La piazza del Duomo di Catania ha uno spiccato carattere architettonico e scenografico. Lo deve all'evidenza plastica e volumetrica degli edifici che la circondano e alle lunghe prospettive aperte dalle arterie che la attraversano.

Era chiamata “Chianu di Sant’Aita”, in onore di Sant’Agata, patrona di Catania e fu creata nel corso della ricostruzione della città, dopo il terremoto del 1693.

Ha pianta rettangolare e ornata al centro con la fontana del Vaccarini, con l'elefante che regge un obelisco egiziano. Sul lato Nord della fontana il palazzo del municipio, opera del Vaccarini (1741), e sul lato opposto il palazzo dell'ex seminario dei chierici.

Ma l' elemento predominante è la gran mole del Duomo, ricostruito subito dopo il 1693. Sorge sul lato Est, in un recinto marmoreo coronato da statue e la sontuosa facciata eretta dal Vaccarini nel 1736.

 

 

 

U CHIANU DI SANT'AITA

Tanti anni fa, il compianto professor Enzo Maganuco, nell'osservare alcune fotografie che avevo di fresco stampate (e stavano ancora sul mio tavolo), additandone una che inquadrava la fontana dell'Elefante e il prospetto della Cattedrale, esclamò: Questa è la Città! e mi guardò intenzionalmente, come per dirmi: Manca forse qualcosa?
Quel breve rettangolo di cartoncino bianco conteneva, infatti, la sintesi della città, di tutta la città; quell'unica immagine conservava il significato più completo della eivitas come noi la intendiamo, vale a dire: lo stemma civico e il campanile, l'Elefante e Sant'Agata.

 

 


Qual meraviglia, dunque, se l'area nella quale s'affacciano questi numi tutelari, è nel cuore d'ogni catanese? 

La preminenza di questa piazza - che da tempo immemorabile ha svolto anche la funzione di palcoscenico della città - è fuori discussione. Ecco perché essa venne indicata, prima col nome di platea magna, poi come il piano di Sant'Agata (o semplicemente il Piano, per anto-nomasia), e venne sempre considerata la parte più nobile e prestigiosa di Catania.

 

 

 

Forse qualcuno ricorderà la lapidaria frase, ricorrente in presenza di richieste ritenute eccessive: "Ma tu chi vulissi, 'mpalazzu o u chianu? ").
Oltre tutto, questa piazza era stata, da diversi secoli, il centro propulsore d'ogni attività cittadina.
Vi sorgevano le sedi sontuose dell'autorità CIvica e di quella religiosa, era il luogo d'incontro di grossi personaggi (senatori, patrizi, viceré, alti prelati, ospiti illustri), era il punto di partenza delle cerimonie ufficiali, laiche e religiose, il ritrovo preferito del popolo che vi convergeva spesso per ascoltare, chiacchierare, applaudire, far baldoria, tumultuare, a seconda dei casi e delle occasioni.
Osserviamola sul finire del Settecento.
Vaccarini non si era risparmiato per nobilitare questo spazio così ricco di storia e di tradizione. E il frontale della Cattedrale, la fontana dell'Elefante, il Palazzo del Senato, il Monastero di S. Agata stavano a testimoniare, sin d'allora, del suo grosso impegno. Il giovane architetto palermitano (ma veniva da Roma) era arrivato a Catania nel gennaio del 1730, e già in quel tempo il piano di Sant'Agata aveva preso forma; e alcune fabbriche che vi si affacciavano erano abbastanza alte, seppure non ancora ultimate.

 

 

 

 

Mons. Andrea Riggio, il focoso vescovo che si trovò a reggere la diocesi nel diflicile periodo della catastrofe, aveva portato avanti la costruzione della Cattedrale, non senza sacrifici e con grande impegno.
Nel 1713, prima ch'egli amareggiato partisse da Catania, poteva dirla completa nelle strutture fondamentali, grazie alla bravura di quel mistico architetto che fu Girolamo Palazzotto, alias fra Liberato.

 

 

 

 

 

 


Nel contempo, i fratelli Amato, raffinati intagliatori venuti da Messina, aiutati dal capomastro locale Giuseppe Longobardo, avevano posto mano, fra l'altro, alla fabbrica del Palazzo Senatorio, e nel 1730 i lavori erano arrivati al primo piano; Alonzo Di Benedetto, unico architetto catanese scampato al terremoto, aveva ornato del suo morbido barocco la fabbrica del Seminario dei Chierici, di quel raffinato palazzo nel quale il motivo dominante resta "il grande pilastro che parte dalle fondamenta e finisce sotto la cornice senza attico, allegrato da ogni tipo di bugne, a cui gli artisti del tempo osarono dare il nome di "ordine".

 


Catania era un operoso cantiere: il piano di Sant'Agata e le immediate adiacenze costituivano il cuore di quel cantiere.
In nome di Dio e di Sant' Agata, il religiosissimo abate Vaccarini
vi si calò dentro, appena arrivato; e, nel giro di alcuni anni, ne portò a compimento la fastosa cornice.

Bisogna aggiungere che tale cornice, ancora in quel torno di tempo, appariva incompleta, specialmente dalla parte di levante. Vediamone il perché.
La Cattedrale mancava della torre campanaria, della scalinata marmorea, dell'imponente balaustra in pietra di Taormina; né, tanto meno, erano stati allestiti i grandiosi cancelli di f.erro battuto; non erano stati collocati i pilastri con le statue dei santi catanesi, né, meno che mai, era stata impiantata la villetta che, da quel lato, oggi l'adorna.

 

Ad angolo, poi, fra la strada dritta e l'attuale via Vittorio Emanuele, era stato costruito, subito dopo il terremoto del 1693, un grande e brutto edificio avente funzioni di carcere.
"Era un vasto edificio ad un piano ... che si estendeva fino a piazza Studi. Il piano terra ... ed il cortile - ov'era l'antico caffè Tricomi - costituivano il carcere della città. Le attuali botteghe erano allora finestre, munite di robuste inferriate in croce, che impedivano bensì l'evasione, ma non la comunicazione fra i detenuti e i parenti dal di fuori" .
A mezzogiorno, infine, mancavano il secondo piano del Seminario e la fontana di Tito Angelini, non ancora costruiti; mentre, al centro-piazza, la fontana del Vaccarini non era stata ancora chiusa dall'apposita cancellata di ghisa ferrosa.

 


Nel museo del Castello Ursino si conserva un'antica stampa edita da Berteaux a Parigi' verso la fine del sec. XVIII, la quale ci mostra, appunto, il volto della piazza settecentesca, offrendoci , nel contempo, attendibili testimonianze di vita catanese di quell'epoca. La scenetta, di squisito sapore ridanciano e festaiolo, ci porta in pieno centro cittadino, pressappoco  dopo il disastroso terremoto del 1693.
In quel tempo, tra una festa religiosa e l'altra, una processione ecclesiastica e un corteo senatoriale (che, quasi sempre, dal piano di Sant'Agata prendevano l'avvio e qui si concludevano), la piazza serviva da immenso palcoscenico alle feste di carnevale, ospitando rappresentazioni di spiccato sapore popolaresco e tutto quel chiassoso, spesso turbolento, contorno di gente che d'ogni parte della città vi affluiva.

 


In particolare, nell'ultimo giorno di carnevale, il piano di Sant'Agata diventava meta obbligata del popolo che vi sciamava per assistere alle commedie farsesche, alle cosidette carnalivarate che si concludevano con danze, canti, risate, spesso anche con lancio di gesso, di pietre, di petardi, e con conseguenti litigi, risse e baraonde.
La scenetta della stampa francese sembra svolgersi all'insegna della baldoria ma, per fortuna, senza disordini né tumulti.
Guardiamola insieme. Davanti al Palazzo Senatorio (dalla tribuna centrale i senatori ed il patrizio assistevano alle feste) s'innalza un baraccone a due piani, una specie di teatrino, sul cui palcoscenico s'intravedono uomini in maschera che recitano una commedia farsesca. Sotto; è visibile una grottesca taverna con una gigantesca giara presumibilmente colma di vino; accanto al tavolo della méscita, alcuni avventori intenti a bere.

 

 

Attorno alla fontana dell'Elefante, il pubblico gaudente; più oltre, una berlina di gala attaccata a due pariglie di destrieri. In primo piano, a destra, si osserva l'immagine di un carro a due sponde coperto da un tendone, stracarico di maschere. A sinistra, campeggia una scenetta esilarante (e licenziosa): quattro uomini vestiti con la maschera di Pulcinella, si danno da fare attorno ad un asino: uno lo trattiene per la cavezza, un altro, montatolo alla rovescia, gli regge la coda verso l'alto, i rimanenti due, armati d'una grossa siringa, si accingono a fargli irrigazioni sotto la coda stessa: uno scherzo pesante, di cattivo gusto, chiamato allora serviziale.
A ridosso della baracca, sullo sfondo del Monastero di S. Agata, s'intravede un palchetto con all'interno un uomo, mascherato da cane, nell'atto di fare il serviziale ad un malcapitato gatto.
Complici, dunque, gli istrioni, i commedianti, comici e le maschere; con la condiscendenza della nobiltà e sotto l'occhio vigile del clero, il popolo catanese smaltiva la sbornia carnevalesca aI piano di Sant'Agata.
Un modo come un altro per dimenticare la miseria.

 

di Lucio Sciacca, “Catania com’era” - Vito Cavallotto Editore

 

 

 

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Il palazzo Municipale di Catania, i cui lavori iniziarono subito dopo il terremoto del 1693, è a forma quadrangolare con un’ampia corte porticata su due lati. Ha un atrio d’ingresso su ognuno dei quattro prospetti a sottolineare il suo carattere di edificio aperto al pubblico e di servizio alla collettività. L’ingresso su piazza Duomo, cuore della città, è enfatizzato da un grande portale collegato alla tribuna (balcone centrale) del piano superiore. Il Vaccarini, nel 1735, intervenne quando l’impianto già raggiungeva la prima elevazione e modificò il prospetto interrompendo le paraste a bugne diamantate facendole continuare con piatte lesene; allo stesso  tempo innalzò la sontuosa tribuna che poggiava sul portale d’ingresso il cui ballatoio è sorretto da quattro colonne di granito. La trabeazione del balcone è sostenuta da capitelli, mentre sui due tronconi del timpano spezzato, durante le  poggiano due gruppi scultorei secondo una disposizione di moda a quel tempo. Al centro dei due gruppi risalta il grande stemma della città. Punto focale della costruzione è, come abbiamo visto, la grande tribuna, dalla quale le autorità possono seguire le celebrazioni religiose che si svolgono nel grande teatro barocco della piazza.

 

 

 

 Ed è da questa tribuna che, in occasione delle feste agatine, le autorità politiche e religiose (unite insieme da una profonda devozione nei confronti della santa) assistono alla "cantata" (cioè all’esecuzione di canti religiosi dedicati a S. Agata) e agli spettacoli dei fuochi d’artificio. Ne I Viceré di Federico De Roberto (1861-1927) si legge: "Saliva dalla via un rumore come d’alveare, tanta era la folla, e il campanone del Duomo coi suoi rintocchi lenti e gravi pareva batter la solfa alle campane della Badia, della  Collegiata e dei Minoriti <Viva Sant’Agata!...> Tutte le signore s’inginocchiarono. (...) cominciava lo sparo dei fuochi d’artificio pagati dal principe; in mezzo al fumo che pareva quello d’una battaglia lampeggiavano i colpi rapidi e frequenti come le scariche di un reggimento; le grida di viva si perdevano in mezzo al fragore degli scoppi e solo vedevansi sul mar delle teste sventolare i fazzoletti come sciami di colombe impazzate". All’ingresso trovano posto anche le carrozze del Senato: una fastosa berlina in legno dorato e dipinto della fine del XVIII secolo, e un’altra carrozza più semplice; vengono entrambe usate nel corso dei festeggiamenti agatini: il giorno 3 febbraio le autorità cittadine, a bordo delle carrozze, raggiungono la chiesa di S. Biagio (in piazza Stesicoro) per offrire la cera alla santa.

 

VISITA IL PALAZZO

 

 

 

 

 

 

 
Ingresso del Palazzo dei Chierici Ingresso del Palazzo degli Elefanti

 

 

 

 

 

Sotto Porta Uzeda entriamo in Piazza Duomo, cuore della città dell’epoca medievale ma ormai di aspetto barocco, dove è situata la famosa Fontana dell’Elefante, progettata da Giovanni Battista Vaccarini, conosciutissimo architetto siciliano.Di fronte si erge il palazzo del Municipio, la cui facciata principale è sempre del Vaccarini, alla destra i marciapiedi del Duomo dai quale parte Via Etna e alla sinistra l'ottocentesca fontana dell'Amenano.

Opera dello scultore napoletano Tito Angelini, che fu fatta erigere per celebrare l'avvenuto imbrigliamento delle acque del fiume Amenano, che aveva provocato fino ad allora una enorme quantità di danni ai quartieri centrali della città. Il popolo, a causa del velo d'acqua che cade dai bordi della vasca, su cui sorge la statua del dio, denominò la fontana "dell'acqua o linzolo" (acqua che scende a lenzuolo). Inserita fra Palazzo dei Chierici e Palazzo Pardo, la fontana chiude prospetticamente la piazza del duomo a sud, concludendo il progetto scenografico di via Garibaldi. Fu progettata dallo scultore napoletano Tito Angelini nel 1867, a seguito della regolarizzazione del corso del fiume Amenano.

 

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E' costituita da una grande vasca a forma di conchiglia sulla quale si staglia la figura di un giovane nel quale è personificato Amenano, dio fluviale onorato nell'antichità dai catanesi. Ai due lati, altrettanti tritoni.La conchiglia poggia su un basamento che reca nella parte anteriore lo stemma della città.

Nella parte opposta, dentro uno scudo, le parole: Acqua - l'Amenano - 1867 (anno dell'inaugurazione). Dietro la fontana si apre la piazza Alonzo Di Benedetto, dove si tiene quotidianamente il caratteristico e pittoresco mercato del pesce. E visto che siamo proprio a due passi non possiamo esimerci dal visitare la Pescheria di Catania, inserita proprio al centro della città

 

 

La città sotterranea

Sotto il suolo lavico cittadino si estende ancora oggi la città cinquecentesca, con le sue strade, le chiese, le terme, i palazzi e persino le targhe stradali, che la lava nel 1693 seppellì, custodendola per i posteri. In numerosi punti è possibile scendere nel sottosuolo, che si dice fu testimone di intrighi amorosi fra suore e frati, nascondiglio di briganti e tesoro per i cultori di cose d'arte.

Quando le lave del XVII secolo coprirono la città cambiandone la topografia, seppellirono anche il fiume Lognina, il fiume Amenano e il lago di Nicito. Numerosissimi sono i punti della città ove gli scavi hanno rivelato la presenza del fiume Amenano, dalla portata di circa 14 litri al secondo. Il vulcanologo C. Gemellaro (1787-1866) sosteneva che il percorso cittadino dell'Amenano è il seguente: segue viale M. Rapisardi sino a piazza S. Maria di Gesù, quindi corre lungo la via Plebiscito per imboccare via Botte dell'acqua e raggiungere il Monastero dei benedettini, dove, prima di sboccare a mare, si divide in tre rami.

 

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Il primo ramo attraversa il quartiere S. Agata, il cortile S. Pantaleo, via Orfanelle, vico degli Angeli, la pescheria e villa Pacini. Il secondo segue via S. Agostino, piazza S. Francesco d'Assisi, via V. Emanuele e piazza Duomo. Il terzo passa sotto il monastero di S. Giuliano e attraversa le terme Achillee.

Il fiume Lognina, le cui acque sono indipendenti da quelle dell'Amenano e che diede nome alla borgata marinara di Ognina, probabilmente scorre a nord di Cibali e si getta in mare dopo avere attraversato via Duca degli Abbruzzi. Del lago di Nicito si sa che si trovava di fronte al Bastione degli Infetti e che aveva una circonferenza di sei miglia.

http://www.cormorano.net/catania/arte/sotterrn.htm

 

 

 

Amenano: le curiosità del fiume sotterraneo

Cristina Gatto -  27 settembre 2017

 

Il fiume Amenano possiede una storia ricca di fascino e di mistero. Il suo racconto si avviluppa a quello della città di Catania in maniera simbiotica. Il simbolo della tenacia, della resurrezione contro le ceneri della lava. La sconfitta e la vittoria del “fantasma silenzioso e sotterraneo” che scorre tra le viscere catanesi. Il fiume Amenano, tra leggende e curiosità; una breve narrazione, a dirla con le parole di Gesualdo Bufalino, di “dove è più nero il lutto, ivi è più flagrante la luce”.

 

 

Rispolverando alcuni libri di storia, mitologia e qualche poema epico, il fiume Amenano ci appare in tutta la sua bellezza e nella sua forza attrattiva. Ritroviamo il dio-fiume, quello che per gli antichi greci rappresentava una divinità con il corpo di un toro e il volto dalle umane sembianze. (Ri-)scopriamo le raffigurazioni in molte delle antiche monete risalenti al V secolo a.C. Leggiamo di come nel Medioevo, veniva chiamato Judicello perché attraversava l’antichissimo quartiere ebraico della Giudecca e di cui il nome fu mantenuto fino all’Ottocento.

Quell’Amenano che dal greco amènanos e dal latino amenànus, viene citato da Strabone nel suo libro quinto del “Rerun Geographcarum” e da Ovidio nei “Fasti”, nel racconto del peregrinare di Cerere. E ancora in Ovidio con “Le Metamorfosi” nei meravigliosi versi “E l’Amenano, che trascina sabbie di Sicilia, a volte,

 

 

Il fiume Amenano riforniva di acqua l’intera città di Catania fino al 1669, anno della più devastante eruzione dell’Etna in epoca storica. Un’eruzione che arrivò fino a Catania coprendo interamente il lago di Nicito dal quale si dipartivano i 36 canali che alimentavano i rami dell’Amenano. Un nero lutto fatto di basalto lavico che copriva quel flusso d’acqua che scorreva dal viale Mario Rapisardi fino a piazza Santa Maria di Gesù; che imperioso lungo la via della Botte dell’Acqua proseguiva verso il Monastero dei Benedettini.

 

foto di Andrea Mirabella

Tre rami che si dirigevano rispettivamente verso la pescheria e la villa Pacini; verso il teatro romano e piazza Duomo; verso le terme achilliane, terminando al porto. Nonostante l’eruzione,” ivi è più flagrante la luce”, in nome della sua storia e della sua magnificenza, il fiume tutt’oggi scorre nel sottosuolo. Fluisce come un dio tra frattaglie sotterranee e ogni tanto mostra il volto, silenzioso e schivo, in alcune parti della città.

La fontana dell’Amenano mostra un lato del suo volto nella splendida Piazza Duomo, nella famosa fontana chiamata anche “Acqua a Linzolu”; nella fontana di Largo Paisiello, nel lavatoio di Cibali, nella Fontana dei Setti Canali e in un tratto di Villa Pacini. Si mostra anche nelle terme achilliane e nel pozzo di Gammazita ritrovando la sua collocazione prima di sparire dalla vista dei curiosi.

Catania, però, perla d’acqua e fuoco, mostra un’altra sfumatura del dio-fiume. La magia dell’Amenano si trova anche all’interno di un locale. All’Agorà – Putia dell’Ostello, dalla cantina sotterranea si apre una porta che conduce ad una grotta lavica naturale attraversata dalle acque del fiume. I sapori siciliani si fondono con l’incanto dell’Amenano che risorge dalle ceneri, perché a Catania tutto risponde a “melior de cinere surgo”.

http://catania.italiani.it/amenano-le-curiosita-del-fiume-sotterraneo/

 

 

 

 

 

 

 

qui, una serie di foto relative alle terme sotto la Piazza Duomo,  by bandw.it  

 

 

 

 

 

La lava e l’autore ignoto

Conoscendo le leggende legate ’o liotru, collegate al vicino Oriente e cariche di fantasie esotiche, spuntano spontanee alcune curiosità: la scultura è stata realizzata a Catania, da un artista catanese, con lave dell’Etna, come afferma l’iscrizione alla base (ex aetneo lapide simulacrum), oppure no? Il litotipo con cui è stata realizzata la scultura è, probabilmente, una lava effusiva, grigio scura, bollosa, molto compatta. Considerato che gli elefanti nani erano presenti in tutta la Sicilia (ritrovamenti fossili di elephas falconeri e mnaidriensis, in ambito siracusano, etneo, messinese, e nella zona di Carini), ma anche in alcune isole del Mediterraneo orientale presso le coste dell’Anatolia, e che, in alcuni di questi luoghi, si trova quel tipo di lave (M. Etna, M. Lauro, M. ti Troodos, Cipro …), si potrebbe indagare sulla litologia e quindi sulla provenienza delle lave dell’elefante e sulla loro età, incrociando i dati, pur sapendo che l’estinzione dell’elefante nano è collocata intorno a 32000 anni fa e che l’Homo Sapiens è comparso in Sicilia circa 30000 anni fa. Certamente per i catanesi sarebbe amaro scoprire che il loro amato Liotru è stato creato a Cipro da uno scultore turco per un signore di Costantinopoli e poi da lì trasportato a Catania da un mercante dai gusti originali; oppure peggio, "scolpito" a Buccheri, da un pecoraio di Monte Lauro, a tempo perso, dato che anche lì esistono le lave bollose grigio scuro e forse qualche elefantino nano, a suo tempo, smarrito.

 

 

E comunque la scultura potrebbe rappresentare, in scala ridotta, un elefante africano di taglia "normalmente" elefantina, come i tanti che di certo hanno attraversato la Sicilia servendo pazientemente negli eserciti o destinati a crudeli giochi nei circhi. E’ quasi certo che non sono mai state effettuate indagini litologiche, chimiche o fisiche, dirette, che potrebbero essere il punto di partenza per "saperne di più". Si potrebbero applicare semplici tecniche geochimiche, petrografiche, e radiometriche anche su piccoli frammenti originali. Ma forse è meglio lasciare che il mistero avvolga ancora la litologia dell’elefante e il suo mito.

Condannato a morte da Costantino, nel momento in cui stava per eseguirsi la sentenza, egli domandò in grazia una catinella d'acqua: vi tuffò la testa e sparì misteriosamente, dicendo: - " Chi mi vuole, mi cerchi in Catania ! ".
Al colmo del furore, l'Imperatore ordinò allora ad Eraclio di ripartire subito, affinchè, con ogni mezzo, riacciuffasse il prigioniero. Ritrovato, quest'ultimo non oppose alcuna resist
enza: docile e silenzioso, s'imbarcò, insieme all'inviato dell'Imperatore, su di una nave, da lui stesso costruita per via d'incantesimi, la quale, in un giorno e senza aiuto di remi, li trasportò a Costantinopoli, svanendo subito, appena approdata.
Avvertita dell'arrivo, la moglie di Eraclio mosse, ansiosa, ad incontrarlo, ma, quando scorse l'infame mago, accesa di sdegno, lo apostrofò:- " Uomicciolo sporchissimo, tu sei quello che hai fatto viaggiare mio marito in Sicilia con tanto travaglio?! ". 

E in ciò dire gli sputò in faccia.
Eliodoro ebbe un ghigno satanico: - " Ti farò ben presto pentire di avermi ingiuriato, e con tua somma vergogna ! " - la minacciò. E mantenne, infatti la promessa: in quel momento stesso, in tutta la città e vicinanze, per un raggio di oltre venti miglia, si estinse ogni fuoco, senza che alcuno riuscisse a ottenere nemmeno una scintilla. La confusione, come è da immaginarsi, fu enorme, ma grande fu altresì la meraviglia, quando si vide il fuoco generato solo dalle parti posteriori della moglie di Eraclio. Per tre giorni consecutivi, fu d'uopo che essa rimanesse nella pubblica piazza, affinchè ognuno si provvedesse della necessaria fiamma. Nuovamente ricondotto dinanzi al carnefice, Eliodoro, mentre stava per ricevere il colpo di grazia, si rese straordinariamente piccolo: entrò per la manica destra del carnefice e ne uscì dall'altra, gridando: " Scampai la prima volta; questa è la seconda. Se mi volete, cercatemi a Catania! ". E disparve ancora, facendosi trasportare dagli spiriti nella inquieta città.

Ma a liberare quest'ultima dai suoi sortilegi, accorse, finalmente, il vescovo Leone detto il Taumaturgo (...sed tandem à Leone Catanensi Episcopo divina virtute ex improviso captus, frequenti in media Urbe populo, in fornacem igneam injextus, incendio consumptus est...).
Egli, infatti, dopo avere effettuata la distruzione del tempio consacrato alle due grandi divinità muliebri, Demetra e Cora, fino a quei tempi tanto venerate a Catania, decise di stroncare definitivamente la magìa giudaica di cui era esponente Eliodoro. Convocati perciò i fedeli nelle vicinanze delle Terme Achillee, dinanzi alla cappelletta eretta in onore di Maria Vergine, celebrò una solenne messa propiziatoria.
Si vuole che, oltre a molti Giudei e Gentili, si mischiasse tra la folla anche il temerario Eliodoro, il quale si mise a disturbare il sacro rito in tutti i modi: ingombrando la mente dei fedeli con allucinanti visioni; facendo apparire i calvi improvvisamente capelluti, e viceversa; altri con corna di cervo, di bue, di caprone, oppure con orecchie d'asino, con barba di montone, con rostro di uccello, con denti di cinghiale e altre stravaganti sembianze, in modo da generare il riso. Per ultimo, pretese di provocare il santo vescovo al ballo. 

 

 

Ma le sue nefande arti a ciò non valsero: terminata la messa, San Leone gli si avvicinò e gli gettò al collo la stola: "... Per Christum Dominum meum,nihil hic valebunt magicae artes tuae: deduxitque ad locum, cui nomen Achilleus, ibique flammis ad urendum dedit. Nec manum tuam, quae illaesa cum orario, mansit, ante subduxit, quam miser ille in cineres redigeretur. Sic itaque mos vir factissimus praesenti ope ab illius importunissimi magi periculis eripuit". Eliodoro, infatti, così esorcizzato, venne da S. Leone attratto nell'ardente fornace approntata in una fossa vicina alla chiesa. E mentre il Santo "...se ne uscì illeso, senza che il fuoco bruciasse, nè denigrasse la stola e le vesti ", il mago divenne un mucchio di cenere, in men che non si dica. Il giusto castigo inflitto a Eliodoro è ricordato, ancora oggi, da due piccole tele che si conservano, rispettivamente, nella sacristia della Cattedrale e nel nostro Museo Civico (sala 28, terzo scomparto): la prina, dovuta al pittore trapanese Vincenzo Errante (sec. XIX); la seconda, proveniente dal monastero dei Benedettini, attribuita, da taluni, a Giuseppe Patania (pittore palermitano della fine del Settecento - inizio dell'Ottocento), da altri, al Velasques siciliano.

 

 

Lu Diotru di lu Chianu Lu Diotru di lu Chianu
com'è misu, veramenti, mi scusati si lu dicu, non mi pari giustamenti!

Lu vurrissi ca guardassi non la nostra Catidrali,
ma lu nostru gran Palazzu cusìdittu Cumunali!

Ccu la funcia sò jsata notti e jornu dici a tutti: - Citatinu, fila drittu, si li jammi non vo' rutti!

Sugnu bonu, sugnu caru, ma si viju cosi storti, a cu' sbagghia, ccu 'sta funcia, cci li dugnu...forti forti!.

Si moru ju, ccu n'autri cent'anni, non vogghiu fattu nuddu monumentu
comu si stila ccu li genii granni, pirchì pueta granni non mi sentu!

Voggh'èssiri, precisu, vurricatu sutta la funcia di lu Liafanti:
di lu cullega miu malasurtatu, pri ricurdari a tutti li passanti

chi a trenta metri di la Porta Uzeta, all'umbra di 'sta funcia prizziusa,
riposa un mudistissimu pueta ch'à datu corpa a tutti, a la rinfusa.

Quanto all'elefante che - sempre secondo la tradizione popolare - aveva servito ai prestigi del mago, quale portentosa cavalcatura per i suoi rapidissimi viaggi da Catania a Costantinopoli e viceversa, dopo essere stato lungamente dimenticato, venne ricondotto in città dai padri Benedettini del monastero di S. Agata e posto ad adornare un antico arco o porta, detta, appunto, "di Liodoro" o "di lu Liòduro".

Nel 1508, però, essendo stato completato il vecchio Palazzo di Città, la porta predetta, che si trovava alla sua destra, venne abbattuta e l'elefante posto sull'alto del prospetto della parte nuova dell'edificio, a settentrione, quale glorioso emblema della città, con la seguente iscrizione: Ferdinandus. Hispaniae utriusque. Siciliae. Rege - Elephans erectus fuit a Cesare Jojenio - Justitiario - MDVII
Dopo il terremoto del 1693, l'elefante giacque ancora in abbandono, finchè, nel 1727, l'olandese Filippo d'Orville, trovandosi di passaggio da Catania, sollecitò che esso venisse riinnalzato, insieme all'obelisco egizio che adesso lo sormonta. Il voto si compiva nel 1736, ad opera di Giambattista Vaccarini, il quale, con la visione berniniana di Piazza della Minerva di Roma dinnanzi agli occhi, realizzò con essi la monumentale fontana di Piazza Duomo

Una iscrizione, a tergo del monumento, ricorda ai catanesi: " D.O.M. - Vetus Catanae insigne - elephas - ab aequitate prudentia docilitate - Urbem clarissimam eiusque cives - commendat - hoc ut lateret neminem eiusdem - ex aetneo lapide simulacrum - Heliodori olim praestigys celebre - S.P.Q.C. - Docto oneri substratum voluit - Anno MDCCXXXVI".
Oggetto di frizzi e motti, non sempre benevoli, fin da quando gli venne assegnato l'attuale posto, al "Diotru" o "Liotru", ancora ai tempi nostri, i poeti dialettali della città rivolgono invocazioni e preghiere di un genere tutt'affatto differente da quello usato ai tempi del mago Eliodoro. Come queste, del popolare poeta Francesco Buccheri, alias Boley:

In conclusione: astraendo dalla leggenda, nella figura di Eliodoro si può anche vedere l'ultimo sprazzo di quel pensiero filosofico che nella nuova dottrina ravvisava i germi che furono causa del decadimento delle antiche virtù. E se, come si crede, l'elefante, rovesciato fuori la cinta delle mura, continuò a essere oggetto di culto da parte degli abitanti del bosco, assurgendo a simbolo della restaurazione dell'antico pensiero religioso tentata da Eliodoro, non v'è dubbio che fra quest'ultimo e le ancora paganeggianti popolazioni si sia stabilita quella corrente spirituale comune per la quale il popolo, scomparso Eliodoro, continuò a ricordarne il nome in quello che fu l'emblema della vecchia fede: il "Liotru".

Fonte: Salvatore Lo Presti - Fatti e Leggende Catanesi - Edizione SEM Catania 1938.
Altre informazioni si trovano sulla rivista "JU, SICILIA" organo ufficiale del Centro Studi Storico-Sociali Siciliani.

 

 

Dopo la morte di Eliodoro, la gente continua a chiamarlo con il suo nome e, storpiandolo nel tempo, Liotru. Stabilito nell'immaginario dei catanesi, viene collocato a cura dei benedettini di S. Agata su un arco adiacente al Palazzo di Città, nel Piano di S. Agata, la piazza antistante la cattedrale normanna che diventerà piazza Duomo. Lì rimane fino al 1508, quando è posto sul prospetto nord del palazzo rinnovato. A squassare il suo nuovo alloggio provvederà il terremoto del 1693. Su suggerimento dell'olandese Filippo d'Orville di passaggio a Catania, Giambattista Vaccarini, l'Abate palermitano allievo di Bernini, chiamato a progettare la città che vuole rinascere, è incaricato di erigerlo insieme a un obelisco recuperato.
È da quel momento che il Liotru, posto davanti al nuovo palazzo comunale al centro della piazza ridisegnata, assurge a simbolo riconosciuto. Quella di Vaccarini è un'epoca in cui i simboli sono usati in profusione. I più hanno origini che si perdono nel tempo, riproposti in associazioni ibride, trovati su manufatti antichi che gli scavi riportano alla luce e all'attenzione di una nuova categoria d'intellettuali che ne riscoprono bellezze, virtù e ancora una volta magie.
Vaccarini non concepisce il monumento con soli intenti di maniera, pur attento all'armonia ricercatissima in cui gli architetti si confrontano. Secondo il suggerimento del colto d'Orville, lo compone seguendo una descrizione contenuta nell'"Hypnerotomachia Poliphili", un'opera vecchia di tre secoli in voga nei salotti intellettuali. Poliphilo (protagonista del racconto, un viaggio immaginario alla ricerca della verità) descrive un elefante di "nigrigante petra" che emerge tra le rovine di un tempio di Iside. Vi si è ispirato Bernini a Roma nel realizzare la fontana di Piazza della Minerva, ma il suo allievo Vaccarini utilizza un obelisco autentico recuperato tra le macerie e l'antichissimo elefante già adottato dalla città.

Ancora un catanese che ha amato e studiato la sua città ha descritto il procedere di Vaccarini, l'architetto Francesco Fichera: «Egli così apprese che l'Etna fa e disfà la città; ...che la vita, per vestirsi, si serve da noi degli stessi terribili mezzi che la morte adopera per distruggere: la lava che i "petriatori" eternamente dissodano con opera lenta e pertinace. Nel costruire la fontana dell'elefante (1736).... fece conoscenza con questa pietra dura e forte di cui è composta la massa informe del pachiderma pacifico e longevo, simbolo della città». Fichera individua alcuni tratti del Liotru, noi aggiungiamo che l'elefante è noto anche per la sua intelligenza e per l'amicizia e la secolare collaborazione con l'uomo. Il gonfalone di Catania ha in esso l'elemento principale, nella speranza che i catanesi aspirino, almeno, alle sue virtù; sarebbe questa in parte la funzione del simbolo di una città che, come un logo, deve essere riconoscibile e rimandare con immediatezza a ciò che rappresenta.

Catania è stata chiamata "città dell'elefante" dai tempi dei romani e un esercito di elefantini è a disposizione dei turisti nei negozi di souvenirs. Salvatore Bafumo, titolare del negozio sotto Porta Uzeda, dice: «Mi chiedono perché un elefante è simbolo di Catania, cosa rappresenta. Io rispondo che è un animale buono, paziente e intelligente e per noi rappresenta forza e desiderio di rinascita. Racconto che è di epoca bizantina e che a quel tempo ce n'erano diversi sulle mura della città, rivolti verso Costantinopoli. Porta fortuna e raccomando ai miei clienti di approfittarne: dovranno fargli un giro intorno guardandolo sempre». Francesco, impiegato di Salvatore, tifoso del Catania, dice la sua: «Tengo molto al Liotru, alla tradizione. L'elefante fa pensare alla forza fisica, ma il nostro ha anche l'energia della lava. A guardarlo può fare paura, cosa utile nella competizione. È riconoscibile a livello nazionale e internazionale e questo è importante per la squadra, ma più importante è la sua tenacia che ispira compattezza e partecipazione anche nei momenti difficili. Se le gente rimane vicina anche quando le cose non vanno, la squadra lo sente e le difficoltà si superano».

 

 

Gli elefantini sugli scaffali sono di fogge, dimensioni e materiali svariati. Ma un particolare differenzia il Liotru dall'elefante delle rappresentazioni comuni: la sua proboscide è rivolta verso l'alto, rigorosamente. Per un catanese è un dettaglio importante, metafora di un'ulteriore virtù. Del resto, ben vi si accorda l'ipotesi secondo la quale l'elefante, prima dell'adozione da parte di Eliodoro, era in un tempio di rito dionisiaco: una leggenda narra che a cavallo di un elefante Dioniso sconfisse le Amazzoni. Certi aspetti della natura umana non mutano neppure nei millenni. Un'eloquente cronaca, anch'essa di antiche origini, è narrata da Gianfilippo Villari in "Nascita di una Facoltà", pubblicato per il trentennale di Scienze Politiche: «...parlo degli anni in cui ogni matricola "beccata" alla Centrale doveva anzitutto arrampicarsi sotto il Liotru, per pulirgli "le palle" con la retina, quelle stesse "palle" che gli erano state applicate a furor di popolo successivamente alla installazione della stessa statua dell'elefante». Fichera non parla di quell'aggiunta, ma riporta il verbale del consiglio comunale con le istruzioni su come dev'essere eretto il monumento, dove scopriamo che al Liotru mancavano anche… i piedi e che gli sono stati fabbricati per l'occasione. Parla anche dell'obelisco «egiziano, di granito di Siene, che serviva di meta al circo». Sarebbe stato cioè il segnale posto a una delle due curve della pista del Circo Massimo che si trovava a ovest della città e che fu sommerso dalla lava del 1669.
Gli "amici di Piazza Dante", che ogni giorno si riuniscono davanti a via Biblioteca per chiacchierare e per interminabili partite a scopa, non hanno idea della vetustà del Liotru, tanto meno della sua origine, ma sono certi della paternità degli scalpellini che nella loro memoria sono come personaggi mitici: parlano naturalmente dei "petriaturi" che hanno squadrato conci e scolpito il barocco per la ricostruzione: la loro opera li riempie d'orgoglio. Domando cosa significa per loro il Liotru: «A militare, quando chiedevano di unni si', si rispondeva "di Catania, do' liafanti". Per un catanese è come dire la sua casa, a famigghia». E le virtù...? «Iddu nun voli cosi male, cerca d'arripararli. È uno saggio». E soprattutto, sempre a braccetto con la Santuzza che guai a chi la tocca. Non mancano, in cima all'obelisco, i simboli della Patrona che, essendo nata sotto i romani, ha vegliato sulla città per molti secoli e potrebbe aver visto gli elefanti schierati sulle mura.
Ma Agata deve contendere, se non il suo indiscusso primato, almeno un'antica radice alle antiche e benefiche divinità presenti dai tempi dei Greci. Amato riferisce che il Vescovo Leone, per estirpare il paganesimo, fece atterrare gli antichi templi di Demetra e Core, dee della fertilità, quando altri templi che Càtana contava in gran numero erano già scomparsi. Tra questi, era quello di Athena/Pallade, nume tutelare dei Calcidesi, fondatori della città sull'insediamento protogreco. Va detto, infatti, che quella A sul gonfalone, nei primi anni dell'autonomia amministrativa, pare rappresentasse proprio la dea e il verbale con le istruzioni al Vaccarini insiste in questa attribuzione. E, pur affezionati alla Santuzza, nella descrizione dello stemma Agata ci appare inspiegabilmente bellicosa con scudo e arma, forse per meglio proteggerci, ma tremendamente somigliante a Pallade, che però era la dea della saggezza.
La Sicilia 24/07/2010

QUANDO IL "LIOTRU" RISCHIO' DI VENIRE GIU'...

 

Non tutti sanno che nel 1862 si levò inopinatamente una campagna stampa contro il nostro Elefante."Che ci fa questo mostruoso pachiderma nel centro della piu' bella piazza di Catania? Trasferiamolo fuori dalla Porta del Fortino!"

e cosi' di questo tenore.Cosi' il Sindaco del tempo,per togliersi dai piedi i detrattori del "Liotru",che si erano fatti ripetitivi e noiosi,ordinò di buttarlo giu' dal piedistallo sul quale l'aveva posto il Vaccarini !

Gli operai costruirono i ponteggi attorno alla fontana, già erano state imbracate le corde per tirarlo giu' e gli argani erano in movimento,quando, improvvisamente,un gruppo di cittadini che assistevano a quei preparativi, presero la decisione di opporsi in modo sostenuto, costringendo il Sindaco a revocare l'odioso ordine !

Il capitano delle guardie sguainò la spada e decretò che non si toccasse l'elefante. Poi un gruppo di catanesi raggiunse la stanza del sindaco e minacciò quel ridicolo marchese di dare l'ordine o sarebbe volato giù dal balcone. Altri tempi gente, altri tempi.

 

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Il capitano delle guardie si mosse a difesa del monumento dopo aver ricevuto la minaccia "TAGGHILA !" riferito alla corda che imbracava il monumento.  quel giorno, con questo termine si indica a Catania l'invito ad interrompere qualcosa di spiacevole.

M.R.

 

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Secondo Gaudioso lo stemma di Catania ebbe origine probabilmente nel 1239, quando ad opera di Federico II la città passò dal governo del vescovo-conte al demanio regio. Si vide nell'elefante di pietra lavica il simbolo naturale della città. La rappresentazione araldica più antica, precedente immediatamente il 1376, è quella riprodotta sul basamento del busto di Sant'Agata: sullo scudo, un elefante di profilo rivolto a sinistra di chi guarda con la proboscide alzata e sormontato da una "A" in lettera gotica. Ma cosa ha portato un elefante a rappresentare Catania?
Seconda metà dell'ottavo secolo. Fra pochi decenni, dopo un periodo di scorrerie, l'anno 827 segnerà l'inizio della conquista araba. Catania è un baluardo della fede cristiana, tra i più difficili da espugnare. In città, da quando i cristiani sono in maggioranza, i culti pagani vengono ancora celebrati ma in segreto, i loro templi minacciati. Resistono i riti orientali, importati in epoca ellenistica, e pratiche magiche spesso esercitate da Ebrei. Uno di loro, Eliodoro, è un mago "barbarae patriciae filius" secondo l'Amico che ne scriverà circa un millennio dopo. Il De Grossis, vissuto prima del grande terremoto, lo definisce secondo solo al celebre Simone Mago: fa incantesimi strabilianti e, nonostante pratichi riti pagani e la magia nera, è ammirato dalla gente. Arringa il popolo da un pulpito costituito da un antico elefante di pietra lavica che un manipolo di ardenti cristiani ha trascinato via da un tempio pagano e gettato fuori le mura. Pare che il piccolo pachiderma di pietra sia l'unico sopravvissuto dei diversi che stavano ritti sulle mura e hanno guadagnato a Càtana l'appellativo di "Città dell'Elefante", come afferma nel XII secolo Idrisi, il geografo di Ruggero II, definendo la statua un talismano. Eliodoro, con abilità mediatica, fa credere che il piccolo elefante di lava sia incantato e che cavalcandolo può spostarsi istantaneamente da un luogo all'altro del mondo; tiene in pugno il popolo con incantesimi terrificanti, si scaglia contro le autorità e il dio dei cristiani.
Salvatore Lo Presti, che lavorava al Comune tra le due guerre e consultava documenti che in gran parte sono andati perduti nell'incendio del '44, ha sintetizzato in un racconto vivido le notizie su Eliodoro e l'elefante da diverse fonti. Questa la descrizione delle ultime ore del mago secondo il "De rebus siculis" del Fazello, storico del XVI secolo: «...il Vescovo, S. Leone il Taumaturgo, ...convocati i fedeli nelle vicinanze delle Terme Achillee, dinanzi alla cappelletta eretta in onore di Maria Vergine, celebrò una solenne messa propiziatoria. ...il temerario Eliodoro si mise a disturbare il sacro rito in tutti i modi: ingombrando la mente dei fedeli con allucinanti visioni; facendo apparire i calvi improvvisamente capelluti e viceversa; altri con corna di cervo, di bue, di caprone, oppure con orecchie d'asino, con barba di montone, con rostro di uccello, con denti di cinghiale e altri in stravaganti sembianze in modo da ingenerare il riso". Ma il vescovo compie l'esorcismo e attrae il mago «nell'ardente fornace approntata in una fossa vicino alla chiesa e... il mago divenne un mucchio di cenere in men che non si dica».

 

Piazza Duomo - lato ovest: Palazzo Zappalà

 

IL MAGO ELIODORO E L'ELEFANTE DI CATANIA
Una domanda alla quale la maggior parte dei catanesi non saprebbe rispondere è quella relativa alla origine del nome Liotru o Diotru, che dir si voglia, attribuito da antichissimi tempi all'elefante di pietra lavica che adorna la monumentale fontana di Piazza Duomo. Perchè mai, dunque, il vetusto pachiderma, elevato al massimo onore di simbolo della Città, viene indicato, ancora oggi, con tale nome? Gli storici riferiscono che esso esercitò sempre nella fantasia del popolo uno strano e misterioso senso di suggestione. Anzi, la più attendibile tradizione, lo fa ritenere, originariamente, oggetto di culto in un tempio di riti orientali della Città. Precipitato dal suo altare ai primordi del Cristianesimo, venne portato fuori le mura, dove rimase per più secoli. Chi tentò, invano, di conservare al vetusto idolo gli onori di un tempo, fu, nella seconda metà dell'VIII secolo, un famosissimo mago: Eliodoro, altrimenti detto Diodoro, Liodoro, Lidoro, ed anche Teodoro.Egli, con i suoi incantesimi (...vir magica arte imbutus, miranda prestigiorum machinatione...), secondo la leggenda, tramutava gli uomini in bestie e faceva apparire le cose lontane improvvisamente presenti.

 


Essendosi, però, burlato anche degli esponenti della Città, questi decisero di condannarlo a morte. Ma, inutilmente, giacchè egli, grazie ai suoi diabolici poteri, riuscì a scampare dalle mani del carnefice: si fece portare velocemente dagli Spiriti per aria in Costantinopoli e, con la stessa celerità, restituire in Catania. Ingannato dal prodigio, il popolo gli tributò onori quasi divini, che ottennero l'effetto di renderlo ancor più temerario.
Di Eliodoro o Teodoro (...Theodorus, aspectu deformis, natione Iudaeus e post Simonem magum nulli in arte magica secundus...) la tradizione popolare ha tramandato il ricordo di altri mirabolandi fatti.
Una volta, per esempio, vuolsi che egli offrisse ad un giovinetto un velocissimo cavallo, per fargli ottenere la palma nei giochi circensi. Ma, dopo la vittoria, il destriero disparve, non essendo che un demonio in quelle sembianze.

 

 

Eliodoro venne per tale ragione condotto in carcere, ma, anche questa volta, riuscì a riguadagnare la libertà, corrompendo le guardie mediante l'offerta di tre false libbre d'oro: una grossa pietra, cioè, dall'apparenza d'oro, che, poco dopo, riacquistò la sua forma naturale.
Tale frode non fu la sola che egli commise: alla stessa maniera si videro portar via tanta roba molti venditori della città.
Reso edotto dei gravissimi e continui fatti che turbavano la quiete dei catanesi, l'imperatore Costantino decise allora di far partire per Catania il suo ministro Eraclio, con l'incarico specifico di condurgli il mistificatore. Ma, quando Eraclio giunse alla mèta ed inviò i suoi armati per arrestare il mago, questi, con i suoi tanti raggiri, li indusse a prendere un bagno: -"Andiamo, dunque, al bagno - disse loro - affinchè ritorniate alle navi con forze rinnovate". Appena i soldati si immersero nell'acqua avvenne un altro grande prodigio: tutti quanti, lui compreso, si trovarono istantaneamente a Costantinopoli, nel bagno dell'Imperatore.

 

 

 

 

CASO DI «EGITTIZZAZIONE», L’OBELISCO AVEVA UNA FUNZIONE RELIGIOSA O DECORATIVA E RIEMERSE CASUALMENTE NEL  1620

L'obelisco dell’elefante di Piazza Duomo continua sotto alcuni aspetti a celare misteri. Il primo riguarda la sua provenienza: soltanto un’accurata analisi petrografica del granito di cui è composto potrebbe chiarire se si tratti di un prodotto locale o di un manufatto importato dall’Egitto.

In secondo luogo esso non presenta geroglifici, ma, per lo più, figure umane e divine disposte dall’alto verso il basso, che non costituiscono nell’insieme una scrittura di senso compiuto, ma hanno un fine ornamentale. Nel sistema figurativo spiccano alcune importanti divinità egizie: Iside e Nephtys quali dee-ureo, Horus nella forma di diofalco, Anubi teriomorfo con testa di sciacallo, il dio Api nell’aspetto di sacro toro con il disco solare tra le corna, il dio Ra circondato dal serpente khut. Da notare anche una sfinge alata con lunga barba, con testa sormontata da una doppia corona. "Egittizzante" è dunque l’aggettivo che meglio qualifica il nostro obelisco, vale a dire si tratta di un manufatto che imita elementi figurativi egizi nell’iconografia e negli attributi regali e divini. Nella storia ci sono state epoche in cui il fascino esercitato dall’Egitto ha spinto la cultura occidentale ad "egittizzare" per cause, a volte, molto diverse tra loro (esigenze di culto o semplicemente moda).

 

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Ad esempio in epoca romana, nelle province dell’impero, si diffusero culti misterici legati ad Iside ed Osiride. Una vera e propria "egittomania" dilagò nel Rinascimento quasi nello stesso tempo in cui si diffondeva l’interesse per l’ermetismo. I geroglifici erano considerati alla stregua di una lingua segreta accessibile solo agli iniziati. Dai dotti del Rinascimento per imitazione furono inventati anche geroglifici "moderni" come attesta la "Hypnerotomachia Poliphili" (1499) in cui è presente l’iconografia dell’elefante con l’obelisco sormontato dalla palla. Dopo la campagna di Napoleone in Egitto l’occidente conobbe una nuova fase di "egittomania" e nacque l’Egittologia grazie al ritrovamento della stele di Rosetta che permise a Champollion di decifrare i geroglifici.

In terzo luogo la datazione dell’obelisco dell’elefante appare incerta, ma la più plausibile è da riferire al primo secolo d.C. per alcune analogie con la cosiddetta "Mensa Isiaca" del Museo Egizio di Torino. Inoltre l’obelisco dell’elefante non rappresenta un caso isolato. Infatti Catania conserva altri tre frammenti di obelisco, mentre Messina vanta due pilastri egittizzanti. Il nostro obelisco, sia che avesse avuto una funzione religiosa sia decorativa, perse poi di importanza e fu riutilizzato come architrave di una porta del palazzo vescovile di Catania.

Ritornato in luce nel 1620, nel Settecento venne "risemantizzato" in chiave religiosa con l’aggiunta di ornamenti e attributi del culto di S. Agata ad opera dell’architetto Vaccarini, che prese come modello del progetto della fontana l’iconografia poliphiliana dell’elefante. SANTO DANIELE SPINA

 

Di fronte al prospetto nord della cattedrale, affacciata sulla via V. Emanuele, la chiesa della Badia di S. Agata occupa, insieme all’annesso ex monastero (oggi di proprietà comunale) un intero isolato. La morbida tela del prospetto, mossa dal ritmo di onde leggere, cattura su di sé l’attenzione altrimenti distratta dalle altre macchine barocche del Duomo, della fontana dell’Elefante e del palazzo municipale. L’edificio che oggi vediamo poggia sulle rovine dell’antica chiesa e convento dedicati a S. Agata, nel 1620, da Erasmo Cicala e crollati a causa del terremoto del 1693.

"Vaccarini non era un architetto di quelli che pretendono di applicare il bagaglio delle loro nozioni senza considerare il luogo in cui sono chiamati ad operare; luogo inteso come scena fisica preesistente e come caratteri figurativi della tradizione. Egli ha saputo risolvere il compito straordinario di realizzare un’architettura che era in armonia con i principi del suo tempo e che, insieme, era del tutto catanese, tanto intimamente egli seppe penetrare il carattere distintivo dei materiali locali e del loro effetto cromatico alla luce violenta e tanto egli seppe interpretare gli stilemi del repertorio tradizionale. Vaccarini non esitava ad accogliere nel disegno delle sue opere parti già costruite o elementi già approntati e, come nel palazzo del Senato (Municipio), su un preesistente basamento a paraste bugnate, seppe innestare lo slancio delle piatte lesene degli ordini superiori, così nella Badia di Sant’Agata non si rifiutò di incastonate nell’onda tesa della parete concava un portale a colonne binate e a minutissima decorazione, che la badessa aveva già fatto realizzare" (Giuseppe Pagnano da La pietra di fuoco, 1994).

 

       

 

 

La chiesa della Badia di S. Agata, capolavoro architettonico di G.B. Vaccarini (1735-1767) ha la pianta a croce greca allungata inscritta in un ovale che ha l’asse maggiore ortogonale alla facciata; essa con la sua alternanza di superfici convessa-concava-convessa, al primo ordine, e tre volte concava al piano attico, ripropone una tematica molto cara al barocco e cioè quella dell’architettura in movimento. La prodigiosa vitalità visiva fa sì che le linee spezzate dell’edificio esprimano un tale effetto di modellazione plastica da infondere movimento all’intera struttura e a tutte le sue parti decorative. La costruzione è chiusa, in alto, da una cupola. La forza espressiva della costruzione è replicata nella parte interna dove la scelta della croce greca rivela un’aspirazione alla perfezione, nell’equilibrio tra staticità ed armonia. La decorazione interna è molto semplice ed essenziale, stucchi bianchi alle pareti, statue, preziosi altari e ricami di marmo sul pavimento. Su ogni altare sono poste statue di stucco lucido: S. Euplio, S. Giuseppe, S. Agata, l’Immacolata e S. Benedetto. Attorno alle pareti si trovano semicolonne chiare che incorniciano le gelosie dorate. Dall’alto abside pendono 25 piccole luci e attorno al cornicione gira un’inferriata decorata da candelieri. La chiesa non ha tele come di solito avviene negli altri edifici religiosi; dentro la sagrestia, invece, sono custoditi molti dipinti di carattere sacro.

http://www.comune.catania.it/la_citt%C3%A0/il_filo_di_arianna/la_citt%C3%A0_ricostruita/Badia_di_Sant'Agata.aspx

  

Badia di Sant'Agata - La città ritrova un tesoro
Dal 16 ott 2012 riapre al pubblico la Badia di Sant'Agata, inaccessibile dal lontano 2004 quando fu avviato il progetto di messa in sicurezza resosi necessario dopo i danni causati dal terremoto del 13 dicembre 1990. Dopo 9 anni, infine, cittadini, fedeli e turisti potranno ammirare una delle chiese più belle di Catania progettata da Giovan Battista Vaccarini a partire dal 1736 e ultimata nel 1780, dodici anni dopo la sua morte, con il probabile contributo degli architetti Palazzolo e Battaglia.
La chiesa, insieme all'attiguo monastero delle Benedettine, entrò a far parte del patrimonio statale nel 1866, con le "leggi eversive", ma fu riconsegnata alla Diocesi nel 1911 e poi, nel 1935, affidata alla "Pia società di San Paolo", le Paoline. Il monastero, invece, è stato separato dalla chiesa ed adibito ad uffici e, nel tempo, ha ospitato anche la vecchia sede del nostro giornale, prima di essere occupato dal centro sociale Auro.
Nel 2004 la Protezione civile ha elaborato un progetto di messa in sicurezza e l'anno successivo da dato il via ai lavori sulla facciata e sulla cupola. L'intervento, portato avanti sotto la direzione dell'arch. Salvatore Alberti, si è concluso nel 2008 ed è costato 1.200.000 euro dei quali 950.000 con i fondi della legge 433/1991.

Il finanziamento disponibile non prevedeva il restauro dell'interno che la Curia ha deciso di affrontare, a partire dal 2009, affidandolo allo studio "Ellenia+tre" sotto la direzione dell'arch. Giuseppe Amadore. Dopo una prima ipotesi che prevedeva un intervento minimale, data l'importanza del monumento, la Diocesi ha deciso per un lavoro più impegnativo volto a riportare alla luce il colore originario della chiesa. Dai saggi effettuati, infatti, si è potuto capire che il colore prevalente, un tristissimo grigio, risaliva alla fine degli anni Cinquanta, nello stesso periodo in cui la cupola fu ricoperta da orrendi mattoni rossi. Rivestimento rimosso con i lavori della Protezione civile quando, su decisione dell'allora sovrintendente Campo, la città, con sgomento, prese atto di una cupola di un bianco splendente, al posto dell'alternanza tra il grigio scuro dell'intonaco degli spicchi e il bianco della pietra dei costoloni, il tipico contrasto cromatico delle cupole di città, inclusa quella della cattedrale che si alza proprio di fronte alla Badia.
I sondaggi, inoltre, hanno consentito di scoprire che le colonne laterali - che Vaccarini aveva pensato rivestite di marmo giallo, arricchito probabilmente di diaspri rossi, così come aveva visto a Sant'Agnese in Agone, la chiesa romana del Borromini che era andato a visitare prima della progettazione della Badia - erano state orginariamente trattate con stucco che riproduceva un finto marmo bianco di Carrara lucidato a cera.
Il restauro, dunque, è stato centrato sulla rimozione degli strati di colore successivi avendo la cura di salvare la patina ambrata data nel tempo dalla pigmentazione delle cere protettive. Questo - come spiega l'arch. Amadore - ha significato che in alcune parti sono state recuperate le superfici originarie, dal basso al primo cornicione, il altre è stata necessaria una parziale sostituzione, dalla cornice al tamburo, mentre da questo alla volta l'intonaco e il colore sono stati rifatti dal momento che erano del tutto rovinati dalle infiltrazioni d'acqua.
Ancora. E' stato rifatto del tutto l'impianto elettrico avendo cura di ubicarlo negli ambienti più compromessi, gli spazi di saldatura tra la chiesa e il monastero, mentre i "fili" sono stati collocati lungo i cornicioni in modo da non essere visibili dal basso. Sono stati restaurati i lampadari laterali e la splendida ninfa centrale per ricostituire la quale è stato necessario integrare ben 4.500 pezzi mancanti tra vetri, lamine, pendenti di cristallo.
Il restauro è costato 650.000 euro, dei quali 520.000 per i lavori. Il 30% della somma, un contributo di 190.000 euro, è stato coperto dalla Cei con i fondi dell'8 per mille. Restano da restaurare gli altari laterali e le parti lapidee in basso. Si è scelto, infatti, di completare le parti alte il cui restauro ha necessitato un ponteggio imponente. Infine, bisogna ancora attrezzare la chiesa di parte dell'arredo per la liturgia e a questo è legata la riapertura al culto della Badia.

La Sicilia - Pinella Leocata, 14/10/2012

 

Badia di Sant'Agata, una terrazza sulla città  (by Salvo Puccio)

 

CATANIA - Da qualche giorno sul camminamento alla base della cupola della Badia di Sant’Agata sono stati installati due cannocchiali panoramici che consentono di avvicinare di sette volte, ingrandendoli, i monumenti, le strade, le chiese, i palazzi e i luoghi di città. Così, dopo il colpo d’occhio mozzafiato dal «balcone sul barocco di Catania», chi arriva in alto, fino all’ultimo livello sotto il cupolone bianco candido, può fermarsi e scoprire il centro storico da una prospettiva inedita, può vedere in un’unica immagine il susseguirsi di tetti, prospetti e campanili che sembrano crescere l’uno sull’altro, vicini, vicinissimi, come sono nella realtà, ma come l’occhio, dal basso, non può percepire. Un’immersione nella Catania storica restituita, d’improvviso, alla sua dimensione Settecentesca che ne fa un piccolo scrigno di opere d’arte e di bellezze naturali. Una città armoniosa per struttura e stile, frutto com’è di una meditata e intelligente opera di ricostruzione dopo il grande terremoto del 1693 che la devastò.

Basta mettere una moneta di un euro e, per 2 minuti e 50 secondi, la città storica esplode davanti agli occhi, imponente e magnifica. I cannocchiali panoramici sono due, orientati in differenti direzioni in modo da coprire lo spazio per 360 gradi. Uno guarda l’Etna, l’altro il mare, due poli che ad occhio nudo - tra la meraviglia dei turisti che non se lo aspettano - si colgono insieme con uno sguardo. Un cannocchiale guarda piazza Duomo e, con questa, palazzo dei Chierici e, sullo sfondo, su piani successivi, i due campanili di San Francesco all’Immacolata, la chiesa di San Giuseppe al Transito, quella della Madonna della Lettera, uno scorcio dei tetti di Santa Chiara, e, sullo sfondo, le torri campanarie della Santissima Trinità e, in fondo, il colosso di Castello Ursino. Ruotando verso sinistra s’impongono la cupola e il campanile della Cattedrale, tanto vicini che sembra si possano toccare allungando una mano. E, per un gioco prospettico, statue e campane si mischiano agli alberi delle grandi imbarcazioni all’ancora al porto. Il mare vicino, vicinissimo, così come i torrioni normanni dell’abside del Duomo, gli archi alla marina su cui a tratti transitano i treni, i mascheroni e i putti di Palazzo Biscari, la splendida facciata della chiesa di San Placido, la loggetta del convento della Badia di Sant’Agata che si affaccia su via Vittorio Emanuele e da dove le monache benedettine seguivano, nascoste dietro le gelosie, la processione di Sant’Agata. Da qui è possibile vedere il palazzo della Finanza e, in una prospettiva spiazzante, dal retro, la copertura del teatro Massimo Bellini.

L’altro cannocchiale è orientato su piazza Università e sull’infilata di chiese di via dei Crociferi - San Francesco Borgia, San Benedetto, San Giuliano, San Camillo - i cui prospetti e le cupole sono, parzialmente visibili, dietro la facciata della basilica Maria Santissima dell’Elemosina, la Collegiata. E ancora il palazzo della Prefettura, la chiesa dei Minoriti e, infine, l’Etna, superbo e, in questi giorni, innevato e sbuffante.

«Chi viene in visita - racconta Eleonora Pennisi, dipendente del Museo Diocesano che si occupa anche della Badia - rimane colpito, entusiasta, e non solo i turisti e gli stranieri, che non riescono a credere che si possa sciare sull’Etna guardando il mare, ma anche gli stessi catanesi che non si aspettano una città così bella e ricca di storia. Tutti si stupiscono per la concentrazione, in uno spazio limitato, di così tanta bellezza, delle innumerevoli chiese, dei monumenti, del paesaggio. E si stupiscono anche della notevole presenza di turisti a Catania. Visitatori cui ci sforziamo di dare tutte le indicazioni possibili per orientarli nella scoperta della città, dai luoghi caratteristici, a partire dalla pescheria, ai luoghi di culto dedicati a Sant’Agata, ai grandi monumenti romani».

Per questo le visite guidate - per chi ne fa richiesta - durano un’ora, incluso il tempo per le foto dall’alto. Il camminamento sotto la cupola della Badia è fruibile dal martedì a domenica dalle 9,30 alle 12,30, il pomeriggio dalle 15,30 alle 17,30 da mercoledì a sabato, e la domenica dalle 19 alle 20,30, prima dell’ultima messa.

La Sicilia, 1.2.2017

 

 

 

Il Palazzo del Seminario dei Chierici si trova sul lato sud della scenografica piazza Duomo, accanto alla Cattedrale e difronte al Palazzo degli Elefanti. Fra i due palazzi, al centro della piazza, è ubicata la Fontana dell'Elefante.

Fu iniziato nel 1700 da Alonzo Di Benedetto, che operò principalmente nel primo ventennio del secolo, unico architetto catanese sopravvissuto al terremoto. Nel seminario dei Chierici è manifesto il motivo dominante del barocco del Di Benedetto, autentico rappresentante del barocco locale: la lesena ricca di bugne. Il palazzo fu poi ingrandito e completato nel 1757 da Francesco Battaglia, uno dei maggiori architetti catanesi del Settecento. È costruito sui resti delle fortificazioni cinquecentesche e ingloba la porta Uzeda. La seconda elevazione del palazzo fu realizata da Mario Di Stefano (1815 - 1890). Nel 1866 egli prolungò il bugnato a diamante della lesena fino al capitello e disegnò a bugne piene anche i fondi. In periodo fascista. Dopo l'incendio del dirimpettaio palazzo degli elefanti (dicembre 1944) e fino alla sua ricostruzione (dicembre 1952), fu sede degli uffici del sindaco, degli assessori, del Consiglio e del corpo dei vigili urbani. Oggi è sede degli uffici finanziari comunali.

 

 

 

Il palazzo ha una struttura molto complessa ed è collegato alla Cattedrale tramite un passaggio sopra la Porta Uzeda. Un tempo proprietà della Chiesa, quando venne costruito, dopo il terribile terremoto del 1693, fu parzialmente realizzato sulle mura di Carlo V. Infatti la Chiesa, nonostante il divieto esplicito del Duca di Camastra, plenipotenziario alla ricostruzione della città, voleva garantirsi il controllo delle mura. Il progetto fu dell'architetto Alonzo di Benedetto. Il prospetto molto bello è realizzato con inserti di bugnato, in pietra bianca d'Ispica, su un intonaco scuro realizzato con sabbia vulcanica. Notevoli i grandi finestroni della facciata con timpano ad omega e le stupende mensole dei balconi del primo piano.

http://www.sicilie.it/sicilia/Catania%20-%20Seminario%20dei%20Chierici

 

 

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scene girate al Monastero dei Benedettini, Piazza Duomo

 

 

Piazza Duomo ai primi del '900.

 

 

 

 

 

 

 

Da Piazza S. Placido scendiamo a Via Dusmet e costeggiando gli archi della Marina ci avviamo a destra lungo la strada che porta fino a Porta Uzeda. Su questa strada alberata a sinistra la Villa Pacini e a destra le facciate barocche di Palazzo Biscari e dell’Arcivescovado.

 

Entriamo a Porta Uzeda attraverso la porta di Carlo V. Porta Uzeda chiude, come una quinta di grande valore scenografico, la via Etnea a sud, nel tratto in cui, superata la piazza Duomo, s'insinua per concludersi in via Dusmet, tra l'ex palazzo dei Chierici a ovest e l'ala di levante dello stesso seminario. Fu appunto per unire questi due corpi di fabbrica che nel 1695, per volere del Duca di Camastra, don Giuseppe Lanza, venne costruito un cavalcavia che diede origine a una porta che allora fu detta della Marina. Ma cambiò nome in quello stesso anno in omaggio al vicerè don Francesco Paceco, duca di Uzeda, venuto a Catania per rendersi conto dei lavori di ricostruzione della città sulle macerie del terremoto del 1693. Sopra quell'arco, negli anni che seguirono, a iniziativa del vescovo mons. Salvatore Ventimiglia,  vennero costruiti i piani superiori, collegati anch'essi con le due ali del palazzo. In alto fu eretto un sontuoso fastigio con una nicchia centrale, che racchiude un busto di Sant'Agata che guarda la città, e un'iscrizione marmorea: D.O.M. Sapientiae et bonis artibus - 1780. Sul balcone che si apre sulla porta c'è un grande stemma del vescovo Ventimiglia.

 

 

Le Mura di Carlo V erano un complesso murario che venne fatto realizzare a Catania dall'imperatore Carlo V a difesa della città: esse erano costituite da undici bastioni ed avevano sette porte di accesso alla città.
L'incarico della costruzione venne dato all'architetto Antonio Ferramolino all'inizio del XVI secolo ma la costruzione andò avanti con molta lentezza vista la complessità dell'opera. Esse racchiudevano completamente la città del tempo e la difendevano dai pericoli esterni. Ma, prima l'eruzione dell'Etna del 1669 e poi il terremoto del 1693 le rovinarono gravemente, ma la loro scomparsa definitiva si deve al piano di rinnovo urbano del XVIII secolo.

 

 

Appena oltrepassata porta Uzeda si respira subito aria di barocco, di Settecento, sembra di essere proiettati all’indietro di trecento anni. Colpisce il colore nero della pietra di costruzione e il materiale lavico presente dovunque nella città, vomitato da quel vulcano che a volte l'ha tradita facendo scendere le colate di lava fin dentro le sue mura.

L'eruzione dell'Etna nel 1669 e il terremoto del 1693 nella Val di Noto costrinsero i catanesi a ricostruire il centro della città, proprio dove i Normanni avevano eretto la loro Cattedrale. Grazie anche all'opera di valenti architetti quali Battaglia, Ittar e Vaccarini, si ricorse ad un nuovo stile architettonico, ovvero quel barocco per il quale Catania è famosa.

 

Porta Uzeda (o della Marina) fu eretta nel 1695 ed è stata tra le prime Porte che vennero riaperte in seguito ai lavori di ricostruzione avviati dal Duca Giuseppe Lanza di Camastra, incaricato di ricostruire Catania dopo le catastrofi di fine secolo. A ridosso di questa scenografica volta, dapprima chiamata Porta Leone e poi Uzeda, contro il parere del Camastra vennero edificati, incastrandola, il Seminario arcivescovile ed il Palazzo dei Chierici che si affacciano sulla piazza del Duomo. La porta è intitolata al vicerè Giovanni Francesco Paceco, duca di Uceda (cittadina spagnola) che non ha nulla a che vedere con il principe Giacomo Uzeda di Francalanza, personaggio presente nel romanzo “I Vicerè" di De Roberto e nel film TV.

Porta Uzeda segna a sud l’inizio della Via Etnea, anch’essa denominata a suo tempo via Uceda in onore al citato nobile iberico.

 

 

 

 

LE ALTRE PORTE DI CATANIA

 

 

 

 

 

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IL GRANDE ARCHITETTO "MARCA LIOTRU".

Giovanni Battista Vaccarini (Palermo, 3 febbraio 1702 – Milazzo, 11 marzo 1768), entrò giovanissimo a far parte dell'entourage del cardinale Pietro Ottoboni, mecenate di Haendel, Corelli e Juvarra. A Roma studiò con Fontana che proponeva l'arte di Bernini e Borromini, secondo l'idea di una sintesi tra le opposte maniere dei due architetti. Per la sua formazione furono assai importanti anche gli esempi di Nicola Michetti, Alessandro Specchi, Francesco de Sanctis e Filippo Raguzzini.
Tornato in Sicilia intorno al 1730, Vaccarini lavorò principalmente a Catania, dando un importante contributo alla ricostruzione dell'impianto urbanistico dopo il devastante terremoto del 1693. La sua educazione romana è evidente nell'impostazione della Piazza del Municipio, verso cui convergono tre grandi strade come nel "tridente" di Piazza del Popolo. Nella stessa piazza, in cui è collocato il palazzone comunale (Palazzo senatorio), anch'esso opera del Vaccarini (costruito tra il 1732 e il 1750), l'architetto fece collocare anche un piccolo obelisco egittizzante, appoggiato sulla statua di un elefante in pietra lavica. L'iconografia dell'elefante aveva come modello l'Hypnerotomachia Poliphili, da cui trasse ispirazione anche Gian Lorenzo Bernini per il celebre Pulcin della Minerva.
Nel restauro della Cattedrale di Sant'Agata (1732-1768) la parte che meglio mostra lo stile di Vaccarini, che contibuì all'esuberante tardo barocco siciliano, è la facciata, movimentata da colonne e specchiature alternate di marmo bianco e pietra lavica.
Nella più piccola Chiesa della Badia di Sant'Agata, adiacente alla cattedrale (1735), l'architetto svolse con originalità alcuni spunti borrominiani da Sant'Agnese in Agone, evidenti nella pianta centrale sormontata da un'alta cupola e nella delicata fronte, mossa da leggere increspature concave e convesse e caratterizzata da paraste con originalissimi capitelli. Proprio la finezza dei dettagli (cornici, balaustre, finestre) fu una caratteristica sempre presente nelle sue opere, anch'essa derivata dall'educazione romana dell'architetto.
Nel 1756 Vaccarini soggiornò brevemente a Napoli, dove collaborò con Luigi Vanvitelli alla scelta dei marmi per la Reggia di Caserta e poté aggiornarsi studiando le opere dello stesso Vanvitelli e di Ferdinando Fuga.
Gli esiti di questo aggiornamento sono visibili nelle sue ultime architetture catanesi, come il Collegio Cutelli (1754) e la collaborazione al progetto di San Nicolò l'Arena.
Vaccarini morì a Milazzo nel 1768.

Opere a Catania del Vaccarini:
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facciata del duomo di Catania (S. Agata) (più prospetto laterale e facciata dell'edificio destinato al Capitolo e alla Sagrestia): il progetto riceverà l'imprimatur dell'Accademia di S. Luca nel 1734 e di nuovo nel 1753; - Chiesa della Badia di Sant'Agata (dal 1735); - Chiesa di San Giuliano (1740-48, completata da Giuseppe Palazzotto); - Chiesa dell'Ogninella (attr.); - dal 1743 interviene nei lavori del convento di San Nicolò l'Arena: refettorio, antirefettorio, museo e biblioteca; - Palazzo Università (1730) ; - Collegio dei Gesuiti (corte) (1747) ; - palazzo Villarmosa, oggi del Toscano (completamente rifatto nella seconda metà dell'800); Casa di Vaccarini;
- interviene sul Palazzo di Città di Catania (1735, completa il prospetto); - Palazzo Valle; - partito centrale del Palazzo Sangiuliano (1747); - Convitto Cutelli (1761, con Francesco Battaglia)

 

 

 

La Cattedrale di Sant'Agata è il duomo di Catania ed è ubicata sul lato est della omonima piazza. È dedicata a Sant'Agata, la santa, vergine e martire, patrona della città di Catania.
Il tempio è stato più volte distrutto e riedificato dopo i terremoti e le eruzioni vulcaniche che si sono susseguite nel tempo. La prima edificazione risale al periodo 1078-1094 e venne realizzata sulle rovine delle Terme Achilliane risalenti ai Romani, su iniziativa del conte Ruggero, acquisendo tutte le caratteristiche di ecclesia munita (cioè fortificata).

Già nel 1169, un terremoto catastrofico la demolì quasi completamente, lasciando intatta solo la parte absidale. Nel 1194 un incendio creò notevoli danni ed infine nel 1693 il terremoto che colpì il Val di Noto la distrusse quasi completamente.

 

 


I resti normanni consistono nel corpo dell'alto transetto, due torrioni mozzi (forse coevi al primitivo impianto) e le tre absidi semicircolari, le quali, visibili dal cortile dell'Arcivescovado, sono composte da grossi blocchi di pietra lavica, gran parte dei quali è stata recuperata dall'anfiteatro romano. Porzioni di muro d'ambito e il muro di prospetto sono stati inglobati dalla ricostruzione settecentesca.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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scene girate a Catania e Provincia

 

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Piazza Duomo di Catania, come tutti sapranno, è il cuore pulsante delle meraviglie architettoniche che rivestono il tessuto urbano del capoluogo etneo. Qui, in mezzo ad altre splendide opere edilizie, si trova il noto “Palazzo Sammartino del Pardo”,

monumento tardo-barocco risalente al XVI secolo.

Le fonti storiche tramandano che la sontuosa dimora fu abitata per un lungo periodo dalla nobile famiglia “Sammartino Pardo di Ramondetta”. Di probabile origine spagnola, si pensa che i Sammartino siano giunti a Catania dalla Catalogna o dalla Guascogna nel XVI secolo; inoltre, sappiamo pure che ben presto divennero tra le famiglie più influenti e rispettabili della città.

Non a caso il monumento fu dedicato proprio a loro, immortalandone il nome nel tempo e riecheggiandone la fama nell'immaginario collettivo locale. I documenti custoditi nell' ”Archivio Storico” catanese, per di più, riportano dettagliate informazioni sugli atti matrimoniali della famiglia Sammartino relativi al periodo compreso tra il 1679 e il 1886. A quanto pare la costruzione dell’incantevole edificio avvenne nel 1694, catturando ancora oggi lo sguardo dei visitatori.

La progettazione del palazzo fu opera di Alonzo Di Benedetto, rinomato ingegnere catanese che edificò varie strutture architettoniche ubicate a piazza Duomo; basti pensare, per esempio, al “Seminario dei Chierici” e al “Palazzo degli Elefanti”. Si pensa, oltre a ciò, che Di Benedetto fu l'unico architetto catanese sopravvissuto al devastante terremoto del 1693. Infatti, per tale ragione, gli venne affidato l’incarico di far risorgere dalle macerie l’area cittadina del Duomo.

A prima vista, la sua tecnica edilizia rimanda agli stilemi seicenteschi siciliani; se si osserva la facciata del palazzo, risalta in primo piano un ricco bugnato che decora le lesene. Bellissimo il portale che si affaccia sulla via Vittorio Emanuele, costituito anch’esso da lesene e abbellito da capitelli ionici e festoni; questi ultimi sono sorretti da mensole verticali che richiamano il cosiddetto esemplare a riccio. Sulla parte alta, invece, probabilmente era collocato lo stemma con le armi dei Sammartino.

A tal proposito, con relativa certezza, si credeva ci fosse lo scudo sorretto da un’aquila bicipite nell’atto di ghermire lo stendardo gerosolimitano con l’artiglio. Si tramanda, non a caso, che la famiglia naturalizzata siciliana ebbe come capostipite un certo Raimondo, ricordato per essere stato insignito da Federico II di un grande privilegio: alzare, appunto, nelle proprie armi l’aquila imperiale che tiene lo stendardo con le armi gerosolimitane. Nella tradizione storica, i gerosolimitani erano degli ordini religiosi-cavallereschi che ai tempi delle crociate partivano alla volta di Gerusalemme per liberare il Santo Sepolcro dal controllo dell’Islam. Di grande pregio anche il balcone centrale, decorato da un fregio che riproduce splendidi motivi floreali.

Spiccano pure poderose mensole dotate di mascheroni che, a giudizio di molti studiosi, rimandano ad un valore protettivo simboleggiando la lotta contro il male. A partire dal XVIII secolo il palazzo fu inoltre il primo albergo della città, ospitando gran parte dei viaggiatori del Grand Tour che erano soliti recarsi in Sicilia per contemplarne le inestimabili bellezze artistiche e naturalistiche. In quella fase storica Catania, insieme a Palermo e Siracusa, fu tra le mete più visitate; inoltre, proprio al palazzo Pardo alloggiò Johann Wolfgang (von) Goethe. Durante il suo soggiorno, lo scrittore tedesco ebbe modo di frequentare la nobiltà locale del “Palazzo Biscari”; siamo a conoscenza che l’illustre poeta soggiornò lì dal 3 al 5 Maggio del lontano 1787.

La pregevole residenza ricevette persino la visita di Giuseppe Garibaldi, in memoria del quale si rammenta la celebre frase che pare abbia pronunciato a tutti i cittadini da uno dei balconi del palazzo: “O Roma o morte”.

Livio Grasso, archeologo

https://www.balarm.it/news/qui-visse-una-delle-famiglie-piu-influenti-di-catania-un-monumento-che-ospito-anche-goethe-127022

 

 

 

 

 

 

Il Giardino Pacini è uno dei due giardini più antichi della città e uno dei quattro giardini principali di Catania.

Sotto gli archi della Marina, sul cui viadotto passa il binario della ferrovia, vicino al porto, e subito fuori dalla antica porta della città "Porta Uzeda", è sito il Giardino Pacini, detto villa "Varagghi" in quanto frequentato in passato soprattutto da anziani che vi si recavano per rilassarsi e "sbadigliare". Lo sbadiglio infatti in catanese è detto "varagghio". Oggi il giardino, non molto grande, meno frequentato di allora, è sempre accessibile durante il giorno e presenta una zona attrezzata con scivoli ed altri giochi per i bambini.

La sua nascita risale ai primi tempi dell'Unità d'Italia quando venne riordinata l'area adiacente le Mura e la Porta Uzeda nell'area interessata dalla foce del fiume Amenano ove le lavandaie catanesi lavavano i panni; Venne realizzata una villetta con passeggiata a mare e riordinato il lavatoio, di cui oggi restano alcune tracce visibili di fronte alla pescheria. Nel 1866 iniziarono i lavori di costruzione della ferrovia per Siracusa con la costruzione dei contestati Archi della Marina, il lungo viadotto, che sottrasse parecchio spazio al giardino e cancellò la passeggiata a mare. 

 

Nel 1879 la villetta ebbe finalmente un nome: quello del musicista e compositore catanese Giovanni Pacini, scomparso poco più di un decennio prima, il cui busto in marmo bianco venne posto su di un piedestallo all'ingresso. L'opera era dello scultore Giovanni Duprè.

All'inizio degli anni trenta allo scopo di potenziare il Porto di Catania venne interrato il vecchio porto saraceno e canalizzata la foce del fiume Amenano realizzando il nuovo grande Molo Crispi. Con tale operazione la villetta perse la sua "ariosità" trovandosi incassata tra il viadotto della ferrovia e le recinzioni del porto. Un ulteriore mutilazione si ebbe nel dopoguerra quando venne realizzato il mercato ortofrutticolo tagliando un'ampia sezione di alberi e realizzandovi la cosiddetta Piazza Alcalà oggi piazza Borsellino e intorno agli anni sessanta quando venne raddoppiato il binario della ferrovia raddoppiando quindi l'area occupata dalle arcate del viadotto.

http://it.wikipedia.org/wiki/Giardino_Pacini

 

 

 

La storia di questo piccolo giardino pubblico nella zona della Marina ha le sue origini in un passato lontano, essendo strettamente legata a quello che la Marina, un tempo, ha rappresentato per una città costiera come Catania: non solo punto nevralgico per gli scambi commerciali, ma meta ambita per gli itinerari domenicali e festivi dei catanesi. Vi si trovava, infatti, la cosiddetta "passeggiata a mare", arricchita dal verde dei giardini e delle numerose ville e proprietà private che sorgevano nella zona. Così appariva la Marina prima della rovinosa eruzione vulcanica del 1669 che modificò radicalmente buona parte del litorale, da spiaggia divenuto improvvisamente costa.
Solo a distanza di oltre un secolo, agli inizi dell'Ottocento, in un'area risparmiata dalla lava, prospiciente il Palazzo Vescovile e attigua alla darsena naturale del Porticello Saraceno (oggi Piazza Borsellino), vennero avviati lavori di sistemazione con il livellamento del terreno e la realizzazione di una nuova passeggiata a mare, alberata e dotata di sedili e lampioni, che rappresentò di fatto la prima forma di verde pubblico a Catania.
Il progressivo sviluppo della città, unitamente all'esigenza di uno spazio aperto quale luogo di ritrovo e svago, costituì un forte impulso alla trasformazione di quest'area in un vero e proprio giardino pubblico. Intorno al 1860, infatti, ebbero inizio i lavori di risanamento dell'adiacente foce fangosa del fiume Amenano che, dopo un lungo percorso sotterraneo, sfociava poco distante dal porticello Saraceno. Il livello stradale venne rialzato, le acque del fiume arginate dentro un canale in muratura e convogliate a mare attraverso due ruscelli attorno ai quali venne organizzato il giardino, all'epoca noto come "Villetta della Marina".

 


Benchè piccolo, esso divenne subito un importante punto di incontro per l'intera cittadinanza e soprattutto per la borghesia catanese; rappresentava, infatti, la tappa conclusiva, allietata anche da concerti bandistici, dopo la passeggiata a mare che, nel frattempo, si andava allungando verso la piazza della Stazione.

Nel 1866, la costruzione degli archi del viadotto ferroviario deturpò la fisionomia della Marina e la suggestiva scenografia della villetta, ancora affollata e frequentata da numerosi visitatori.
Nel 1879 venne intitolata a Giovanni Pacini (1796-1867), musicista e compositore catanese, con il collocamento di un busto marmoreo, opera dello scultore Giovanni Duprè.
Con lo sviluppo verso Nord della città ebbe inizio il declino della Villetta Pacini, abbandonata dagli eleganti frequentatori, anche per l'apertura della nuova e più grande Villa Bellini.
Verso la fine degli anni Venti, il progressivo riempimento della darsena del Porticello Saraceno e l'arretramento del mare in seguito ai lavori per la sistemazione del porto, stravolsero l'assetto del giardino: l'Amenano venne completamente interrato, il terreno spianato e ampi spazi aperti, privi di piante e non riparati dal sole, presero il posto delle sponde rigogliose dei ruscelli e dei romantici ponticelli.
Più tardi, per far spazio al mercato, vennero tagliati alberi ed eliminate aiuole mutando l'essenza stessa del giardino, non più ritrovo mondano ma luogo di incontro per anziani, spesso soli e annoiati, tanto da venire, nel tempo, battezzato con l'epiteto dialettale vill'e varagghi (villa degli sbadigli).

Dipartimento di Botanica - Università di Catania

 

Giovanni Pacini nasce a Catania durante uno dei tanti trasferimenti del padre, il toscano Luigi Pacini, che per la sua professione di cantante d'opera è costretto a spostarsi da una città all'altra.

All'età di circa dodici anni inizia a studiare canto e contrappunto a Bologna e un anno dopo composizione a Venezia.

Prima di aver compiuto i diciotto anni comincia a comporre, con un certo successo alcune piccole opere buffe ma raggiunge il successo vero e proprio soltanto nel 1817 con la rappresentazione, al Teatro Re di Milano, dell'opera Adelaide e Comingio. Appena ventunenne comincia la sua lunghissima carriera nel mondo del melodramma. Nel corso di un cinquantennio comporrà quasi novanta opere superando ogni altro musicista.

 Nel 1820, a Roma, collaborò con Rossini all'opera Matilde di Shabran. L'anno successivo (1821) presentò la sua opera Cesare in Egitto, che ebbe grande successo a Roma. Nel 1822 fu invitato sul bastimento della Duchessa di Lucca Maria Luisa di Borbone. Il viaggio si concluse a Viareggio, porto del Ducato di Lucca che, proprio in quegli anni, anche grazie ai provvedimenti della Duchessa, si stava trasformando in una moderna ed elegante cittadina. Il Pacini rimase positivamente colpito dal luogo e vi si stabilì, facendone la sua residenza principale fino al 1857. In quel periodo a Viareggio stava costruendo una sontuosa villa Paolina Bonaparte, sorella di Napoleone, con cui il musicista ebbe una relazione amorosa. Dal 1822 fu Maestro di cappella a Lucca. Il legame con la dinastia borbonica di Lucca segnò la successiva carriera del compositore e la sua attività di insegnante e organizzatore dell'istruzione musicale.

 Successivamente, seguendo la propria carriera, il musicista si trasferì per un certo periodo a Napoli, ove sposò nel 1825 la partenopea Adelaide Castelli, che gli diede due figlie, Giovannina e Amacilia, e un figlio, Luigi. Le sue due opere Alessandro nelle Indie e L'ultimo giorno di Pompei trionfarono al Teatro San Carlo nel 1824 e 1825. Il successo gli consentì di occupare per diversi anni il posto di direttore del San Carlo, il che lo mise in competizione con Bellini, che iniziò a provare antipatia per lui. Le successive opere Niobe (1826), Gli Arabi nelle Gallie (1827), e I fidanzati (1829), ottennero anch'esse un enorme successo.

Giovannina e Amacilia Pacini, ritratto di Karl Briullov

 Nel 1827 viaggia fra Vienna e Parigi ma con scarso successo in quanto non gli viene commissionato alcun lavoro. In seguito alla morte della moglie nel 1828 (per le complicazione del parto del figlio Luigi) e all'insuccesso della sua opera Carlo di Borgogna al Teatro La Fenice di Venezia si ritira a Viareggio dedicandosi all'insegnamento. Qui intraprende una relazione con la ricca e potente contessa russa Giulia Samoilov, che successivamente adotterà le sue due figlie.

 

 

IL MONUMENTO DEDICATO AL MUSICISTA PRESSO LA VILLA PACINI

 

La contessa per sostenerlo congiurò contro Bellini provocando l'insuccesso della prima di Norma. Le opere di Pacini composte tra il 1830–33 incontrarono giudizi contrastanti da parte della critica e del pubblico. Nelle sue memorie scrisse: “iniziai ad accorgermi di essere fuori dai giochi: Bellini, il divino Bellini, e Donizetti mi avevano superato”. Sposò successivamente Marietta Albini, ma rimase intimo della contessa Samilova. Albini era una famosa soprano che apparve in diversi ruoli delle sue opere tra cui quello di Gulnara in Il corsaro. Ebbero tre bambini, ma solo una figlia, Giulia, sopravvisse.

 Dopo una pausa di circa sei anni, riprese a comporre, ottenendo grande successo con le opere Saffo (che, rappresentata al San Carlo di Napoli, fu la sua opera più fortunata), Medea di Corinto, Bondelmonte ed altre ancora. Nel 1837 fondò a Viareggio un Liceo musicale. La scuola ebbe grande successo e vi si iscrissero molti giovani provenienti da tutto il Ducato. Nel 1839 il Pacini propose al Duca Carlo Ludovico di Borbone l'apertura a Lucca di una grande scuola musicale di alto livello, modellata sugli istituti di Bologna (il più antico d'Italia, fondato nel 1804), Milano e Napoli. Il progetto fu approvato dal sovrano ma comportò una riforma generale dell'istruzione musicale che provocò anche la dolorosa chiusura del liceo viareggino. Nel 1842 l'Istituto Musicale di Lucca fu aperto e il Pacini assunse la carica di Direttore e Professore di Composizione. Il Pacini diresse l'Istituto fino alla morte con l'eccezione del periodo tra il 1862 e il 1864 quando fu sostituito da Michele Puccini, padre del famoso Giacomo. Nel 1867, subito dopo la morte del compositore, l'Istituto gli venne intitolato e portava il suo nome quando vi furono studenti Giacomo Puccini, Alfredo Catalani e Gaetano Luporini. Nel 1943, in occasione del secondo centenario della nascita di Luigi Boccherini, la gloriosa scuola musicale lucchese fu intitolata a quest'ultimo, smettendo così di portare il nome del suo fondatore. Oltre che a Lucca e a Viareggio l'attività didattica del Pacini si svolse anche a Firenze, dove fu primo direttore (1849) dell'Istituto Musicale della città (oggi Conservatorio Luigi Cherubini). Pacini rimase molto legato a Viareggio fino alla morte. Nella città versiliese fu promotore della fondazione di un teatro lirico da ottocento posti. L'edificio, di forme neoclassiche, costruito nel 1835, fu purtroppo devastato da un bombardamento durante la seconda guerra mondiale e mai ricostruito. Il Pacini fu anche gonfaloniere (carica equivalente a quella odierna di sindaco) di Viareggio dal 1849 al 1854.

 Nel 1857 si trasferì a Pescia, bella cittadina a venti chilometri da Lucca, dove trascorse gli ultimi anni della sua vita. Nel 1849 morì anche la seconda moglie e nel 1865 egli si sposò in terze nozze, a Pescia, con Marianna Scoti. Da lei ebbe altri tre figli: Isabella, Luigi e Paolina. Scoti curò l'edizione postuma delle opere di Pacini e la pubblicazione della sua autobiografia (Le mie memorie artistiche).

 Pacini si spense a Pescia il 6 dicembre 1867 e fu sepolto nella Pieve dei Santi Bartolomeo e Andrea.

 Il Teatro della città di Pescia porta il suo nome; la città di Catania, nel 1979, gli ha dedicato uno dei suoi quattro giardini principali.

 

 

 

 

 

Fonte Lanaria o Di Sant'Agata


Il primo nome deriva dal fatto che la fontana si trovava lungo la via Lanaria (oggi dedicata al cardinale Dusmet) che prendeva il nome dal governatore Francesco Lanario, duca di Carpignano. La ded
ica a S. Agata è legata, invece, alla tradizione secondo la quale questa fontana segna il punto da dove partirono le reliquie della patrona quando vennero portate a Bisanzio per ordine del generale Giorgio Maniace.
Oggi la fontana è meta di pellegrinaggi durante i giorni della festa di S. Agata.

Il giorno 4 febbraio, che precede la ricorrenza del martirio di S. Agata, il simulacro della santa percorre l’antico tratto delle mura; tra ali di folla festante ha inizio il cosiddetto "Giro esterno" delle reliquie contenute all’interno di preziosi scrigni racchiusi nel grande fercolo d’argento. Il fercolo attraversa la porta Uzeda e imbocca la via Dusmet dove, all’incrocio con la via Porticello, davanti all’icona della Madonna della Lettera, l’Arcivescovo offre un cero alla patrona.

Fonte:
http://www.cataniacentro.com/

 

 

l'ultimo tratto di via Dusmet, dal 2016 liberato dalle autovetture.

 

 

I PENSIONATI DA VILLA E VARAGGHI

 

I “vuci” da piscarìa sembravano fermarsi all'ingresso del monumentale canceddu da villa Pacini o varagghi che dir si voglia, anche il tempo sembrava bloccato dai platani e i panchini di ferru, sulu a ruggia non conosce sosta, mangiannusi i dettagli dei ghirigori frutto dell'arte dei fabbri, che non erano ne fratelli ne editori, ma firrari comu si rici a Catania.

Nino, pensionato di lungo corso, da quando non deve più dare conto o “principali” è sempre il primo a prendere possesso da panchina che condivide con Mario, macari iddu pinsiunatu, ma con i tempi di chi se la prende comoda. Gli archi che sovrastano il piccolo giardinetto sono il ricordo di uno dei primi abusi che hanno sfregiato la città, negandogli per sempre il dondolio delle onde dello jonio che parevano accarezzare le vecchie mura di cinta. Mario viene accolto da parte di Nino con “arrivasti?”, no, ancora m'haja pattiri da casa! controbatte.

Ma è possibile ca mi fai sempre a stissa battuta, ma picchì, tu non mi fai sempri a stissa dumanna? Assettiti, và, senti chi dici oggi u giunnali: “ Catania: la città più accogliente, apprezzata e originale d’Italia” hai capito caro mio. Ma oggi chi t'accastasti un giornale di satira? Ahu vedi che è così, la nostra città è la prima in Italia non tanto per i servizi da offrire ai turisti, ma per la simpatia e la positività dei suoi abitanti.

 

 

Bello, u viri, queste sono cose che ti allaggunu u cori. Cettu, i straneri venunu e si maravigghiunu come mai noi siamo allegri e sorridenti nonostante tutto, u ponu capiri che la nostra non è soddispazzione, ma u fattu ca oramai ci ficiumu i caddi?

Senti non fari o solitu to, u sai chi significa pi ddi mischini di turisti che tutto l'anno nelle loro città devono guidare con quel cilicio da cintura di sicurezza, venunu a Catania e ponu guidare belli liberi senza costrizioni. A proposito ma tu u sai che l'altro giorno mio nipote, chiddu ca nascivu a Padova, vosi pristata a machina e o primu postu di bloccu u fimmanu perchè aveva indossato la cintura, u vaddia a prima cosa ca ci rissi fu: “Comu mai lei si misi a cintura? Cos'ha da nascondere? Ci scalianu a machina e tannu u mannanu, quannu si fumavu na sigaretta e abbiavu u culazzu 'nterra” dando prova di ambientamento.

Certo ora, per non perdere questo primato, avissima addestrare bene le guide turistiche, per dire: se si imbattono in una corsa clandestina di cavaddi a via Acquicella o a circonvallazione, ci ponu riri che questi sono dei “Palii” volanti. Non solo, ma noi abbiamo molte più specialità tipo: a jttata da munnizza al volo da machina, a posteggiata in sesta fila o a strisciata do muturinu 'nta fiancata da machina al semaforo con: “mi pareva ca ci passava!”

 

 

E scusami, comu ni organizzamu cu ddi figghi di bonamatri ca schifiunu i mura de palazzi e i funtani de piazzi cu tutti ddi scarabbocchi? Semplice! Possiamo sempre dire che stiamo facendo delle prove colore, quannu unu s'allatta a casa non si fanu i provi prima? Cettu, si cci po diri chistu, pi non peddiri a facci e u primatu.

Quantu mi nni vaju, 'nta spiranza ca l'autobussu non mi chianta 'nta fimmata pi na para di uri. Senti, eventualmente c'è qualche turista che mi sente dire maliparoli, chi dici lo spaccio per “lezione di siciliano, additta-additta?”

Gino Astorina

 

 

 

DOVE SI TROVA: I banchi del pesce si trovano nelle zone ricomprese tra i tunnel delle mura di Carlo V, la Piazza Alonzo di Benedetto ed in Piazza Pardo.

Uno dei luoghi che più affascina i turisti è proprio la pescheria catanese.

Formalmente lo si può definire come il luogo d'erogazione dei servizi di vendita di pesce fresco, atto a soddisfare il bacino di utenze catanese, in realtà è molto di più!

Innanzitutto potrei dirvi che il mercato ittico catanese, chiamato in dialetto "a piscaria" rientra tra le tappe folkloristiche dell'itinerario turistico, dove echeggiano e si respirano nell'aria, i sapori, gli odori e perfino le urla dei commercianti di pesce. Uno scenario pittoresco che fa da sfondo ad uno dei luoghi artisticamente e culturalmente più belli della città, il Duomo di Catania.

Nonostante il video e le mie parole, vedere il mercatino di persona è tutta un'altra cosa, si ha la possibilità di vivere un'esperienza che lascerà nei vostri ricordi un segno indelebile.

Statisticamente quando un prodotto e/o servizio lascia soddisfatti, l'individuo che lo ha vissuto lo trasmette ad altre 7 persone, quindi se avrete modo di domandare a qualche conoscente che ha visitato Catania, chiedetegli pure quali sono stati i momenti particolari della propria visita e vedrete che non mancherà di citarvi la pescheria.

http://www.ilcatanese.net/2009/04/ilcatanese.html

 

 

 

 

LA SUA STORIA: Seppure sia già bastevole vedere e vivere un paio d'ore per apprezzare il mercatino ittico, voglio darvi qualche dato storico, un apostrofo che possa servire ad inquadrare tale luogo come tradizione culturale che negli anni è rimasta immutata.

Il mercatino si svolge tra i vecchi confini della città, un tempo delimitate dalle mura di Carlo V, costituite da 11 bastione e 7 porte di ingresso e dagli "Archi della Marina", un tempo sommersi dalle acque, oggi a seguito della colata lavica del 1669 si trovano a 5 m.s.l.m.

 

 

La fontana dell'Amenano dal quale è possibile ancora scorgere l'omonimo fiume risale al 1867 grazie all'opera dello scultore Tito Angelini.

Una tradizione tramandata da generazione in generazione che si mantiene nel tempo donando gusto e sapori ai loro clienti.

http://www.ilcatanese.net/2009/04/ilcatanese.html

UN MERCATO SONORO   di Graziella Nicolosi

Chi non conosce la Pescheria di Catania? Amato dai catanesi e dai turisti, il mercato del pesce della nostra città – in pieno centro, dietro piazza Duomo – attira ogni giorno numerosi visitatori. Ed esso è dedicata una mostra della fotografa siciliana Monica Laurentini, ospitata fino al 22 maggio al Palazzo della Cultura di Catania, dal lunedì al sabato dalle 9 alle 13 e dalle 15:30 alle 19.

La Laurentini, quarantenne, ha alle spalle una laurea in Lingue e un master in Didattica museale, ma soprattutto una passione fortissima per la fotografia e per i viaggi. La sua ricerca si concentra soprattutto sui reportage in cui si tocca con mano la vita della gente comune. Dal 2001 collabora con “Il Cantastorie di Sicilia”, rivista di cultura siciliana. Ha partecipato a varie mostre collettive e vinto premi e attestati.

La mostra fotografica dedicata alla Pescheria di Catania è un modo efficace per promuovere una delle mille facce della tradizione isolana. Si tratta di un vero e proprio racconto per immagini, affiancato dal commento di tre autori che ne colgono aspetti diversi: Antonio Politano quello fotografico, Giuseppe Lazzaro Danzuso quello giornalistico e Tino Vittorio quello storico.

Il reportage della Laurentini inizia all’alba, allo “Sgabello”, il mercato del pesce all’ingrosso nel quartiere fuori le mura della città: qui i venditori scelgono i prodotti migliori, che porteranno poi sui loro banconi. Successivamente ci si sposta in piazza Alonzo di Benedetto e in Piazza Pardo, sullo sfondo della fontana con “l’acqua ‘o linzolu” e della scritta “W Sant’Agata” perennemente esposta, quasi a vigilare sul lavoro di chi ogni giorno vende il pesce per sfamare sé e le propria famiglia. Il vocìo dei pescivendoli è incessante e variopinto, capace di conquistare anche il cliente più recalcitrante: “Vivuvivuvivu!”, Taliati chi c’è cca’!”, Iu sugnu lariu, ma haiu sicci ca ponu ‘iri a Miss Italia!”, sono solo alcuni degli slogan urlati ad alta voce per attirare i passanti. E c’è pure chi improvvisa esortazioni in lingua straniera, per invogliare i sempre numerosi turisti: “Do you want to taste nu pocu di trighhi?”.

 

 

“Nessuno – dice la Laurentini – è esente dal fascino della Pescheria, luogo senza tempo e al tempo stesso contemporaneo”. Qui lo spettacolo è quello tipico di una casbah orientale, qui il Sud mostra i suoi gesti tipici, il suo fare teatrale che si ripete da generazioni. “Mi suseva ‘e tri e con qualsiasi tempu ieva ppi mari ccu me patri”, confessa alla fotografa con grande dignità uno dei protagonisti del mercato etneo. Ognuno ha la sua storia e il suo vissuto, ognuno ha mille aneddoti da raccontare, e la Laurentini, pur scontando la difficoltà di essere donna, riesce a farsi accettare e rispettare dagli attori di questo spettacolo tipicamente maschile. Nelle foto ci sono tutti gli elementi del mercato: le cassette di legno, le lastre di marmo, il ghiaccio, i coltellacci, il sangue, le luci delle lampadine ad incandescenza che illuminano la mercanzia. Ma soprattutto ci sono i volti sofferti dei venditori e le loro mani rugose.

Divisa fra la pietà per la sofferenza dei pesci e l’irresistibile attrazione per quel mondo di profumi, odori, forme e colori senza eguali, l’artista documenta con attenzione l’intera giornata di lavoro fino alla sua chiusura, quando “i pisciari” smontano e ripuliscono meticolosamente i propri banchi. Pronti per ricominciare il giorno dopo, e tutti quelli a seguire.

http://www.lazonafranca.info/2011/05/17/%E2%80%98a-piscaria-un-mercato-sonoro/

 

LA FONTANA DEI SETTE CANALI

Costruita nel 1612, si salvò dalle rovine del terremoto del 1693 che rase al suolo Catania. Si trova in piazza Alonzo di Benedetto, alla Pescheria, a fianco della gradinata che vi è alle spalle della fontana dell'Amenano, racchiusa in un'ampia volta scavata nelle fondamenta dell'ex palazzo dei chierici. "L'acqua che da essa, per sette bocche, scaturiva in getti impetuosi era manco a dirlo del fiume Amenano; era freschissima e limpidissima e fu di uso pubblico: ma quando ci si persuase finalmente che scorrendo sotto l'abitato finisce di essere potabile, il Comune, pur lasciando la fontana come ricordo storico, pensò bene di inibire l'accesso con una robusta cancellata di ferro". La fontana è di marmo pregiato con ornamenti che ricordano i trìglifi del fregio greco. Sulla grande vasca rettangolare nella quale si riversava fino a oltre mezzo secolo fa l'acqua delle sette bocche, c'è una lapide, ormai appena leggibile. Il monumento è stato restaurato a cura dell'amministrazione comunale nel 1978.

http://www.sicilie.it/sicilia/Catania_-_Fontana_dei_Sette_Canali

 

LA PESCHERIA    di Monica Laurentini

Chi volesse rivolgere lo sguardo a uno dei tanti mercati del pesce del nostro paese, non può non rimanere incantato dalla pescheria di Catania, dove un nugolo di gente si addensa ogni giorno con avidità e voglia di pesce fresco. Perdersi nel cuore dei mercati è in parte dire di conoscere la realtà di una città; in essi si manifestano in tutta la loro veracità usi, costumi, consuetudini e sincerità di un popolo. Si rimane ammaliati, come si rimarrebbe guardando gli occhi di un volto interessante, dai modi di dire, dai profumi, dai colori del luogo e dai suoni che emanano le voci dei pescivendoli.
 Sono le cinque del mattino: la mia mission inizia all'alba di un giorno qualunque allo "sgabello" il mercato del pesce all'ingrosso nel quartiere fuori le mura della città. Qui non troverò mai il pesce che voglio comprare ma quello che si può comprare. Si, perché "l'altro" è riservato solo alla pescheria. "L'oro", i venditori, sono ammassati l'uno sull'altro per acquistare il pesce, dietro ognuno di essi cartelli con scritto "totani", "pesce spada", "orate", del mercato ittico più antico della città! Si sceglie, si scarta, si tocca ogni tipo si pesce, e si parte per la piazza. Chi prima, chi dopo.

Mi sposto in Piazza Alonzo di Benedetto e in Piazza Pardo, una sorta di suk arabo che profuma di mare, spezie e odore di sale; ogni mercato è diverso da un altro e ogni volta che ci si è dentro è come fosse la prima volta, è imprevedibile, a tratti buffo, spesso snervante ma pur sempre folckoristico, è l'anima di una città. E' ancora l'alba e, sullo sfondo del Duomo e dell'acqua ‘o linzolo che fanno da cornice, mi addentro tra le viscere del mercato, rapita dalle immagini seducenti e contemporaneamente sofferenti dei pesci ancora vivi, l'occhio mi guarda e grida vendetta, ma non posso far nulla.

La sindrome di Sthendal mi assale, ma il vocìo dei pescivendoli mi riporta velocemente alla realtà. "U pisci cchiu friscu l'avemu cca, na stu mircatu", grida a squarciagola un ragazzo robusto dall'aria scanzonata, che ripete parossisticamente le parole che gli hanno insegnato: la sua mimica ricorda il Principe della risata, il suo volto racconta chi è. "Su lei u voli tuttu, cci fazzu u scuntu", afferma con aria convincente e io sorrido. Annota gli incassi su un pezzo di carta, il computer è il suo cervello, una lista infinita, 5, 20, 30, 50 euro, una fortuna questa giornata, già, perché qui si vive alla giornata.

Da ognuno dei freddi banchi di marmo, striati di rosso e bagnati dall'acqua, esce fuori un quadro d'autore, in cui i profumi e i colori prendono forma e vengono composti da ciascun venditore trasformandosi da immagine di morte a piacere del gusto: sagome identiche poste in fila perfetta, lucide e nuove emergono dalle cassette di legno quadrate poggiate a terra, e giacciono ormai senza vita. Nessuno è esente dall'essere ammaliato dal fascino della pescheria. La caccia continua, mi faccio largo tra la gente che sbuca da ogni lato, anziani in pensione, guardo, scruto, adocchio. La vista di polpi violacei, di gamberi appena sgusciati, di scivolose orate grigie mi confonde e paralizza ogni mio movimento, ma infine compro i MIEI pesci e mi lascio convincere da L'ORO: " U pisci beddu, u megghiu pisci do munnu" stasera sarà nel mio forno e delizierà il mio palato.

L'odore forte mi inebria fino a stordirmi, scivolo, barcollo e non mi reggo in piedi, sballottata da un'orda di gente che non curante della mia presenza sgomita per vedere cosa acquistare. È la gente del luogo che si confonde con i turisti che arrivano per assistere a questo spettacolo "orientale", arabeggiante, e tipico del sud. Il mio udito si affina per ascoltare i venditori, le cui grida sono poesia per le mie orecchie, forza e magnificenza: è il Sud, verace, opportunista ma passionale, sono al Sud, sono del Sud. "Do you want to taste nu pocu di trigghi? - esclama un vecchio lupo di mare con fare invitante, rivolgendosi a un australian guy dai modi quasi raffinati! Che forza, che mimica, che teatro questo mercato! Si recita a soggetto! Ognuno fa quello che sa fare, ognuno è un attore unico. Lungo il tunnel di Carlo V alcuni di loro trascinano veri e propri trolley di legno vecchio retti da due ruote sconocchiate, da cui si intravedono monconi di pesce senza testa e mitili di ogni sorta.

Proseguo il giro dentro la casbah, muri scrostati e pavimenti corrosi dal tempo, grondaie rotte, acqua ovunque, ghiaccio che si scioglie e cola dai tavolacci di legno formando delle pozze che gradatamente assumono un colore rosato, piedi che affondano nelle umide basole di pietra lavica – sta per finire il mio tour – non ho gli stivali di gomma e inzuppo le caviglie. Il mio sguardo viene distratto da una antica bilancia ingiallita dal tempo che segna 1000 gr, su cui è poggiata la testa di un pesce spada la cui punta trafigge come lama di un coltello, l'occhio è ancora vivo e ancora una volta non posso far nulla.

Qui il tempo sembra essersi fermato. Un uomo pulisce e affetta con cura il corpo del povero pesce, di cui ormai rimane solo il ricordo, e tutt'attorno ancora gente che tratta e contratta, persino sul prezzemolo! Fisso a guardare le mani dei venditori, sono rugose e sporche ma cariche di tenace volontà, la volontà di un popolo legato alla sua terra e al lavoro, un popolo marcato da un passato doloroso, dominato e nello stesso tempo dominante. Alcuni di essi, stanchi, si fermano per un istante e si riposano, fumando una sigaretta e sorridendo ai clienti.

La pescheria ha una sua storia, la storia del mare e dei suoi pericoli, storia di fatica e rassegnazione ma anche di una forza e dignità unica: Vittorio, con un grembiule bianco che gli cinge i fianchi e i capelli grigi coperti da un berretto blu mi narra di quando era carusu e andava a pescare alle 3 del mattino col padre: Mi suseva e tri e con qualsiasi tempu ieva ppi mari". Chiedo, mi soffermo a pensare, sono curiosa.."Ognuno di noi qui ha una sua storia, un suo vissuto", dice. E sa che il suo mondo è diverso dal mio, ma è felice ed appagato."Il pesce vivo si riconosce dall'occhio lucido e dalle branchie rosse" , mi insegna, e io imparo e imparo e imparo. È giunta l'ora di rientrare, si chiude bottega e "L'ORO" dopo aver venduto gli ultimi pesci per pochi soldi, quasi gratis, smontano e puliscono bene i loro banchi uno per uno, con l'amore che ha un padre per un figlio: sapone, spugna e volontà. Poi, si spengono i riflettori sulla parte "araba" della città. "A Piscaria" regno del caos, dell'improvvisazione, della contraddittorietà, cede il passo alla movida catanese. Domani si replica, stessa ora, stesso luogo.

http://www.nital.it/sguardi/67/monica-laurentini.php

 

 

DOVE MANGIARE IN PESCHERIA

 

 

 

 

 

in sottofondo NON LU SAPITI, da "LA CANZONE CATANESE TRA '800 E '900"intrepretate e arrangiate  dall'Associazione Culturale "Schizzi d'arte"con la promozione del Rotary Club - Catania - Distretto 2110