrall; con la fantasia si poteva addirittura avvertire l'odore di polvere da sparo sprigionato dalle canne dei Winchester. Bastava sedersi in quella veranda, chiudere gli occhi, respirare profondamente e immaginare di far confessare a Geronimo il piano per distruggere Custer a Little Big Horne. E questa, credo, sia stata l'esatta sensazione che Ford avvertì non appena si affacciò in questo paradiso che era un po' casa sua. Infatti una zona della valle gli è stata dedicata proprio perchè qui il grande regista amava sedersi al tramonto per ripassare i copioni. Il posto si chiama John Ford's Point. Come poteva rimanere insensibile di fronte a quel set cinematografico in cui non doveva toccare niente, colui che ha fatto "vedere" al mondo la conquista del West? In quella sceneggiatura già pronta azionò parecchie volte i suoi ciak leggendari e, come si fa con i soldatini, animò la scena mettendoci dentro gli indiani cattivi che insidiavano i bianchi salvati all'ultimo momento dalle giacche blu del grande John Wayne. Arrivano i nostri, tutti felici e contenti al suono della tromba della Cavalleria. A proposito, che ci faccio di fronte al ritratto del Grinta? Già, siamo all'ingresso del ristorante del Guilding's. Vi proporranno un piatto tipicamente Navajo: il Tacos. Scegliete quello mini, perchè già il "medio" è una spaventosa focaccia di insalata verde, cipolla, peperoncino con quasi mezzo chilo di fagioli rossi sopra, difficilmente da digerire. I camerieri sono Navajios e, come già anticipatoci da Renè, ho potuto constatare di persona il loro perenne umore: triste, con un'aria scura e corrucciata, mai un sorriso, una battuta. Niente. Sembra che le loro facce ricordino ancora la grande amarezza, tramandata da generazione in generazione, che il Governo Americano causò in loro quando furono confinati nelle riserve. Ancora non hanno dimenticato e li vedi lì, costretti a guidare le jeep invece dei loro mustangs, vendere ai turisti bijotteria fatta dai cinesi e spacciata per Navajo. I loro volti sono ancora fieri come un tempo, ma il loro animo è devastato. Oggi, pian piano, i rappresentanti politici si stanno rendendo conto del danno che i loro Governi arrecarono duecento anni fa al popolo pellerossa e riconoscendosi finalmente degli autentici invasori, stanno chiedendo scusa a veri americani che per tanto tempo sono stati emarginati al più basso rango sociale e privati di ogni diritto civile. Monument Valley stessa era stata tolta e poi, dopo tanto tempo, riconsegnata ai Navajo. Vi porteranno sul grande parcheggio che si affaccia sulla valle e....... trovarsi all'improvviso lì, davanti a quegli altari, senza scattare una fotografia è un grave peccato. Almeno prendete pollice e indice sinistro, pollice e indice destro, uniteli in diagonale davanti ai vostri occhi, inquadrate quelle meraviglie e immortalatele nel photoalbum della vostra vita perchè sono flash indimenticabili. Siamo già sulle jeep che le guide indiane usano per i loro tour nella valle. Le strade nella valle non sono asfaltate e per questo sollevano una gran massa di fine polvere rossa che si insinua nelle vostre narici e nelle vostre fotocamere. Quindi, se non volete guai provvedete ad adeguate protezioni. Il nostro autista Navajo era l'unico, fra i suoi compagni, dotato di un pizzico di spirito. Allo scorgere di ogni nuovo, stupendo paesaggio, ci scimmiottava con espressioni di meraviglia italiote: "Mammmma mmiia" ma con la tipica cadenza pellerossa. Quale nome di battaglia immaginavo Aquila Rossa, Lupo della notte, Alce tonante. Macchè, si chiamava Bernardo! Un suo collega, invece, è il pellerossa Navajo più presente in internet. E' quello con la camicia rossa (sempre la stessa) a cavallo (sempre lo stesso) quando si cerca una fotografia in rete del John Ford's Point (per fortuna non è cambiato)! Il famoso indiano adesso l'ho visto dal vivo. Amico, ma quella camicia quanto te la cambi? Gli indiani ritengono questo luogo sacro, e quei panettoni che svettano in cielo i Totem lasciati in terra dalle loro divinità. Sembrerà una sciocchezza, ma venendo qui e affacciandosi su questo autentico altare ti vengono addosso autentiche crisi mistiche.... e a quel punto capisci che gli indiani avevano proprio ragione. Dopo aver visto questo luogo magico, chi può dar loro torto? Maometto, Manitù, Buddha, Odino, ....... Quel giorno io sapevo esattamente dove stavo per mettere i piedi. Ero emozionato già da qualche chilometro perchè pensavo di non riuscire mai a vederla, che in vita mia l'avrei solo immaginata. Peggio di un frate gesuita, nei pacchetti di viaggio l'ho cercata con ostinazione fino ad ottenere ciò che volevo; non ci avrei mai rinunciato, perchè un viaggio negli USA non è niente senza vedere questo autentico simbolo americano. Invece quel giorno l'ho vista, respirata, toccata, calpestata. Mentre i miei compagni di viaggio consumavano megabit di clik su quelle pietre di ferro rosso disegnate da Dio, su quella jeep facevo un po' di conti con la mia esistenza calcolandole l'IVA, l'IRPEF e tutto il resto. E' inevitabile, chiunque passi da qui si autorilascerà una ricevuta fiscale sul proprio cuore facendo pace con se stesso, rimettendosi in regola con l'Ufficio Tributi dell'anima. In tal senso io sono stato un grande evasore fiscale, ma quel pomeriggio ho sanato i debiti perchè a Monument Valley ho pagato tutte le tasse alla mia coscienza. Il mio commercialista è stata Madre Natura. Cpl. Rapisarda - 7th U.S. Cavalry Regiment (from Forth Apache)
non importa come si chiami l'architetto, ma qui lo dici davvero: Dio esiste!
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E' stato il
regista John Ford a rendere famosa questa zona.
Intorno agli anni 30 Ford scopri' la valle che
in seguito divenne lo scenario indiscusso dei
film western piu' famosi come Il massacro di
Fort Apache o Ombre Rosse. Una curiosita': i
Navajo non osservano l'ora legale per cui
nei loro territori vale sempre e solo l'ora
solare. Una strada lunga 25 chilometri non
asfaltata si insinua tra i giganteschi massi
rocciosi sparsi in pieno deserto. La visita di
puo' effettuare con la propria auto oppure
con le jeep degli indiani che abbinano al
tragitto negli sterrati un commento in un
inglese molto poco comprensibile. E' un
paesaggio di incredibile bellezza che raggiunge
il suo massimo splendore nel tardo pomeriggio
quando le ombre iniziano ad allungarsi e
l'oscurità scende su questo rosso mondo
incantato.
di Alessandro de Giorgi Un viaggio da sogno? No. Un viaggio da favola? Neppure. Un viaggio da cinema? Esatto. Se siete appassionati di grande schermo, sul comodino tenete il santino di John Ford e avete sempre sognato di visitare il Far West e dintorni, questo è il viaggio che fa per voi. Una cavalcata nel lontano Ovest americano, fra paesaggi da urlo e le tracce dei più prestigiosi set della storia del cinema. Prendetevi un paio di settimane di ferie, e seguiteci. Si parte, ovviamente, da Los Angeles, la mecca. Una visitina agli studios di Hollywood, tanto per gradire, e poi via verso Santa Monica, magari passando per l’osservatorio posto dentro Griffith Park, una location che ha ospitato scene di “Gioventù Bruciata” e “Terminator”. Perché visitare i teatri di produzione è divertente, ma molto più chic e originale scoprire gli “esterni” dove hanno preso luce e forma le pellicole da leggenda. Nei dintorni di Santa Monica, ad esempio, a Rancho Las Virgenes, nel 1927 la Paramount comprò 2400 acri di terreno, trasformandoli nel Paramount Ranch. Qui, sullo sfondo delle montagne californiane, hanno “girato” e recitato Cecil B. DeMille e John Ford, Gary Cooper e Marlene Dietrich, Cary Grant, Henry Fonda, Glenn Ford, John Wayne e Diane Keaton, in pellicole come “Il Virginiano”, “Sfida all’Ok Corral”e “Reds”. Dopo gli Anni 50 il ranch è stato usato anche da produzioni televisive come “Rin Tin Tin”, “Hazard”, “Mash” (quest’ultima soprattutto nella zona di Malibù Creek) e “Charlie’s Angels”. Finito di curiosare, mettere il timone verso nord-est, e dirigersi verso la Valle della Morte, nel cuore del magnifico e per certi versi terribile parco nazionale, dove sarà bene arrivare all’alba o – meglio – al tramonto. Distese di sabbia come nel Sahara, campi di sale pietrificato, picchi impressionanti alti fino a 4000 metri, canyon dai mille colori, temperature che d’estate raggiungono facilmente i 60 gradi. La varietà dei paesaggi offerti da questo incredibile ed estesissimo lembo di terra, visitato ogni anno da milioni di turisti (prenotate in anticipo a Furnace Creek o a Panamint Valley), ha ospitato praticamente ogni genere di pellicola. Ricordate la scena di “Guerre Stellari” in cui Luke Skywalker contempla la pianura con il suo binocolo a infrarossi? E’ stata filmata poco a sud di Furnace Creek, a Stovepipe Wells, mentre da Dante’s View (occhio a non salire per i ripidi tornanti durante le ore più calde, o rischiate di giocarvi il radiatore!) sempre Luke e Obi Uan Kenobi contemplavano le lontane frontiere “aliene”. Non ci sarà bisogno invece di spiegare agli appassionati di Michelangelo Antonioni cos’è Zabriskie Point. Prima davanti al cartello, e poi di fronte allo spettacolo fantasmagorico delle rocce sedimentarie che disegnano un paesaggio lunare, a pochi chilometri da Furnace Creek, potranno rivivere le emozioni del capolavoro datato 1970 del maestro ferrarese. Reno, nel Nevada, è decisamente fuori mano rispetto al nostro itinerario, ma se siete appassionati de “Gli Spostati”, il film maledetto che riunì Marylin Monroe, Clark Gable e Montgomery Clift, potete arrivare fin lassù e dare un’occhio a Pyramid Lake, dove fu girata la scena dei cavalli selvaggi. Non lontano, vicino a Carson City, sulla Route 28 costeggiando il lago Tahoe potrete invece trovare il ranch che ha ispirato “Bonanza”. Las Vegas vale invece sicuramente una visita, innanzitutto per il divertimento e poi per scoprire qua e là le location de “Il Cavaliere elettrico” (1979) con Robert Redford e Jane Fonda, o “Un Uomo da marciapiede” (1969, con Jon Voigt e Dustin Hoffman) o ancora “Urban Cowboy” (1980, con John Travolta). Il vero cuore del sogno americano a 35 mm, quello che è stato ribattezzato “Il paese di John Ford”, è però senza dubbio la Monument Valley. Qui, in mezzo alle incredibili cattedrali di roccia rossa (visitatele al tramonto, è un ordine!) che sorgono improvvise al confine fra Arizona e Utah, vi sen tirete davvero dentro un film, specie al “John Ford Point”. Emozione pura. L’elenco dei western e dei film girati in questo angolo di Paradiso è infinito, da “Ombre Rosse” a “Sentieri Selvaggi” (ricordate che panorami mozzafiato, uscendo con John Wayne da quelle case nella prateria?), da “Soldati a cavallo” a “I dannati e gli eroi” a “Sfida infernale”. O ancora, uscendo dall’ambito western, “I dieci comandamenti”, “2001- Odissea nello spazio”, “Easy Rider”, “Ritorno al futuro”, “Indiana Jones e l’ultima Crociata” (non perdetevi la visita guidata con gli indiani nei recessi più nascosti della valley), fino a “Forrest Gump” e alla sua corsa sulla statale 163, appena a sud di Redland Pass. Nel Canyon de Chelly, quasi al confine fra Arizona e New Mexico Sono stati girati “Il grande paese” e “L’oro dei Mckenna” mentre nella vicina riserva degli indiani Hopi è stato realizzato “La collina del demonio”. Se invece vi hanno emozionato “Butch Cassidy , “Getaway” e “La più grande storia mai raccontata” allora il vostro posto è lo Utah. John Ford ha girato qui, a Professor Valley, nella zona di Moab, il suo “Rio Grande”, Steven Spielberg “Indiana Jones e il tempio maledetto”, nello strepitoso parco di Arches dove Sergio Leone ha diretto alcune scene di “C’era una volta il West”. Attorno a Moab è stato filmato anche quasi tutto “Thelma e Louise”: la scena finale, quella del salto nel canyon delle due protagoniste braccate dall’elicottero della polizia ha come scenografia uno strapiombo sotto Dead Horse Point, sul Potash Trail (seguite la state route 279 verso ovest per 15 miglia). I manichini usati per la scena sono conservati negli uffici della Moab to Monument Valley film Commission. Se invece vi ha commosso la scena in cui Paul Newman, in “Butch Cassidy”, porta sulla canna della bicicletta Katharine Ross con in sottofondo “Raindrops keep fallin’ on my head” di Burt Bacharach, fiondatevi a Grafton, sul Virgin River, vicino allo Zion Park (6 miglia a ovest di Springdale sulla state route 9). Anche il Colorado, fra Boulder, Gunnison e Durango, ha offerto molte delle sue valli e dei suoi canyon a pellicole cult, da “Viva Zapata” a “Il Dormiglione”, da “Cat Ballou” a “Il Grinta”, ma siccome il tempo (e le righe) ormai scarseggiano, vi suggeriamo solo un sopralluogo: a Estes Park, circa 30 miglia a nord di Boulder, sulla Us numero 36. Troverete un vecchio hotel vittoriano, lo Stanley Hotel, dove da giovane lavorò un certo Stephen King. Il nome non è quello del film (Overlock), ma se il titolo “Shining” vi dice qualcosa, non arrivateci con un maggiolino Volkswagen…
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Regista statunitense. Di etnia irlandese, a diciott'anni, lascia la fabbrica in cui lavora e raggiunge il fratello maggiore, Francis, già impegnato come attore e regista a Hollywood, assumendo il nome di John, che subito cambia in Jack, mutando anche il cognome in Ford. Come Jack F. dirige, tra il 1916 e il 1923, una serie di film d'avventura per la Universal, in particolare molti two reels con H. Carey. Riprende il nome John per dirigere Il cavallo d'acciaio (1924), un western di grande successo che già rivela un'alta padronanza del mezzo. Tra due rulli, medi e lungometraggi sono decine i film che il giovane F. firma. Quattro anni dopo, nel 1928, realizza L'ultima gioia (insulso titolo italiano di Four Sons), con il quale vince il premio per il miglior film dell'anno. L'avvento del sonoro non intacca minimamente la sua prolificità. Gira una serie di film d'avventura, fino a che non torna a segnalarsi con La pattuglia sperduta (1934), cui fa seguito Il mondo va avanti (1934), gustosa parodia del genere gangster appena agli inizi ma già in gran voga. L'anno successivo ottiene l'Oscar per Il traditore (1935), un'opera che mette in scena la rivolta irlandese, la cui drammaticità appare accentuata dalla scelta di una cifra stilistica palesemente intrisa di tonalità espressioniste. Gira poi, tra gli altri, un notevole Maria di Scozia (1936) e un avvincente mélo di ambientazione caraibica, Uragano (1937). Nel 1939, esattamente a quindici anni di distanza dal suo western più acclamato dell'epoca del muto, con Ombre rosse realizza uno dei capolavori della storia del cinema, e si avvia a diventare il più grande regista dei film della Frontiera. Una diligenza in fuga, inseguita da un'orda di apaches, mentre scorrono visioni sfolgoranti della celeberrima Monument Valley: tratto da un breve racconto di E. Haycox, e forse vagamente ispirato a Boule de suif di Maupassant, nella memoria storica dello spettatore Ombre rosse si identifica tout court con il genere western, di cui rappresenta una svolta decisiva. Anzi, per la sua originalità, per il suo metro stilistico, per il profilo esistenziale dei personaggi, si presenta come il paradigma del western a venire. Lo sguardo di F. esplora il microcosmo che popola la diligenza, luogo topico della vicenda, senza complicità: una prostituta, un medico alcolizzato, un baro di professione, un banchiere ladro, un venditore di liquori, la moglie incinta di un ufficiale di cavalleria (che partorirà lungo la strada), uno sceriffo e un fuorilegge raccolto lungo il cammino; donne e uomini soli diversi, gettati in un ambiente estraneo e ostile, di cui vengono messi a nudo le debolezze, le paure, gli eroismi inaspettati. Mai prima di quest'opera straordinaria i caratteri degli uomini della Frontiera erano stati così nettamente delineati. Mentre con Ombre rosse guadagna un altro Oscar, F. si avvia a diventare il poeta dei grandi spazi, ma anche dei sentimenti, dei drammi, dei piccoli eroismi quotidiani. Tenace, metodico, a volte aspro, ma anche tenero, appassionato e ironico, alla fine della carriera avrà frequentato quasi tutti i generi, e la sua filmografia consisterà di oltre 150 titoli. Intanto la sua vena non accenna a esaurirsi. Gira subito Alba di gloria (1939) e La più grande avventura (1939), e immediatamente dopo un altro dei suoi maggiori film, Furore (1940), tratto dal romanzo di J. Steinbeck. Un'opera singolarmente dura nel panorama fordiano – a volte incline al conformismo – una denuncia del disastro sociale e degli scenari di miseria indotti dalla depressione seguita alla grande crisi del '29. Di un livello inferiore appaiono Viaggio senza fine (1940) e La via del tabacco (1941), mentre si rivela più ispirato Com'era verde la mia valle (1941). La guerra per tre anni interrompe l'attività del regista, mobilitato come ufficiale e addetto alle riprese di materiale di propaganda e di documentazione (notevoli The Battle of Midway, 1942, e We Sail at Midnight, 1943). Ferito da una scheggia, decorato e congedato, ritorna al western nel 1946, realizzando Sfida infernale, un autentico capolavoro. Tema portante del film è la vendetta, con relativo scontro finale che scioglie l'intreccio. Ma il vero fulcro dell'opera risulta il personaggio interpretato da un magistrale H. Fonda (un Wyatt Earp pacato, tranquillo e al tempo stesso determinato): una figura quasi antifordiana, per così dire, che si trova al centro di un'opera felicemente sospesa tra epica e romanticismo. Indimenticabile la sequenza in cui Fonda/ Earp danza con il mantello della sua dama appoggiato sul braccio: è dapprima impacciato, intimidito, ma presto si lascia prendere dal ballo con grande eleganza; lo sguardo quasi adorante e insieme malizioso della donna viene in primo piano e invade lo spazio con una forza emotiva coinvolgente. Seguono altri western memorabili, in particolare Il massacro di Fort Apache (1948), I cavalieri del Nord-Ovest (1949), Rio Bravo (1950), che vanno a formare una trilogia dedicata alla cavalleria, particolarmente amata. Non amava, però, l'eroismo folle dei guerrafondai, come il famoso generale Custer, cui somiglia il colonnello testardo e tronfio, completamente privo di esperienza, che finisce massacrato insieme con i suoi uomini in Il massacro di Fort Apache. Peraltro, in questo primo titolo della trilogia F. non lesina quell'ironia, quel delizioso umorismo, quella definizione degli ambienti che sono tratti costanti del suo cinema. Qui H. Fonda e J. Wayne sono direttamente a confronto. Ma le parti sembrano invertite: Fonda è caparbio e sprezzante, mentre Wayne – solitamente calato nella parte dello yankee a tutto tondo – veste i panni problematici di un ufficiale che sembra avere rispetto per i nativi americani. Wayne riprende qualche anno dopo il suo ruolo di cavaliere senza macchia e senza paura, coriaceo, solitario, specchio delle «virtù» americane, in un altro caposaldo del western, Sentieri selvaggi, girato nel 1956, dopo incursioni di F. in altri generi, tra i quali la commedia – con gli splendidi Un uomo tranquillo (1952) e Il sole splende alto (1953) – e il dramma – con La lunga linea grigia (1955). Senza abbandonare quello che è stato considerato il genere principe del cinema americano, frequenta altre forme della narrazione filmica, come nel drammatico Le ali delle aquile (1957), nell'antirazzista L'ultimo urrà (1958), nel poliziesco 24 ore a Scotland Yard (1958), oppure nella sapida commedia I tre della Croce del Sud (1963), ma è ancora nei paesaggi – reali e mentali – dell'amata Frontiera che la sua tempra di inarrivabile artigiano della settima arte continua a esaltarsi e a innovarsi. Non a caso, dopo aver magistralmente contribuito a codificare il genere, sul finire della carriera apre la strada anche al filone «revisionista», quello filo-pellerossa (il cui prototipo è rappresentato da L'amante indiana, 1950, di D. Daves), che investe il western cosiddetto «crepuscolare» degli anni '60/'70. Infatti, dopo aver reso un altro omaggio alla cavalleria del Sud-Ovest con Soldati a cavallo (1959), realizza Cavalcarono insieme (1961), questa volta affidando le parti principali a J. Stewart e R. Widmark, l'uno un attempato sceriffo, l'altro un giovane ufficiale, che devono riportare a casa alcune donne bianche rapite anni prima dai comanches. Il fatto che alcune di queste, ormai integrate nella vita della tribù, rifiutino di tornare al mondo «civilizzato», la dice lunga sulla decisione del regista di rinunciare a J. Wayne. L'anno seguente, in L'uomo che uccise Liberty Valance (1962), ultimo capolavoro di F., Wayne ritorna, accanto a J. Stewart, con il suo profilo di uomo duro e generoso, segnato però da un rivolo di malinconia, da una vena di sofferenza solitaria, cui il tocco fordiano conferisce ancora una volta quella sorta di tristezza epica che incarna la potenza del mito e della leggenda. Anche Il grande sentiero (1964), film per la verità poco riuscito, è un tentativo di riscattare i nativi americani, questa volta gli Cheyennes. F. gira il suo ultimo film, Missione in Manciuria, nel 1966.
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Claudia Cardinale in calesse in una scena di "C'era una volta il West" del grande Sergio Leone, il Ford di casa nostra. |
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Gli
indiani ringraziano John Ford: ricchi e felici con i suoi
capolavori "La fortuna della Monument Valley cominciò negli anni Venti, cominciò con i Goulding, Harry, un commerciante di pecore del Colorado, e la sua giovane moglie Leone, detta "Mike", racconta Echohawk arrotolando le foglie di tabacco. "Furono i primi bianchi ad installarsi qui e a fare piccoli commerci con gli indiani: loro ci procuravano farina e riso per non morire di fame e noi in cambio pagavamo con i tappeti e i gioielli d'argento e turchesi, come quelli che ancora adesso fanno le nostre donne. Vede laggiù quella costruzione di mattoni rossi? Era il loro trading post, quello che oggi è diventato il museo di questa vallata, la nostra memoria storica".
Ma vennero gli anni della Grande Depressione e gli affari dopo
qualche tempo non bastarono più per vivere anche in una terra
dove non c'erano troppe distrazioni, così Harry Goulding ebbe
un'idea: cosa c'era di meglio come scenografia di quelle
montagne rosse che aveva imparato a conoscere roccia per roccia?
"Così un giorno del 1938 partì per Hollywood per tentare
l'ultima carta", ricorda il nativo americano navajo.
"Si presentò agli Studios, domandò di Mr. Ford, di John
Ford, ma il regista non c'era. Non si perse d'animo, ma lo
attese per tre giorni e tre notti davanti al suo ufficio e
quando Ford finalmente arrivò Goulding gli mostrò alcune foto
della Monument Valley. Per il regista fu un colpo di fulmine,
quello era il posto che aveva sempre cercato. Così tre giorni
dopo arrivarono cento persone della troupe e il mese successivo
stava già girando proprio qui tra queste montagne il suo
capolavoro Ombre rosse". Ombre rosse
fu la prima pellicola sonora di una lunga interminabile
serie girata qui (la prima in assoluto fu il film muto del 1925
The Vanishing American di George B. Seitz), e grazie anche alla
Monument Valley vinse due Oscar e John Wayne venne acclamato
divo. E John Ford decise di girare qui nel corso degli anni
altri sei film: Sfida infernale, Il massacro di Fort Apache, I
cavalieri del Nord-Ovest, La carovana dei mormoni, Rio Bravo, I
dannati e gli eroi, Il grande sentiero.
"Da allora la nostra vita qui alla Monument Valley si
trasformò" spiega Ashley Echohawk. "Il cinema ci
aveva portato la ricchezza, ci fece cambiare vita: molti indiani
cominciarono a fare le comparse nei film e i nostri amici
Goulding investirono i guadagni costruendo il general store, il
motel, la pompa di benzina, la scuola, il ristorante, insomma
una vera e propria cittadina che ha permesso a noi Navajos di
sopravvivere e di lavorare nella nostra terra e che ancora oggi
ci consente di vivere dignitosamente".
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il nome Navajo deriva dal termine Navahuu che in lingua Tewa, parlata da alcune popolazioni del sud ovest, significa Campo coltivato in un piccolo corso d'acqua. In lingua Navajo si usa il termine Diné (talvolta citato nella letteratura come Dineh) che significa Il popolo. Dal punto di vista etnico i Navajo appartengono al ramo Athabaska meridionale, originario dell'Alaska e del nord del Canada e in realtà appartengono all'insieme delle nazioni Apache che intorno al 1500, provenienti dal nord, si stanziarono in un vasto territorio che si estende dall'Arizona al Texas occidentale e dal Colorado al nord del Messico entrando in conflitto con le popolazioni Pueblo che vivevano in quei territori. A differenza delle altre popolazioni amerindie gli Apache non avevano una sola identità di nazione o tribù, ma erano distinti in clan o gruppi familiari estesi, fondati su base matrilineare (gli uomini andavano a vivere presso la famiglia della sposa). Ciascun gruppo si considera una nazione. Dal
punto di vista linguistico appartengono al ramo Na-dené, la
stessa tipologia linguistica degli Athabaska del nord e degli
Apache in senso stretto. Una prerogativa condivisa con il resto delle popolazioni Apache era il frequente ricorso alla razzia ai danni di Europei e Pueblo allo scopo di incrementare la proprietà in cavalli e pecore. Contrariamente a quanto si racconta nell'epopea western, gli Apache e i Navajo non avevano il culto della guerra e del coraggio e nella loro struttura sociale mancavano associazioni assimilabili a società di guerrieri come nelle popolazioni delle Grandi Pianure: i fatti di guerra consistevano in realtà in razzie e azioni di guerriglia tese a sfuggire alle rappresaglie. Il valore individuale nella cultura Apache e dei Navajo si misurava non nell'atto di coraggio bensì nell'efficacia della razzia e nell'entità dei beni posseduti (cavalli e bestiame). La guerra pertanto assumeva i caratteri di una tattica di guerriglia in cui si evitava lo scontro fine a sé stesso, ma solo dettato dalla necessità di giungere ad uno scopo economico. La struttura sociale delle nazioni Apache e dei Navajo, polverizzata in gruppi familiari estesi senza livelli di organizzazione di grado più alto, il rifiuto della guerra aperta, il ricorso alla razzia come attività economica resero queste popolazioni avversari difficili per gli Stati Uniti e in effetti furono tra le ultime nazioni indiane ad arrendersi definitivamente. In prossimità della Guerra di secessione americana, il governo degli Stati Uniti per garantirsi l'appoggio dell'Arizona e del Nuovo Messico decise di porre fine al problema delle razzie e di confinare le popolazioni più bellicose, in particolare i Mescalero e i Navaho a Bosque Redondo, una riserva del Nuovo Messico. L'operazione con i Navajo, di cui fu incaricato il colonnello Christopher Carson, si sarebbe dovuta svolgere pacificamente per mezzo di trattative, tuttavia la difficoltà di trattare con un'organizzazione sociale polverizzata e dispersa in un vasto territorio portò allo scoppio di una campagna di guerra durata quasi un anno (1863-1864). Il risultato fu una tragedia: agli oltre 1000 caduti durante la guerra si aggiunse la deportazione a piedi di circa 8000 Navajo verso Bosque Redondo con una marcia forzata di 300 miglia, nel corso della quale persero la vita le persone più deboli. Il confinamento a Bosque Redondo, durato 5 anni, è segnato come la pagina più nera della storia dei Navajo. La riserva era ubicata in un territorio malsano, quasi privo di vegetazione e poco vocato all'agricoltura. I rifornimenti di vettovaglie da parte dell'esercito erano scarsi e di cattiva qualità ed erano frequenti gli scontri con i Mescalero, con i quali si condivideva il confinamento. Il ritorno ai territori d'origine segnò una drastica mutazione nella storia dei Navajo. La popolazione tornò all'attività agricola ma intensificò l'allevamento, l'artigianato (in particolare la tessitura e la lavorazione dell'argento) e cessò con le razzie. Diversi Navajo integravano il reddito, quando non era sufficiente, con il lavoro salariale. Il nuovo corso fu così favorevole che la ricchezza dei Navajo crebbe a livelli tali da spingere il governo degli Stati Uniti a regolamentare l'incremento dei capi di bestiame allevati a causa dell'eccessivo numero. Il popolo dei Navajo conta oggi circa 250.000 persone e costituisce il gruppo etnico più numeroso fra i nativi americani, stanziato in un territorio del nord est dell'Arizona. Il territorio dei Navajo, che supera in estensione ben 10 dei 50 stati degli USA, gode di autonomia amministrativa e la nazione rappresenta uno dei pochi esempi di conservazione di una forte identità amerindia all'interno della società statunitense. Pur mantenendo vivi i propri valori (lingua, cultura, tradizione), i Navajo si sono adattati al progresso nell'ultimo secolo organizzandosi in una struttura sociale autonoma moderna e integrata come nazione all'interno di una nazione. Uno degli elementi di vanto dei Navajo come cittadini americani fu l'uso della lingua dei Navajo come codice di comunicazione durante la seconda guerra mondiale e il fondamentale apporto dato ai risultati delle battaglie dell'esercito americano contro i giapponesi da parte dei "code talkers" Navajo (letteralmente "coloro che parlano il codice"). Durante la seconda guerra mondiale un codice segreto delle forze armate americane, mai decodificato dal controspionaggio giapponese, era basato sul linguaggio navajo, una lingua complicata e a quel tempo praticamente sconosciuta in tutto il mondo, al di fuori degli Stati Uniti. (fonte: Wikipedia)
Le guerre dei Navajo Come gli Apache che li avevano preceduti due secoli secoli prima, anche i Navajo si staccarono dagli altri popoli del ceppo atapascano, abitanti l'odierno Canada, per emigrare verso il Sud-Ovest. La data approssimativa dell'arrivo dei Navajo nel territorio compreso tra i tre fiumi, Rio Grande, San Juan e Colorado, è quella del 1050 d. C. Come gli Apache, i Navajo erano in origine un popolo nomade e guerriero, che integrava il suo sostentamento ottenuto con la caccia, anche con incursioni contro i Pueblo prima, e poi anche contro gli spagnoli.
ARTIGIANATO
Dagli
ultimi decenni del 1800 la ditta S.A. Frost's Son di New York
fondata nel 1858, che importava prodotti specifici per «Indian
Traders», intrattenne assidui contatti con il genovese Raffaele
Costa. . I
gioielli di Charles Loloma combinano un profondo rispetto per la
tradizione con l'abilità di cambiare concetti stereotipati
degli Indiani d'America. Nato nel 1921 da una famiglia di Hopi
tradizionalisti, partì da una formazione di ceramista e pittore
ed arrivò alla gioielleria nella metà del 1950. Loloma
armonizza elementi del suo background hopi, come la tecnica
dell'intarsio di pietre dure a mosaico, con un senso estetico
contemporaneo. La sua abilità fu quella di rendere pregi le
imperfezioni della natura, sottolineando nel suo disegno le
ruvide proprietà del metallo. La sua eredità fu ripresa dalla
nipote Verma Nequatewa, che seppe abilmente disegnare il
gioiello attorno alla forma pura della materia, come il corallo.
I gioielli contemporanei del sud-ovest sono caratterizzati
dall'uso d'argento, turchese e corallo Oggi
la produzione orafa, che assicura un introito alla metà
dell'intera popolazione zuni, pone l'enfasi sul turchese e il
corallo, inserito in piccoli e sottili castoni (tecnica detta
needlepoint) o in mosaici con madreperla, turchese, corallo e
giaietto, estremamente elaborati e molto apprezzati dai
collezionisti di tutto il mondo. Molti sono oggi i Navajo che
indossano gioielli prodotti da Zuni. Questa
simbologia con il tempo prese una direzione del tutto propria
staccandosi dall'originale modello, arricchendosi di pietre e
altre lavorazioni.
ALCUNI PROVERBI NAVAJO
Attento mentre parli. Con le tue parole tu crei un mondo intorno a te.
vedete di procurare loro gioia ogni volta che potete
di non privare
gli altri della felicità. Non ereditiamo il mondo dai nostri padri, ma lo prendiamo in prestito dai nostri figli.
per due lune nelle sue scarpe.
che non hai visto ritorna a volare nel vento.
Nei
fumetti, il popolo dei Navajo è la tribù a cui appartiene Tex,
di cui è il capo con il nome di Aquila della Notte. Ma
l'assistente di Tex si chiama Kit Carson, stranamente il nome
del più grande nemico del popolo Navajo. c cura di Sergio Mura Entrato
a far parte della mitologia popolare persino da vivo, Kit Carson
fu un trapper, scout, agente indiano, soldato e autentica
leggenda del West. Era
ancora al servizio di Fremont come guida quando Fremont stesso
si unì alla rivolta dei cittadini americani in California, poco
prima dello scoppio della guerra con il Messico del 1846. Sempre
Carson guidò le armate del Generale Stephen Kearney dal New
Mexico alla California per rispondere alla sfida agli Stati
Uniti della banda di Andrés Pico in risposta all’occupazione
americana di Los Angeles.
A partire dal 1863 Carson intraprese una brutale guerra per
distruggere l’economia alla base della vita dei Navajo,
marciando fino al cuore del loro territorio e distruggendo i
loro raccolti, i frutteti e il bestiame. Quando gli Ute, Pueblo,
Hopi e Zuni, che per secoli erano stati preda dei razziatori
Navajo, iniziarono a trarre vantaggio dalla debolezza dei loro
tradizionali nemici seguendo i bianchi nella guerra, i Navajo
non furono più in grado di difendersi. Così, nel 1864 la
maggior parte di loro si arrese a Carson che costrinse quasi
8000 Navajo, uomini, donne e bambini, a intraprendere quella che
sarebbe stata chiamata “la lunga marcia” di quasi 600
chilometri dall’Arizona a Forte Summer, New Mexico, dove
rimasero confinati e decimati dalle malattie fino al 1868.
CI
HA SEMPRE INCURIOSITO L'INTERPRETAZIONE CHE LEI HA DATO DEL
PERSONAGGIO DI KIT CARSON. HA QUALCOSA DA DIRE IN PROPOSITO?
(da un'intervista a L.G. Bonelli, disegnatore di Tex Willer) |
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