Adagiata
sull'antica collina chiamata di Montevergine, la splendida via
Crociferi è da considerarsi la più alta espressione del tardivo
barocco catanese ed esprime una forza suggestiva di notevole impatto.
Fu ricavata a metà altezza del pendio collinare sul quale poggiano
anche il Teatro e l'Odeon romani e aveva lo scopo di collegare la
Porta del Re (sopra piazza Stesicoro) con il piano di S. Filippo (la
piazza Mazzini). Nel primo tratto della strada quello che parte
dall'arco di San Benedetto all'attuale Via di San Giuliano,
quest'ultima teatro della spettacolare salita delle cannalore durante
i festeggiamenti di Sant'Agata patrona della città, si possono
ammirare la chiesa di San Benedetto e la chiesa di San Francesco
Borgia o dei Gesuiti.
Via
Crociferi fu tracciata dopo il terremoto del 1693 e deve il suo nome
ai padri Crociferi, che vi avevano la Chiesa di San Camillo. Adagiata
su quella che si chiamava la collina di Montevergine, Via Crociferi
godette di grande rinomanza nei tempi antichi: arricchita da edifici e
chiese che le famiglie più influenti vi avevano edificato, essa
divenne ben presto il centro della vita cittadina. Nel Medio Evo, dove
oggi si eleva la chiesa di San Francesco, vi era il palazzo fatto
costruire da don Bartolomeo Altavilla, attigua ad esso era stata
eretta, nel 1396, una chiesa in perfetta simmetria con la grandiosità
delle strutture architettoniche del palazzo, queste costruzioni furono
distrutte dal gran terremoto. Successivamente l'edilizia civile vi
ebbe scarso peso e la strada divenne il monumento simbolo della
potenza degli ordini monastici del Settecento. Su di essa, infatti, si
concentrarono una serie di edifici religiosi, racchiusi all'estremità
da due grandiosi archi: a sud quello, fatto costruire dal vescovo
Riggio per collegare due parti del Monastero delle Benedettine, a nord
il portale di villa Cerami. Nel primo tratto, che va dall'arco di San
Benedetto alla Via Lanza, oggi via di San Giuliano, dopo il collegio
San Benedetto, si affacciano sulla sinistra, senza rispettare
l'allineamento della strada, la chiesa di San Benedetto, iniziata a
costruire (1704-1707) sotto il governo della Badessa Ignazia Asmundo,
il cui palazzo di famiglia sorge alle spalle della chiesa, la chiesa
di San Francesco Borgia, o dei Gesuiti, il cui autore è incerto: si
fanno i nomi di fra’Angelo Italia, di Giuseppe Pozzi. A questa
chiesa è annesso l'ospizio di beneficenza, ex convento, dal superbo
cortile con colonnato, ora sede dell'istituto statale d'arte. Sul lato
opposto, il destro di Via Crociferi, si incontrano il Palazzo Zappalà
e subito dopo la chiesa di San Giuliano, a unica navata ellittica,
opera del Vaccarini, con facciata curvilinea, sottolineata e
accompagnata dalla straordinaria cancellata di affascinante movimento.
All'interno dell'adiacente convento uno straordinario cortile, con la
tradizionale alternanza del bianco e nero.
Oltrepassata
la via di San Giuliano, ancora a destra c'è il Palazzo Villaruel,
tipico esempio di edilizia civile borghese. Sul lato opposto,
pressoché di fronte, la giù citata chiesa dei Crociferi. In
posizione arretrata rispetto alla linea stradale per via dell'ampio
sagrato, fu costruita dal vescovo mons. Pietro Galletti dal 1735 al
1737, su disegno del padre crocifero Domenico Antonio La Barbera,
messinese, che diresse la prima parte dei lavori, poi ultimati dal
padre Vincenzo Caffarelli. Questa strada è uno dei più splendidi
esempi del barocco catanese e gli artisti che collaborarono a
conferirle sfarzo e bellezza sono l'Amato, i Battaglia, Alonzo Di
Benedetto, Vaccarini e Italia. In essa trovarono il loro scenario le
più solenni feste e cerimonie religiose cittadine: le feste
natalizie, la processione del Cristo morto, nella ricorrenza della
Pasqua e tutte le altre feste religiose di ogni chiesa che su di essa
si affacciava, compresa la festa di Sant’Agata (5 febbraio e quello
che il popolo chiama festino d'estate, (17 agosto). Nel 1795, con la
chiusura della Cattedrale al culto per opere di restauro le funzioni
religiose furono trasferite nella chiesa di San Francesco Borgia, e fu
per questo che vi fu battezzato Vincenzo Bellini, la cui casa natale,
oggi trasformata in museo, si trova nella piazza antistante l'arco di
San Benedetto. L'aspetto scenografico della strada, resa omogenea dai
colori delle facciate degli edifici e dalle ampie ringhiere che
raccordano le scalinate delle chiese al piano stradale, ha, in tempi
recenti, attratto l'attenzione di artisti e urbanisti, che hanno
progettato varie soluzioni che la riportassero all'originale
splendore, ma che non hanno trovato attuazione.
http://library.thinkquest.org/27892/data/crocif.htm
Autoritratto
di via dei Crociferi
da Passeggiate sentimentali di Saverio Fiducia
Oggi
che quasi tutte le ferite fatte sul volto augusto de' miei monumenti
sono rimarginate, voi che mi vedete così bella e serena e raccolta
nella fastosa maestà delle mie basiliche e dei miei palazzi,
sappiatelo, malgrado sull'antichissimo sentiero tracciato sui fianchi
del monte dagli aborigeni si fossero venuti allineando templi e ville
patrizie, tanto bella non fui ne' miei primordi o lo fui d'una diversa
bellezza; e non sempre mi si chiamò dei
Crociferi; ma altri nomi ebbi, che si perdettero nei secoli. Tali nomi
non me li chiederete, che non li ricordo neppure; ricordo, però, che
i nativi allorchè scorgevano un pericolo profilarsi sul mare,
veniveno a rifugiarsi con le loro donne i loro vecchi e i bamini,
dietro i massi e i dirupi delle remotissime lave tra le quali
pianeggiavo, e apprestarsi a difesa.
Poi venne d'oltremare un popolo
di scultori e di poeti che ornò di statue e di altorilievi marmorei e
patinò di stucchi policromi la casta tessitura de' miei templi; e poi
ancora un popolo carico di destino che aveva ismisurati potenza e
orgoglio, ed io divenni una strada lastricata nel mezzo come cadesta
gente usava, sebbene sempre tra orti, ville, giardini. Chiaro: alludo
ai greci e ai romani. Non crediate perciò ch'io fossi una strada di
campagna. Di faccia al mare lontano e al sole nascente, tre templi
aprivano la teoria delle loro colonne: di Castore e Polluce, di
Esculapio e di Ercole, iddii dimenticati. La vita dell'operosa e
spirituale città mi ferveva d'attorno, e nelle mie immediate
vicinanze v'era un Teatro sulla cui scena s'era udito l'urto del
coturno di Eschilo, e un'Odeo al quale accorrevano i musicisti di
Trinacria, che non ne possedevano altri. I tre templi occupavano
l'area delle basiliche attuali ed erano edificati nel divino stile che
nato in Sicilia chiamano dorico, fatto per l'eternità; ma i
terremoti, le guerre e gli incendi, lungh'essi i secoli li
cancellarono per sempre dal volto di Catania e di essi non è rimasto
che il nome e nemmeno sicuro.
E ne ho visti in tre o quattro millenni di vita, lutti e rovine
attorno a me; ne ho viste strane torme di guerrieri d'oltreterra e
d'oltremare premere baldanzose i conci del mio selciato, penetrare
avide di rapine nei templi e nelle ville, contendersi tra gli
intercolunni e i peristili il bottino predato, e litigare con l'arme
in pugno, e scannarsi. I Greci prima e poi i Siracusani, i
Cartaginesi, i Romani, i Bizantini, i Mussulmani, i Normanni, i
Tedeschi, i Francesi, gli Spagnoli: gente bramosa di violenza e di
strage, rubatori e assassini a man salva; facce pallide d'Asia e nere
d'Africa, bionde capellature di Normandia e di Svevia, torbi di ceffi
di Provenza, mulatti di Castiglia e di Aragona, mediterranei e
nordici, piombare simili ad avvoltoi in veste di colombe e
impossessarsi delle ricchezze accumulate in decenni di paziente
lavoro, e cupidi, cercare le nostre donne, le nostre bellissime
donne.- Ah le nostre donne, invisibili, custodite, selvaggiamente
difese! Fu per esse che in un maggio lontano udii anch'io echeggiare
il grido scoppiato a Palermo Mora, mora! e assistere a zuffe feroci e
a una caccia senza pietà, e vidi cataste di cadaveri, che non uno si
salvò dal castigo.
Tra gli ultimi lutti, un terremoto, quello del 1693: la città rasa al
suolo, in pochi secondi un carnaio dolorante, un cimitero. Nel fatale
e tragico pomeriggio, il destino, per Catania, parve concluso. Non fu
e non sarà mai così: sette volte sette, essa rinascerà dalle rovine
ed anch'io difatti, rinacqui, più bella di prima, quale oggi sono,
per opera di costruttori che sapevano quel che facevano, committenti
che guardavano in cielo e architetti che non pietre elevavano l'una
all'altra conteste, ma melodia di pietra. Sciolto il velo della
modestia mi si consenta di cantare la mia bellezza.
Dall'una e dall'altra parte due archi mi chiudono, quasi ganci di un
prezioso monile: l'Arco di San Benedetto, imposto al miope governo
secolare dell'impetuoso Vescovo Riggio, per unire le due ali d'un
medesimo fabbricato; il portale di Casa Cerami, campito nel più
azzurro dei cieli. Quattro chiese allineano i loro fronti fastosi: S.
Benedetto, S. Francesco Borgia, S. Giuliano, S. Camillo; quattro
monasteri regali, con chiostri monumentali e ombrosi giardini, e fonti
mormoranti e poi vasti palazzi di signori dai nomi sonanti, e giardini
pensili allietati d'oleandri e di rose, profumati di gelsomino e di
zagara, e anche oggi, nel secolo dello strepito e della vita
intensamente vissuta, una grande pace e dolci silenzi.
Grande pace diffusa, dolci silenzi! Voi siete in me, siete l'essenza
di me stessa; per voi io fui pezzo per pezzo edificata. (....) Or sono
vent'anni si sono accorti ch'io sono quasi parallela della via di
maggior traffico della città, ed ecco violati, per alleggerir questo,
la mia pace, i miei diffusi silenzi: viavai incessanti di veicoli,
strombettanti. Ma si fossero limitati solo a questo! Si sono accorti
altresì che la mia singolare e suggestiva bellezza meritava di essere
ammiarata anche di notte, ed ecco: al calar della sera, brutti aggeggi
sospesi in aria come l'anima degli impiccati accendersi di falsa luce
solare, e frugando le modanature le statue i frontoni, annullare le
ombre ed uccidere in me il mistero della mia pace notturna, un mistero
che era forse l'unico al mondo. Ed hanno infine creduto, ahimè con
quanta poca intelligenza, che la maestà dei miei monumenti poteva
loro servire ad avallare certe spettacolari visioni di un mestiere
duro a morire che spesso e volentieri si illude di raggiungere i
fastigi dell'arte, ( il cinematografo ), ed ecco ancora una volta la
mia bellezza violata da ridicole rievocazioni di costumanze
ottocentesche, che diffamando l'ottocento, tentarono diffamare anche
me.
Catania - scrisse per me qualcuno che se ne intende - è città aperta
a tutti gli orizzonti con le sue strade dritte, ed ha una sola strada
appartata, via Crociferi, che è il suo cuore, ed è anche una delle
più belle strade del mondo. Chi salverà la mia bellezza?
scene girate in Via Crociferi, Piazza
Duomo, Ognina, la Pescheria, Via Cardinale Dusmet e Monastero dei
Benedettini, Monti Iblei zona Canalicchio, Via Vincenzo Giuffrida
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I numerosi cittadini e i turisti -
oltre 300 le adesioni raccolte dal personale incaricato dalla
Soprintendenza che ha patrocinato l'evento nazionale "Invasioni
digitali", organizzato da Soa -"Spazio oltre l'Architettura", hanno
potuto ammirare la chiesa di S. Francesco Borgia, di proprietà del
demanio culturale della Regione siciliana, i chiostri del Collegio dei
Gesuiti e l'interno del sito monumentale che conserva i dipinti di
Luciano Foti, di Giovanni Tuccari, del Guarnaccia, di Daniele Monteleone
(S. Agata in carcere visitata da San Pietro), per la realizzazione di
scatti fotografici con qualsiasi strumento (cellulare, tablet, eccetera)
e la loro divulgazione sul web e sui social network.
«L'elevata preparazione del personale della Soprintendenza prescelto per
assistere la cittadinanza - afferma la sovrintendente ai Beni culturali,
arch. Fulvia Caffo - è risultata la carta vincente in questa
manifestazione. E' obiettivo primario mettere a valore il patrimonio
culturale per la diffusione della conoscenza e per la valorizzazione
attraverso l'uso dei nuovi strumenti di comunicazione come i tablet, i
social network».
Fondale
perfetto della via Crociferi è l’arco che collega la badia grande
di San Benedetto a quella piccola attribuita al Vaccarini: si tratta
dell’unico arco esistente a Catania, detto anche della passerella di
San Benedetto, che si dice costruito in una sola notte per volontà
del vescovo della città e completato in tre anni.
Altra leggenda è legata all’arco, quella del cavallo senza testa,
un fantasma che si aggirava per la via, ma che, come dicevano le
malelingue, si vedeva in giro solamente quando, nel cuore della notte,
dai conventi uscivano personaggi avvolti in mantelli o scialli che
tenevano fra le braccia ben celato qualche neonato.
La chiesa di San Benedetto, ricostruita sopra le macerie della vecchia
chiesa crollata interamente durante il terremoto del 1693 e costata la
vita a ben 55 suore delle 60 presenti nella badia, ha una facciata di
autore ignoto in pietra calcarea, composta nel primo ordine da
semicolonne con capitello composito che reggono una trabeazione
dentellata sulla quale si staglia il frontone spezzato che regge le
allegorie della Fortezza e della Temperanza.
La piccola scalinata è chiusa da un’ampia cancellata (su cui sono
posti i simboli della pax benedettina) dalla quale si affacciano le
suore all’alba del 6 febbraio, per rendere omaggio a Sant’Agata
con le loro angeliche voci e consegnare un mazzo di rose bianche alla
Santa che viene scambiato con un altro mazzo di rose che proviene dal
simulacro. Finito l’omaggio l’imponente portone ligneo
raffigurante scene della vita di S. Benedetto, viene chiuso per essere
riaperto solo l’anno dopo nella stessa data.
L’interno è costituito da un’unica navata con pavimento di marmi
policromi, mentre l’altare maggiore è decorato con pietre preziose
ed argento. Degna di nota la cantoria che si staglia con grazia ed
armonia per celare i volti delle monache di clausura.
Angela Allegria - 13 ottobre 2009, in www.2duerighe.com
L'attuale
aspetto della Chiesa di San Benedetto, risale alla ricostruzione dopo
il terremoto avvenuto nel 1693 che ne aveva distrutto l’antico
tempio adorno di pitture, sculture, marmi e arredi preziosi. La
facciata, ricca di statue e decorazioni, è divisa in due ordini: in
quello inferiore sta il magnifico portale d’ingresso, attribuito al
Vaccarini. Al centro del prospetto è un timpano spezzato con le
statue allegoriche della Temperanza e della Fortezza. La porta
d'ingresso è in legno e sulle formelle sono riportate scene della
vita di San Benedetto.
L'interno
è preceduto da un vestibolo con pavimento di marmi policromi; le
doppie gradinate a tenaglia sono sottolineate da una balaustrata
sinuosa su cui poggiano Otto figure di angeli. Alla fine della
scalinata si trova una bussola a vetri incisi realizzata nel nostro
secolo. La chiesa, a unica navata, è illuminata dalla luce che
penetra dai sei finestroni sulla volta e dai raffinati candelieri a
triplice voluta che poggiano sulla trabeazione. Stupendo il pavimento
in marmi policromi, che fu recuperato dalle rovine del terremoto;
prezioso è l'altare maggiore in pietre dure, argento e oro, eseguito
fra il 1792 e il 1795.
La
calotta dell’abside è affrescata con l’Incoronazione della
Vergine, opera del messinese Giovanni Tuccari. Pure del Tuccari è la
decorazione della volta a botte, con scene della vita e dell’opera
di San Benedetto.Tra le opere d’arte della chiesa una Immacolata di
S. Lo Monaco (fine Settecento), un S. Benedetto di M. Rapisardi
(1822-1886), l’altare del SS. Crocefisso con il fondo di marmo
scuro, il Martirio di S. Agata affresco di autore ignoto datato al
1726.
http://www.siciliacreativa.it/it/arte-e-cultura/arte-e-cultura-news/architettura/468-chiesa-di-san-benedetto-catania-
VIRTUAL TOUR
Per tre secoli, questo trionfo di
affreschi e giochi prospettici è stato occultato agli occhi del
mondo, essendo parte del Monastero di San Benedetto, luogo di
preghiera claustrale perpetua, luogo in cui il silenzio è la
presenza costante, insieme al canto delle religiose di clausura,
udibile nelle ore pomeridiane, quando si affacciano, mai viste,
dalle gelosie ai fianchi della chiesa e ai lati dell’altare.
L’edificio è stato restaurato
nel 1948 sotto la direzione dell’architetto Armando Dillon, pochi
anni dopo che gli affreschi che decorano la volta e parte dei
fianchi tornassero alla luce grazie all’esplosione di un ordigno
che, durante la seconda guerra mondiale, colpì la chiesa creando uno
squarcio nella volta che ruppe quella patina di intonaco bianco che,
durante tutto il XIX secolo aveva nascosto gli affreschi agli occhi
dei fedeli. Tre sono gli ordini di affresco che decorano la volta.
Nel primo, rappresentato dagli affreschi che si trovano sulle
lunette, sono raffigurate le virtù teologali e le virtù cardinali,
intervallate da immagini che rappresentano episodi della vita di San
Benedetto, fondatore dell’ordine benedettino - cui la chiesa
appartiene - e patrono d’Europa.
Proprio a questo ultimo tratto
fanno riferimento gli affreschi raffigurati, che evidenziano non
soltanto la fondazione del Monastero di Montecassino, ma anche il
tentativo, compiuto da Benedetto, di far dialogare la componente
gotica e quella latina presente in Europa dopo la fine dell’Impero
Romano d’Occidente. Ma la magnificenza del barocco della chiesa si
sviluppa in tutta la sua pienezza nella parte centrale della volta,
dove sono rappresentati il Trionfo ed il Viatico di San Benedetto;
entrambi gli affreschi sono un raro esempio di mirabile prospettiva
e teatralità barocca, grazie ad un sapiente contrasto di colori
scuri ed accesi, che esplode in tutta la sua forza espressiva negli
affreschi del presbiterio, al di sopra dell’altare, punto focale
dell’intera chiesa, che attira l’attenzione dell’osservatore sin dal
suo ingresso in chiesa.
http://www.benedettineviacrociferi.it/index.php?option=com_content&view=article&id=9&Itemid=117&lang=it
Sant'Agata
- Il dolce Canto delle Monache Benedettine
In
una soave atmosfera dove il tempo sembra quasi non trascorrere, dove
la luce della serenità e l'adorazione con le preghiere sembrano
aleggiare nello spazio circostante, ammiriamo la dolce e tanto gentile
Madre Giovanna, Priora del Monastero dei Benedettini a Catania.
Ci
incontriamo nel parlatorio; una piccola stanza in cui le monache di
clausura accolgono alcuni parenti ed amici. Le fredde sbarre di ferro
color crema tentano di dividerci ma svaniscono immediatamente appena
le nostre mani si avvolgono stringendosi.
Silenziosamente
ci accomodiamo e con cortesia e tanta affabilità, Madre Giovanna
inizia a rispondere alle nostre discrete domande.
Madre
Giovanna, il sentimento d'amore che ha accolto con devozione Dio nel
suo cuore, Le ha concesso una scelta importante per la sua vita. Come
inizia la sua vocazione?
«Ero ancora giovanissima, avevo 16 anni e frequentavo il magistrale;
quando entravo in Chiesa ed ascoltavo con profonda partecipazione le
messe, il mio cuore si riempiva di gioia, di serenità anche se ancora
non capivo di che cosa si trattasse. La vocazione, per Grazia del
Signore, si manifestò in occasione del Precetto Pasquale a scuola: fu
un momento di grande emozione, di grazia ed amore per Dio e senza
troppo pensare e ragionare mi sono avvicinata alle Monache
Benedettine. Da quel momento sono piena di gioia e felice nella Grazia
del Signore».
Pronunciato
il suo "si", la sua vita ha subito una svolta significativa
e per sempre. Cosa ha lasciato e cos'ha adesso.
«In
60 anni di assoluta devozione ed adorazione per il Signore non ho mai
avuto un momento di ripensamento, sembra di essere entrata ieri in
questo Monastero, quando nella realtà sono trascorsi tanti anni.
La
gratitudine per il Signore nella Grazia e nella perseveranza mi regala
il desiderio di fare sempre di più e, alle volte, ho il timore santo
di fare poco per il Signore perché anche noi siamo esseri umani, non
siamo sante e possiamo anche sbagliare».
Rispetto
alle altre suore che vivono attivamente nel sociale, le Monache di
Clausura come si differenziano?
«Tante
suore hanno la soddisfazione di vedere il bene che fanno; porto
l'esempio di tante missionarie che aiutano con le loro forze e con il
loro coraggio i poveri dei paesi africani.
La
funzione delle Monache Benedettine del SS Sacramento e di tutte le
contemplative la paragono a quella della radice di una rigogliosa
pianta che si nutre e si alimenta dalle sue profonde radici. Dalle
retrovie, l'adorazione per Gesù attraverso le nostre costanti
preghiere, danno ossigeno ed alimentano le folti chiome della
pianta».
Tra
pochi giorni la nostra città ricorderà Sant'Agata, Martire, Santa,
Protettrice di Catania. Quali emozioni, quali sentimenti si accendono
la mattina del 6 febbraio quando il feretro di Sant'Agata si
soffermerà davanti al vostro Monastero?
«Nutriamo
un grande sentimento di gratitudine nei confronti della Santa anche
perché siamo concittadine e sin da piccole, tra le braccia dei nostri
genitori, ammiravamo e pregavamo Sant'Agata in processione.
Ci
rivolgiamo a Lei con la speranza di provare ancor di più amore e
devozione per Nostro Signore Gesù Cristo e Le chiediamo di ottenere
anche una sola parte del suo spirito di sacrificio.
Preghiamo
per tutta la gente che si trova davanti a noi e per tutti quei giovani
che tirano il fercolo.
La Scalinata Alessi
ha origine Medioevale e
conduce alla "Via Sacra" (via Crociferi). Vi si affacciano
diversi edifici Barocchi, tra cui il Convento delle
Benedettine e il Palazzo Zappalà,
nonché lo storico Nievski Pub, rinomato locale. Al di sotto
negli anni '80 del Novecento si rinvennero i resti della
città Romana: resti di edifici domestici con splendidi
mosaici e affreschi parietali.
Le ultime generazioni di catanesi non sanno e
non hanno vissuto la via Alessi senza la famosa
scalinata!
Tra gli anni '60 e '70 molte strade e vicoli
della città cambiarono pavimentazione ,fu
eliminato il basolato e sostituto con l'asfalto.
Molte vie,come nel caso della via Alessi,erano
troppo ripide e quindi fu realizzata, per
maggiore praticità, una lunga scalinata!La prima
rampa di scale fu realizzata negli anni
Sessanta, ma la pendenza risultava sempre
pericolosa,quindi si aggiunsero via via altri
scalini fino a quando, nel 1976,non fu costruita
l'ultima rampa di scale!
Ancora oggi qualche stradina ,che i catanesi
chiamavano "strada 'nticchi 'ntacchi " ,è
rimasta,come ad esempio la vicina via San
Francesco ( a sinistra superando l'arco delle
benedettine)!
Nella prima foto (fine anni '50) in bianco e
nero potete ammirare la via Alessi com'era prima
,mentre nella seconda la scalinata Alessi che
noi tutti conosciamo.
A testimonianza della via Alessi senza scalinata
ci sono le scene di ben due film che vedono due
grandi attori come Marcello Mastroianni e
Giancarlo Giannini percorrere via Crociferi ed
imboccare poi via Alessi !
Grazie alla pagina Facebook @Il cinema intorno
all'Etna ho la possibilità di mostrarvi le scene
dei due film : il primo è del 1960 "Il
bell'Antonio" con Mastroianni ed il secondo è
del 1974 "Paolo il caldo" con Giannini
Milena Palermo |
Preghiamo
per la nostra città affinché sia una città cristiana, una città
che non soffra per la mancanza di lavoro ed, inoltre, preghiamo per
tutti i sacrifici che i nostri concittadini sono costretti a
sopportare».
È
più una preghiera rivolta alla Santa o un canto d'amore?
«In
un profondo silenzio preghiamo e cantiamo e, seppur ci troviamo dietro
la grata della Chiesa, ci sentiamo molto vicine alla gente».
Il
"canto delle Monache Benedettine" per Sant'Agata è un
dolcissimo momento in cui uscite in pubblico. In quali altre
circostanze avete contatto con la gente?
«Usciamo
per l'Immacolata, l'8 dicembre e per il Cristo morto, il Venerdì
Santo; sempre dietro la grata della chiesa, preghiamo e cantiamo.
Inoltre, usciamo per motivi essenziali o di studio o per andare in
ospedale per visite ed esami medici».
Madre
Giovanna, insieme alle altre Monache guardate la televisione, avete
internet, leggete i giornali?
«Abbiamo
una televisione ed ascoltiamo il telegiornale e le Sante Messe del
Papa. Le tragiche notizie che apprendiamo dai telegiornali sono il
contenuto della nostra preghiera per l'indomani. Noi Monache
Benedettine siamo nel mondo ma non siamo del mondo: le gioie ed i
dolori della società sono anche le nostre. Leggiamo i giornali
l'Avvenire, Prospettive e abbiamo il computer per ricevere ed inviare
mail».
Come
si svolge una giornata in clausura?
San Benedetto
«Il
nostro motto per noi Benedettine è ora et labora. Ci svegliamo alle
5.00 del mattino; intorno alle 5.30 siamo pronte per l'ufficio divino,
salmi e letture della Parola di Dio, per le lodi e per la messa;
concludiamo dopo circa due ore di preghiera. Facciamo la colazione e
poi ognuno va al proprio lavoro: in cucina, in lavanderia, in
portineria, alcune, ma sono poche perché vogliono stare nel
Monastero, vanno a scuola per insegnare. Verso le 12.45 ci incontriamo
per pregare insieme un'altra parte dell'ufficio divino e dopo si
pranza. Il pomeriggio si riprende a lavorare e verso le cinque c'è un
altro momento di preghiera e di meditazione (i Vespri), segue la
formazione permanente della Madre. La cena e subito dopo un momento di
ricreazione: stiamo tutte insieme, ci raccontiamo quello che abbiamo
fatto durante il giorno, ascoltiamo il telegiornale. Infine la
Compièta, l'ultima preghiera del giorno e si va a letto. L'adorazione
continua anche di notte: a turno le monache si chiamano per pregare il
Nostro Signore Gesù Cristo sino al mattino».
Quante
Suore Benedettine sono presenti nel Monastero?
«Adesso
siamo 28; quando sono entrata io eravamo 75. Sono davvero poche le
ragazze che rispondono alla chiamata di Dio; c'è troppa distrazione
pertanto il numero tende a diminuire infatti si nota una crisi
vocazionale nella Chiesa».
Con
tanta emozione Oggimedia si congeda da Madre Giovanna, ringraziandola
di cuore per la sua dolcissima gentilezza.
Melania
Costantino
http://www.oggimedia.it/special/158-sant-agata-patrona-di-catania/2179-santagata-il-dolce-canto-delle-monache-benedettine.html
L'ingresso della chiesa, detto La scalinata
degli Angeli
Vestibolo della Chiesa di San
Benedetto, la scalinata degli angeli, realizzata nel corso del XVIII
secolo, è un grande ambiente con portali e decorazioni in stile
rococò illuminato da ampie finestre, con pavimentazione a tarsie
marmoree policrome e decorazioni in stucco.
Tra questi, risaltano le
iscrizioni dedicatorie posate nel 1764. L’armonioso ambiente ospita
una scalinata monumentale delimitata da una balaustrata sui cui
piedistalli troneggiano otto statue alate, rivestite da Nicolò
Mignemi in stucco marmoreo nel 1763. La scalinata consente di
raggiungere il piano della chiesa attraverso un maestoso portone in
legno con una vetrata artistica, realizzata da Carmelo Abate nel
1950 e raffigurante San Benedetto e Santa Scolastica.
http://www.benedettineviacrociferi.it/index.php?option=com_content&view=article&id=18&Itemid=154&lang=it
La sala del parlatorio delle monache di
clausura.
Da notare i divanetti all'incontrario di
fronte alle grate dietro alle quali si aprirà una finestra per far
comunicare la religiosa con i parenti. La sala ispirò Giovanni Verga
alla scrittura della novella "Storia di una capinera", ripresa poi
nell'omonimo film di Franco Zeffirelli.
VIRTUAL TOUR
Luogo di preghiera, luogo di
bellezza e spazio museale
Il Monastero delle Benedettine di Catania si apre da domani al
pubblico. «Da sempre la nostra chiesa è meta di turisti» dice la
Priora Madre Giovanna
La Sicilia, Sabato 06 Aprile 2013 - Grazia Calanna
«Arte significa: dentro a ogni
cosa mostrare Dio», il pensiero di Hesse si coniuga perfettamente
con la nascita, a Catania, di una singolare realtà artistica e
culturale. Parliamo del «MacS», Museo di Arte Contemporanea Sicilia,
accolto dalla Badia Piccola del Monastero delle Benedettine di Via
Crociferi. L'anteprima del MacS è fissata per domani alle 17.30, con
l'inaugurazione della mostra del maestro Gesualdo Prestipino, ennese
classe '33, stimato demiurgo della materia. «Il mio cammino -
dichiara Prestipino - è stato lungo ma lo ritengo ancora in fase di
partenza e questi ultimi lavori, grovigli semplici lineari e chiari,
sia visibilmente che scultoreamente, mi esaltano. Ogni elemento
rappresentato è la vita di un uomo, il suo vissuto con alti e bassi.
Usare il bronzo o il ferro per raccontare è fantastico, si prestano
felicemente al martellamento e al travaglio». La nascita del MacS
permetterà ai visitatori di varcare la soglia del Convento delle
Benedettine, ammirare il settecentesco Parlatorio e la sontuosità
della Chiesa di San Benedetto. «È proprio vero che quando il Signore
vuole qualcosa, lui stesso apre la strada e ispira i progetti -
spiega Madre Giovanna, Priora del Monastero di San Benedetto -. Da
sempre la nostra chiesa, vero gioiello dell'arte barocca, è meta di
turisti che hanno interesse per l'arte. Vengono non solo per questo
ma anche per la pace e il silenzio che conciliano la preghiera. Papa
Giovanni Paolo II, il 4 aprile 1999, nella sua lettera agli artisti
scriveva: "Per trasmettere il messaggio affidatole da Cristo, la
Chiesa ha bisogno dell'Arte.
Essa deve, infatti, rendere
percepibile, e anzi per quanto possibile, affascinante il mondo
dello spirito, dell'invisibile, di Dio". Ci siamo chieste come poter
rendere più fruibile questo bene patrimonio dell'Unesco. Abbiamo
contattato un nostro carissimo amico, nonché Ingegnere Sebastiano Di
Prima, che ha condiviso la nostra idea e ci ha guidati alla
realizzazione di questo progetto che, a giorni, darà l'opportunità,
a chi lo desidera, di visitare la Chiesa e il parlatorio monastico».
L'apertura ufficiale del MacS avverrà in giugno, per allora il museo
accoglierà anche una collezione permanente di dipinti di odierni
artisti figurativi come, solo per citarne alcuni, Andrea Martinelli,
Giuseppe Guindani, Santiago Ydanez, Alex Kanevsky, e di dispositivi
tecnologici d'avanguardia. «Il progetto MacS - dichiara la
direttrice Giuseppina Napoli -, è legato alle istanze tendenti alla
valorizzazione dei beni culturali del patrimonio siciliano e alla
promozione dell'arte contemporanea. La filosofia è quella di
instaurare un dialogo tra l'arte del passato e l'arte contemporanea.
Il luogo che ospita il museo è un contenitore così prezioso da
essere uno dei contesti più importanti della città di Catania e
dell'intera Sicilia. È nella scelta del Monastero delle Benedettine
come sede che c'è l'essenza stessa del MacS. Anche se la
particolarità del contenitore architettonico ci concede poche sale
espositive, contiamo di potenziare lo spazio museale».
a sinistra una scena del
film "Storia di una capinera" di Franzo Zeffirelli (1993)
- Chi è il curatore del MacS?
«Alberto Agazzani, critico d'arte di chiara fama, col quale da
subito ho intrecciato una rara sintonia etica ed estetica. Siamo
convinti che l'Arte è Bellezza. Agazzani ha maturato tutta la sua
esistenza nel segno dell'Arte, possiede il dono di avvicinare
chiunque all'arte contemporanea e riesce, senza imporre mai la sua
visione, a condurre e porre, attraverso la sua indagine storica e
poetica, ciascuno nella condizione di svelare e comprendere un'opera
d'arte. Sarà assistito dalla giovanissima e preparatissima catanese
Laura Cavallaro».
I visitatori del MacS potranno varcare la soglia del Monastero delle
Benedettine. Decisamente un «passo storico». «Madre Giovanna
Caracciolo, cui rivolgo la mia gratitudine, la mia stima e il mio
affetto profondo, ma anche tutta la meravigliosa comunità delle
Benedettine, hanno accolto con slancio la nostra proposta,
consapevoli dell'immenso valore del bene culturale che custodiscono,
disponibili a consentirne la fruibilità per fini di promozione
culturale del territorio, perché, al contrario di quello che si può
pensare di una comunità religiosa di clausura, le Benedettine di Via
Crociferi sono invece, seppur raccolte nella preghiera tra le mura
claustrali, una comunità intensamente viva, attenta e disponibile
alle istanze finalizzate al bene comune e alla sua valorizzazione».
Fra
la badia e la chiesa di San Francesco Borgia la via S. Benedetto
conduce al Palazzo Asmundo, dalla facciata di pietra lavica con
decorazioni in pietra calcarea e balcone unico incorniciato da un’inferriata
panciuta.
La chiesa di San Francesco Borgia (cosidetta dei Gesuiti), dedicata al pronipote di Alessandro
VI, eletto nel 1554 Generale della Compagnia di Gesù e in tutto
diverso dal suo antenato tanto da essere dichiarato santo, fu
ricostruita fra il 1698 ed il 1736 sulle fondamenta di una progettata
da fra’ Angelo Italia precedentemente distrutta dal terremoto.
In essa, che si eleva su un’alta scalinata in pietra lavica a due
braccia che la unisce al piano stradale, è avvenuto il battesimo di
Vincenzo Bellini. Il prospetto bianco comprende due ordini: nel primo
si inserisce il portone centrale, sul quale si adagia un timpano
spezzato sorretto da due coppie di colonne scanalate con capitello
composito, mentre ai lati si elevano verso l’altro altre due coppie
di colonne tuscaniche, mentre nel secondo si può notare un’ampia
finestra al centro, con timpano sorretto da lesene con capitello
composito, e altre due coppie di colonne tuscaniche laterali, poste
sopra le sottostanti, che sorreggono un’ampia trabeazione spezzata.
L’interno, a tre navate, contiene altari marmorei con pale di
pittori catanesi del XVIII secolo, mentre la cupola è affrescata da
Olivio Sozzi, che vi raffigurò temi legati all’ordine dei gesuiti.
Presso la chiesa dei gesuiti si svolsero le funzioni religiose
allorché la cattedrale fu chiusa per i lavori di restauro del 1795.
Questo evento infuse un alone di sacralità e di suggestione a tutta
la via che si percepisce ancora oggi.
Angela
Allegria - 13 ottobre 2009, in www.2duerighe.com
La
storia
Il grande palazzo
settecentesco era il più bell’edificio della Compagnia di Gesù in
tutta la Sicilia. Il prospetto è in stile barocco siciliano e vi si
accede mediante una scalinata. L’edificio ha quattro cortili fra cui
un chiostro con loggiato sormontato da colonne. Il pavimento del
cortile è a ciottoli bianchi e neri, sistemati a strisce, alla
maniera del Borromini.
La costruzione dell’edificio si
svolse in parallelo con il processo di ricostruzione della città
dopo il terremoto del 1693.
La ricostruzione dopo il sisma non è avvenuta in tempi brevi,
adiacente alla chiesa di San Francesco Borgia e il collegio sono
stati completati nell’arco di quarant’anni. Questo significa che al
programma costruttivo hanno preso parte varie figure di capomastri e
di architetti, ciascuno con il proprio linguaggio architettonico.
Tra le varie figure che hanno
dato il loro contributo ai lavori spiccano alcuni nomi già noti
nella storiografia locale: Angelo Italia, Alonzo di Benedetto,
Francesco Battaglia e altri fino ad oggi sconosciuti come
l’architetto Francescano, lo scultore G.B. Marino con il ruolo di
architetto.
La scelta del sito, l’impianto
tipologico della chiesa e del collegio, sono il risultato di una
complessa fusione fra parti di costruzioni risparmiate dal sisma,
modelli spaziali della tradizione seicentesca e regole della vita
comunitaria dei gesuiti. Fino al 2009 è stato sede dell’Istituto
d’arte di Catania.
L'edilizia Gesuita a Catania,
in concorrenza con i Benedettini.
I gesuiti sono presenti in
Sicilia fin dal 1547 quando il Senato della città di Messina chiede
loro di fondare il collegio pubblico d’istruzione. Dopo Messina essi
fondano collegi nelle principali città dell’isola, prima lungo la
costa per poi insediarsi gradualmente nell’entroterra. A Catania
giungono nel 1556
chiamati dal vescovo riformatore Nicola Maria Caracciolo che gli
affida il compito di insegnare la dottrina cristiana in 14 chiese.
Con un accordo, stipulato il 9
febbraio 1556, fra i Giurati della città, il vescovo e la compagnia
di Gesù, ai padri dell’ordine religioso viene ceduta l’antica chiesa
della Santissima Ascensione ed alcuni locali di un annesso ospedale
rimasto vuoto dopo la sua fusione con quello di San Marco. La chiesa
si trovava in prossimità della chiesa e monastero di San Nicolò
l'Arena popolarmente chiamato monastero dei Benedettini.
Nel
1565
l’architetto gesuita Giovanni Tristano avevano predisposto il
disegno per il progetto di ampliamento della chiesa della SS.
Ascensione e per la costruzione di un piccolo collegio e di una casa
di probazione. In seguito il collegio viene destinato a sede
universitaria e ampliato grazie al sussidio del re. L’edificio viene
completato attorno al 1578, su probabile disegno dell’architetto
gesuita Francesco Schena.
In una veduta di Catania di
Pierre Mortier, che riproduce una precedente incisione edita a
Colonia nel 1575, la città è racchiusa da mura bastionate e con un
sistema di strade di origine medioevale, prevalentemente orientato
in direzione est-ovest; soltanto due, più ampie e fra loro
parallele, attraversano tutta la città in direzione nord-sud: una la
strada della Luminaria (via Etnea), collega la porta Acis (piazza
Stesicoro) con la Platea Magna (piazza Duomo), l’altra collega la
porta Regis (in prossimità della chiesa di S. Agata la Vetere) con
il Piano de l’herba (piazza S. Francesco). La seconda strada
coincide in buona parte con l’attuale via dei Crociferi. In entrambe
le strade si trovavano numerose chiese: lungo la via della Luminaria
le chiese di S. Anna dei Triscini, della SS. Trinità, della
collegiata, di S. Martino; lungo l’attuale via dei Crociferi le
chiese di S. Maria della Dagala, della SS. Ascensione, di S.
Benedetto, di S. Francesco, di S. Giovanni li Barillari. Dalla
veduta del Mortier si deduce che
il luogo più importante della città si trova all’estremo sud della
via Luminaria in cui sorgono sulla piazza Grande (piazza Duomo), la
cattedrale e la loggia dei Giurati. I gesuiti, pur avendo chiesa e
collegio localizzati in un sito non periferico nella struttura
urbana cinquecentesca, ambiscono a guadagnare un ruolo primario
nella scena urbana. È
presumibile che lungo la via Luminaria, asse principale della città,
sorgessero gli
edifici dei nobili, mentre invece nel sito del
collegio dei Gesuiti sorgessero solo modeste case; da qui il
desiderio di trasferirsi. Il rettore inoltre motiva la richiesta di
trasferimento dal vecchio sito al nuovo con il fatto che i cittadini
o i forestieri, venuti da lontano, faticano ad affrontare la salita
che porta al vecchio collegio.
Il 14 novembre
1621
il generale della Compagnia di Gesù autorizza il mutamento di sito,
e i padri gesuiti si mettono subito all’opera acquistando la casa
degli Orfani, appartenente al monastero della Santissima Trinità,
costruendo il nuovo collegio in via Luminaria o Strada Maggiore (Via
Etnea).
Il nuovo collegio inizia il 3
agosto 1623
con la costruzione della chiesa dedicata a S. Ignazio, i tempi di
costruzione sono molto lunghi, in parte a causa della mancanza di
proventi, e in parte per via della crisi economica che interessò la
Sicilia nella metà del XVII secolo.
Fra il 1666 e il 1682, il nuovo
collegio risulta ancora in costruzione. La chiesa invece è
praticamente completa quando viene colpita dal terremoto dell'11
gennaio 1693. Nel 1694 i
Gesuiti chiedono di continuare la costruzione del collegio
danneggiato dal sisma.
Il rettore del collegio, padre
Ferdinando Gioieni in data 14 febbraio 1694, chiede al Vescovo
Andrea Riggio il consenso per ricostruire la chiesa, in parte
rovinata dal terremoto e in parte demolita per costruire la strada
principale chiamata Osseda.
In attesa della licenza del
Vescovo, il rettore del collegio inizia ugualmente la ricostruzione
nel piano della fera nova,
suscitando l’opposizione dei
vicini padri del convento di S. Caterina che temevano ampliamenti
edilizi in loro danni e quelli delle monache del monastero S.Agata
che temevano di essere viste dalle finestre del collegio in
costruzione. Sulla
costruzione sorgono forti contrasti e conflitti da parte di privati
cittadini che rivendicano la proprietà di case utilizzate come sede
della chiesa e del collegio in costruzione. Pertanto i Gesuiti sono
costretti, ad abbandonare il piano della fera nova sito da loro
prediletto in quanto nel cuore della città. Trascorso qualche anno
di incertezza sul a farsi, i padri gesuiti ritornano nel loro antico
collegio abbandonato dopo il sisma. Per la ricostruzione della
chiesa e del collegio, è stato riutilizzato tutto ciò che è stato
risparmiato dal sisma.
La ricostruzione
Le prime notizie sulla
ricostruzione del collegio di Catania risalgono al
1698:
il vicedirettore del collegio, padre Francesco Maria Bonincontro,
chiede al vescovo il permesso di vendere parte di case, situate nel
piano della Fera Nova (piazza dell'Università) nella contrada Pozzo
Bianco. Queste case erano state acquistate, prima del terremoto, dai
padri gesuiti che intendevano ricostruire il proprio collegio nel
piano della fiera. Poiché essi non poterono raggiungere l’obiettivo,
tornarono nel collegio antico di nuovo riedificato, che corrisponde
all’attuale complesso edilizio. Qui il portale di acceso al terzo
cortile porta incisa sull’arco la data 1697 e il motivo a grottesca
delle mensole del balcone sono ancora di foggia manierista.
Nel
1699
vengono sterrate le strade pubbliche a carico dell’ordine gesuitico:
la strada di San Benedetto, quella davanti alla chiesa (via dei
Crociferi) e quella di tramontana (via Gesuiti).
Alle opere di fondazione della
chiesa sovrintende, verso il
1701,
il capomastro Alonzo di Benedetto. La planimetria della struttura
della chiesa fa presupporre l’ipotesi che quest’ultimo si sia
servito del disegno, in possesso dei padri gesuiti, eseguito dal
padre Tommaso Blandino verso il 1623 per la costruzione della chiesa
nel piano della Fera Nova. La pianta dell’attuale chiesa
corrisponde difatti a quel progetto, che comprendeva le navate
inscritte in un rettangolo. Alonzo di Benedetto da un lato rispetta
un impianto tipologico dato dall’ordine religioso, dall’altro
esprime il linguaggio architettonico che più gli è congeniale,
attuando mutamenti di gusto del suo tempo. Il disegno della facciata
della chiesa è invece da attribuire all’architetto Angelo Italia,
anche per la ricostruzione del collegio si può pensare che abbia
impostato uno schema tipologico poi interpretato dal di Benedetto.
Il disegno di questo collegio, a differenza degli altri più modesti
diffusi nell’isola, svolge il tema delle tre corti in successione
lineare e parallela all’asse longitudinale della chiesa. Questo tema
è insolito nel modo nostro di costruzione dei collegi siciliani, in
cui le corti si sviluppano lungo un asse ortogonale a quello
longitudinale della chiesa.
Nel
1713 sotto la sorveglianza
dell’architetto Stefano Masuccio, iniziano i lavori di demolizione
di vecchi muri, e di livellamento per impostare i pilastri del
cappellone della chiesa. Agli inizi del 1718 risultano già eseguite
le sette finestre del piano terra del prospetto di levante e parte
del portale d’ingresso del collegio. Alla fine del 1719 sono state
affrontate le spese per fabbricare la scuola (il corpo di ponente
dell’area scholarum) nel sito della chiesa vecchia, per spianare la
strada di San Benedetto.
Negli anni compresi tra il
1726-1740 i lavori procedono con opere di finitura all’interno della
chiesa e con l’impostazione delle volte lungo il portico della corte
dell’area scholarum. Agli inizi del
1745
ad Alonzo di Benedetto segue la direzione dei cantieri l’architetto
Stefano Battaglia. Probabilmente è opera sua il disegno del secondo
ordine del portico dell’area scholarum, molto diverso dalla
concezione figurativa del primo ordine, dalla cui costruzione sono
passati più di 20 anni. Così agli archi a tutto sesto del primo
ordine, egli contrappone un loggiato fatto di pilastri più familiari
al linguaggio barocco.
Le notizie relative al
completamento del collegio si fermano al 1757.
(fonte: Wikipedia)
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L'europeo concetto architettonico
del Collegio universitario.
Le regole dell’organizzazione
distributiva e spaziale delle chiese e collegi a cui si ispirano i padri
gesuiti erano stabilite nel canone 34 (De rationae aedificiorum), in
base a tali regole il disegno di ogni nuova fabbrica doveva essere
inviato a Roma per l’approvazione del generale (praepositus generalis)
che si avvale, per gli aspetti di ordine pratico e tecnico, di un
Consiliarius aedilicius , che a partire dalla metà del XVII sarà il
“matematico” del collegio romano.
L’insieme delle indicazioni
tipologiche e delle caratteristiche, che deve essere rispettato nella
costruzione dei collegi per soddisfare i bisogni dell’Ordine, viene
chiamato "modo nostro", questo stabilisce che gli edifici della comunità
religiosa – area collegii- organizzati attorno a una corte, siano ben
distinti da quelli scolastici e delle congregazioni – area scholarum-
anch’essi distribuiti attorno ad una corte.
La chiesa, generalmente affiancata
all’area collegii, deve legarsi agli edifici della comunità ed essere al
contempo accessibile sia ai padri dell’Ordine, agli scolari e ai fedeli.
In fine un’altra corte contenente i servizi generali – corte di carri o
rustica- deve essere connessa ai fabbricati del collegio ma avere un
accesso autonomo per i carri. Queste regole nella realtà subivano alcune
variazioni in base al contributo personale dell’architetto che le
metteva in pratica.
Il collegio di Catania,
contrariamente alle regole del modo nostro che prevedono generalmente
una sola corte di carri o rustica accanto all’aera collegii, viene
costruita una seconda corte di carri . I collegi gesuitici con più di
tre corti sono rari, tuttavia in questo caso la presenza di una quarta
corte è attribuibile alla ricostruzione dell’edificio che utilizza il
sito della chiesa della SS. Ascensione e parti del primitivo collegio
risparmiato dal sisma.
Il suo utilizzo nel tempo.
Rispetto al disegno originario, l’ex
collegio ha subito molte modifiche a seconda dei suoi usi nel tempo,
tanto da renderne illeggibile il ruolo primitivo nella scena urbana.
1767
- lo Stato borbonico decide di
espellere i gesuiti dalla Sicilia. Il governo borbonico entra in
possesso dei beni dei gesuiti, e decide di concedere il loro patrimonio
fondiario in enfiteusi ai contadini privi di terra e di trasformare i
loro collegi in scuole pubbliche di Stato o in ospizi per l’assistenza
ai poveri.
1779
- Il collegio dei gesuiti viene trasformato in “casa di educazione della
bassa gente” o secondo un appellativo più nobile “collegio delle Arti”,
esso ospita sia lavoratori artigiani (di panni, sete, ceramiche,
manifatture d’acciaio) che alloggi per alunni. Con questo nuovo riuso
avvengono alcune modifiche per adeguare la struttura alle nuove
funzioni: demolizione dei muri divisori delle celle dei padri per
trasformarle in dormitori o officine.
1834
- Con il decreto del 7 agosto 1834 il re Ferdinando II delle Due Sicilie
dichiarava chiuso il “Collegio delle Arti” per sostituirlo con il “Reale
ospizio di Beneficenza per le province di Catania e Noto”. Iniziano una
serie di lavori di adeguamento dell’impianto distributivo originario per
ospitare un numero sempre crescente di alunni e mendicanti.
Originariamente al piano superiore del collegio si trovavano: 12 camere
per i padri, poi ridotte a 10 dall’apertura dei corridoi superiori di
tramontana e meridionale ed in seguito distrutte per creare un unico
salone per l’ospizio, la scala e verso ponente l’appartamento del
rettore costituito da tre vani.
1854
- Sopraelevazioni vengono eseguite sull’area scholarum e sul primo corpo
di ponente dell’area collegii. A partire da 1854 l’area scholarum
diventa sede del tribunale.
1968 - 2009
- Il collegio è stgto sede dell’Istituto statale d’arte, il quale ha
proseguito la pratica di microtrasformazioni interne per rispondere alle
esigenze degli allievi.
(fonte: Wikipedia)
Il
futuro del Collegio dei gesuiti fra abbandono e grandi progetti
di Antonio Borzì
Gli
interventi per la messa in sicurezza procedono a rilento, come
testimoniano le immagini. L’ex Istituto d’arte dovrebbe diventare
sede di un’importante Biblioteca regionale
CATANIA
– Nell’ottobre del 2009 è stata messa la parola fine alle
vicissitudini dei ragazzi dell’Istituto d’arte che, dopo essere
stati costretti ad abbandonare il Collegio dei gesuiti - edificio
storico di via Crociferi - per motivi di sicurezza, hanno trovato una
nuova “casa” nell’attuale sede di viale Vittorio Veneto. Prima
del definitivo “trasloco”, tante discussioni, tanti proclami e
tentativi più o meno fortunati di trovare una soluzione.
Così
la scuola finalmente iniziò e venne l’inverno, e con esso il
solitosilenzio che avvolge i fatti catanesi colpì anche la situazione
relativa ai lavori di restauro nel palazzo di via Crociferi.
Ovviamente la fine dell’emergenza giustificava la fine del clamore,
ma è sembrato quasi che la questione non importasse più.
Un edificio dalla grande valenza storica che è sembrato quasi
abbandonato a se stesso. Oggi, poco o nulla sembra essere cambiato nel
corso dei lavori. Interventi che, a dire il vero, stanno proseguendo
con un ritmo che, apparentemente, appare lento e senza fretta.
Le
immagini interne ed esterne dell’edificio sono eloquenti. Le
finestre sono in gran parte rotte consentendo, soprattutto in questa
stagione invernale, l’ingresso degli agenti atmosferici, gli stessi
che, entrando dal famoso buco sul tetto, hanno causato ingenti danni
alla pavimentazione dell’ex palestra che rischia tuttora il crollo.
All’interno, invece, si assiste a immagini d’autentico abbandono
con un dominio totale di calcinacci a terra e erbacce.
Percorrendo
il perimetro della struttura si può notare come, mentre in via dei
Gesuiti i lavori, seppur senza fretta, proseguono, la parte che si
affaccia sulla zona non aperta al traffico e adibita a parcheggio
(abusivo) sia rimasta totalmente all’abbandono. Il rischio appare
evidente anche per eventuali crolli di materiali dalla facciata che
andrebbero a finire sulle auto in sosta o, peggio ancora, su qualche
sventurato pedone.
I
progetti vorrebbero quest’edificio futura sede di una grande
Biblioteca regionale. Ma, vedendo queste immagini, ci si può rendere
conto come i tempi di realizzazione appaiano ancora molto lunghi.
Dovrebbero essere fatti prima di tutto degli interventi strutturali
per rafforzare la resistenza di un edificio che sta letteralmente
crollando a pezzi.
Ha suscitato anche un pizzico di ironia la vista, fino a poche
settimane fa, dei camion delle ditte dei trasporti, ancora impegnati a
lavorare alacremente per completare il trasferimento nella nuova sede.
Quasi il simbolo del fare siciliano, un modus operandi che tiene poco
conto di programmazione e controlli, cercando di far defluire le cose.
Senza dimenticare quella spinta entusiastica verso progetti esaltanti
che difficilmente verranno realizzati.
TRIBUNA
D'ONORE DEL COLLEGIO DEI GESUITI IN VIA CROCIFERI
(Testo
descrittivo di Franca Restuccia, dal libro "Catania del '700 dai
segni al linguaggio nella ricostruzione ")
- L'
insieme del portale con tribuna si presenta alquanto "monumentale
"sull'alta scalinata, frutto del piano del Landolina che nel 1869
impose l'abbassamento del livello stradale (solo i primi quattro
scalini appartengono all'originale e semplice portale, senza balcone
superiore, di Alonzo di Benedetto).
Esempio di
"ricostruzione in stile"attuato nel 1848 dall'ingegnere Mario Di
Stefano (impegnato per la sopraelevazione dell'intero
collegio)che,"......con faticose imitazioni di un indistinto
linguaggio barocco... con abbondanza di volute e cartocci alla
maniera dei lapicidi della prima ricostruzione "(G.Pagnano),
reinventa la tribuna e tenta di completare in un'unica
configurazione il portale esistente.
La parte
originale è infatti quella al di sotto dell'estradosso dell'arco
sostenuto da piedritti,con piccole bugne diamantate che si ripetono
nelle paraste e nelle controparaste del telaio di fondo, con
sovrapposte colonne,che viene maldestramente "allungata"dal Di
Stefano. Variando le proporzioni degli elementi che entrano in gioco
nell'unificazione, con l'aggiunta di fusti di colonne che reggono
una "non canonica"e molto alta trabeazione, sulla quale poggia le
mensole a sostegno della tribuna, il progettista commette
".....scorrettezze grammaticali inspiegabili in un autore di
formazione accademica.......",riproduce mimeticamente l'esistente e
non riesce ad interpretare un cammino indicato e tracciato - (Franca
Restuccia)
|
Sul
lato opposto, il destro di Via Crociferi, si incontrano il Palazzo
Zappalà e subito dopo la chiesa di San Giuliano, attribuita al
Vaccarini e datata fra il 1739 e il 1751, presenta una cancellata
panciuta, che segue l’andamento della facciata convessa, sulla quale
domina la scritta “DOM ET S. IULIANO SACRUM 1832” sorretta da due
putti altezzosi che reggono i simboli ecclesiastici, la mitria ed il
pastorale. Il breve sagrato è decorato da un tappeto di arabeschi in
bianco e nero.
Anche le finestre sono chiuse da grate panciute, rifatte dopo il
ventennio, durante il quale, le grate originarie finirono addirittura
in California per ornare le ville di nababbi e dive del cinema. L’interno,
con pianta ottagonale, riccamente decorato, contiene “La Madonna
delle Grazie”, realizzata da Olivio Sozzi.
Da alcuni punti della strada e dal chiostro dell’ex monastero si
può ammirare la cupola con la loggia esterna di coronamento dalla
quale un tempo le monache di clausura seguivano il passaggio delle
processioni sacre.
Il monastero è composto solo da due ordini, senza balcone centrale,
contenente solo finestre. Il portone con arco a tutto sesto, sostenuto
da due lesene con capitello tuscanico, è inquadrato in un rettangolo
ai lati del quale si possono scorgere due fiori. Sopra la chiave dell’arco
si nota uno stemma illeggibile sormontato da una corona, con sotto una
maschera grottesca e ai lati delle foglie di acanto. All’interno il
chiostro è circondato da un loggiato con archi a tutto sesto al
centro del quale si presume ci fosse una fontana, oggi sostituita da
un’aiuola di forma ottagonale.
Di fronte all’ex monastero sorgeva un giardino pensile, sostituito,
in seguito, da un palazzotto. Alcuni ritengono che proprio all’angolo
fra via Crociferi e via Sangiuliano sorgesse il tempio di Esculapio,
mentre altri lo collocano all’angolo fra via Crociferi e via
Vittorio Emanuele.
Angela
Allegria - 13 ottobre 2009, in www.2duerighe.com
Catania,
via Crociferi tra degrado e incuria. Nel 1998 la Protezione Civile aveva stanziato 5 milioni di euro,
finora ne sono stati spesi 800 mila
Via
Crociferi, una delle vie più belle del barocco siciliano, nel 2002
dichiarata dall’Unesco patrimonio dell’umanità, versa in uno
stato di degrado e incuria.
Quattro
chiese in 200 metri. La prima è quella di San Benedetto collegata al
convento delle suore benedettine dall’arco omonimo che sovrappassa
la via e collega la Badia grande alla Badia piccola. Ad essa si accede
a mezzo di una scalinata ed è contornata da una cancellata in ferro
battuto. Proseguendo si incontra la chiesa di San Francesco Borgia
alla quale si accede tramite due scaloni. A seguire l’edificio
settecentesco del collegio dei Gesuiti, dal 1960 al 2009, sede dell’Istituto
d’Arte.
Per
la messa in sicurezza dell’edificio, che è di proprietà della
Regione, già nel 1998 la Protezione Civile aveva stanziato 5 milioni
di euro, ad oggi ne sono stati spesi 800 mila: se tutto va bene i
lavori proseguiranno a partire dalla prossima primavera.
Di
fronte al Collegio è ubicata la Chiesa di San Giuliano considerata
uno degli esempi più belli del barocco catanese. L’edificio è
stato attribuito all’architetto Giovan Battista Vaccarini.
Proseguendo
ed oltrepassando la via Antonino di San Giuliano, si può ammirare il
Convento dei Crociferi e quindi la Chiesa di San Camillo.
Lo
scorso novembre sono partiti i lavori di pulizia dei muri dai
graffiti, grazie ad un accordo siglato dal Comune e l’Ance,
associazione nazionali costruttori edili. “Facciamo un appello ai
nostri giovani perchè siano rispettosi di questo patrimonio. Ne
godano la bellezza ma lo custodiscano gelosamente”, così ha
commentato il sindaco Raffaele Stancanelli.
http://www.universy.it/2011/12/catania-via-crociferi-tra-degrado-e-incuria/
scene girate al Monastero dei Benedettini, Piazza Duomo, Via
Crociferi
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Palazzo Zappalà
Via
Crociferi, un set all'aperto.
Sabato
25 Giugno (La Sicilia) Mario Bruno
La rinascita di una città dipende anche dallo sviluppo della cultura
e dell'arte, che contribuiscono a incrementare il turismo. Catania è
una città dove fervono costantemente vivaci iniziative
teatrali,
musicali, cinematografiche e letterarie. Qui arrivano molti registi,
conquistati dal barocco, sedotti dalle chiese di vie Crociferi, dai
prospetti dei palazzi di via Etnea, dal pittoresco, variopinto
microcosmo della pescheria con la sua umanità vociante, dall'azzurro
luminoso del mare, dagli abbaglianti colori caraibici delle spiagge
della Plaia.
Non a caso il capoluogo etneo è stato, è tutt'oggi, e sarà sempre
set ideale di un cospicuo manipolo di registi, alcuni dei quali - per
esempio Peppuccio Tornatore, Maurizio Zaccaro, Franco Zeffirelli -
sono tornati un'altra volta con le loro Arriflex per riprendere gli
scorci più seducenti, come piazza Duomo, l'arco di San Benedetto, via
Alessi, Villa Cerami, piazza Dante, il monastero di San Nicolò
l'Arena, l'Antico Corso, San Cristoforo, palazzo Biscari e anche
Librino, quartiere dal fascino quasi spettrale in cui Roberta Torre ha
ambientato il suo ultimo film "I
baci mai dati". Mauro
Bolognini, nel 1960, si innamorò talmente della "bomboniera
barocca" alle falde dell'Etna, da ambientarvi "Il
bell'Antonio", impeccabile film tratto dall'omonimo romanzo di Vitaliano Brancati e con un cast di rilievo che vedeva in primo piano
Marcello Mastroianni (Antonio Magnano), una magnifica Claudia
Cardinale (Barbara) e inoltre Tomas Milian, Rina Morelli e Pierre Brasseur. Quarantaquattro anni dopo, il milanese Maurizio Zaccaro,
infatuato anche lui di Catania, gira una sorta di remake del
"Bell'Antonio", con Daniele Liotti e Nicole Grimaudo
protagonisti. Zaccaro ripercorre per buona parte gli itinerari
descritti con maestria da Brancati e trasferiti nel grande schermo da
Bolognini, indugiando, come l'illustre predecessore, anche sui sudici
ma comunque "attraenti" budelli del quartiere del vizio, il
vecchio San Berillo, la
strada delle "lucciole", dove Alfio
Magnano, stremato dal dolore per aver appreso dell'impotenza sessuale
dell'amato figlio, va a morire mentre fa l'amore con una prostituta,
noncurante delle bombe sganciate dagli aerei americani che sorvolano
la città, in pieno conflitto mondiale. Va a morire fiero, per salvare
l'onore e la virilità del suo casato.
Anche Lina Wertmuller girò oltre metà del suo "Mimì
metallurgico ferito nell'onore" nei luoghi-simbolo del capoluogo
etneo, irrompendo con la macchina da presa all'interno della
pescheria, tra i banconi e i recipienti colmi di guizzanti masculini,
sauri, cefali e luvari. Girò pure a Ognina, sotto il secolare baobab
del giardino Bellini, in via Vincenzo Giuffrida, davanti alla
Cattedrale, nella regale via Crociferi, nel suggestivo chiostro del
monastero dei Benedettini e poi, in un gabbiotto della Plaia, tra una
zoomata sul mare e un'altra sulla dorata distesa di sabbia, realizzò
l'indimenticabile scena d'amore "forzato" organizzato per
sfregio, tra Giancarlo Giannini e la brutta, grassa consorte
(l'attrice Elena Fiore) del carabiniere che aveva cornificato il bel
Mimì con "la di lui" moglie (Agostina Belli)
Via
Crociferi, un set tra i più ricercati dai registi di cinema
Un ruolo di
primo piano per la bellissima strada. Nel breve spazio hanno
girato Bolognini, Zeffirelli,Vicario, Wertmuller, Samperi, Zaccaro
(La
Sicilia 12.5.2012) di Mario Bruno
Catania possiede un sito di inestimabile valore, un gioiello
architettonico che si chiama via Crociferi, uno dei più ambìti set
cinematografici del mondo, come Manhattan, il Central park e le
spettacolari street di New York; come Santa Monica di Los Angeles,
come Philadelphia, Miami, come la piazza Duomo di Milano, la torre
Eiffel di Parigi e come il cuore di Roma.
In via Crociferi, nel breve spazio di 200 metri, sono ubicate ben
quattro chiese e questa realtà, oltre al prezioso barocco che rende
l'arteria davvero unica, ha affascinato una moltitudine di registi.
Già nel 1960 Mauro Bolognini diede più di un ciak nella strada
d'impronta settecentesca per «Il bell'Antonio» e stessa cosa fece
Maurizio Zaccaro nel 2004 per il remake televisivo dell'opera
letteraria di Vitaliano Brancati. Nel primo film, via Crociferi è
ritratta in bianco e nero, nel secondo a colori e nella sua inalterata
maestosità. Marco Vicario azionò poi la Arriflex tra le storiche
mura, per il suo «Paolo il caldo» tratto dal romanzo postumo di
Brancati e stessa cosa fece Franco Zeffirelli per lo struggente
«Storia di una capinera» dove si vedono splendidi scorci notturni
della via, con la luce argentata della luna
che rimbalza sulle basole
laviche.
Indimenticabili, va certamente sottolineato, le inquadrature
realizzate da Lina Wertmuller nel suo lungometraggio, divenuto un
cult, «Mimì metallurgico ferito nell'onore». La regista - era il
1972 - si dichiarò «innamorata persa di Catania e soprattutto di via
Crociferi», dove la macchina da presa riprende un giovane Giancarlo
Giannini intento a seguire Elena Fiore, donna giunonica e impettita
che l'esile ma agguerrito Mimì dovrà sedurre «per questioni
d'onore».
La Wertmuller, assieme a molti autorevoli colleghi non esitò a
definire via Crociferi «una
delle strade più affascinanti del mondo,
che seduce per la ricchezza del suo patrimonio monumentale».
La serie di film non è terminata. Anche Diego Ronsisvalle fu attirato
dal fascino di quella gemma barocca dove girò «Gli astronomi»,
mentre anni prima il regista e sceneggiatore catanese poi trapiantato
a Roma, Rino Di Silvestro, portò Guia Jelo, Tuccio Musumeci e
Philippe Leroy a villa Cerami per una scena del malriuscito film
«Bello di mamma».
Ben altra sorte, cioè un clamoroso successo, ebbe invece
l'indimenticato «Malizia» di Salvatore Samperi, e sottolineiamo
indimenticato sia per la presenza del grande Turi Ferro sia per quella
di una strepitosa, bellissima Laura Antonelli all'apice della sua
carriera e del suo fascino. Altro film dove si vede via Crociferi è
«Giovannino» di Paolo Nuzzi interpretato da un giovanissimo
Christian De Sica e dalla brava e graziosa attrice catanese Sara
Rapisarda prediletta da Lina Wertmuller che le aveva dato una parte
pure in «Mimì metallurgico».
La preziosa strada si vede non soltanto in film, ma anche in fiction
televisive, tra cui nella citata «Il bell'Antonio» di Zaccaro e
nella romantica «Posso chiamarti amore» del regista Paolo Bianchini
con Debora Caprioglio ed Enrico Lo Verso.
VIA
CROCIFERI E IL CAVALLO SENZA TESTA
di Daniela Monaco
La
leggenda del cavallo senza testa è ambientata in Via Crociferi nella
Catania del 1700. Via famosissima per le sue Chiese, un tempo era il
luogo in cui i nobili avevano le residenze per incontri notturni,
intrallazzi amorosi e cospirazioni private da tenere al nascosto.
Proprio per questi intrighi notturni gli stessi nobili, per evitare
intromissioni della plebe nella Via, fecero spargere la voce che di
notte vagasse senza meta un cavallo senza testa. Durante la notte
nessuno osava entrare in Via Crociferi.
Solo
un giovane catanese impavido e poco avvezzo alle leggende scommise con
i suoi amici che sarebbe andato nel cuore della notte sotto l’Arco
delle suore Benedettine (che la storia narra come costruito in una
sola notte nel 1704), per smentire tale diceria. A prova del suo
passaggio in quel luogo doveva affiggere un chiodo. Gli amici
accettarono la scommessa.
Il
giovane a mezzanotte in punto piantò il chiodo alla parete dell’arco,
ma non si accorse che insieme al chiodo attaccò anche il suo
mantello, che gli impediva i movimenti non potendo scendere dalle
scala. Il ragazzo allora pensò di essere stato preso dal cavallo
senza testa e per il terrore morì, vincendo la scommessa e
confermando la leggenda.
Via Crociferi amatissima, dunque, non soltanto dagli uomini del cinema
ma pure da documentaristi, da studiosi di storia, da fotografi
rinomati provenienti da tutto il mondo per ritrarre i prospetti delle
chiese, l'arco di San Benedetto, il cancello di ferro battuto
dell'omonima chiesa, la prima delle quattro che si incontrano salendo
dalla piazza San Francesco d'Assisi, che ospita la casa natale di
Vincenzo Bellini «il Cigno» e il monumento al cardinale Dusmet.
Proseguendo si incontra la chiesa di San Francesco Borgia e, a
seguire, il Collegio dei gesuiti, vecchia sede dell'Istituto d'arte,
che ha al suo interno un bel chiostro con portici su colonne e arcate
sulle quali si soffermò l'obiettivo di Diego Ronsisvalle per «Gli
astronomi».
Di fronte al Collegio spicca la chiesa di San Giuliano un
tempo definita «patrizia» perché vi si celebravano cerimonie
religiose per i nobili e considerata uno degli esempi più eleganti
del barocco catanese. E' proprio all'interno e all'esterno di questo
tempio che il regista Zaccaro ambientò la scena del matrimonio fra
Barbara (l'attrice Nicole Grimaudo) e Antonio Magnano (Daniele Liotti)
soprannominato il bell'Antonio, uomo attraente ma affetto da
impotenza: un'onta per i «masculi siculi» con in testa il padre di
Antonio, Alfio Magnano, il quale andrà a morire in una casa di
tolleranza pur di dimostrare a tutti l'indiscussa virilità del suo
«casato».
Nelle scene corali di quello che poi si rivelerà uno sfortunato
matrimonio, quello fra Barbara e Antonio, si vedono noti attori, primi
fra tutti Leo Gullotta (nel ruolo del saggio zio Ermenegildo) e Luigi
Maria Burruano (Alfio Magnano), e poi Vitalba Andrea, Marcello
Perracchio e Anna Malvica. La scena in questione (noi eravamo
presenti) fu girata più volte, nel corso di ben due mattinate,
perché uno dei cavalli che trainavano la carrozza nuziale si
imbizzarriva facilmente, facendo sobbalzare i poveri sposi, cioè gli
attori Nicole Grimaudo e Daniele Liotti, sballottati qua e là, con
effetto decisamente comico, dall'irrequieto equino. E ciò per la
disperazione del director Zaccaro e della troupe, costretta a ripetere
la medesima scena, peraltro con il rischio che il cavallo prendesse a
galoppare pericolosamente lungo la discesa.
In fondo alla strada, oltrepassata la via di San Giuliano, si staglia
Villa Cerami (sede della facoltà di Giurisprudenza dell'ateneo
catanese) altro sito che, a cominciare dalla stilizzata fontanella che
spicca all'ingresso, costituisce un'altra perla settecentesca di via
Crociferi, strada che appartiene alla Storia e al cinema. E per
l'appunto in una delle sale di villa Cerami, Rino Di Silvestro girò
l'esilarante scena che vede un'imbruttita e baffuta Guia Jelo
indaffaratissima a sedurre Tuccio Musumeci, qui magro come un grissino
e nei panni del "Bello di mamma", film che risale al 1980 e
che vede nel cast pure il menzionato Philippe Leroy e poi Carmen
Scarpitta, Carole Andrè (la mitica perla di Labuan degli sceneggiati
tv di Sandokan), Pippo Pattavina e il compianto Gianni Creati.
In "Mimì metallurgico" la Wertmuller indugiò a lungo con
la macchina da presa, in via Crociferi, percorrendola per quasi tutta
la sua lunghezza, finché Giannini ricompare in piazza Duomo entrando
poi da piazza Alonzo Di Benedetto, nella vociante e pittoresca
«piscaria». Per «Capinera», Zeffirelli invece ambientò la sua
raffinata scena in notturna, con un sapiente utilizzo di luci che
rendono ancor più attraente la strada.
Altre scene furono girate su balconate e terrazzi di chiese e conventi
della via, con primi piani delle grate dalle quali si affacciavano le
monache di clausura che da lì respiravano un po' di libertà.
Uno degli «affreschi» migliori resta comunque quello in bianco e
nero di Mauro Bolognini, che amò a tal punto Catania e via Crociferi
da girarvi pure «Un bellissimo novembre» con una stupenda Gina
Lollobrigida. Ma il precedente «Il bell'Antonio» resta un pietra
miliare della cinematografia, sia dal punto di vista drammaturgico,
sia da quello tecnico. Un film con un cast stellare (Marcello
Mastroianni, Claudia Cardinale, Tomas Milian, Pierre Brasseur) dove
via Crociferi ha un ruolo di primo piano e dunque può senz'altro
definirsi «protagonista» a tutti gli effetti.
scene girate in Piazza Duomo, Via Crociferi
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LA STRADA DEI
CROCIFERI
(Testo del
giornalista Lucio Sciacca da "I catanesi com'erano",1975)
-In un limpido mattino
del dicembre 1937,mentre attraversavo lo sperone del
Penninello per recarmi a scuola, come facevo ormai da
qualche tempo, la strada dei Crociferi entrò di colpo nella
mia vita. E non già in virtù del suo bel barocco
che,finalmente, fosse riuscito ad imporsi alla mia coscienza
di adolescente trasognato e spilungone alle prese con i
primi testi di storia dell'arte.Spiacemi doverlo confessare,
non fu per questo.
Vi entrò per i begli
occhi -due splendidi occhi color nocciola-d'una ragazzina
che, incrociandomi, frugò intenzionalmente nei miei,e che a
me parvero più espressivi e più avvincenti di tutto il
barocco del mondo.
Un lampo, un tuffo nel
cuore.
Poi,la ragazzina
s'infilò,svelta e leggera,dentro al portone del palazzo
Cerami (che allora ospitava le scuole magistrali
femminili)ed io restai piacevolmente stordito, con lo
sguardo alle decorazioni del settecentesco portale che mi si
ergeva dinanzi, e col pensiero altrove.
La rividi nei giorni
successivi, sempre sullo sfondo del principesco palazzo,
finché mi accorsi di essere innamorato d'una bella ragazza
casualmente incontrata in via Crociferi. E la via Crociferi
da quel momento mi apparve come la strada più interessante
della città.
Se quell'incontro si
fosse esaurito in un sentimento effimero, non lo avrei ora
rievocato, e probabilmente non me ne sarei neppure
ricordato. Quell'incontro, invece, diede vita ad un
sentimento che dura ancora oggi. La ragazzina dagli occhi
color nocciola, dopo alcuni anni divenne mia moglie, e la
strada dei Crociferi la meta preferita delle mie passeggiate
prima, il soggetto più ambito del mio obiettivo fotografico
poi.
Ma il fascino segreto di
cui è permeata via Crociferi lo colsi in seguito,
accompagnandomi ad alcuni maestri (e amici)che questa strada
predilessero ed ebbero assai cara.Tuttora-malgrado
l'incidenza del traffico e dei rumori- se mi si offre
l'occasione di percorrerla a piedi, specie nei giorni
festivi quando la piena delle macchine sembra per un attimo
perdere l'abituale portata, non trascuro di soffermarmi
sull'ampio sagrato della chiesa di San Giuliano, a guardare
e a ricordare.
Risento allora la voce
inconfondibile di Enzo Maganuco che in via Crociferi tenne
gli alunni prediletti le più colorite lezioni sul barocco
catanese ;riodo Saverio Fiducia parlarmi di Salvatore Desi e
del suo obiettivo fotografico che qui colse significative
immagini;rivedo gli occhi impenetrabili di Vitaliano
Brancati ammiccare verso l'arco di San Benedetto allorché,
in compagnia di Raffaele Leone, s'indugiava a discutere
della furbizia (e della pigrizia)dei catanesi.
E vado sempre più
convincendomi che certo modo di pensare e di vedere le cose,
certi atteggiamenti che oggi possono sembrare superati e
anacronistici, aiutavano a vivere e a crescere. Vado sempre
più constatando che questa strada ,oggi mortificata dal
generale disinteresse, non è pietanza per palati grossolani.
Penetrare il significato
dell'architettura che la impreziosisce, cogliere l'afflato
che promana dalle sue chiese ,avvertire la sinfonia delle
luci che indorano i suoi ornati, gustare l'opulenza dei suoi
edifici significa guardare al di là del parabrezza della
propria vettura, entrare in sintonia con la strada stessa,
sentirne il mistico respiro.
Passati -e
lontani-sembrano i tempi in cui qualcuno scriveva:"....Essa
rappresenta la spina dorsale del barocco catanese,la
naturale galleria di esposizione dei suoi capolavori, chiusa
com'è, agli estremi, dal portale grottesco del palazzo del
Principe Cerami e dall'arco teso dalla violenza di
mons.Riggio ; irrobustita di chiese, di conventi e di
palazzi;con tutta la sua lunghezza e la sua poca ampiezza,
che sembrano così fatte per lasciar giganteggiare le
moli-ora gentili ora possenti -che vi si affacciano, superbe
o frivole;con i chiusi nidi delle gelosie ventrute o con le
labbra tumide dei ballatoi;con le taglienti lame luminose
delle colonne o con il formicolio degli intagli preziosi
;con gli svelti, torniti lanternini o con i grossi tamburi
merlati, con le pedane laboriosamente tramate in nero e
bianco o con le ampie onde concentriche delle
scalee"(Francesco Fichera).
Si,perché uno degli
aspetti più singolari della strada dei Crociferi è questa
sua funzione di "galleria naturale "entro i cui pur modesti
confini si raccolgono monumenti che altri ci invidiano.
E vien da
chiedersi:perché furono così concentrate codeste opere
d'arte?
La risposta presuppone
uno sguardo al passato.
Tracciata in un punto
nevralgico dell'antica città, questa strada ebbe diversi
toponimi (strada Sacra, strada Nuova, strada del Corso e
chissà quanti altri)tutti indicativi della sua importanza e
della alta considerazione nella quale era tenuta.
Già nel Medioevo, essa si
snodava in mezzo a chiese e palazzi, forse di non grandi
dimensioni, e tuttavia sufficienti a qualificare non
soltanto la strada ma un intero rione.
Il palazzo, infatti, di
don Bartolomeo Altavilla, costruito nell'area dove oggi si
eleva la chiesa di San Francesco Borgia, non fu così modesto
come si potrebbe credere;e la chiesa attigua, del
1396,anch'essa d'ampio respiro come, del resto, l'ospedale
dell'Ascensione, poi assorbito dal San Marco, e prospiciente
sulla via Ascensione (area dell'attuale via Gesuiti)furono
anch'esse opere di vasto impegno.
Nella seconda metà del
Cinquecento, l'attività dei PP.Gesuiti ,di fresco giunti a
Catania, arricchì questa zona di altri edifici, scuole,
collegi,chiese;e "le opere d'arte che vi erano contenute, i
tesori di oro,d'argento e di pietre preziose attirarono in
quel sito tutta la nobiltà di Catania "(F.Verzì)
Tantissimi anni prima-non
sappiamo quale fosse allora il suo nome-essa già esisteva
pressappoco nello stesso posto d'oggi .".....Di faccia al
mare lontano e al sole nascente...la vita dell'operosa città
le ferveva d'attorno ,e nelle sue immediate vicinanze v'era
un teatro sulla cui scena s'era udito l'urto del coturno di
Eschilo e un Odeo al quale accorrevano i musici di Trinacria....."(Saverio
Fiducia)
Dunque, il fascino
dell'antichissimo blasone servì a richiamare su di essa
l'attenzione dei ricostruttori, dopo il terremoto del 1693.
Non appena il Camastra e
il Riggio trovarono una base d'intesa ,e gli ordini
religiosi ebbero l'autorizzazione a riedificare le loro
chiese con gli annessi conventi, i primi cantieri furono
impiantati lungo la strada dei Crociferi.
La chiesa e la badia di
San Benedetto, che aprono la monumentale rassegna e ne
costituiscono le quinte d'accesso ,nascono nel 1704
(e,naturalmente, crescono negli anni successivi).Seguono,a
ritmo serrato, la chiesa di San Camillo dei PP.Crociferi (da
cui prese il nome la strada),la chiesa e il collegio dei
Gesuiti, la chiesa di San Giuliano "uno dei monumenti più
illustri del barocco catanese ";il palazzo Asmundo, gioiello
dell'architettura settecentesca;il palazzo Villaruel e
quello dei Cerami il cui magnifico portale, facendo da
sfondo all'arco del Riggio ,conclude in bellezza la
suggestiva sfilata. Non è compito nostro addentrarci negli
aspetti architettonici di una siffatta parata di monumenti
,già ampiamente illustrati da egregi studiosi di storia
dell'arte. Diremo soltanto che i più bei nomi degli artefici
del barocco catanese sono qui presenti:gli Amato,i
Battaglia,Alonzo Di Benedetto, Angelo Italia, Paolo Flaumeni,il
Palazzotto e, dulcis in fundo, il Vaccarini.
Dalle mani,dalle idee,dal
talento, di questi uomini prese forma la settecentesca
strada, con le sue finestre piaciute,le aeree nicchie, le
grate cenobiali, i monumentali sagrati, le frastagliate
decorazioni, i fastosi prospetti;dai loro mezzi espressivi
vennero fuori portali,volute,intagli raffinati;dall'opera di
questi artisti, insomma, scaturì quel "bel sentiero che
Catania adorna " nel quale "le fontane della corte dei
Gesuiti, il portale in marmo della chiesa di San Benedetto
con quella sua minutezza di sagome, quel suo frontone liscio
tra i forti tronconi del timpano.....lo splendido palazzo
Nava ,alto sul fondale della stretta viuzza, le bugne
alterne decorate a lumachelle, i timpani flessi e cuspidati
della chiesa dei Crociferi, il bel palazzo Villaruel,
l'armoniosa ,equilibrata mole della chiesa di San Giuliano,
il palazzo-giardino dei Cerami...."(V. Cordaro Clarenza)
rappresentano le più vistose gemme della fioritura barocca
della nostra città.
Dentro a questa cornice
si svolsero -specialmente sul finire del Settecento e nella
prima metà dell'Ottocento- le cerimonie religiose più
cospicue che si fossero mai viste a Catania.
Le feste natalizie e
pasquali, comuni a tutte le chiese, venivano sfarzosamente
celebrate dai PP.Gesuiti; "la processione che accompagnava
il Cristo morto, si partiva dalla Chiesa dell'Aiuto e,lungo
la strada del Corso, passando sotto l'arco di San Benedetto,
entrava nella chiesa di San Giuliano....";altre feste
religiose, cui erano interessati i diversi monasteri,
trovarono nella Strada dei Crociferi il più grandioso dei
palcoscenici naturali, "mentre la gente accorreva in folla
da tutta la città e dai borghi lontani, e si pigiava a
ridosso delle cancellate barocche, e gremiva le scalee di
pietra giugiolena ".
Nel 1795 poi,essendo
stata chiusa al culto la Cattedrale per lavori di restauro
che durarono nove anni, le funzioni vescovili e capitolari
furono trasferite nella chiesa di San Francesco Borgia, già
dei Gesuiti.
Anche la festa di
Sant'Agata, quindi, ebbe il suo fulcro in quel tempio."Il
giorno 5 febbraio, la gloriosa Santa uscendo dalla sua
cameretta veniva posta sul fercolo d'argento e portata ai
Gesuiti dove si esponeva sull'altare maggiore, nella
custodia di argento propria della chiesa. Il vescovo
celebrava il pontificale con la consueta solennità, e la
Santa restava esposta alla venerazione dei cittadini finché,
nelle ore pomeridiane, si riponeva sul fercolo e faceva il
giro interno...."(Verzì).
Sant'Agata tornava in via
Crociferi il 17 agosto, per il "festino d'estate "che con
tanta solennità si celebrò fino agli inizi del corrente
secolo.
Il fascino dell'arte ,la
sinfonia delle luci fra le antiche cancellate, le ombre
lunghe sui teneri intagli, i monasteri ovattati di silenzi,
il discreto suono delle campanelle, crearono attorno a
questa strada un alone di magia.
"Dolcissima sensazione si
prova penetrando in questa via dei Crociferi, in cui sono
rimaste ,oltre al suggello dell'appellativo monastico, una
certa perplessità misteriosa e non so quale sentore
d'incenso e di cipria, che non vuole sparire perché qui sta
bene, meglio che in qualunque altro posto. C'è per di più un
clima silenzioso che concede la visione e induce al sogno.
Tutta la vita cittadina se n'è andata, a grado a grado,
verso via Etnea e verso il mare. E specialmente nelle prime
ore del mattino, o in pieno meriggio, o meglio ancora nelle
ore crepuscolari, è facile che tu possa restartene solo e
sognare ".
Così si esprimeva
Francesco Fichera agli inizi degli anni Trenta.
Oggi tutto questo può
apparire ironico o folle o beffardo, forse anche
provocatorio.
La magica atmosfera si è
ormai dissolta nel nulla, ai fantasmi non crede più nessuno,
il fascino dell'arte ha perso credibilità:la strada più
nobile di Catania- la silenziosa suggestiva mistica via
Crociferi-oggi altro non è che un congestionato deposito
d'automobili.
E l'incauto pedone che
volesse,non diciamo "restarsene solo e sognare ",come nei
tempi andati, ma soltanto spingere lo sguardo verso i
frontali barocchi del Battaglia o del Vaccarini, correrebbe
il rischio d'essere arrotato
grazie a Milena Palermo per
Obiettivo Catania
https://www.facebook.com/ObiettivoCatania/
Sulla sinistra di Via Crociferi, camminando verso Villa Cerami, sorge il convento dei padri Crociferi e la
chiesa di
San Camillo.
I padri crociferi giunsero a Catania dopo il terremoto, stanziandosi
nella via che ne prese in seguito il nome e nella quale cominciarono a
costruire il monastero e la chiesa sin dai primi anni del Settecento,
costruzione che si protrasse fino alla fine del secolo e vide l’opera
di Domenico La Barbera a partire al 1723 e di Francesco Battaglia dal
1771 al 1788.
L’ingresso del convento è delimitato da due colonne tuscaniche che,
poste sopra un alto basamento, sorreggono l’unico balcone presente
nella facciata decorato da due lesene con capitello con volute avvolte
verso l’interno e lo stemma raffigurante una croce dalla quale si
sprigionano raggi di luce.
La chiesa ha una facciata concava con portone contornato da lesene.
Nel secondo ordine una statua di San Camillo che guarda al cielo con
un libro nella mano destra, mentre la sinistra si eleva nell’atto di
invocare lo Spirito Santo. Ai suoi piedi un putto, grassoccio,
accovacciato con la sinistra alzata e la destra fra la spalla sinistra
ed il collo. In alto lo stesso stemma che si trova nel convento, ma
con i raggi più sottili.
L’interno è di forma ovale e presenta numerosi dipinti fra i quali
spicca al centro, una grande icona dai tratti bizantini raffigurante
la Santa Vergine con il Bambino.
Angela
Allegria - 13 ottobre 2009, in www.2duerighe.com
Palazzo Villaruel
Superato
l’incrocio, a destra due palazzi signorili: il palazzo Villaruel del
Battaglia seguito dal palazzo Sturzo, che il proprietario blasonato,
perse in una notte giocando a carte con il Duca di Misterbianco. Il
palazzo fu ampliato fino al 1929 allorquando il duca di Misterbianco,
chiese ed ottenne dal podestà l’autorizzazione per la “costruzione
del 4° a secondo piano prospettante nella corte interna del palazzo
di via Crociferi 56 consistenti essi lavori nella costruzione di n. 3
stanzette ed accessori”, come si legge nella richiesta approvata con
parere favorevole della commissione edilizia n. 60 in seduta del
26/03/1929. In seguito, negli anni Cinquanta la residenza gentilizia
è stata smembrata in più parti vendute singolarmente nuovo
proprietario il quale aveva il vizio di non pagare i propri
dipendenti.
Chiude
la via, in perfetta simmetria con l’arco di San Benedetto, il
portale di villa Cerami, realizzato dal Vaccarini, con arco a tutto
sesto bordato da due lesene con capitello ionico con volute verso l’interno
e decorazioni fogliacee. La chiave dell’arco è accentuata da un
capitello con conchiglia e rosa mentre sopra due galli, altezzosi,
paralleli, si guardano. L’architrave ospita tre faccioni grotteschi
con bocche spalancate, lo sguardo cupo e le sopracciglia aggrottate.
Lo stemma dei Rosso di Cerami è sorretto da due putti e sormontato da
una corona.
Dal portale si accede ad un vasto giardino con una scalinata marmorea
che conduce all’ampia terrazza ed un piccola fontana ancora
funzionante legata ad una leggenda metropolitana secondo la quale chi
ne beve l’acqua non conseguirebbe la laurea.
L’interno della villa, sede della facoltà di Giurisprudenza,
presenta una parte antica, le stanze di rappresentanza, della
principessa, e la cappella, ed una parte moderna, i cui primi progetti
furono realizzati dall’Ing. Prof. catanese Salvatore Boscarino.
Merita menzione la fontanella all’ingresso, appena fuori il portale:
essa porta la scritta “PVBLICO NON A PVBLICO HIC PVBLICUS”, che
indica che l’acqua veniva offerta dal principe Cerami ai cittadini
attraverso un’opera realizzata in assenza di soldi pubblici.
Angela Allegria - 13 ottobre 2009, in www.2duerighe.com
Oggi
sede della Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Catania,
Villa Cerami è l'ennesimo capolavoro del notevole stile barocco
siciliano ed opera di quello che forse fu il suo maggior
rappresentante a Catania, l'abate Gian Battista Vaccarini.
Il Palazzo fu voluto dalla Famiglia principesca dei Rosso di Cerami,
che ivi risiedette fino agli anni '60, quando la Villa venne
acquistata e fu creata sede universitaria.
Attraverso il notevolissimo portale si accede ad un cortile interno,
molto ampio, sul quale si apre uno scalone monumentale alla cui prima
versione probabilmente lavorò anche il Vaccarini, ora nella versione
ottocentesca opera del'architetto Sada.
Il cortile è adornato da una fontana.
L'impianto della Villa è settecentesco (venne costruita dopo il
celeberrimo terremoto del 1693), ma vi sono state addizioni
ottocentesche al complesso.
L'interno contiene ancora gli arredi originali e le ricche decorazioni
barocche d'epoca.
Il famoso portale d'ingresso al giardino, sormontato dallo stemma di
famiglia, è opera preziosa del Vaccarini appunto. Il grande
architetto palermitano, attivissimo a Catania, tra l'altro nella
Fontana dell'Elefante, nel Palazzo del Municipio, nel Duomo, nelle
Chiese di Santa Chiara e San Giuliano, nella Badia di Sant'Agata e in
numerose altre opere d'arte, era stato allievo di Carlo Fontana, a
Roma. Fu fortemente influenzato dal barocco romano, in particolare dal
Bernini, anche se conobbe ed ammirò anche Vanvitelli: uno stile
quindi più misurato di quello siciliano, nelle cui zone operava, più
classico.
Il Principe di Cerami, Giovanni Rosso (mandatario della costruzione
della Villa) fu uomo di cultura e mecenate, amico tra l'altro del
grande Principe Ignazio di Biscari.
Attiva
è la vita che si svolge al suo interno. Migliaia di giuristi la
percorrono e la vivono. Frequentate le aule per le lezioni, come pure
le biblioteche e le aule studio dei piani superiori dove gli studenti
tra una lezione e l'altra
ricavano
tempo per studiare. Usati anche il giardino e la piazzetta come punto
di incontro e di studio.
http://www.flickr.com/photos/-bandw-/3170832446/
VISITA
A VILLA CERAMI
(a
cura della Facoltà di Giurisprudenza)
Il
Palazzo Asmundo Francica-Nava, eretto nella prima metà del
Settecento, venne realizzato con il prospetto sulla stradina che
portava alla Via dei Crociferi, in modo da essere visibile dall'antica
Via Sacra. L'edificio rispetta il suo impianto originario con poche
superfatazioni che non ne deturpano comunque il linguaggio
architettonico, perfettamente leggibile. Sulla piazza si apre la
magnifica facciata a due piani con due settori, uno relativo alla
facciata nobile, visibile dalla stradella, l'altro a tre piani
nascosto prospetticamente al di là della chiesa di San Francesco
Borgia.
La facciata principale apre con un'ampio portale chiuso da
colonne su cui porgia l'ampio balcone centrale. Sul finestrone
campeggia lo scudo di famiglia. A nord una torretta fungeva da
terrazzo per il sorbetto estivo, mentre a sud è l'ampio giardino
pensile, il secondo per estenzione in città, in cui si ammirano
palme, pini e altra vegetazione arborea. Il lato ovest è mosso da una
sequenza di porte e finestre piuttosto regolari caratterizzati da bei
balconi.
- La costruzione è un bell'esempio di
solenne architettura civile dello splendido barocco catanese, fiorito dopo la
ricostruzione settecentesca della città risorta dalla catastrofe del 1693.
Sorge nell'omonima e silenziosa
piazzetta tra la Badia Grande di San Benedetto ai Crociferi e la parte di
ponente della mole dell'ex collegio dei PP.Gesuiti e della chiesa "San Francesco
Borgia ".
Il palazzo fa da fondale o da sfondo
scenografico alla stretta via San Benedetto fiancheggiata dalla chiesa monastica
delle benedettine dell'Adorazione Eucaristica Perpetua e dall'austero tempio
della Compagnia di Gesù.
Alla famiglia Asmundo appartiene il
poeta catanese Bartolomeo (1461-1536),che è considerato il padre della poesia
colta in lingua siciliana.
L' immobile è chiamato pure palazzo
Nava perché oggi appartiene ai baroni Francica Nava di Bontifè; nel 1928 vi morì
il cardinale Giuseppe Francica Nava, nunzio apostolico ed arcivescovo di
Catania.
La parte centrale è attribuita
all'architetto della città settecentesca, il canonico don Giovan Battista
Vaccarini di Palermo, cittadino onorario di Catania, professore dell'Almo Studio
e sovrintendente delle costruzioni ecclesiastiche e civili della città.
Caratteristico è il rinserramento
delle luci verso l'asse centrale del magnifico prospetto. È un barocco, quello
vaccariniano, più contenuto e meno ampolloso, romano e colto,sobrio e
fiammeggiante, mediato dalla grande erudizione dello scienziato e matematico che
risente della formazione avuta in campo artistico presso l'Accademia pontificia
di San Luca e il salotto letterario e musicale del cardinale nepote Ottoboni ,a
Roma.
La composizione del prospetto
presenta il caratteristico rinserrarsi delle luci al centro, in modo che il
ballatoio possa collegare tre balconi. Il sostegno del ballatoio è assicurato da
una trabeazione e dalle colonne del portone principale nonché dalle mensole
generate dall'arco del portico d'ingresso. Il risultato architettonico è assai
elegante, anche se turbato dallo squilibrio tra il labbro del ballatoio e i
poderosi sostegni laterali. Ammirabili sono gli interni e il caratteristico
giardino pensile che impreziosiva i più raffinati palazzi aristocratici della
Catania del sec. XVIII -
http://www.edizionincontri.it
Il recupero del Conservatorio delle Verginelle di Catania nel libro di Lo Faro
La casa delle fanciulle orfane e indigenti
La Sicilia,
Giovedì 16 Maggio 2013
Patrizia Briguglio
L'ex Conservatorio delle Verginelle in Catania è stato di recente oggetto di un
complesso restauro per diventare sede didattica. L'edificio, da anni quasi
abbandonato o sotto utilizzato, è stato individuato nel 2000
dall'Amministrazione universitaria cittadina come immobile da riutilizzare e
destinare all'insegnamento nell'area della collina di Montevergine, per la sua
posizione privilegiata di fronte al polo umanistico già insediato presso il
Monastero dei Benedettini di S. Nicolò l'Arena.
Questa scelta si è rivelata in
linea con gli obiettivi di «rigenerazione urbana integrata» previsti dalla
strategia «Europa 2020», contenuti in documenti quali la Carta di Lipsia del
2007, la Dichiarazione di Toledo del 2010, o «Città del futuro» pubblicato a
fine 2011 dall'Unione Europea, in cui l'espansione urbana incontrollata viene
individuata come una delle principali minacce allo sviluppo territoriale
sostenibile. Ne consegue la necessità di strategie per il riciclo dei terreni
attraverso il risanamento urbano, la riconversione o riutilizzo di zone
abbandonate in declino o non utilizzate.
La storia del restauro è raccontata nel libro di Alessandro Lo Faro, «Il
Conservatorio delle Verginelle in Catania. Indagini preliminari e progetto di
riuso di una fabbrica tradizionale», pubblicato da Aracne Editrice nella collana
«Esempi di architettura».
La conoscenza del bene da trasformare è il momento fondante negli interventi che
hanno per oggetto le fabbriche tradizionali. L'indagine storica è oggetto del
primo capitolo del libro. Si apprende che la Casa, dedicata a Sant'Agata e
destinata all'assistenza di fanciulle orfane o indigenti, fu fondata nella
seconda metà del XVI secolo per volontà del patrizio catanese Giovanni La Rocca.
Il Senato di Catania individuò la sede e pose l'Istituto sotto il controllo di
un patrizio con la qualifica di rettore. Il Conservatorio era posto anche sotto
il controllo vescovile. Una relazione del vescovo Marco Antonio Gussio tramanda
che nel 1655 vi erano ospitate 23 giovani.
La sorte del Conservatorio è legata al nome di un altro patrizio catanese,
Giuseppe Asmundo Mendicino, regio milite e dottore utriusque iuris, rettore in
carica già dal 1669. Dopo il terremoto del 1693, che distrusse in gran parte
l'edificio, Asmundo devolse alle Verginelle, con atto notarile del 1706,
numerose proprietà immobiliari, alcune in corso di costruzione, impegnando se
stesso ed i suoi eredi a completarle: sua volontà che «la Venerabile Casa delle
fanciulle Vergini debba possedere tutto integralmente e nel migliore dei modi».
Lo stesso Asmundo, dopo il terremoto del 1693, fu commissario generale per la
ricostruzione di Noto, e venne riconosciuto come uno degli artefici del Barocco
siciliano.
STORIA
DELL’OSPEDALE SANTA MARTA
L'Ospedale dei Santi Marta, Maddalena e Lazzaro fu fondato
nel 1755 per opera dei sacerdoti don Pietro Finocchiaro e
don Domenico Rosso dei baroni di San Giorgio e sorse
nell'abitazione del primo come lazzaretto per la cura dei
malati incurabili, finanziandosi inizialmente con mezzi
privati e con la questua. Nel 1759, su commissione del
Rosso, fu fatta costruire a sue spese la nuova sede: secondo
una fonte (e cioè “L’Ospedale di Santa Marta”, in
“Bollettino della società medico-chirurgica di Catania”,
1940, pag. 66) il progetto dell’edificio è da attribuire
all'architetto Antonio Battaglia (che collaborò anche nei
cantieri della Cattedrale, di San Nicolò l’Arena e del
Palazzo Biscari). Davanti la facciata settecentesca
dell’ospedale si erge ancora oggi un busto in memoria di don
Pietro Finocchiaro, in quanto fondatore dell’ospedale
(visibile in una delle foto allegate).
Nel
1825 la reggenza dell'ospedale fu affidata a frà Cesare
Borgia (1776-1837), commendatore dell'Ordine del Santo
Sepolcro, fuggito da Malta a seguito dell'occupazione
napoleonica dell'isola. Il Borgia fece ricostruire
l'edificio dell'ospedale danneggiato dal terremoto del 1818
e vi costruì inoltre una sala anatomica per l'insegnamento
libero di Euplio Reina. Essendo questi direttore
dell'Accademia Gioenia, da allora iniziarono le
collaborazioni con quest'ultimo ente e dal 1840 all'interno
dell'ospedale si svolgevano lezioni di clinica chirurgica
dell'Università di Catania.
Nel
1931 fu stabilita la fusione tra l'Ospedale di Santa Marta e
l'Ospedale Villermosa, dando così origine ad un unico ente
ospedaliero denominato “Ospedali riuniti di Santa Marta e
Villermosa”. L'Ospedale Villermosa era stato fondato nel
1858, per volontà testamentaria rilasciata da Emilio
Tedeschi, barone di Villermosa, che lasciava all’ospedale
una rendita annua di onze 600 elevabili a 800. Durante il
boom edilizio catanese del dopoguerra, fu costruito
l’edificio che è stato attualmente abbattuto.
In
origine l’ospedale di Santa Marta era dunque il palazzo
settecentesco che è oggi ammirabile dopo i lavori di
abbattimento dell’edificio novecentesco. Il nome
dell’ospedale deriva dalla cappella di Santa Marta, che si
trova in Via Montevergine, cioè esattamente dietro
l’ospedale.
STORIA
DELLA CAPPELLA DI SANTA MARTA (fonte: FAI)
L’ospedale e la cappella furono edificati quale voto di una
nobildonna della famiglia Villermosa che, guarita dalla
cecità, volle donare a Catania questa indispensabile
struttura ospedaliera. Nella cappella di Santa Marta
(edificata nel 1754) si celebravano le messe solenni per i
benefattori, la festa di Santa Marta e le Quarantore.
L'interno, ad aula unica, presenta un altare centrale sul
quale è posto il dipinto “Resurrezione di Lazzaro” del
pittore palermitano Francesco Gramignani Arezzo. Gli altari
laterali sono due e sono decorati da statue di santi tra i
quali spicca quella di Santa Marta. Gli affreschi della
volta rappresentano i quattro evangelisti e un coro di
angeli che circondano l'Agnello divino. Nella sacrestia
della chiesa si trovavano 119 ex voto dipinti offerti dai
fedeli che avevano ricevuto una grazia da Santa Marta. Nello
specifico, gli ex voto della Cappella del Santa Marta
rappresentano tematiche quali grazie ricevute per interventi
chirurgici, malattie, incidenti con mezzi di trasporto,
incidenti sul lavoro, incidenti domestici, incidenti con
animali, incidenti riguardanti l'infanzia, incidenti al
mare, liti, accoltellamenti e atti criminali.
Fonti
informazioni: wikipedia e FAI;
Anticamente
chiamata "Chianu/Laggu re' Benedittini" ("Piazza/Largo dei
Benedettini" in dialetto), "Chianu ra Cipriana" ("Piazza
della Cipriana", dal nome del quartiere limitrofo) o "Chianu
ri San Nicolò" ("Piazza di San Nicolò", dal nome della
chiesa) la piazza è sorta probabilmente sui resti di un
isolato Greco-Romano, ed ha una grande esedra sul lato
nord-est, realizzata da Stefano Ittar verso il 1768 in un
elegante Tardo-Barocco, proprio di fronte la Chiesa di San
Nicolò l'Arena, ricostruita più volte dopo vari cataclismi.
Sul lato sud si
trovano invece i Ruderi delle Terme dell'Acropoli, forse
bagni pubblici.
La
grande chiesa di San Nicola, che si ispira ai modelli architettonici
romani, fu iniziata nel 1687 su disegno di G.B. Contini. Dopo il
terremoto del 1693 i lavori furono portati avanti da diversi
architetti, tra cui Francesco Battaglia e Stefano Ittar; quest’ultimo
realizzò la cupola alta 62 metri: il prospetto, come si può vedere
dalle coppie di colonne non finite, rimase incompiuto (1796); tra le
cause principali dell’interruzione dei lavori vi furono le
difficoltà di ordine tecnico e i gravi problemi economici. L’interno
della chiesa è a tre navate e raggiunge una lunghezza di 105 metri;
ciò che colpisce è la grandiosità delle partizioni architettoniche
e la chiara luce diffusa che penetra dagli alti finestroni. Nella
navata destra e sinistra si aprono le cappelle semicircolari precedute
da eleganti balaustrate. A destra: cappella di S. Gregorio papa con
una tela del Camuccini; cappella di S. Giovanni Battista con una tela
del romano Tofanelli; cappella di S. Giuseppe con una tela del
messinese Mariano Rossi. A sinistra: cappella di S. Andrea con tela di
F. Boudard; cappella di S. Euplio con tela del Nocchi e cappella di S.
Agata con grande tela di M. Rossi. Alle estremità del braccio
orizzontale della croce latina sono due cappelle: a destra è quella
dedicata a S. Nicolò di Bari e, a sinistra, quella di S. Benedetto.
Al centro dell’area presbiteriale spicca il grande altare maggiore
realizzato con materiali preziosi, tutt’intorno si dispongono gli
stalli del coro ligneo scolpiti dal palermitano Nicolò Bagnasco. Ma l’opera
che aveva, nel passato, dato più lustro alla chiesa era il
celeberrimo organo di Donato del Piano.
Non vi è cosa più
solenne, più profonda, più maestosa
dei ripieni
che la orchestra più perfetta non potrebbe produrre". Anche lo
scrittore Wolfgang Goethe, in visita a Catania (1787), andò a vedere
questa meraviglia: "Ci recammo nell’immensa chiesa - scrive - e
il frate maneggiò il magnifico strumento, facendo sospirare del fiato
più leggero gli angoli più reconditi o facendoli rintronare dei
tuoni più potenti". Oggi questo capolavoro non esiste più
perché tutte le sue parti sono state barbaramente saccheggiate. Degna
di una particolare attenzione è anche la grande meridiana lunga 39
metri.
La facciata su piazza Dante fu
cominciata su progetto di Carmelo Battaglia Santangelo,
nipote e allievo di Francesco Battaglia, che aveva vinto il
concorso bandito dal cenobio nel 1775. Il progetto, un
ibrido tra il tardo barocco siciliano e il più lineare
neoclassicismo che trovava sempre più largo consenso anche
nell'élite isolana, appare piuttosto freddo, con le otto
poderose colonne libere che scandiscono la facciata, i tre
grandi portali con le finestre balaustrate soprastanti e il
timpano centrale, tutto elaborato in una scala grandiosa che
non ha eguali in città e che si adegua alle dimensioni
altrettanto grandiose della stessa chiesa. Complici i
problemi tecnici che la costruzione comportava e la precaria
situazione finanziaria dei monaci, più inclini a render
maggiormente comodi e sfarzosi gli ambienti del monastero e
la vita che vi si conduceva, piuttosto che la loro chiesa,
la facciata fu innalzata solo parzialmente lasciando le
colonne a metà e il tutto privo della trabeazione di
coronamento con un timpano al centro, prevista dal progetto.
Nel 1796, l'architetto firmava il finestrone centrale, ma a
quel punto i lavori venivano interrotti definitivamente.
Fu realizzata, nel 1841, dagli astronomi Wolfrang Sartorius barone di
Waltershausen di Gottinga e dal prof. Cristiano Peters di Flensburgo.
Lo spettro solare vi passa con un diametro maggiore in inverno di 938
millimetri e minore in estate di 28 millimetri, senza la penombra. L’altezza
dello gnomone sopra la linea della meridiana è di metri 23 e 895
millimetri. Nei fianchi delle lastre di marmo con le figure delle
Zodiaco si possono leggere varie informazioni relative alla meridiana.
http://www.siciliainfesta.com/da_visitare/chiese/chiesa_di_san_nicolo_l_arena_catania.htm
Altare maggiore e organo
di Donato del Piano.
Il basamento del
grandioso altare versus Deum forma con la figura
dell'organo, della cantoria e dell'articolato baldacchino
ligneo, una quinta scenica spettacolare. Il manufatto
rivestito di pietre dure presenta numerosi inserti metallici
patinati in oro o argento, realizzazioni dell'orafo romano
Vincenzo Belli.
Sui prospetti laterali
sono riprodotti gli stemmi della Congregazione Cassinese e
il distintivo abbaziale del monastero. Fra angeli, pilastri,
cornici a foglie d'acanto, modanature, arabeschi risaltano i
simboli degli Evangelisti. Sull'ultimo gradino al centro
troneggia un tabernacolo a tempietto sormontato da
cupolino.
Lungo le pareti del
catino è disposto il coro in noce formato da 97 stalli,
opera di Nicolò Bagnasco e Francesco Regio. Gli stalli
superiori presentano altorilievi di scene tratte dal
Vangelo, nei prospetti laterali le raffigurazioni di San
Gregorio Magno e San Nicolò. Nei pannelli centrali la figura
di San Benedetto da Norcia delimitato dai discepoli San
Placido e San Mauro.[28] Allo stesso stile si rifanno il
coro del monastero e dell'aula del Capitolo.
RELIQUIARIO DEL SANTO
CHIODO
Lo scorso anno ho avuto
la rarissima occasione di vedere la Reliquia del Santo
Chiodo presso la sacrestia della Cattedrale di Sant'Agata di
piazza Duomo.
Innanzitutto la Reliquia
è conservata in questo prezioso reliquiario in oro sbalzato
e decorato con pietre preziose incastonate opera di Saverio
Corallo del 1705.
Forse son pochi i
catanesi che sanno quanto fosse importante il culto del
Santo Chiodo a Catania in passato e molti sconoscono
l'esistenza e la storia .Forse il culto è stato oscurato
dalla grandezza e forte devozione a Sant'Agata così come è
stato un po trascurato Sant'Euplio compatrono e quindi credo
sia giusto diffondere questo antico culto.
La reliquia del Santo
Chiodo apparteneva a re Martino I il quale nel 1393 la donò
ai monaci benedettini di San Nicolò l'Arena.
Il Chiodo che,secondo un
manoscritto della metà del XVIII secolo, redatto dal monaco
benedettino Colonna,"trafisse la mano destra del Redentore
del mondo",è così descritto dalla studiosa Naselli :..."è
lungo 8 cm.circa,ha il capo ovato,sul quale si vedono segni
di battiture,poi scende quadrato nel gambo".
L'insigne reliquia in
antico era celebrata in occasione della festa
dell'Invenzione della Santa Croce il 3 maggio, dal 1601 si
celebrò per la festa dell'Esaltazione della Santa Croce il
14 settembre.
Il reliquiario è
custodito in una cassettina lignea rivestita di seta color
cremisi e decorata da bordure dorate.
Tra i miracoli che il
Colonna narra,c'è quello che occorre all'abate benedettino
Asmundo,il quale gravemente ammalato e ormai abbandonato dai
medici,ricevette la grazia della guarigione. Per questo si
adoperò per la commissione di questo reliquiario.
Nel 1669,in seguito ad
una terribile eruzione dell'Etna, si proclamò il Santo
Chiodo patrono della città :la colata lavica,grazie alla
miracolosa intercessione della reliquia, arrivata in città,
devio' il suo corso proprio lungo il muro del monastero e la
città fu salva.
L'incremento del culto
Santo Chiodo fu tale che nella seconda metà del XVII secolo,
in cattedrale fu dedicato un altare a San Carlo Borromeo
esponendovi una copia della tela romana di Carlo Saraceni,
oggi esposta in sacrestia e che raffigura il Santo che porta
in processione il Chiodo durante la peste che si abbatte'
sulla città di Milano tra il 1576 e il 1577
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by Milena Palermo -
Obiettivo Catania
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FRA LE NAVATE DELLA
CHIESA
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Navata destra
Prima
campata: Cappella di San Gregorio Vincenzo Camuccini autore del quadro raffigurante San
Gregorio invia Sant'Agostino in Inghilterra per
convertire quel popolo.
Seconda
campata: Cappella di San Giovanni Battista.[12]
Decollazione del Battista dipinto opera di
Stefano Tofanelli.
Terza
campata: Cappella di San Giuseppe. Mariano Rossi
autore del quadro raffigurante San Giuseppe e dell'Istituzione dell'Ordine dei
Benedettini, entrambi i dipinti realizzati nel
1786, il secondo oggi custodito presso la
Pinacoteca del Castello Ursino. Sul manufatto è
incastonato il bassorilievo raffigurante la Fuga
in Egitto.
Quarta
campata: Cappella di San Placido. Placido Campolo autore del quadro raffigurante il
Martirio di San Placido e Santa Flavia.
Navata
sinistra
Martirio di
Sant'Agata.
Prima
campata: Cappella di Sant'Andrea. Ferdinando Boudard autore della tela raffigurante il
Martirio di Sant'Andrea.
Seconda
campata: Cappella di Sant'Euplio. Calvisiano
giudica il diacono Euplio, dipinto di Bernardino
Nocchi del 1802c.
Terza
campata: Cappella di Sant'Agata. Martirio di
Sant'Agata di Mariano Rossi del 1786, dipinto
oggi custodito presso la Pinacoteca del Castello Ursino.
Quarta
campata: Cappella della Madonna. Natività di
Gesù dipinto opera di Stefano Tofanelli.
Transetto
Absidiola
destra: Cappella del Santissimo Sacramento.
Braccio
destro: Cappella di San Nicolò. L'ambiente
fu pesantemente danneggiato dai bombardamenti
del secondo conflitto mondiale. Monumentale
manufatto concavo contraddistinto da colonne e
lesene sormontate da timpano triangolare, sulle
cimase sono documentate le allegorie della
Giustizia e Carità. Nell'edicola il quadro
raffigurante San Nicola benedicente di Niccolò Lapiccola.[22] Ai lati sono documentati i
dipinti di Giuseppe Cades e Stefano Tofanelli
raffiguranti rispettivamente il San Nicola non
gradisce l'elevazione ad arcivescovo di Mira e
la Liberazione dello schiavo.
Absidiola
sinistra: Cappella del Santissimo
Crocifisso
Braccio
sinistro: Cappella di San Benedetto da
Norcia. Ambiente realizzato in due riprese
fra il 1780 ed il 1790 per volere dell'abate
Filippo Hernandez da Caltagirone. Monumentale
manufatto concavo contraddistinto da colonne
binate sormontate da timpano triangolare, sulle
cimase sono collocate le allegorie della Fama e
Penitenza. Nell'edicola è collocato il dipinto
raffigurante la Presentazione a San Benedetto
dei discepoli Placido e Mauro, realizzato nel
1789, opera di Antonio Cavallucci. Nei riquadri
laterali sono collocati il San Benedetto nel
deserto di Antonio Cavallucci e il San Germano e San
Benedetto di Niccolò Lapiccola. Mensa,
sopraelevazione e intarsi realizzati in libeccio
trapanese, alabastro cotognino, giallo di Siena,
verde di Calabria, marmo tessalico, arricchiti
con altorilievi in marmo bianco di Carrara
raffiguranti soggetti simbolici ed attributi
relativi al patriarca: il Libro della Regola, la
mitria, il bastone abbaziale, le verghe fiorite
legate dal panisellus, due coppie di palme
incrociate, simbolo cristiano dell'immortalità
dell'anima.
Wikipedia |
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Nella Chiesa di San
Nicolò l’Arena, la seconda (per grandezza) delle cinque
campane reca la data del 1683 mentre la maggiore, restaurata
negli anni cinquanta, reca la data del 1708.
Dal lato sinistro del transetto si
accede alla sacrestia, opera di Francesco Battaglia, e al
Sacrario dei Caduti, ricavato in alcuni locali dietro
l'abside maggiore e sotto alcune aule del monastero. Il
sacrario ospita le lapidi a ricordo dei caduti della Prima
guerra mondiale ed è ornato dagli affreschi di Alessandro
Abate, fortemente degradati a causa dell'umidità, mentre la
sacrestia, con gli stalli lignei settecenteschi e gli
affreschi di Giovan Battista Piparo comunica col chiostro
orientale da cui prende luce.
La
Meridiana
All’interno della Basilica di San Nicolò La Rena in Piazza
Dante a Catania, l’oggetto che desta più curiosità è la
lunga meridiana (40 metri) che si snoda lungo il transetto
della chiesa, proprio di fronte l’altare. In condizioni di
cielo senza nuvole, un raggio solare a metà giornata entra
ogni giorno da un foro gnomonico posto all’altezza di 23
metri sulla cupola che sovrasta la cappella di San Benedetto
(verso sud), e forma un cerchio luminoso sul pavimento in
prossimità delle transenne a protezione dei marmi che
compongono il lungo strumento solare. Lentamente il disco
luminoso si sposta poi all’interno della lunga striscia di
marmo bianco posizionandosi al suo centro delimitato da una
linea retta di colore scuro ad indicare il mezzogiorno vero.
Poi prosegue fino ad illuminare il giorno del mese in cui ci
si trova, inciso sempre nel marmo in prossimità del segno
zodiacale corrispondente. Un fenomeno che, in chi lo osserva
per la prima volta, non manca di provocare meraviglia e
suggestione.
Costruita nel 1841 per volere dei monaci benedettini, a cui
apparteneva la – incompiuta – chiesa di San Nicolò, anche la
meridiana catanese fu il risultato del progresso degli studi
di astronomia compiuti in Europa tra Sette e Ottocento, che
condusse sin dall’inizio del XIX secolo alla creazione di
molti altri orologi e calendari solari sia in Sicilia
(Palermo, Acireale, Modica, Castiglione, ecc.) sia nel resto
d’Italia (Roma, Milano, Bologna, e via dicendo).
I costruttori della meridiana di San Nicolò, gli astronomi
Wolfgang Sartorius von Waltershausen e Christian Friedrich
Peters, tedesco il primo, danese il secondo, si avvalsero di
tutti gli strumenti e le conoscenze della loro epoca per
realizzare un orologio solare quanto più preciso possibile.
Lungo tutta la fascia marmorea della meridiana sono infatti
indicati tutti i numerosi dati ricavati dalle attente
osservazioni dei due studiosi: altezza sul livello del mare,
latitudine, longitudine (non da Greenwich ma dalle isole
Canarie, come si usava all’epoca), declinazione magnetica,
misure del giorno più lungo e di quello più corto, e via
dicendo. Tuttavia ai nostri giorni, sia la meridiana di
Catania, sia tutte le altre presenti in Sicilia e nel resto
d’Italia, solo pochi giorni l’anno presentano una
coincidenza esatta fra il fenomeno solare al loro centro e
le lancette dei nostri precisi orologi puntate al
mezzogiorno. Quasi sempre infatti il cerchio luminoso sul
pavimento raggiunge la linea centrale non alle 12 e zero
zero, ma alcuni minuti prima o dopo, a seconda della
stagione. I motivi sono diversi e quasi tutti dipendono non
dalle meridiane ottocentesche ma dai nostri attuali sistemi
di misurare il tempo.
Ovviamente il primo motivo, scontato, riguarda l’ora legale
nel periodo estivo, che sposta di un’ora in avanti
l’indicazione del mezzogiorno solare. Un altro importante
motivo concerne gli attuali standard di riferimento orari
come si sono imposti sin dal XIX secolo prima in Italia e
poi in Europa. Al pari della meridiana di San Nicolò (del
1841), molte meridiane vennero costruite in un’epoca in cui
i collegamenti erano lenti, le ferrovie quasi assenti, e
dunque anche a causa della frammentazione politica
dell’Italia pre-unitaria, non c’era ancora un orario unico
di riferimento valido per tutta la penisola. Ogni località
aveva il suo orario: gli orologi da salotto e quelli da
taschino si sincronizzavano sugli orologi delle chiese che
indicavano le ore con i rintocchi delle campane. E gli
orologi delle chiese a loro volta regolavano le proprie
lancette proprio sulla base delle meridiane: quando il
cerchio solare era al centro di esse, significava che il
Sole era nel punto più alto del cielo (in culminazione sul
meridiano locale), cioè era mezzogiorno.
Immagine tecnica dell'Ing. Giorgio
Coniglione, che ringrazio per l'omaggio al sito, volta a
spiegare in modo chiaro il funzionamento della Meridiana
nella Basilica di S, Nicolò..
clicca sopra per una migliore risoluzione
Ma poiché la nostra Terra è rotonda e gira sia attorno al
Sole sia attorno a se stessa, naturalmente il mezzogiorno
esatto non cade allo stesso momento in ogni località
d’Italia e del mondo: a Palermo ad esempio il fenomeno
solare all’interno della meridiana della cattedrale avviene
alcuni minuti dopo che a Catania, e nel Duomo di Milano
ancora un po’ più tardi di Palermo, e via dicendo. Tuttavia
a Catania, a Palermo, a Milano, e in un qualunque altro
luogo, nell’Ottocento la gente si preoccupava di tenere
sincronizzati i propri orologi meccanici solo con il proprio
mezzogiorno, alla stessa maniera in cui a noi oggi di solito
non interessa sapere che ora sia a New York, a Los Angeles o
a Sidney (a meno che, ad esempio, non dobbiamo telefonare a
qualcuno all’altro capo del mondo, ecc.). Ma dopo l’Unità
d’Italia, soprattutto a motivo dello sviluppo delle ferrovie
e dell’intensificazione di scambi e comunicazioni, si decise
di introdurre un orario valido per tutta la nazione, con gli
orologi di tutti sincronizzati non più sugli orologi delle
chiese (e sulle meridiane) bensì su quelli delle stazioni.
Logico quindi che gli orologi di Brindisi, Milano, Palermo,
ecc. non potevano più essere sincronizzati con il
mezzogiorno reale e locale, e quindi neppure con i relativi
fenomeni solari nelle meridiane. Di qui dunque uno dei
motivi per cui in ogni meridiana quasi mai il raggio solare
coincide con le dodici dei nostri orologi.
Allorché nella seconda metà dell’Ottocento si fissò un’unica
ora standard per tutta l’Italia si decise di prendere come
riferimento, prima l’ora di Roma (dal 1866) e poi dal 1893
il meridiano passante per l’Etna (long. 15 est da Greenwich):
dunque ancora oggi, ora legale a parte, quando il Sole si
trova sopra il meridiano passante per il vulcano catanese,
cioè al mezzogiorno vero, è mezzogiorno in tutti gli orologi
italiani, a qualsiasi longitudine, dalla Puglia fino alla
Sardegna. Ma non solo. Nel corso del XX secolo si prese il
medesimo meridiano dell’Etna come riferimento anche per
l’ora standard di molti altri paesi europei, dalla Spagna
fino alla Polonia. Tornando alla meridiana della chiesa di
S. Nicolò La Rena, ci si dovrebbe dunque attendere che ogni
giorno il fenomeno luminoso sia perfettamente sincronizzato
coi nostri orologi, alle 12 in punto (o alle 13 nel caso di
ora legale), poiché l’Etna ed il suo meridiano non sono poi
così lontani dalla chiesa e dal resto della città di
Catania. Invece chi osserva il cerchio luminoso sul
pavimento si accorge che esso quasi sempre incrocia la linea
centrale alcuni minuti prima o alcuni minuti dopo le 12 (o
le 13). Evidentemente ci dev’essere qualcos’altro.
Per scoprirlo facciamo ricorso alle osservazioni di un
connazionale del Sartorius, il grande astronomo tedesco
Johannes Kepler (1571-1630). Nel 1609 questi dimostrò che
l’orbita del nostro pianeta attorno al Sole non è
perfettamente circolare, bensì leggermente ellittica,
cosicché vi sono periodi dell’anno in cui la Terra si trova
più lontana dal Sole, altri in cui al contrario si trova più
vicina. Nelle fasi in cui si trova più lontano (afelio,
all’inizio di luglio) il nostro pianeta rallenta leggermente
la sua velocità di rivoluzione, mentre allorché si trova più
vicino al Sole (perielio, all’inizio di gennaio) esso al
contrario accelera. La meridiana di San Nicolò La Rena(Nota:
ovviamente il caldo afoso estivo e il freddo sottozero
d’inverno non hanno niente a che vedere con la distanza del
nostro pianeta dal Sole, poiché l’alternanza delle stagioni
è determinata dall’inclinazione dell’asse terrestre e dalla
maggiore o minore incidenza dei raggi solari sulla
superficie di ogni emisfero). Ne risulta quindi che il tempo
reale astronomico sarà leggermente più breve d’inverno e
leggermente più lungo d’estate, e quindi è come se le ore
invece di sessanta minuti avessero alcuni minuti in meno o
in più. Ma come inflessibili cronografi svizzeri i nostri
precisi orologi elettronici spaccano i loro secondi che
costituiscono i minuti e le ore standard del nostro sistema
orario universale. Quindi fregandosene delle leggi di Kepler
le lancette lasciano che d’estate il cerchio luminoso
proceda più lentamente verso il centro della meridiana
facendo scoccare in anticipo il loro mezzogiorno (o le 13
con l’ora legale), e d’inverno al contrario non si curano
che il riflesso solare, leggermente più veloce, raggiunga
già il centro della meridiana mentre mancano ancora alcuni
minuti alle 12 del quadrante o del display. Alla longitudine
del meridiano dell’Etna – quindi nella meridiana di San
Nicolò La Rena, ma anche ad es. in quelle presenti ad
Acireale e a Castiglione – il mezzogiorno solare vero e il
mezzogiorno dei nostri orologi (ora legale a parte)
coincidono solo nel periodo degli equinozi, intorno al 21
marzo e al 21 settembre. Per tutte le altre meridiane
esistenti a longitudini diverse si deve tener conto dello
sfasamento provocato dai nostri sistemi orari standard
artificiali.
Direttamente
collegato alla differente distanza della Terra dal Sole nel
corso dell’anno, è poi un fenomeno che si può ammirare in
forma molto appariscente proprio nella meridiana di San
Nicolò, grazie alla sua estensione. All’inizio dell’estate,
tra la fine di giugno e l’inizio di luglio, il cerchio
luminoso sul pavimento della meridiana in prossimità del
solstizio estivo (all’estremità sud della fascia marmorea,
sotto la cappella di San Benedetto) misura un piccolo
diametro, proprio perché il Sole è più lontano. Man mano che
trascorrono i giorni e i mesi il cerchio luminoso che si va
spostando lungo la striscia marmorea bianca si ingrandisce
fino a raggiungere la sua massima estensione, nel periodo
delle feste di fine d’anno, tra il solstizio d’inverno e
l’Epifania: proprio all’estremità opposta della lunga
meridiana, sotto la statua di San Nicola (l’archetipo del
nordico Santa Klaus, o Babbo Natale american style). Il
motivo ancora una volta è proprio la distanza minima tra il
nostro pianeta ed il Sole che fa apparire più grande il suo
riflesso sul pavimento della meridiana.
Indicazioni: La Basilica di San Nicolò La Rena si trova in
Piazza Dante a Catania, accanto all’ex Monastero dei
Benedettini, ora sede universitaria.
Ignazio Burgio.
http://siciliaturistica.altervista.org/luoghi-sicilia-turistica-insolita-sconosciuta/la-meridiana-di-san-nicolo-la-rena-a-catania/
L’arte di
arrangiarsi risale al 1954, la regia è di
Luigi Zampa, il soggetto e la sceneggiatura
sono di Vitaliano Brancati. La cinepresa
attraversa diversi luoghi dell’anima di
Catania, il cui fascino emerge col bianco e
il nero. Piazza Duomo con il Liotru in primo
piano, lo scorcio di via Crociferi con
l’arco, piazza Dante con i Benedettini. E
ancora l’ingresso di villa Cerami, il
Fortino e tratti di via Sangiuliano.
Un’immersione, attraverso questi reperti, su
ciò che era la società catanese nei primi
del Novecento.
Fonte
|
|
In
una guida di Catania del 1899 leggiamo: "Basta questa sola
meravigliosa macchina per la celebrità del monastero dei Benedettini
di Catania. Fu opera dell’abate Donato del Piano e vi sono
esattamente imitati tutti gli strumenti a corda ed a fiato: ha 72
registri, cinque ordini di tastiere, 2.916 canne. Si ode dall’ottavino
al serpentone, dal violino al contrabbasso, dal tamburo rollante e
battente alla pastorale zampogna.
Pur
presentandosi incompiuto a nord della grande chiesa, il monastero di
San Nicolò l'Arena, per la sua vastità è ritenuto secondo, in
Europa, soltanto a quello portoghese di Mafra. Soprattutto nel '700 il
suo immenso patrimonio, gli stretti legami con la nobiltà dalla quale
provenivano la maggior parte dei suoi monaci, e un notevole prestigio
culturale gli conferirono un ruolo di rilievo, non circoscritto al
territorio catanese. Ammirato dai viaggiatori, che ne ricordano
l'ospitalità, le raccolte librarie e il fasto dei monaci, dominava e
condizionava la vita civile e religiosa della città. De Roberto, ne
"I Vicerè", non si mostrò certo indulgente verso quanto
accadeva dentro i chiostri del monastero che, "immenso, sontuoso,
era agguagliato ai palazzi reali, a segno che c'erano le catene
distese dinanzi al portone". I monaci vi abitarono sino al 1866;
tre anni dopo esso venne assegnato al Comune e ospitò una caserma
militare e vari istituti, ed ebbe così inizio un lungo periodo di
guasti e di abbandono. Nel 1977 è stato ceduto all'università , che
ne ha fatto la sede della facoltà di Lettere.
I
Benedettini a Catania fecero storia non solo per il loro potere, ma
anche perchè vivevano nel più assoluto benessere. Nel '700 i frati
erano odiati dalla popolazione, che provata dalla carestia assisteva
all'abbondanza delle loro libagioni. Tanta gente della Catania povera
attendeva la fine dei pranzi davanti al monastero per potersi sfamare
con gli avanzi. Nel 1558, fu posta la prima pietra dell'edificio di
forma quadrata. In questo stesso anno i monaci, con una solenne
processione, presero possesso del monastero ancora incompleto. Sul
finire del secolo si iniziò a costruire una piccola chiesa e un
chiostro. Alla metà del '600 il monastero accoglieva 52 monaci e
comprendeva molti altri religiosi e servi; era ricco di affreschi e
quadri, di statue e dotato di un acquedotto.
Questo è, o per meglio dire era
prima della soppressione, una delle singolarità di Catania: andati
via i Padri per dar luogo ai soldati ed agli studenti, i lunghi
corridoi furono divisi e suddivisi, il più antico ed elegante
chiostro fu trasformato in palestra ginnastica, una strada fu aperta
nei terreni che lo circondavano, un osservatorio ed un ospedale
furono eretti nei suoi giardini.
Tutt'insieme, esso si sviluppava
sopra un'area di circa centomila metri quadrati ed era il più
grandioso edifizio monastico d'Europa, dopo quello di Mafra d'Estremadura
in Portogallo. Il già citato Musumeci, nel rispondere all'Hittorf
che glie ne chiedeva notizie, ne ricostruì la storia. Cominciato nel
1558 in presenza del vicerè La Cerda che ne pose solennemente la
prima pietra, e finito venti anni dopo, il primitivo edifizio ideato
dal cassinese Valeriano de Franchis comprendeva il chiostro più
occidentale decorato di cinquanta colonne di marmo nel 1605, i
corridoi e i dormitorii che lo fiancheggiavano e la vecchia chiesa.
Le lave del 1669 sconquassarono
quest'ultima e ricopersero i giardini; allora fu chiamato da Roma
l'architetto Giovanni Contini, su disegno del quale, nel 1687, fu
ricominciata la nuova chiesa e il nuovo monastero; ma, pochi anni
dopo, il terremoto del 1693, rinnovando ed accrescendo le rovine e
seppellendo trentadue monaci, fece riprendere il lavoro di Sisifo.
Per colmo di disgrazia, non si trovava allora in Catania nessun
architetto: il solo sopravvissuto al terremoto, Alonzo di Benedetto,
era anch'egli morto di morte naturale.
Fu chiamato pertanto da Messina
Tommaso Amato, il quale disegnò i dormitorii di levante e
mezzogiorno; poi, su disegno del palermitano Vaccarini, che non
rispettò l'antica grandiosa unità della iconografia ideata dal de
Franchis e serbata dal Contini, si eressero i due refettorii e la
biblioteca, imponenti per vastità e decorazione.
Francesco Battaglia Biondo ideò
il portico del nuovo chiostro, e suo nipote, Francesco Battaglia
Santangelo, lo scalone, che ha le pareti adorne di quadri a stucco
bianco su fondo azzurrino, e la chiesa. Questa, la maggiore di tutta
Sicilia, doveva avere una facciata tanto sontuosa, con colonne tanto
gigantesche, che i Padri, nonostante il loro mezzo milione di
rendite, la lasciarono incompiuta, come oggi si vede. Donato del
Piano, abate calabrese, spese dodici anni della sua vita e dieci
mila onze dei Padri — centoventisette mila e cinquecento lire — per
costruirvi uno dei più celebri organi d'Europa, con settantadue
registri, cinque ordini di tastiere e duemila novecento sedici
canne. Il barone Sartorius di Waltershausen, l'insigne illustratore
dell'Etna, vi tracciò, insieme col Peters, nel 1841, una meridiana,
per la quale il Thorwaldsen disegnò le figure dello zodiaco.
Il Coro, situato dietro la
tribuna, è composto di due centinaia di stalli, disposti in due
ordini: le sculture di Niccolò Bagnasco, palermitano, vi
rappresentano i fatti del Vecchio Testamento. Tra i sacri arredi si
menzionano l'apparato di seta rossa trapunta d'oro donato ai monaci
benedettini dalla regina Bianca, il reliquario d'oro gemmato dove i
fedeli adorano il chiodo che trafisse la destra di Gesù, dono del re
Martino, che portava sempre addosso quella reliquia; un ostensorio
ed un calice d'oro gemmato, ed altre manifatture dei secoli XV e XVI.
La biblioteca, passata al Comune, ha molte migliaia di volumi e
parecchi codici, alcuni dei quali di molto pregio per il testo e le
miniature; essa è accresciuta dall'archivio, di valore anche più
grande, ricco di diplomi bizantini, normanni ed aragonesi, e di
bolle papali; alcuni di questi documenti portano attaccati suggelli
di squisito lavoro, come quelli della regina Eleonora e dei due re
Martini e della regina Bianca, rispettivamente loro nuora e moglie.
I Padri Cassinesi avevano anche
messo insieme un museo, che divenne municipale nel 1866 ed è stato
ultimamente riordinato da Francesco di Bartolo. Qui sono adunati
parte dei marmi, dei vasi, delle lapidi, dei mosaici trovati negli
scavi cittadini e già menzionati; di alcuni altri conviene tenere
qualche parola, segnatamente d'una stupenda terracotta siceliota
rappresentante una danzatrice, che sarebbe veramente d'un valore
impareggiabile se il corpo, tra il busto ed i piedi intatti, non
fosse un brutto raffazzonamento di gesso; d'un bassorilievo
rappresentante Ercole sul monte Oeta con molte figure intorno; dei
frammenti di decorazione nei quali è intatta la figura della Vergine
e del Bambino. Narra il di Marzo che Antonello Gagini scolpì per il
convento del Carmine minore di Catania una porta, e poichè questi
pezzi appartengono evidentemente alla decorazione d'una porta, della
quale si vede disegnato parte dell'arco, giova supporre che siano
stati ritrovati fra i rottami di quella casa religiosa, dopo il
terremoto. Notevoli sono anche nel museo un Anfione ed un ratto
d'Europa scolpiti a mezzo rilievo su pietra rossa; una Venere di
porfido, parecchie urne cinerarie e ossarie, molte terrecotte, tra
le quali diote, cratere, scifi, danarii, tessere, idrie, lucerne con
iscrizioni nel manico, teste votive, vasi etruschi, tirreno-egizii,
greco-siculi. Tra le manifatture dei tempi di mezzo e moderni, vi
sono armi bianche e da sparo, arnesi sacri, lavori di porcellana,
carte da giuoco, due bellissime tavole cinquecentesche di ebano
intarsiato d'avorio nelle quali sono rappresentati i fatti della
storia romana, un cofanetto d'avorio scolpito, lavoro egregio e
squisito degli Imbriachi.
Le antiche descrizioni della
importante raccolta fanno menzione di un medagliere, la parte più
preziosa del quale, dopo il 1866, brilla, come si dice, per
l'assenza. Accresciuto è invece il numero dei quadri, dei quali si
dirà fra poco, dopo aver fatto menzione dell'altro museo catanese,
più volte citato, appartenente a casa Biscari.
da
"Catania" di Federico De Roberto
ISTITUTO ITALIANO D'ARTI
GRAFICHE — EDITORE 1907 |
Monastero dei Benedettini
Piero Isgrò
Nel Seicento il monastero era
abitato da un’ottantina di privilegiati coscritti che certo vi si
muovevano solitari e impauriti e talvolta si perdevano nei lunghi
corridoi che incrociano chiostri, dormitori, cortili, giardini,
bibliote - che, foresterie. L’unica bussola a loro disposizione era
l’olfatto che li dirigeva, con una certa precisione, alle cucine e
ai refettori che avevano fama europea. Quando questo labirintico
palazzo della solitudine venne costruito il motto dei padri
fondatori fu quello del capitolo della cattedrale di Siviglia:
“Innalziamo un monumento che faccia dire ai posteri che eravamo
pazzi!”. Già, matti perpendicolari, secondo la definizione di Léon
Daudet, da cima a fondo, matti che le cose non solo le dicono ma le
fanno.
Quando fu posta la prima pietra
correva l’anno 1558, e occorsero tre secoli per finirlo. Furono
utilizzati i migliori ingegni dell’isola e de lla peniso la, compr
eso l’abate Vaccarini che venne pagato dai committenti, come ricorda
Saverio Fiducia, con grandi elogi e pochissime lire.
Lasciando l’incarico per il
vescovado di Milazzo l’insigne artista dovette pure ringraziarli
perché al suo posto, e per la medesima cifra, furono assunti due
architetti. La ricchezza dei padri fondatori era leggendaria,
inferiore soltanto alla loro cupidigia e di certo all’altezza della
loro aristocrazia cadetta. A quei tempi Catania era una città
splendente di passato e di povertà, come tutte del resto in Sicilia,
ma si distese ai piedi del suo monumento con riconoscenza e
orgoglio. La reggia divenne il centro della nobiltà del sangue e
dello spirito, il faro che illuminava la vita del popolo ignorante,
della plebe affamata di pane e ostie e che ogni giorno bussava alle
sue porte per ottenere gli ossi della sua pantagruelica mensa.
Insomma, la reggia si comportava
come un convento alla rovescia. Tecnicamente era un monastero, a
dire la verità, ma i suoi frati non se n’andavano in giro come
questuanti ma vivevano nelle loro stanze come principi e
s’annoiavano come principi. Una testimonianza autorevole l’abbiamo
da Federico De Roberto che nei “Viceré” paragonò l’immenso e
sontuoso monastero “ai palazzi reali, a segno che c’eran le catene
distese dinanzi al portone”. Le catene come segno di divisione e
protezione, come luogo della coscienza e dell’incoscienza, dal
momento che i muri dell’Escorial etneo proteggevano misteri
insondabili ma facilmente immaginabili. Sotto le tonache di padri e
novizi battevano cuori nobili e ribelli che avrebbero preferito le
gioie della vita a quelle del convento ma che per dovere di
maggiorasco furono condannati dai loro padri a servire il Signore. E
lo servirono a loro modo, a volte pregando, a volte vendicandosi, a
tavola e a letto.
Il costume, o malcostume, delle
agapi fraterne, le ubriacature e le compagnie extraconventuali hanno
segnato anche la storia di questo monastero immenso che domina la
città, si sono riversati in storielle salaci.
Il capomastro che scoprì la "fontana dei Marmi"
del "Monastero dei Bendettini” a Catania
31/12/2017 - di Giuseppe Tiralosi
Immaginate di
trovarvi presso il cantiere del Monastero dei
Benedettini di Catania, di dovervi recare lì
ogni mattina per coordinare i lavori di recupero
di una meravigliosa fontana andata perduta, e di
dover percorrere grandi distanze da un punto
all’altro del monastero. Immaginate di non
essere poi così tanto agili, e che tutti quei
chilometri sotto il sole cocente, con l’elmetto
in testa e i pantaloni pesanti, siano per voi un
peso insormontabile. Immaginate un giorno di
svegliarvi con l’intuizione della vita: «In
cantiere ci vado con il mio “Sì”, e da lì mi
muovo per tutto il perimetro. Che trovata! Da
oggi niente più fatica».
LA FONTANA
DEI MARMI. Sono passati oltre trecento anni da
quando i frati benedettini di Catania ultimarono
i lavori di costruzione di una maestosa fontana,
che capeggiasse nella parte ovest del loro
monastero. Era il loro fiore all’occhiello:
l’acqua veniva portata sin dai monti di Leucatia
e i marmi bianchi che ne costituivano le tre
vasche provenivano da Carrara.Era il 1692 e solo
un anno dopo Catania e la Val di Noto si
ritrovarono rase al suolo da un devastante
terremoto. Insieme ad esse, anche il monastero
subì danni ingenti ma “la fontana dei marmi”
riuscì miracolosamente a salvarsi, continuando
ad ornare la parte centrale del “Chiostro di
ponente”. Quando i frati benedettini
abbandonarono il monastero, in seguito alla
soppressione delle corporazioni religiose nel
1866, quel luogo troppo grande con una fontana
“in mediocre stato di conservazione e senza
acqua” fu adibito ai più disparati usi, tra i
quali quello di palestra a cielo aperto per
caserme e scuole. La fontana era troppo
ingombrante, venne smembrata pezzo dopo pezzo,
inserita all’interno di intercapedini dei
cortili nord-ovest o ceduta, fino a perderne
quasi del tutto le tracce.
TRA VERITÀ E
LEGGENDA. «I lavori di recupero condotti
dall’architetto Giancarlo De Carlo negli anni
’90 furono contraddistinti dalla figura di un
“capomastro” piuttosto corpulento che veniva in
cantiere con un “Sì”, e si muoveva all’interno
del Monastero con questo mezzo», ci ha
raccontato Claudia Cantale, membro del consiglio
direttivo e tra i soci fondatori di “Officine
Culturali”, associazione che da anni è impegnata
a valorizzare le bellezze del monastero.
L’aspetto più affascinante delle leggende è che
non devono essere necessariamente vere, o non
del tutto. Aiutano a tenere vivi i ricordi,
romanzandoli un poco, conferendo alle storie
quell’alone di mistero e di epicità che tanto ci
piace. E allora non importa che la storia che il
geometra Antonino Leonardi – responsabile
dell’Ufficio Tecnico dei Benedettini – amava
raccontare, coincida oggi perfettamente con la
realtà. Immaginate di girare spensierati tra i
pontili e i sacchi di cemento, con il vento che
vi scompiglia i capelli, mentre dettate le
ultime direttive agli operai, quando a un certo
punto... Buio. Immaginate, provateci, di
ritrovarvi a testa in giù in luogo sconosciuto
ma che probabilmente riconoscete presto a causa
di un non proprio incantevole olezzo, con una
mano appoggiata alla prima cosa alla quale vi
siete aggrappati. Bianca, bianchissima. È lei.
«Un giorno il capomastro cadde nelle fognature
che si trovavano nella zona nord-ovest del
monastero. Di lui non si seppe nulla per un paio
d’ore, fino a quando non uscì trionfante con una
porzione della fontana. Questo “incidente sul
lavoro”, in cui il capomastro cadde “sul
morbido”, fu determinante al ritrovamento –
porzione dopo porzione – di circa il 60% della
struttura che da quel momento fu rimontata come
fosse un puzzle tridimensionale». Oggi, quella
fontana costruita dai frati nel 1692, è tornata
a risplendere al centro del “Chiostro di
Ponente” e da circa un anno è di nuovo in
funzione. Lo cantava David Bowie: “we can be
heroes, just for one day” (anche se con un po’
di fortuna).
http://www.lasicilia.it/news/sicilia-segreta/130428/il-capomastro-che-scopri-la-fontana-dei-marmi-del-monastero-dei-bendettini-a-catania.html#.WsOX3k_TK7k.facebook |
Qualcuno del Dipartimento di Scienze umanistiche mi ha
detto che quando finì di girare nell’ex Convento dei Benedettini, Alberto
Angela non se ne voleva più andare. Si è innamorato di Catania e infatti
nella prossima puntata parlerà dell’Etna, e dopo ancora della maestosità
della festa di S. Agata.
Io lo sapevo, ne ero certo della cotta. Come una bella
donna, Catania ti ammalia e ti rapisce… ma solo quando decide lei.
Puntata Impeccabile, sabato scorso. Anche se un po’
generico, visto il tempo a disposizione, Angela ha fatto omaggio a Catania
con uno straordinario servizio. Più di così non poteva fare, perchè l’ex
Monastero dei Benedettini, Palazzo Biscari e Via Crociferi meriterebbero, da
soli, un’intera puntata ciascuno. Per non parlare di quel che manca ancora:
Anfiteatro, Teatro romano, Castello Ursino, ecc.
Angela ha fatto capire come questa città conservi
all’interno del suo tessuto urbano (non si
tratta di siti fuori porta!) gioielli inestimabili che il mondo dovrebbe
conoscere di più. Basti pensare al sito dei Benedettini, fino a poco tempo
fa adibito a caserma o ad aule per scolaresche e poi rivalutato
dall’Università di Catania negli anni Ottanta grazie alla grandiosa opera
dell’Arch. De Carlo, autentico artefice del suo recupero. Nel 1984 ero
presente all’inaugurazione, che fecero coincidere con il 500° dell’Ateneo, e
mi meravigliò lo stupore ancora impresso nei suoi occhi, quandò raccontò ai
Presidi delle ex Facoltà le sue scoperte sotterranee, dalle cucine
progettate dal Vaccarini ai refettori che uscivano fuori man mano. Un
grande.
L’altra sera è stato spiegato ampiamente quanto è immenso,
ed è vero quel che raccontava Angela in merito alla vita agiata di chi
abitava il Monastero. Non si trattava di poveri prelati votati alla vita
francescana, ma dei secondogeniti della Nobiltà catanese costretti ad andare
in convento, a condizione di viverci a 5 stelle. Cioè servitù al seguito,
agiatezze, prostitute durante le ore notturne, fumo, alcol e soprattutto,
cibo tanto cibo. Niente a che vedere con la vita di un monaco.
Chi non ricorda in TV i Vicerè, tratto dal romanzo di
Federico De Roberto, che li definì “Porci di Dio”? Avrete pure sentito
Angela pronunciare la frase “Scacciu e michellassu”. Ecco che significa:
Questo il menù (così come lo scrivevano i monaci) di
una cena in un giorno qualsiasi del 1800:
Eccolo qui:
Comunque, una grandiosa puntata che rende omaggio ad
un importante luogo del Mito, che meriterebbe altro e non il degrado,
l’inciviltà, l’ignoranza (soprattutto) e il menefreghismo che regnano
sovrani nelle sue strade. Buttafuoco disse “A Catania il provincialismo non
ci fa vedere il bello che c'è”. E’ vero, Catania non è solo arancini,
granite e cannoli. C'è dell'altro, meravigliosamente altro.
Assieme a poche altre città italiane, a Catania – come
in tutta la Sicilia - ci si può permettere di toccare con mano la storia
grazie alle dominazioni e ai popoli che l’hanno abitata e governata. Non ci
siamo fatti mancare niente: Greci, Romani, Arabi, Normanni, Angioini,
Aragonesi, Borboni, Sabaudi. Per chi non la conosce, percorrendo certe
strade la sua storia la si può annusare, si può respirarla. E poi non ci
vuole tanto a partire carichi di informazioni prima di allacciare le scarpe,
internet non è solo stupidaggini da condividere. Per esempio, su facebook la
pagina Obiettivo Catania di Milena Palermo è una fonte inesauribile di
notizie storiche per chi vuole divertirsi all’indomani, calpestando
letteralmente il nostro passato e apprendere le proprie origini …. invece di
perder tempo nei Centri commerciali.
Credetemi, scoprire certe cose e poi dire a se stessi
“ma dai!… ma io vivevo qui?” è davvero un sollazzo. A Catania viviamo fra
patrimoni UNESCO che nemmeno gli stessi cittadini sanno di possedere.
Grazie Prof. Angela, grazie anche per quelle frasi
finali: “Catania è distesa tra il mare e l’Etna e riassume molto bene due
termini da noi utilizzati: distruzione e rinascita. Catania è stata
devastata da quel terribile terremoto di fine ‘600 trasformandosi in una
sorta di fucina internazionale del barocco. Ha saputo rinascere e quello che
ha saputo creare è qualcosa di straordinario. Piazze che sembrano
palcoscenici, statue che sembrano parlare con ampi gesti. E’ una città che
incanta e che ha tanto da insegnarci proprio per questa capacità di guardare
al futuro con ottimismo. Questo spirito ci chiede di essere tutelato e
protetto”.
Belle, ma qualcuno potrebbe pensare “ma se avete tutto
questo ben di Dio, perché lo distruggete? Forse è colpa di chi lo abita?
Forse senza i catanesi Catania sarebbe una città straordinaria ?”
No. Catania è così perché (nel bene e nel male,
nonostante inciviltà, inefficienza e tante altre cose negative) è abitata
proprio dai catanesi. Per assurdo, Catania non sarebbe stata così bella se
non ci fossero stati i catanesi. Lo so, sono “malusangu”, malarazza, pronti
a fottere il prossimo nell’arco di 10 nanosecondi, arroganti, imprevedibili,
impulsivi, a
volte violenti… ma hanno un cuore grande così, intraprendenza, ingegno,
estro e generosità da vendere. Soprattutto vanno letteralmente pazzi per la
scritta “Melior de cinere surgo” che hanno nel loro DNA, e cioè rinasco
dalle mie ceneri ancora più bella.
Perché loro sono fatti così: si autodistruggono e poi
ricostruiscono dalle ceneri la loro città più splendente di prima. Figli del
loro vulcano, come a "Muntagna" sono incontentabili, piroclastici al loro
passaggio e impetuosi come colate laviche al momento di incanalarsi
negli ingrottamenti delle loro vite, per poi riemergere nelle nuove
rinascite come sempre. Come disse Luigina Grasso: Essi stessi sono l'Etna,
anche loro
fremono, sbuffano, eruttano e mandano al cielo lapilli. E se nel loro sangue
si guardasse bene, il coagulo è magma solidificato, è lava.
M.R.
scene girate in Via Crociferi, Piazza
Duomo, Ognina, la Pescheria, Via Cardinale Dusmet e Monastero dei
Benedettini, Monti Iblei zona Canalicchio, Via Vincenzo Giuffrida
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Tra gli spettatori di sabato c’era anche
l’ingegner Salvatore Maria Calogero, autore del libro “Il monastero
catanese di San Nicolò l’Arena, dalla posa della prima pietra alla
confisca post-unitaria”, pubblicato nel 2014 dopo numerose ricerche.
Proprio quest’ultimo, tramite il suo profilo Facebook, ha
individuato e comunicato due errori che sarebbero presenti nella
trasmissione.
“Bellissima puntata su Catania. Purtroppo, due
inesattezze che potevano essere evitate per dare maggiore importanza
al Monastero dei Benedettini – ha scritto Calogero -. La prima è che
Antonino Amato progetta e realizza la decorazione lapidea dei
prospetti sud ed est,svolgendo il ruolo di architetto limitatamente
alla sua realizzazione. Il progetto dell’attuale monastero si deve
al grande architetto romano Giovan Battista Contini che, dopo una
prima stesura del 1686,condizionata dal chiostro di marmo realizzato
su disegno dell’architetto Giulio Lasso,fornisce dopo il terremoto
del 1693 un nuovo disegno realizzato dal capo mastro Giuseppe
Longobardo. Contini sostituì Gian Lorenzo Bernini nel 1680 come
architetto della camera apostolica e divenne principe dell’Accademia
di San Luca. Per il progetto del monastero catanese gli furono date
280 onze (il progetto di una chiesa costava 12 onze) e per adattarlo
alla nuova situazione nel 1704 gli furono date altre somme.
La seconda imprecisione riguarda l’autore del
progetto della biblioteca che non fu Vaccarini, ma il grande
architetto romano, di origine polacca,Stefano Ittar. Chiamato
seriamente da Messina nel 1765 per completare la chiesa e fornire
nuovi disegni per completare il monastero. Vaccarini aveva
completato il noviziato,il refettorio grande e la cucina, morì a
Palermo nel 1768 dopo essere andato via da Catania nel 1745. La
biblioteca, invece, fu iniziata nel 1771 e ultimata nel 1773, quando
Stefano Ittar era architetto del monastero”.
PHOTOGALLERY
Nel
1669, la lava della grande eruzione dell’etna raggiunse il monastero
e squassò la chiesa, e i benedettini, allora, si prodigarono a
riparare i danni, riprendendo presto l'ambizioso progetto di una
grande chiesa per raccogliere la folla dei catanesi. Da Roma
chiamarono un famoso architetto Giambattista Contini, ma il terremoto
del 1693 interruppe i lavori delle prime strutture della chiesa,
distruggendo quasi del tutto il monastero e uccidendo trentadue
monaci. I superstiti tentarono di ricostruire il monastero in altro
luogo, ma poi ritornarono "in lo loco detto de la cipriana"
e così furono utilizzati i resti delle fabbriche precedenti. Nel 1703
fu steso il primo contratto gli intagli delle facciate che in poco
più di vent'anni furono completate e decorate con "scartocci,
figure, mascaroni, pottini". Le due facciate vennero lavorate dai
più esperti intagliatori catanesi, tra i quali Giovanni Nicolosi e i
Battaglia, in società con i tanti immigrati dopo il terremoto, come i
messinesi Amato e Palazzotto. Nominato architetto del monastero,
Francesco Battaglia doveva occuparsi soprattutto del collegamento
verso nord e del nuovo refettorio; invece sarebbe toccato a Vaccarini
realizzare, a partire dal 1739, questo vasto ambiente e altri, che
comprendono la biblioteca e il museo. All'armoniosa sacrestia e al
ponte verso il vasto giardino, ricavato sulla lava del 1669, si
dedicò Battaglia al suo rientro nel 1747: e diresse pure la
costruzione delle strutture di sostegno della cupola della chiesa, che
per il resto delle fabbriche venne quasi completato alla metà del
secolo. Difatti nel 1755 i monaci richiesero a Donato Del Piano un
organo, che fu inaugurato nel 1767 e che per oltre un secolo è stato
l'opera più ammirata del monastero.
Stefano
Ittar progettò nel 1769 con una soluzione urbanistica l'esedra
davanti al sagrato della chiesa, intesa a valorizzare il quartiere
circostante, e diresse i lavori della cupola, ultimata nel 1780. Per
la facciata della chiesa, iniziata dagli Amato e da tempo interrotta,
nel 1775 si fece il concorso di un nuovo progetto, che ebbe sviluppi
intricati. L'incarico venne poi affidato a Carmelo Battaglia
Santangelo, che nel 1796 firmò, nel finestrone centrale, quest'opera
ambiziosa e rigida, realizzata solo a metà per difficoltà tecniche.
Allo stesso architetto, e al cugino Antonino Battaglia si rivolsero i
benedettini per un nuovo portale d'ingresso allo scalone. Somme
ingenti vennero profuse nel ricercare i marmi più pregiati per gli
altari in modo da interrompere l’interno del vasto tempio:
intieramente bianco. Le cappelle e le altre navate nel passato erano
illuminate da grandi lampadari in cristallo. Altre opere notevoli
dell'arredo della chiesa sono l'altare maggiore, di Vincenzo Belli, e
la grande meridiana di Waltershausen e Peters, del 1841, lunga 39
metri. Nello stesso tempo si provvide a completare il primo chiostro
già iniziato da Francesco Battaglia nella corsia meridionale
inferiore con dinamico ritmo classicheggiante. L'incarico fu affidato
a Mario Musumeci.
Oggi,
compatibilmente con le attività che si svolgono all'interno degli
istituti universitari, è possibile visitarne una parte che consente,
comunque, di farsi un'idea della grandiosità e della magnificenza
dell'insieme. Entrando da piazza Dante si viene immediatamente
conquistati dall'esuberanza decorativa delle facciate e dei balconi.
Vito Librando ci spiega che: "Nel 1703 fu steso il primo
contratto degli intagli delle facciate: queste, in poco più di
vent'anni, furono completate e decorate con 'scartocci', figure,
mascaroni (mascheroni), puttini', doviziosi frutti di un fantasioso
repertorio ed esempio senza uguale di un gusto barocco ancora debitore
della tradizione manieristica, diffuso e persistente nella fascia
orientale dell'Isola". All'interno del monastero si possono
visitare: i lunghi corridoi (dai quali è possibile ammirare i
chiostri), il grande refettorio e le celle dei religiosi.
Monastero dei
Benedettini
Piazza Dante, 32 95124 Catania Tel. 095.7102767 / 334.9242464
SITO UFFICIALE
http://www.officineculturali.net
facebook
Aperte per la prima volta
le Stanze dell’Abate
14 aprile 2017 - Francesco
Arcolaci
Il Monastero dei Benedettini, cuore
del Dipartimento di Scienze umanistiche, ha molto altro da
offrire al pubblico oltre alle lezioni e agli esami che vi
si svolgono. In un calendario di iniziative volto a
celebrare l’immenso complesso, arrivano nuovi percorsi
guidati.
Da sette anni si svolge al Monastero
dei Benedettini un percorso turistico guidato che si snoda
all’interno dell’edificio e che adesso subirà una piccola ma
importante variazione: per volontà della direttrice del
Dipartimento di Scienze Umanistiche, la professoressa Marina
Paino, verranno aperte per la prima volta al pubblico le
Stanze dell’Abate, attualmente adibite a Direzione di
Dipartimento.
La sala fu realizzata dall’architetto
Musumeci e fu uno degli ultimi interventi effettuati dai
monaci che vollero aprirla al pubblico per la celebrazione
del Santo Chiodo. Anche e soprattutto per questo motivo la
sala è stata affrescata e decorata in modo sfarzoso. Secondo
i monaci di Ormonde, la sala assomigliava ad una grande sala
da ballo vista alla luce del giorno. I decori si completano
con la rappresentazione delle Tre Grazie sulla volta
realizzate da Giuseppe Rapisarda nel 1827.
Insomma per i turisti e tutti coloro
che vorranno fruire del percorso, si tratterà di un vero e
proprio tuffo nel passato: lo scopo sarebbe quello di
destare la medesima meraviglia e stupore che dovevano
provare gli ospiti al cospetto di tanto sfarzo e ricchezza.
Il nuovo percorso così modificato sarà
pertanto fruibile nei giorni di chiusura del dipartimento:
le visite guidate partiranno ogni ora dalle 9:00 alle 17:00
anche sabato 15, domenica 16 e lunedì 17 aprile. Visto il
numero limitato di posti è consigliata la prenotazione ai
numeri 0957102767 – 3349242464.
Si tratta certamente di un’occasione
unica nel suo genere che aiuterà a guardare al monastero non
solo come luogo di studio e di ansie caratteristiche degli
studenti, ma anche come il patrimonio culturale che
rappresenta.
https://catania.liveuniversity.it/2017/04/14/monastero-aperte-prima-volta-stanze-dellabate/
Chiostro
di Levante
Il
Chiostro di Levante, così chiamato per la posizione geografica in cui
si trova, è il chiostro più recente. Iniziato nel ‘700 e
completato dall’architetto Mario Musumeci che nel 1842 introduce l’edicola
centrale in stile eclettico, è caratterizzato dal portico in pietra
bianca. L’edicola neogotica aveva funzione di Kaffee-haus è un
pregevole esempio del sincretismo artistico tipico nell’800.
Sembrerebbe, quindi, un chiostro monastico che dovrebbe indurre alla
meditazione e alla preghiera, in realtà è semplicemente un giardino
d’inverno dove si consumavano cioccolata, caffè, tè. Possiamo
immaginare che all’interno del chiostro i monaci si intrattenessero
e accogliessero gli intellettuali del Grand Tour, quali Goethe e
Brydone: quest’ultimo paragonò il monastero alla regia di
Versailles. Il primo piano del Monastero dei Benedettini, infatti,
veniva utilizzato come foresteria dai viaggiatori europei.
Chiostro
di Ponente
Il
secondo chiostro, a ponente, è il più antico. Il monastero
cinquecentesco si sviluppa attorno ad esso. Definito nel 1608 su
disegno dell’architetto Giulio Lasso, è caratterizzato dalla
presenza di una fontana in marmo bianco. Dello stesso marmo bianco
sono costituiti il colonnato del portico e le balaustre. Con il
terremoto del 1693 avviene il crollo del colonnato che pertanto verrà
successivamente rialzato. Dopo l’unità d’Italia il monastero
viene acquisito dallo Stato e ceduto al comune di Catania. Da questo
momento in poi il monastero di S. Nicolò l’Arena dovrà accogliere
diversi istituti scolastici, caserme, abitazioni di privati, palestre,
uffici e depositi vari, un Osservatorio Astrofisico, un Laboratorio di
Geodinamica: insediamenti che porteranno allo stravolgimento della
struttura originaria. Il chiostro dei Marmi diventa palestra a cielo
aperto a scapito della fontana che verrà distrutta. Proprio la
fontana attuale è infatti una ricostruzione avvenuta in tempi
recenti. Negli anni ‘70 un processo inarrestabile di degrado ha
portato l’amministrazione comunale catanese ad assumere la decisione
di donare all’Università quel che restava del glorioso monastero
benedettino. Dopo un concorso nazionale di idee conclusosi con la
mancata assegnazione del primo premio, l’Università ha assegnato
all’architetto Giancarlo De Carlo l’incarico di redigere un
progetto-guida per il recupero del monastero.
http://www.officineculturali.net/index.php?option=com_content&view=article&id=20&Itemid=33&lang=it
Il chiostro di Levante
Dalla
“Libreria” Benedettina alle Biblioteche Riunite "Civica e A. Ursino
Recupero"
Le Biblioteche Riunite "Civica e
A. Ursino Recupero” (e questo il nome assunto dall’Ente nel 1931),
occupano un ala del monumentale settecentesco ex-Monastero dei
benedettini che accoglie anche il Sacrario dei caduti e la chiesa di
San Nicolò. Il complesso monastico è sede anche del Dipartimento di
Scienze Umanistiche dell'Università degli Studi di Catania. Occupano
gli originali locali della Libreria benedettina, dell’ex-Museo,
della Sala Guttadauro, del Refettorio piccolo o Sala "rotonda", del
Corridoio dell’elefante, del Cellerario nella zona Nord del
Monastero per complessivi mq. 1540 al netto delle muratura. Nascono
dalla fusione della Biblioteca Civica (ex-Biblioteca dei Padri
benedettini, Congregazioni religiose catanesi soppresse, e
Biblioteca-Museo Mario Rapisardi) con la Biblioteca del Barone
Antonio Ursino-Recupero, giusta suo testamento del 27 marzo 1924,
comprendente circa 41.000 pezzi di carattere siciliano, nonchè con i
libri e i fondi che perverranno all'Ente stesso in dono o per
acquisto
Le due Biblioteche vennero
costituite nel 1931[1], in Ente Morale, abrogato e sostituito dal
nuovo Statuto con decreto del Presidente della Repubblica del 22
Maggio 1969 N. 594, e riunite di fatto sul finire del 1933. Il 28
ottobre 1934 ultimati i lavori di restauro degli ambienti, già sede
del Museo benedettino appena trasferito al Castello Ursino, con la
seconda e terza sala arredata da pregiate scaffalature bianche
settecentesche, e il "Refettorio piccolo" o di Grasso si riunirono
con il trasferimento della Ursino-Recupero presso la Comunale nel
1933, e la Biblioteca venne inaugurata nel 1934. La Biblioteca oggi
raccoglie, prevalentemente, materiale bibliografico di interesse
locale e siciliano, per oltre 270.000 volumi. Sono patrimonio della
Biblioteca, inoltre, codici miniati, manoscritti, pergamene,
incunaboli, cinquecentine, fogli volanti, disegni, giornali e
periodici. La Biblioteca ubicata presso un edificio incluso tra i
complessi monumentali della città, Patrimonio dell'Umanità
dell'Unesco oltre agli spazi dedicati alla lettura offre una vasta
gamma di servizi tra i quali informazioni bibliografiche, visite
guidate, tirocini e tirocini postlauream, manifestazioni culturali
di vario genere, convegni, eventi espositivi, etc..
Biblioteche "Riunite Civica e A.
Ursino Recupero" - Sala Vaccarini
Biblioteche Riunite "Civica e A.
Ursino Recupero" - Sala Vaccarini, Mostra Arte e Scienza
Biblioteche Riunite "Civica e A.
Ursino Recupero" - Sala Vaccarini, Affreschi
Biblioteche Riunite "Civica e A.
Ursino Recupero" - Sala Vaccarini
Patrimonio librario
Fondo Mario Rapisardi –
Biblioteche riunite civica ed Ursino Recupero
bibliotecario-agg. Federico De
Roberto
Il patrimonio delle Biblioteche
Riunite "Civica e A. Ursino Recupero" con oltre 270.000 volumi è
particolarmente ricco e vario in quanto costituito da codici e libri
che coprono i più svariati campi del sapere biblico, patristico,
liturgico, giuridico, letterario, artistico, scientifico, musicale e
con una notevole collezione di pergamene medievali, corali,
incunaboli, cinquecentine, erbari secchi (Sabbato Liberato) e
dipinti del ‘700, lettere e carteggi, stampe e fogli volanti,
periodici e giornali,disegni, fotografie,etc. Il fondo più ricco e
prezioso è tuttora quello dei PP. benedettini di San Nicolò l'Arena,
basti ricordare la Bibbia miniata latina dei secoli XIII - XIV del
Cavallini, l’Officium B.M.V. del XV secolo,il Salterio del XIII
secolo, il Martirologio del XIII secolo, il Calendario in caratteri
ebraici del Rabbino Emmanuel del XIII secolo, il De Priapea del XV
secolo redatto in scrittura crittografica. Al Fondo Ursino-Recupero
appartiene la Miscellanea di contenuto prevalentemente musicale, fra
cui Boethius, De musica, Modarius iuxta regulas artis musicae
secundum Guidonem, Marchettus de Padua, Lucidarium, Prosdocimus de
Beldemandis, De musica, datata 1478.
Possiede, inoltre, oltre 5.000
testate giornalistiche, in parte siciliane, e accoglie parecchi
fondi privati, tra i quali, il Fondo Ursino-Recupero e quello della
Biblioteca-Museo Mario Rapisardi, ricco di 3.565 volumi (manoscritti
e a stampa), 3.800 lettere, cimeli, quadri, mobili (che erano nel
suo studio). Dal 1931 ad oggi moltissimi altri fondi hanno
arricchito le Biblioteche Riunite "Civica e A. Ursino Recupero":
Vincenzo Giuffrida, Ursino Trombatore, Geraci, Saverio Fiducia, N.
Fallico, U. Galante, Scammacca, Giuseppe Perrotta, G. Mirone,
D'Alessandro Falzone, Lo Presti, Lorenzo Vigo-Fazio, Francesco
Granata, Giacomini, F. Pezzino, il carteggio Casagrandi, i disegni
di C. Sada, le carte rapisardiane di A. Tomaselli, C. Maugeri, E.
Ferrante, il fondo musicale del maestro Santonocito, G. Di Marco, G.
Benzoni, etc.
La Biblioteca Civica di Catania
si era formata dalla Biblioteca benedettina o Libreria dei PP.
cassinesi dell'Abbazia cassinese di San Niccolò l'Arena, un convento
benedettino, dalle Librerie delle soppresse Congregazioni religiose
catanesi e dalla Biblioteca-Museo Mario Rapisardi. La Biblioteca
benedettina, ricostituita dopo il terremoto del 1693, era stata
incamerata dal nuovo Regno d'Italia nel 1866, insieme a tutti i beni
ecclesiastici. La struttura divenne comunale nel 1869[2]. Nel 1893
fu nominato "bibliotecario onorario" Federico De Roberto, che
scrisse in uno scrittoio a schiena d'asino, ancora custodito nella
Guttadauro della Biblioteca, molte pagine del suo romanzo I Viceré.
Nel 1925 Giuseppe Villaroel ebbe dal comune l'incarico di
risistemazione del museo o "antiquarium comunale" e della
Biblioteca.[3]
(foto aerea di Salvo Olimpo)
La Biblioteca Benedettina o
"Libreria dei PP. cassinesi"
Il Fondo librario originario
delle Biblioteche Riunite Civica e A. Ursino Recupero, appartenne
all’ex-Monastero benedettino di S. Nicolò l’Arena e s’inquadra nel
movimento di rinnovamento promosso a Catania da Giacomo De Soris,
abate del suddetto convento nel secolo XIV. In seguito alle leggi
eversive (1866) la Biblioteca benedettina divenne Biblioteca
comunale e destinataria dei 20.000 volumi delle disciolte
congregazioni religiose catanesi (1868). Sfrattati gli altimi 46
monaci (1867), i libri rimasero in preda all’umido ed ai vandali
fino al 1872. Dal 1872 in poi ricomincia la rinascita della
Biblioteca.
La Biblioteca–Museo Mario
Rapisardi
Nel 1912, dopo la morte di Mario
Rapisardi, il Consiglio direttivo della Seconda Esposizione Agricola
Siciliana, acquisto dagli eredi, per donarli al Comune, libri e
cimeli del poeta. In sintesi: 3.565 volumi ed opuscoli con le sei
librerie a vetri che li contenevano (altre due saranno realizzate
successivamente); 3.800 lettere costituenti un nutrito carteggio; i
suoi manoscritti; lo scrittoio; una poltrona; mobili ed oggetti che
formavano il suo studio, compresi alcuni quadri ad olio. La raccolta
di Mario Rapisardi, fatta confluire, dall’Amministrazione Comunale,
nella biblioteca Civica, riunisce armonicamente le opere più
importanti non solo della letteratura italiana, delle letterature
antiche e moderne ma anche le opere più notevoli relative agli studi
filosofici, religiosi e politico-sociali che il poeta raccolse e
custodì con amore, nonchè altre opere inviategli in omaggio dagli
autori con dediche autografe - tra le quali si trovano quelli dei
maggiori letterati e scienziati del tempo. Nella Biblioteca di Mario
Rapisardi non figura alcun testo di diritto, pur essendo stato suo
padre un uomo colto e preparato, che esercitò la professione di
procuratore legale. Nel 1944, dal 25 al 27 febbraio, le Biblioteche
Riunite “Civica e A.Ursino Recupero”, hanno esposto una parte del
materiale “della Biblioteca-Museo di Mario Rapisardi” in una mostra
dedicata al grande “Poeta”, nel primo centenario della sua nascita.
Il Museo-Biblioteca Mario Rapisardi, ospitato nella sala
fronteggiante l’ex-museo benedettino, oggi ingresso della
Biblioteca, costituisce una importante sezione delle Biblioteche
Riunite sia per il valore dei libri rari e pregevoli, sia per
l'epistolario inedito, sia per le memorie di un nostro passato che
essi custodiscono. Il cospicuo fondo della Biblioteca–Museo Mario
Rapisardi e ricca di opere, per lo più letterarie e filosofiche, che
il poeta raccolse e custodi con amore.
Tra le edizioni rare, moderne e
antiche, ricordiamo le Opere latine del Petrarca, stampate a Venezia
nel 1503 da Simone da Pavia, detto Bevilacqua, e contenente infine
il Bucolicum Carmen, impresso anche esso a Venezia da Marco Horigano,
con la data errata 1416, che, probabilmente, va letta 1496. Del
Petrarca, inoltre, vi sono tre pregevoli edizioni cinquecentine
Sonetti e Canzoni, con la esposizione del Vellutello,Venezia 1563,
le Opere stampate a Basilea nel 1581 e la bellissima edizione di
Sonetti e Canzoni con la esposizione di G. A. Gesualdo, Venezia
1533. Delle altre rare edizioni segnaliamo le Opere di Machiavelli,
stampate a Roma nel 1550, la Gerusalemme Liberata, del Tasso, nelle
edizioni Napoli, 1582 e nell'altra di Genova del 1590 le Rime e le
Satire dell Ariosto, stampate a Venezia da G. Giolitto de Ferrari
nel 1567. L'Orlando Furioso, stampato pure a Venezia dal Valgrisi
nel 1580,e la rarissima edizione del Pontano,stapata a Basilea nel
1530,in 3 volumi l Opus macaronium del Folengo, stampata ad
Amstelodami nel 1768 e i due volumi Della Famosissima Compagnia
della lesina, stampati a Venezia nel 1767. Tra i classici latini e
greci spiccano tre incunaboli,stapati a Venezia le Opere di Ovidio
per Cristoforo de Pensis, nel 1498, la Farsaglia, di Lucano, coi
tipi del Bevilacqua, nel 1493, e le Opere di Orazio col commento di
Cristoforo Landino, nel 1493. Tra le cinquecentine citiamo le opere
di Cicerone, in caratteri aldini, l'Argonauta, di Valerio Flacco,
edita a Venezia nel 1501, le Noctes Acticae, del Gallio, stampate da
Sebastiano Grifo nel 1550, le Opere di Platone interpretate da
Marsilio Ficino, Lugduni, 1557, e poi ancora Rerum gestarum libri di
Ammiano Marcellino, nella edizione di Parigi del 1554, le Vite di
Plutarco, impresse a Basilea nel 1549, le Opere di Giovenale,
annotata dal Poliziano, Milano,1514, le Historiae di Tito Livio,
uscite dai torchi dell'officina Frobenia di Basilea nel 1535 etc.
La Biblioteca "Ursino-Recupero"
La Biblioteca "Ursino-Recupero"
rispecchia gli interessi politico-letterari del barone e conserva
testi siciliani ed in particolare catanesi, dalla fine del XVIII
secolo agli inizi del XIX. Molti di questi testi furono donati
personalmente dal barone e quindi sono autografi. Il fondo del
barone Antonio Ursino-Recupero e ricco di nove incunaboli e 316
cinquecentine, fra le quali ricordiamo De successione feudalium del
Cumia, al quale si deve l'introduzione della stampa a Catania.
Tra
le opere moderne ricordiamo Il Duomo di Monreale del Gravina con le
sue meravigliose tavole a colori e I Carbonari della montagna di
Giovanni Verga, stampati in quattro volumi a Catania, dalla
Tipografia Galatola, nel 1861-62.
Oltre ai circa 19.000 opuscoli,
alla raccolta di giornali catanesi e siciliani, ai fogli volanti,
notevole importanza per la storia locale i 621 manoscritti
inventariati dal Casagrandi e tra i quali figurano quelli di
Alessandro Recupero, Vito Coco, Domenico Tempio, venerando Gangi,
Giuseppe e Francesco Bertuccio, Vincenzo Bondice, Pasquale
Castorina, Francesco Strano, Domenico Strano, Carlo Gemmellaro etc.
Una collezione interessantissima di questa Biblioteca è costituita
infine dalla raccolta dei libretti delle opere liriche italiane
rappresentate a Catania nei primi decenni dell'800, nello scomparso
Teatro Comunale G. Coppola.
La Sala Vaccarini
La Sala Vaccarini o Libreria dei
PP. Cassinesi (Libreria dei monaci benedettini) progettata da
Giovanni Battista Vaccarini, a pianta ovale, arricchita da un
pavimento maiolicato, e da un soffitto affrescato, è completamente
arredata con scaffali contenenti libri rari e di pregio dei secoli
XVII-XIX. La sequenza degli spazi vaccariniani, dal corridoio del
Noviziato alla grande Biblioteca, è uno dei pochi esempi
dell’architettura del Settecento catanese in cui la libertà dalle
rigide regole trattatistiche, dalla simmetria e dalla staticità,
trovano espressione.
L'impianto originario, sia per esigenze
funzionali che per modesti adattamenti dei committenti, si
articolava in spazi segregati (cucina e museo) e in sequenze con
cerniera nell'antirefettorio (antirefettorio-refettorio grande,
ortogonale a questo capolino corridoio noviziato-antirefettorio-refettorio
piccolo-gabinetto padre La Via-libreria). Le mutate destinazioni
d'uso hanno portato ad una fruizione dinamica e articolata che
coinvolge tutti gli spazi.
La sala Vaccarini è l'unico ambiente del
monastero che si conserva pressochè integro nella configurazione
originaria (a parte la modesta modifica della scaffalatura dal lato
nord e la trasformazione in finestre dei balconi a ovest). Oltre la
conservazione degli elementi connotativi dello spazio si conserva
ancora il ricco e raro patrimonio librario.
Agli scaffali curvi nei
quattro angoli della sala è affidato il compito di fare scivolare lo
sguardo da una parete all'altra conferendo dinamicità a tutto
l'impianto. La splendida libreria o Sala Vaccarini ci piace
immaginare che sia stato F. Fichera, nel febbraio del 1915, nel
celebrare il 147° della morte del Vaccarini oltre alla lapide e al
busto abbia battezzato la vecchia libreria benedettina dedicandola
all'amato architetto.
Biblioteche
Riunite Civica e Ursino Recupero
Via Biblioteca, 13, 95124 Catania (CT) tel: 095 316883 fax. 095 316883
Biblioteca
Ursino Recupero, la battaglia di Rita Angela Carbonaro. “Ci
vuole amore e dedizione”
Rita Angela Carbonaro è
decisamente una persona forte. Bisogna esserlo
necessariamente se si vuole tenere viva una biblioteca che
ha rischiato la chiusura. Animata da una grande passione per
i libri e per la cultura in genere, la direttrice di una
delle più grandi biblioteche catanesi, è riuscita a
resistere da sola contro la crisi e un sistema andato in
tilt. Dal 2009 la direttrice Carbonaro è rimasta l’unica
dipendente, da quando gli ultimi due dipendenti sono andati
via per i pagamenti radi. Senza aver percepito lo stipendio
per anni, “Non ricordo più nemmeno per quanti anni” confessa
la Dott.ssa Carbonaro, rimasta l’unica nelle grandi sale
della Ursino Recupero, occupandosi pure delle pulizie della
struttura, con dedizione e molta buona volontà sta portando
avanti la sua battaglia per la salvaguardia della
biblioteca. Mi mostra quasi con affetto materno lo stato dei
lavori di restauro nella Sala Vaccarini, realizzati tramite
i fondi europei POR che finiranno a dicembre 2015, in cui ha
ideato una libreria-ponteggio che “senza spostare i libri
dalla loro consueta collocazione permette ai ragazzi
dell’azienda di Acireale, vincitrice del concorso per le
opere di restauro, di svolgere tranquillamente il loro
lavoro. Mi hanno chiesto se avevo brevettato questa
libreria-ponteggio in modo da poterla usare in altre
biblioteche”.
Ma come riesce ad andare
avanti una biblioteca quasi senza fondi? “Intanto adesso si
sta estinguendo il debito con le liquidazioni degli ex
dipendenti (il trasferimento dei fondi era fermo dal 2008 e
c’era un arretrato di pagamenti pari a 1,3 milioni), poi la
Multiservizi ha mandato una persona per le pulizie delle
sale. Anche se al momento sono ancora l’unica dipendente,
vengo ogni mattina alle 06:45 ad aprire la biblioteca, ci
vorrebbero almeno altri tre dipendenti a tempo indeterminato
per i lavori di catalogazione e digitalizzazione. Ci sono sì
i tirocinanti non solo della Facoltà di lettere e filosofia,
ma anche di altre facoltà dell’ateneo, ma quando apprendono
la meticolosità e l’impegno in questo lavoro hanno già
finito le ore di tirocinio e bisogna ricominciare daccapo.
Però non mi lamento, siamo riusciti con varie donazioni
private, con le visite guidate e le mostre allestite ogni
mese a rilegare e salvaguardare tanti volumi. Inoltre non
avendo a disposizione fondi per l’acquisto di nuovi libri,
molti autori ed editori ci stanno aiutando a restare
aggiornati donandoci le loro nuove pubblicazioni. Quello che
mi auguro è la digitalizzazione di tutto il catalogo della
biblioteca, in modo che anche a distanza tutti possano
sfogliarli”.
https://lurlo.news/biblioteca-ursino-recupero-la-battaglia-di-rita-angela-carbonaro-ci-vuole-amore-e-dedizione/
Il 3 maggio del 1787 lo
scrittore tedesco J.Wolfgang Goethe, dopo essere stato ricevuto a Palazzo
Biscari ed aver visitato il museo,viene condotto dall'abate al Monastero dei
Benedettini. Nel diario di quel giorno,Goethe parla delle lave del 1669 e si
informa come poter salire sull'Etna. Non so quali banchi lavici abbia visto in
zona ma sicuramente avrà visto il banco lavico sul retro del monastero che nel
1669 rischiò di seppellire il cenobio .......ma leggiamo la sua cronaca
-Dopo questa visita, l'abate ci condusse al Convento dei Benedettini, nella cella d'un monaco, la cui fisionomia,
triste per l'età non avanzata e tutta chiusa in sé, non prometteva troppo
gioconda conversazione. Ebbene, era costui l'uomo di multiforme ingegno,l'unico
che sapesse domare l'organo immenso di quel duomo. Come ebbe indovinato, più che
inteso,il nostro desiderio, lo volle soddisfare, in silenzio:ci siamo recati
nella chiesa, che, pur essendo molto vasta, egli, trattando il mirabile
strumento, seppe riempir tutta quanta fino agli angoli più remoti, facendovi ora
spirare i singhiozzi più lievi,ora echeggiare i tuoni più possenti.
Chi non avesse già visto
prima quell'ometto,avrebbe dovuto credere che solo un gigante fosse capace di
tanto impeto;ma noi che già lo conoscevamo di persona, non potemmo meravigliare
che d'una cosa:che non abbia dovuto soccombere già da tempo, in una simile
lotta.
Poco dopo il nostro
pranzo, è venuto a prenderci l'abate con una carrozza, per farci vedere il
quartiere più eccentrico della città. Nel momento di salire in vettura, si è
svolta una curiosa disputa d'etichetta. Io ero salito per primo e stavo per
prender posto a sinistra quando egli, salendo alla sua volta, volle
espressamente che mi scomodassi e che lasciassi la sinistra a lui.Lo pregai di
lasciar da parte queste cerimonie. Ma:<<Scusate>> mi disse <<facciamo così,
perché se io mi metto alla vostra destra, la gente crederà che io vada a spasso
con voi;se invece mi metto alla sinistra, è convenuto che voi venite con me, e
che io vi faccio veder la città in nome del principe >>.Non c'era da replicare e
così fu.
Così salimmo per certe
vie,dove la lava ,che nel 1669 distrusse gran parte della città, è ancora
visibile ai giorni nostri. Il torrente igneo, irrigidito, è stato trattato come
una roccia qualsiasi:vi hanno tracciato sopra la pianta delle vie, alcune in
parte anche costruite.Ne ruppi un pezzo di indubbia fusione, ricordando che
prima della mia partenza dalla Germania, la discussione circa la natura
vulcanica del basalto s'era già accesa.E lo stesso feci in vari punti, per
ottenere più d'una varietà.
Ma se gli indigeni
stessi non amassero il loro paese e non si fossero dati la pena di raccogliere,
o per guadagno o per amor della scienza, quel che v'è di notevole nella loro
regione, il viaggiatore avrebbe un bel torturarsi il cervello. Già a Napoli, il
mio negoziante di lava m'era stato di non poco aiuto;più ancora e in un senso
più elevato, qui a Catania, il cavaliere Gioeni. Nella sua copiosa collezione,
disposta con rara eleganza, ho visto le lave dell'Etna, i basalti che si trovano
a pie' del vulcano e pietre di varia composizione più o meno facili ad essere
identificate. Tutto mi è stato mostrato con la più grande amabilità .Quel che
più destò la mia ammirazione furono certi zooliti provenienti dagli scogli
dirupati che sorgono dal mare di Jaci.
Domandammo al cav.
Gioeni quale fosse il modo migliore per accingersi a un'ascensione sull'Etna;ma
egli non volle sentir parlare nemmeno d'un tentativo per raggiungere la
vetta,specie in questa stagione.
<<I forestieri in
generale >>così disse,non senza chiederci scusa, <<prendono la cosa troppo alla
leggera; quanto a noi,nati al piede della montagna, ne abbiamo abbastanza
se,approfittando della migliore occasione, riusciamo a toccar la cima due o tre
volte in tutta la vita. Il Brydone istesso, che con la sua descrizione ha acceso
per primo il desiderio di contemplar da vicino il cono infuocato, non l'ha
raggiunto affatto;Il conte von Borch lascia in dubbio il lettore, ma anche lui
non si è spinto che a una certa altezza; così potrei affermare di più d'uno.Per
il momento, la neve è scesa troppo giù e presenta ostacoli insormontabili. Se
volete seguire il mio consiglio, spingetevi domani di buon'ora, coi muli,fino
alle falde dei Monti Rossi,e salitene poi la sommità;di lì godrete uno
spettacolo superbo e osserverete nel tempo stesso la vecchia lava, che,
scaturita in quel punto nel 1669,si è precipitata sciaguratamente sulla città.
La veduta è magnifica e ben distinta .Quanto al resto, è meglio sentirlo
raccontare>>.
(J.W.GOETHE)
Grazie a Milena Palermo.
Il
Giardino
dei Novizi
Il
“Giardino dei novizi” è l’ala verde destinata allo svago dei
giovani novizi che risiedevano nel corridoio adiacente. Costruito a
partire dal 1739 dall’architetto Vaccarini, sorge sulla lava del
1693 così come tutta la seconda ala del monastero. Vaccarini,
infatti, non potendo eliminare l’enorme banco lavico, che proprio in
questa zona ha fatto rialzare il livello del suolo di circa 10- 15
metri, decide di sfruttarlo costruendo su di esso. In questo modo,
realizzando un solo piano riesce addirittura a ricreare lo stesso
ordine architettonico della prima ala del monastero costituita da un
pianterreno, un primo piano e un secondo piano.
Dopo la confisca del monastero, il giardino dei novizi diventerà una
palestra a cielo aperto utilizzata da diversi istituti scolastici.
Quando poi nel 1977 il monastero viene ceduto alla Facoltà di Lettere
e Filosofia, il giardino verrà riprogettato dall’architetto
Giancarlo De Carlo, il quale inserisce elementi nuovi, ovvero le
ciminiere della centrale termica che si trova sotto il giardino e la
fontana.
Alla fine del pergolato è presente una struttura che dall’aspetto
sembra debba aver avuto funzione religiosa: in realtà è un semplice
vespasiano esterno.
Le
Cucine
Le
cucine vengono costruite a partire dal 1739 dall’architetto
Vaccarini.
Al centro dell’ambiente si trova una Tribuna contenente il grande
fornello utilizzato per la cottura e alimentato dal vano sottostante.
Le pentole venivano fatte poggiare su una lastra di metallo e spostate
attraverso un sostegno agganciato alla struttura posta all’interno
della Tribuna stessa.
A PROPOSITO DI
CUCINA......
La comunicazione tra la cucina e il grande refettorio avveniva
attraverso il vano passavivande che si trova sulla parete sinistra
della stanza.
Ai lati della stanza sono presenti quattro aperture nel pavimento, tre
circolari,una rettangolare. Quest’ultima conserva la scala
utilizzata per accedere al ventre delle cucine.
Le aperture circolari avevano la funzione di mettere in comunicazione
le cucine con i magazzini delle derrate alimentari.
Le strisce di cemento che vedete per terra servono ad indicare cosa
accade qui a partire dal 1890. Le cucine diventano sede del
laboratorio di geodinamica, che si occuperà di controllare e studiare
i movimenti della terra. Il laboratorio ha bisogno di spazi per creare
degli uffici questo comporterà lo stravolgimento delle cucine: la
copertura viene demolita e sostituita, a una quota più bassa di ben
due metri, da volte portanti; il grande vano quadrato viene tagliato
in quattro porzioni da una croce di muri ed archi; alcune finestre e
porte sono murate; i vani adiacenti modificati così da potere
accogliere le scale per scendere nello scantinato e per salire nella
specola, la cupola contenente il grande equatoriale che consentiva l’osservazione
astronomica.
Sul finire del secolo scorso, finalmente, ha inizio il recupero
condotto dall’Architetto De Carlo con l’Ufficio Tecnico dell’Ateneo.
Il giardino dei Novizi
IL
BAROCCO A CATANIA
Fin
dall'epoca normanna i monaci benedettini risiedevano nei cenobi di .
Leone, di . Maria di Licodia e di S. Nicolò dell'Arena, situati nelle
belle conuade boscose per cui si ascende al vulcano, e possedevano
anche una piccola residenza nella città di Catania. Nel 1536 furono
obbligati a un forzato trasloco in città a causa dell'eruzione
dell'Etna che aveva sommerso il cenobio di S. Leone e gravemente
danneggiato quello di S.
S. Nicolò dell'Arena. Scelto quindi un luogo tra i più belli e
salubri, per la vista mirabile che si godeva e l'aria marina che si
respirava, si diedero a edificare nell'anno 1558 un nuovo grandioso
monastero sull'acropoli di Catania, nella contrada allora denominata
de la Cipriana e de lo Parco, un' area densa di vestigia di epoca
greca e romana. Il convento fu dotato di acquedotto e arredato di
affreschi e di quadri, di statue e di una monumentale fontana al
centro del chiostro circondato da peristilio con 52 colonne di marmo.
QueSto primo monastero fu parzialmente invaso dalla lava del 1669 e
distrutto dal terremoto del 1693.
Per una visione
complessiva dell'attuale monastero, ricostruiro e ampliato nel
Settecento, conviene ascendere verso la cupola della chiesa di S.
Nicolò. Il convento si distende sotto gli occhi come un'immensa mappa
in plastico rilievo. Ecco il terro della chiesa, limitato verso la
facciata dalle ciclopiche mura che avrebbero dovuto sostenere il
maestoso frontone incompiuto. Ecco l'ininterrotta sequenza di
fabbricati che furono magazzini, officine e scuderie. Ecco il chiostro
di levante e quello di ponente. Più in là il giardino dei novizi e,
in fondo, il refettorio, il museo e la biblioteca nuda e isolata.
Ma occorre scendere dalla cupola per ammirare da vicino il regale
prospetto di mezzogiorno, modello del barocco catanese, che lo storico
dell' arte ,Vito Librando cosÌ descrive: Scarto cci, figure,
mascaroni e pottini, doviziosi frutti di un fantastico repertorio, mai
stanchi anzi sanguigni e vitali, inferiori soltanto a quelli che si
allargano scenograficamente nel palazzo Biscari, ma di esito
architettonico più imponente e suggestivo, per le paraste dell'ordine
gigante bugnate a punta di diamante e per il vigoroso cornicione,
esempio senza uguale di un gusto barocco debitore della tradizione
manieristica, cos" diffu50 e persistente nella fascia orientale
dell'isola.
Guardando tanta estensione di fabbriche e camminando per i corridoi
che attraversano le vaste ali dell'edificio, segnando con limpida
geometria i percorsi interni fiancheggiati dai chiostri e dalle
confortevoli celle allineate verso le facciate, viene tuttavia di
pensare quanto solitario dovette essere l'immenso convento per i suoi
ottanta residenti, tra padri, novizi e fratelli, quanto malinconici
dovettero risuonare i loro passI nei lunghi corridoi. Erano nobili
quei padri e quei novizi, cadetti delle famiglie aristocratiche
siciliane. I costumi del tempo li avevano costretti a convenire in
studio e meditazione una vita nata libera. E se la vocazione non
c'era, e il più delle volte non c'era, quale soffocante gabbia quella
dimora di principi!
Toccò all'architetto Giambattista Vaccarini realizzare nel 1739
1'espansione del monastero verso Nord, con il grande refettorio, la
nuova cucina, il museo e la biblioteca. Lavori imponenti che
documentano un modo diverso di ripartire gli spazi interni, anche
tramite l'arredo che ancora si conserva nell' antirefettorio
nobilitato da stucchi e nel salone affrescato della biblioteca. I
preziosi armadi intagliati conservano importanti pergamene dell' epoca
normanna, vari codici, una Bibbia del Trecento stupendamente miniata,
manoscritti, incunaboli, cinquecentine e numerose opere rare e
pregevoli, nonché una ricca collezione di giornali e periodici.
Toccò invece al Battaglia nel 1747 la costruzione del ponte che
collegava il monastero con il vasto giardino, oggi occupato dagli
edifici dell' ospedale Vittorio Emanuele. Don Francesco Paternò
Castello, VII duca di Carcaci, cosÌ scriveva nel 1841: la villa
occupa estensione di canne 2800 quadre di terreno e vi si trova tutto
ciò che l'arte ha saputo ideare per rendere gai e variati simili
luoghi, come fontane, viali, sedili, uccelliere e pergolati. Ma ciò
che destar dee sorpresa maggiore si è appunto la posizione
topografica del terreno. La lava del 1669 in questo punto si alza
quasi a picco sopra base larghissima sino al livello del secondo piano
dell'edificio; l'arte profittando della circostanza rafforzò con mura
il contorno, appianò la superficie coprendola di terra vegetale, onde
le piante vi potessero mettere liberamente, e così formare una specie
di orto pensile simile a quei che leggiamo descritti nelle antiche
storie, e che si noveravano fra le maraviglie dei tempi di allora.
Il chiostro di Levante
Nel 1755 i benedettini vollero arricchire la chiesa con un organo
maximum et mirabile che il monaco Donato Del Piano realizzò in dodici
anni di lavoro. Le sue note delicate o possenti, che imitavano
esattamente i suoni di tutti gli strumenti a fiato, a corda e a
percussione, penetrando negli angoli più remoti della chiesa,
stupirono persino lo smaliziato Goethe. Oggi, privo delle 2916 canne,
mostra solo la splendida cornice rococò.
Gli ultimi episodi dell'impegno costruttivo dei benedettini, durato,
attraverso travagliate vicende, quasi tre secoli, furono la grande
meridiana intarsiata sul pavimento marmoreo della chiesa, che misura
il mezzogiorno astronomico di Catania con l'approssimazione di meno di
un secondo, e l'arredamento del chiostro di levante con un tempietto
in stile neo-gotico, forse estraneo all' ambie-nte classicheggiante ma
certamente di gradevole effetto.
Ammirato dai visitatori il monastero dominava entro la cinta delle
mura e condizionava la vita religiosa, culturale e civile della
città. Era un Regio Palazzo, e come tale poteva fregiarsi del simbolo
regale delle catene di ferro poste all'ingresso. I benedettini
catanesi nel corso dei secoli hanno occupato posizioni di rilievo
nella regia UniversitLeJlellcdott~socleJ~ europee, nelle curie e nelle
corti. Tra loro, l'eminentissimo cardinale Giuseppe di Primo che
svolse un ruolo decisivo nella fondazione del Siculorum Gymnasium, e
il venerabile cardinale Giuseppe Benedetto Dusmet, che prima della
nomina a vescovo di Catania fu l'ultimo abate del monastero. I monaci
vi risiedettero fino al 1866, l'anno della soppressione dei benefici
degli ordini religiosi. Tre anni dopo ospitava caserme e istituti
scolastici, ed ebbe cosÌ inizio un lungo periodo di degrado. Quando
nel 1894 Federico De Roberto pubblicò il romanzo I Vicerè, con la
minuziosa descrizione dello stato di abbandono del monastero, il
Municipio di Catania manifestò per la prima volta l'intento di
donarlo all'Università, ma si dovrà giungere fino al 1977 per il
trasferimento di proprietà.
Oggi l'antico monastero è sede della Facoltà di Lenere e Filosofia,
destinazione culturale corrispondente alla dignità altissima del
complesso monumentale. Grandi lavori di restauro sono stati avviati, e
già restaurati sono la maestosa scalinata di accesso al piano nobile,
il quartiere dell'abate, ora sede della Presidenza della Facoltà, e
il grande refettorio trasformato in aula magna.
La fabbrica del monastero vedrà l'inizio del nuovo millennio con quel
fervore di attività che fu caratteristico del Settecento.
Emanuele
Maccarone - Catania in controluce - Lyons Club Catania Bellini - ed-
Greco
A
causa del terribile terremoto del 1693 (che colpì, soprattutto, la
Val di Noto), della città di Catania rimaneva assai poco: il Castello
Ursino, fortezza medievale, e tre navate della cattedrale (la leggenda
narra che la città sia stata distrutta per ben sette volte dai
terremoti nel corso della sua storia). Il resto se non fu distrutto
dal terremoto lo fu dalla ricostruzione successiva (chiese e conventi,
monumenti, palazzi pubblici e privati). Con la riedificazione si
operò sull’assetto urbanistico della città. Furono allargate le
strade che si incrociavano con un gioco di vaste piazze, utilizzate a
scopo monumentale e come eventuali aree antisismiche. Il costo diverso
dei terreni, a secondo la zona, portò alla creazione di due grandi
quartieri, uno nobile, l’altro più popolare, divisi tra loro dalle
attuali vie Vittorio Emanuele II a sud e Santa Maddalena a est.
La ricostruzione di Catania, supervisionata dal Vescovo della città,
fu portata avanti dall’unico architetto rimasto vivo dal terremoto,
Alonzo di Benedetto, insieme ad altri tecnici provenienti da Messina.
Tra le diverse aree importanti della città, ci si dedicò,
soprattutto, sulla Piazza del Duomo. Tre edifici la delineavano: il
Palazzo Vescovile e il Seminario dei Chierici a sud, il Palazzo degli
Elefanti a nord (che sostituisce l'antica Loggia medioevale) e ad
ovest il Palazzo Pardo Sammartino. Lo stile architettonico utilizzato
si ispirava allo stile siciliano del XVII secolo, forse troppo
scontato e superficialenell’esecuzione, anche se nel Convento dei
PP. Gesuiti, si ha un influsso neoclassico, ripreso dall’architettura
europea del periodo.
Tutto ciò fino al 1730, quando viene nominato architetto della città
Giovan Battista Vaccarini, che con il suo arrivo dà un’impostazione
più ardita e personale. Egli si rifà al Barocco romano: I pilastri
reggono cornicioni del tipo romano ed un fiorire di timpani
tradizionali e curvilinei, trabeazioni, e colonne a tutto tondo che
sostengono balconi più mossi. Il materiale lavico proveniente dalla
zona, pur utilizzato nella costruzione precedente, inizia a
colloquiare con altri materiali come elemento decorativo. Davanti al
nuovo Palazzo di Città viene eretto l’obelisco posto sul dorso
dell'Elefante, ispirato alle fontane romane del Bernini, che diverrà
il simbolo di Catania. La stessa Cattedrale di Sant’Agata acquisisce
una facciata in uno stile proprio del Barocco siciliano, proprio del
XVIII secolo nell’Isola. La stessa ispirazione si coglie nella
Chiesa della Collegiata, costruita intorno al 1768 dall’architetto
Stefano Ittar.
Tra gli architetti che hanno aiutato la città a risorgere dalla
distruzione, dandogli una rara impronta barocca, possiamo citare,
oltre i già citati Alonzo di Benedetto e Giovan Battista Vaccarini,
anche Francesco Battaglia, Stefano Ittar e Girolamo Palazzotto.
http://www.celeste-ots.it/celeste_files/catania/catania_6.htm
La salita di Via Antonino di
Sangiuliano
LA
PASSEGGIATA
tratto da "Un bellissimo novembre " di Ercole Patti
-Quando, dopo di aver richiuso con molti giri di chiave la porta, averci messo
il grosso catenaccio, uscirono mancava ancora molto tempo all'inizio dello
spettacolo al Teatro Massimo.
Attraversarono piazza del Carmine ingombra delle foglie di cavolo e di altre
verdure del mercato che c'era stato la mattina, imboccarono la via Pacini le cui
lastre di lava erano ancora tiepide del sole della giornata. Sebbene si fosse
quasi a metà novembre a Catania faceva ancora caldo come in estate, si
incontrava gente in maniche di camicia.
Per ingannare il tempo lo zio li condusse a prendere un gelato alla Birraria
Svizzera.
Seduti a un tavolino sul marciapiedi prendendo il gelato stettero a guardare la
gente che passava per via Etnea:giovanotti in maglietta e signori anziani con
tremolanti e trasparenti giacchette di alpagas nero come se l'estate fosse
cominciata allora.
....Poi si avviarono a piedi verso il teatro. Percorsero la via Etnea già
affollata, attraversarono la Porta di Aci col monumento a Bellini seduto su una
Savonarola, con due piccioni sulle braccia e uno sulla testa.
La zia e la madre si fermavano alle vetrine mentre Nino e lo zio le aspettavano
un po' più in là.
Passarono accanto allo sbocco di via Montesano davanti alla chiesa dei Minoriti.
Nino si ricordò di quel pomeriggio nel salottino di quella casa quando lei gli
si era strofinata sul ginocchio. Adesso dopo quello che era accaduto aveva la
prova definitiva che quella volta lei era veramente eccitata e si era
abbandonata di proposito su di lui ; questo pensiero gli acuì un pensiero
retrospettivo e gli fece ancora pensare a lei che andava avanti con la madre
camminando con mollezza, fermandosi alle vetrine, come cosa sua,come scopo che
gli apparteneva con cui avrebbe fatto ancora all'amore tante volte, per tutta la
vita.
Ai Quattro Canti imboccarono la via Lincoln (odierna Sangiuliano).Al negozio
d'angolo la madre si fermò davanti a una mostra di camiciole da ragazzo a prezzi
di liquidazione. Nino interpellato ne trovò una a strisce bianche e blu di suo
gusto.
Alla zia Cettina quella maglietta piacque molto. Entrarono tutti a comprarla
mentre lo zio faceva premura perché ormai l'ora dello spettacolo era vicina.
Percorsero via Lincoln un po' desolata in quella luce pomeridiana, costeggiarono
il terrapieno del giardino pensile del palazzo Manganelli, voltarono per via
Michele Rapisardi e finalmente arrivarono davanti al Teatro Massimo. -
UN CARCERE DIMENTICATO AI
MINORETELLI
Siamo in via G.Clementi ,quasi di
fronte l'ospedale Santa Marta ,nella zona un tempo denominata di
"San Cataldo"poiché vi sorgeva una chiesa preesistente al terremoto
del 1693 dedicata all'omonimo Santo e a Santa Barbara dei Casalenis
.La chiesa andò distrutta dal devastante terremoto ma nello stesso
sito ne fu subito ricostruita un'altra dai fedeli sopravvissuti
anche se fu completata quando fu affidata ai Chierici regolari
Minori di San Francesco Caracciolo o Minoriti già presenti in San
Michele Arcangelo. Da quel momento la chiesa prese il nome di
Immacolata Concezione ai Minoritelli.
Ma questa struttura religiosa
conserva al suo interno un sito ben più antico e di estrema
importanza seppur caduto nell'oblio del disinteresse generale. Ma le
"pietre " raccontano e così un osservatore attento può già intuire
la radice storica e religiosa del sito dai pochi indizi ben visibili
attorno all'edificio.
È quindi ben visibile all'esterno
accanto alla chiesa un arco a sesto acuto probabilmente di epoca
medievale, a ricordare il sito di San Cataldo mentre sulla facciata
laterale della chiesa è possibile leggere la storia che si nasconde
al suo interno attraverso la segnalazione di un carcere dove furono
tenuti prigionieri i tre fratelli martiri Alfio,Cirino e Filadelfo.
Ma ciò che più sorprende entrando
in chiesa ,è un altare posto a sinistra dell'ingresso ,interamente
dedicato ai tre fratelli martiri attraverso tre statue lignee ad
altezza d'uomo che li rappresentano, una tela che li raffigura,ed
incastrata sul muro una grande lapide datata 1716 su cui si legge in
latino :
"Sanctorum Alphi, Philadelphi et
Cyrini carcer anno CCLIII "
(Il carcere dei Santi Alfio,Filadelfo
e Cirino -l'anno 253)
Ai piedi di tale lapide una
grata sul pavimento conduce in un sito di epoca romana dove secondo
la tradizione agiografica, furono tenuti prigionieri i tre fratelli
martiri Alfio, Cirino e Filadelfo durante il viaggio da Trecastagni
a Lentini dove subirono il martirio il 10 maggio 253 .
Da tutto ciò si ricava che ben
due chiese sorsero in un sito di epoca romana a quanto pare di
estrema importanza ma poco conosciuto,poco valorizzato e soprattutto
su cui si è poco indagato e mi sembra il minimo quantomeno renderlo
noto ai catanesi
Nelle foto ho cercato di creare
un collage per mostrare le parti più interessanti del sito
archeologico dei Minoritelli
Milena Palermo per
OBIETTIVO CATANIA
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