Imboccata la via Etnea e superata piazza Duomo, dopo poche decine di
metri, si apre subito la spaziosa Piazza Università che è protetta
ai lati da due mastodontici palazzi in barocco: il Palazzo Centrale
dell’Università e il Siculorum Gymnasium.
Si tratta di edifici adoperati come sede del rettorato e di alcuni
istituti dell’ateneo di Catania: ospitano, infatti, le aule in cui
vengono svolte le lezioni di letteratura, filosofia e storia.
Entrambi furono costruiti prima del XVIII secolo, anche se a seguito
del terremoto del 1693 sono stati ristrutturati ad opera di architetti
del calibro di Giovanni Battista Vaccarini e Francesco e Antonino
Battaglia. Particolari della piazza sono anche i lampioni che la illuminano e che
raffigurano quattro episodi tratti da alcune vecchie leggende
popolari: quella di Colapesce, di Gammazita, Uzeta e dei Fratelli Pii.
I
QUATTRO
LAMPIONI DELLA PIAZZA
Nella
bella piazza dell'Universita', Catania ha voluto raffigurare nel
bronzo del basamento dei quattro candelabri che adornano e illuminano
la piazza, opera dello scultore catanese Mimmo Maria Lazzaro, quattro
episodi mitici, della tradizione cittadina.
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Sul basamento del candelabro posto a nord-est e ricordato
l'eroismo dei
pii fratelli Anapia e Anfinomo.
Una notte L'Etna incomincio' a tuonare e vomito' un fiume di lava che tutto
travolgeva nella sua discesa verso il basso. La gente fuggiva
terrorizzata. Solo i due
giovani procedevano lentamente sostenendo gli anziani genitori
che li seguivano a fatica. I
due fratelli si fermarono sbigottiti e levarono al cielo una
muta preghiera. E prodigiosamente la colata lavica si sperse
in due e i due fiumi ardenti proseguirono la loro corsa
rovinosa lasciando libera una striscia di terra su cui i due
fratelli proseguirono fino a raggiungere Catania |
Nel candelabro di nord-est e rappresentata la storia di
Uzeta,
un giovane popolano catanese che si innamoro' della bellissima
figlia del re Cocolo, di nome Galatea. Ma la principessa lo
respinse, indignata solo all'idea di sposare un pitocco. Uzeta
per essere degno dell 'amore di Galatea compì tante di quelle
imprese eccezionali
che riuscì
a diventare cavaliere di Federico II per la sua bravura.
Quando gli venne chiesto di combattere contro gli Ursini,
giganti saraceni, accettò e vinse. Dal nome dei giganti
sarebbe derivato quello del Castello al centro del capoluogo
etneo.
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Nel candelabro di sud-ovest e' esaltato il sacrificio della
bella virtuosa
Gammazita.
Promessa ad un giovane catanese, ai
tempi della dominazione francese in Sicilia, la ragazza era
corteggiata da un giovane provenzale, la cui proposta di nozze
aveva respinta. Il giorno delle nozze, mentre Gammazita era
sola presso il pozzo nell 'orto il provenzale tento' di
rapirla. La ragazza, non trovando altra via di scampo, per
sfuggire al manigoldo si butto' nel pozzo.
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L'eroe del quarto candelabro è il leggendario
Colapesce, un
vigoroso pescatore che trascorreva la sua vita sempre nel mare
. Capitato a Messina il re del tempo, mise alla prova il
pescatore. Questi esegui tutti gli ordini che il re gli diede, finche' questi non ancora contento, gli ordino' di raggiungere
il centro dello stretto di Messina. Quando il giovane
raggiunse il fondo i gorghi ribollenti del mare presentarono
uno spettacolo tanto affascinante, che egli non ebbe la forza
di staccarsene, e mori' miseramente affogato .
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FASTI E DECADENZA DI PIAZZA
UNIVERSITA’
Cominciamo, intanto, da questo,
che mentre la decadenza della piazza ebbe inizio nella prima dècade
del secolo attuale con lo spostamento del centro cittadino verso
nord e nord-est, i fasti furono della seconda metà dell'Ottocento e
precisamente dal '70 in poi; allorché per volontà di amministratori
giovani e che all'occasione sapevano andare controcorrente e sapevan
tenere duro, essa, da < fiera del lunedì » venne elevata al rango di
piazza elegante e signorile, trasformata in salone da concerti e
talvolta anche in teatro; tutto per l'elevazione spirituale del
popolo. Difatti, tre volte la settimana vi suonavano la banda
municipale e quella militare, e in agosto, durante le feste estive
agatine, vi si svolgeva il cosidetto dialogo, l'audizione cioè di
oratorii sacri o addirittura di melodrammi nei quali, come per
Giuditta di Pacini - un esempio - la musica veste di note un
soggetto che con l'oratorio sacro ha molte affinità. Ma v'è di più;
spesso il dialogo di piazza Università fu qualche cosa come un
teatro sperimentale riserbato a musicisti giovani catanesi, e grazie
a tale nobilissima iniziativa affrontarono la prima volta il
giudizio del pubblico Francesco Paolo Frontini e Filippo Tarallo,
due musicisti di diversa statura per gli sviluppi in seguito presi
dalla loro arte, il secondo quasi del tutto dimenticato.
Credo che il mio primo ricordo
della piazza sia legato a uno di questi dialoghi; e come i lontani
ricordi dell'infanzia sfumano quasi sempre nella dolce inconsistenza
dei sogni, pensandovi, un sogno mi sembra: il palco per i cantanti e
i musici, tutto vivaci colori, addossato al palazzo dell'Università;
la piazza sfolgorante di luci; la folla in parte seduta, in parte in
piedi, stipata fin nelle strade che nella piazza sboccano; la
musica; le belle voci; gli applausi! Basta pensare alla passione dei
catanesi d'allora per la lirica, per arguirne che quelle audizioni
dovevano essere eccellenti, e io di una ho particolare ricordo,
giacché ero giovinetto, quella del 1896, nella quale cantarono gli
artisti del « Bellini », poco avanti impegnati in Otello e Aida la
triade Zilli, Avedano, Minotti, tre celebrità.
Quella dei dialoghi e dei
concerti era veramente l'ora di bellezza per la piazza Università;
armoniosa piazza, quadrata, regolare, senz'altre incrinature
architettoniche che il palazzo d'angolo a sud-est. Si sa che i due
palazzi La Piana e Gioeni appartengono al periodo aureo del barocco
catanese: quello nato dal cataclisma del 1693; che a tale periodo
apparteneva fino al 1818, anno di un altro terremoto non meno
violento, sebbene meno disastroso, e che l'attuale facciata
neo-classica è un rifacimento, imponente ma non compiutamente
felice, di quella settecentesca; che al medesimo neo-classico,
infine, si ispirano il fronte a tramontana del palazzo del Comune e
il palazzo ex Sangiuliano; del quale ultimo, tra parentesi, soltanto
il partito centrale, firmato da Vaccarini, è settecentesco. Con
tutto ciò, pur mancando la piazza divinità stilistica, la sua
bellezza è sovrana; con questo in più: che non si sa per quale
misteriosa circostanza, certamente non prevista, l'acustica ne è
perfetta; sicché ai fini di quel suo ruolo di salone di concerti per
il popolo tenuto per decenni, essa era un vero e proprio teatro
all'aperto. Ed ecco perché la declassazione odierna da piazza a
posteggio di auto, ci riempie di malinconia.
Di essa esistono non poche
fotografie scattate negli ultimi del secolo passato e nei primi
dell'attuale; una tranquilla e assolata piazza; con più segni di
vita fino a mezzogiorno, che nel pomeriggio. Durante il periodo
funesto della crisi che gravò per alcuni anni sulla città dopo il
colera dell'87, vi si vedevano facce ansiose di operai e di
artigiani in attesa di lavoro e di impiego: tanto che lo slogan
coniato in quel tempo: « Guardare l'aquila degli Studi » (l'aquila
aragonese che apre le ali sull'arco del balcone di centro),
significava essere disoccupato. Ma anche. in tempi di crisi, col
tramonto la piazza si popolava, e se vi suonava la banda, nelle
sedie che si affittavano per un soldo, la gente vi si pigiava;
commentando fra un « pezzo » e l'altro, gli avvenimenti del giorno,
il fatto di cronaca, i tre o quattro duelli politici della
settimana, strologando l'esito dei tre o quattro della settimana che
doveva venire. Infine, alle ventuno se d'inverno, alle ventitrè se
d'estate, la gente si squagliava, i chioschi si oscuravano, si
oscuravano anche le quattro lampade ad arco che la ditta Piazzoli;
Morosoli & C. aveva portato a Catania dal Nord, e la voce notturna
della piazza, l'orologio dell'Università, sgranava ogni quarto d'ora
i suoi colpi alternati.
La decadenza della piazza avvenne
per gradi, mano mano che Catania cresceva, come ho detto, sui
preistorici banchi di lava a nord e a nord-est;. e ciò malgrado
anche la popolazione crescesse e ai modesti negozi, a qualche
trattoria, a una fabbrica di gazzose, a delle botteghe di barbiere,
succedevano nei pianterreni della piazza negozi e gioiellerie di
lusso, banche e via dicendo.
L'anno 1838 un'ordinanza
senatoriale ordinò che il Mercato del lunedì si tenesse sul piano
di, Porta Aci, cioè a dire nell'attuale piazza Stesicoro; sicché,
affrancata dall'incomposta confusione con annessi e connessi di un
mercato sia pure settimanale, questa bellissima tra le piazze
catanesi divenne il centro aristocratico della Città.
Purtroppo, però, il prospetto
dell'Università non è più quello dovuto all'alta fantasia
dell'architetto Vaccarini; interamente trasformato, dopo
il.terremoto del 1818, da quel Carmelo Battaglia che fu uno dei più
ostinati deturpatori dei settecenteschi monumenti della rinascita
catanese; e come del Palazzo Di Sangiuliano, oggi appartenente al
Credito Italiano, soltanto il partito centrale firmato e datato dal
Vaccarini è settecentesco, come settecenteschi sono i due palazzi La
Piana e Gioeni d'Angiò, il rimanente, fronte dell'Università
compreso, è neo-classico. Insomma, l'unità stilistica originaria non
esiste più nella piazza e ciò, malgrado, è una delle piazze più
belle d'Italia.
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Saverio Fiducia- “Passeggiate
Sentimentali” - Tringale Editore 1985
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PIAZZA DEGLI STUDI
(Testo del giornalista Saverio Fiducia da
"Passeggiate Sentimentali "
- Di un <<Piano della fiera del lunedì
>>,sito presso a poco dov'è oggi la Piazza degli Studi o dell'Università, molto
ne parlano le cronache e le descrizioni della Catania medievale.
Uno dei più cospicui edifici che
prospettavano in esso era l'Ospedale S.Marco.
Di quest'antichissimo istituto di beneficenza
catanese,forse il più antico di tutti, la prima notizia sicura ci viene fornita
da un testamento portante la data del 4 agosto 1361,col quale il beneficio
cittadino istituiva suo erede l'Ospedale suddetto.
Alcuni credettero individuare il generoso
testatore nel grande Blasco Aragona, colui,cioè,che col figlio Artale sostenne i
diritti di Federico II l'Aragonese e dei suoi discendenti e riempì delle sue
gesta guerriere e politiche buona parte del 300 siciliano e catanese. Ma Blasco
morì il 23 ottobre 1355,nè è concepibile che in epoca fortunosa come quella
dimenticasse il figlio, erede del valore e dell'accortezza paterni.A noi importa
sapere che l'edificio fu in parte ceduto all'Universita---anno 1684---la quale,
fondata l'anno 1434,fino ad allora aveva occupato alcune stanze del palazzo
Senatorio.
Esso in proposito quanto si legge
nell'Annuale catanese del monaco Francesco Privitera :<<La Scola di studi fu
innanzi la Loggia Senatoria, e correndo l'anno 1684,con ordine viceregio
all'Illustrissimo Monsignor Vescovo Bonadies ,Cancelliero de' studi,fu
trasferita in loco più cospicuo,detto la Fiera del Lunedì o Foro Lunare, nel che
già era l'Hospidale de' Infermi >>.
In quel Foro Lunare, c'è tutto il Seicento.
Era quello il secolo nel quale fiorivano in Catania le Accademie dei
Chiari,degli Elevati, degli Anonimi, degl'Incogniti, degli Oscuri, financo degli
Sregolati, ed il buon frate avrà creduto, in buonissima fede,di mettere un segno
della propria distinzione ad un piano nello appioppargli un nome nuovo e
ricercato, quando, al postutto,la località non sapeva che di compere,di
vendite,di vocio, di baraonda, di rissa.
Ma coi leggiadri tempi che correvano il
<<Foro Lunare >>sapeva anche d'altro.Aveva una sua triste rinomanza.In esso
avvenivano le esecuzioni di giustizia.
Se dobbiamo prestar fede alle cronache del
tempo, almeno per i delitti che più commossero l'opinione pubblica, gran folla
di gente accorse a vederne l'epilogo.È fama altresì ,ed i nostri nonni
raccontarono con orrore le ultime esecuzioni capitali consumate nell'atrio della
<<Vicaria>>----l'attuale caserma delle guardie di finanza----che era
consuetudine condurre a quei torbidi spettacoli della umana ferocia gl'innocenti
bambini, ai quali a giustizia compiuta, veniva assestato a ricordanza e
ammonimento un sonorissimo schiaffo.
La piazza, ricostruita dopo il grande
terremoto, quasi come oggi la vediamo, prese il nome di Piano degli Studi, ma
continuò ad ospitare fra le aristocratiche facciate dei suoi edifici, il mercato
settimanale. Nel mezzo vi sorgeva la Fontana di Cerere ,opera dello scultore
Michele Orlando, poi collocata nella piazza Cavour per cedere il posto, nella
prima metà dell'Ottocento, alla statua di Francesco I di Borbone del catanese
Antonio Dalì.
Di questa statua di Francesco I e di altre
due dovute anch'esse al Cali,una rappresentante Ferdinando Ì e l'altra
Ferdinando II di Borbone e rinvenute di recente acefale nei magazzini del Comune
(che furono ben due volte abbattute durante i moti del 1848 e del 1860),parlerò
in altra mia <<Passeggiata>>.-(S.Fiducia)
Palazzo
Gioeni D'Angiò. E'
all'angolo nord-est di piazza Università, su cui si affaccia
l'ingresso principale. La costruzione fu avviata nel 1743, forse su
disegno del Vaccarini. Policastro afferma che "il prospetto su
via Fragalà fu liberato da antiche sovrastrutture manifestando
un'altra facciata ben più antica, forse anteriore del 1693, ricca di
decorazioni". Nel 1966, pur mantenendo integri i prospetti, il
palazzo, nell'interno, fu demolito e riedificato per adattarlo alla
nuova destinazione di grande magazzino (dal 15 ottobre di quell'anno ha
ospitato l'UPIM e sul finire degli anni '90 la Benetton). In occasione
della trasformazione in magazzino, fu rimosso dall'androne un pregiato
bassorilivo di marmo dedicato ad Annibale Gioeni, dal fratello Ottavio
nel 1590, bassorilievo probabilmente tolto da un sepolcro. "Quel
guerriero sdraiato e col capo appoggiato sulla celata era un antenato
del padrone di casa... Era stato un valoroso ed era morto giovane
siccome dal marmo rivelasi, con la barbetta a punta... Il rilievo
marmoreo di Annibale Gioeni, certamente un particolare della tomba di
costui che fino al 1693 trovavasi nella cappella gentilizia inserita
nel palazzo medioevale, venne in seguito murato nella scala del
palazzo settecentesco e poi collocato nell'androne" (Saverio
Fiducia). Sul prospetto è rimasto invece il monumento di bronzo che
ricorda che nel palazzo nacque e morì Giuseppe Gioeni dei duchi
d'Angiò (1747-1822). Ospite dello scienziato, "principe dei
naturalisti", fu nel 1787 Wolfango Goethe al quale Gioeni
sconsigliò di arrampicarsi fino al cratere dell'Etna: "Se volete
seguire il mio consiglio salite di buon'ora a cavallo fino ai piedi
del monte Rosso: montate su quest'altezza e godrete di una delle più
magnifiche vedute. Il panorama è splendido ed è evidente: il resto
vale meglio di sentirlo raccontare". E l'anno appresso fu Lazzaro
Spallanzani a salire le scale di quella dimora patrizia per ammirare
"la collezione del cav. Gioeni con le produzioni più curiose e
più interessanti del mare siciliano e con esemplari di corpi
vulcanici". Ma di questi episodi, nel palazzo non c'è
testimonianza.
http://www.sicilie.it/sicilia/Catania_-_Palazzo_Gioeni_d'Angi%C3%B2
Palazzo Gioeni D'Angiò
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Palazzo La Piana (da sud) |
Palazzo La
Piana (da nord) |
GIOIELLERIA AVOLIO: UNA STORIA
LUNGA 5 GENERAZIONI
È un'icona del centro storico
catanese presente ormai da oltre un secolo che ha visto succedersi
ben 5 generazioni della famiglia AVOLIO.
Fu fondata nel 1883 da Agatino
Avolio a cui è dedicata da sempre la magnifica antica insegna
testimonianza delle lavorazioni del ferro in stile liberty .
Ma la gioielleria nacque
all'origine in via V.Emanuele adiacente alla Chiesa della
Confraternita dei Bianchi e solo nel primo novecento fu trasferita
nella sede in cui la ammiriamo da anni e cioè ad angolo tra piazza
Università e via Etnea .L' insegna liberty fu realizzata soltanto
nel 1913 in ferro battuto.
Alla morte di Agatino, la
gioielleria fu ereditata dal figlio Giuseppe creatore di gioielli
prestigiosi che gli procurarono fama e successo anche fuori da
Catania, tanto da ricevere nel 1920 un riconoscimento dai regnanti
Savoia e cioè il "Brevetto della Real Casa".
Dopo Giuseppe l'attività passò
nelle mani del figlio Agatino che attraverso studi in Belgio
,divenne profondo conoscitore di perle e pietre preziose,
specializzando la sua competenza sulle ambre del Simeto per cui
aveva una grande passione, tanto che ancor oggi la gioielleria è
leader in questo settore.
Inoltre fu proprio Agatino Avolio
ad introdurre nel 1932 a Catania la vendita dei rinomati orologi
Rolex e nel dopoguerra le raffinate porcellane Rosenthal.
Alla morte di Agatino, sono i
figli Vincenzo, Marco ed Ester a prendere le redini di una florida e
nota attività centenaria e da oltre quarant'anni se ne occupano e
nel frattempo una speranza per il futuro è rappresentata dai giovani
figli dei fratelli, soprattutto Gabriele, Giulia e Vittoria che pare
abbiano ereditato la passione del nonno per le pietre preziose
,fortificando le loro competenze con studi adeguati.
(Fonte gioielleria Avolio)
grazie a Milena Palermo per
Obiettivo Catania
https://www.facebook.com/ObiettivoCatania/
Catania, piazza dell'Università in un disegno
della prima metà dell'ottocento di Salvatore Zurria. A quell'epoca
nella piazza che si chiamava "della Regia Università" vi era la
statua di Francesco I che attualmente si trova all'interno della
villetta Pacini ed ha la testa mozzata e il braccio rotto.
FRANCESCO I – L’altezza della statua è di
palmi 11 e mezzo, più di 3 metri. Originariamente si trovava in
Piazza Università e fu innalzata il 14 aprile 1833. Ecco una
descrizione dell’epoca, fatta da Lionardo Vigo sulla statua:
“…vestir semplicissimo antico, nude braccia, gambe, ginocchio,
testa, coverto il dorso di pallio, che un’ armilla ferma sul destro
omero, il petto di corazza merlata, di cui sotto una tonicella mezzo
gli vela le cosce, e i piedi di coturno..”.
(grazie a Salvatore Giordano)
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Il
Palazzo San Giuliano si trova sulla piazza Università di Catania di
fronte al Palazzo dell'Università. Attualmente ospita gli uffici
amministrativi dell'ateneo.
Il palazzo progettato dall'architetto Giovan Battista Vaccarini, fu
costruito nel 1738 per i Paternò Castello Marchesi di San Giuliano.
All'ingresso alcune lapidi ricordano gli ospiti illustri che vi hanno
soggiornato. Fra questi il re d'Italia Vittorio Emanuele III con la
regina Elena. Il palazzo è stato più volte rimaneggiato ma i
prospetti esterni sono rimasti pressoché integri, solo la balaustrata
che corona il tetto è completamento stilistico degli anni trenta
quando il palazzo era sede del Credito Italiano. Nei primi anni del XX
secolo ospitava il Teatro Machiavelli nel quale recitava il grande
attore catanese Angelo Musco e dove mosse i primi passi (sul
palcoscenico), come recita un'epigrafe posta su via Euplio Reina,
l'altrettanto grande Giovanni Grasso. In quegli stessi anni una parte
dell'edificio era occupato dal Hotel Bristol. Di particolare interesse
è il partito centrale con il maestoso portone e la tribuna d'onore
soprastante, di sicura ideazione vaccariniana (il progetto è del
1747).
Costruito
con vari marmi policromi, il portone è fiancheggiato da due colonne
di marmo, recuperate a qualche edificio d'epoca romana, forse il
Teatro. Al culmine dell'arco è posto un doppio stemma, a sinistra dei
Paternò Castello, committenti del palazzo, a destra quello degli
Asmundo, altra importante famiglia patrizia catanese, da cui era
derivato a questo ramo cadetto dei Paternò il marchesato di San
Giuliano nel 1702. Dello stesso Vaccarini è l'invenzione
dell'originale scalinata a due rampe con portico a colonne posto in
fondo alla corte interna in asse con il portone.
La"camera
rossa"del Palazzo Sangiuliano - "u
ddilittu ra barunissa"
Pochi catanesi sanno cosa
successe davvero nel lato nord dell'università degli studi nel
Palazzo Paterno Castello di Sangiuliano nel “piano della Fera Nova”
(oggi piazza Università).
Come volle la leggenda dei
balconi murati, dal figlio della baronessa Rosana Petruso
Grimaldi,baronessa di Pullicarini, donna bellissima, rimasta orfana
del padre, unica erede, e si trasferì con la madre daCastrogiovanni
(oggi Enna) a Siracusa, e all’etàdi quattordici anni, si sposò con
don Orazio Paternò Castello, con il quale andò a vivere proprio nel
Palazzo Sangiuliano, e in pochi anni ebbero tre figli.
Ma dall'amore si passo alla
gelosia di don Orazio e la baronessa si ritrovò segregata in casa.
Ma il 15 marzo del 1784, in una violenta lite, don Orazio pugnalò la
moglie al petto. Si è creduto che il delitto fosse stato compiuto al
III piano ad angolo fra piazza Università e via ogninella oggi (via
Euplio Reina).
Ma dal momento che don Orazio
scappò, dalla fantasia popolare naquero aneddoti e leggende, infatti
molti sentono ancora provenire da quelle stanze delle urla disperate
della baronessa in punto di morte. In verità l'uccisione non avvenne
nelle finestre murate (angolo N. O.) ma nella “camera rossa”, che
fino al 1863 era una finestra, oggi è un balcone che ne modifica il
prospetto.
Nella chiesa dei padri
carmelitani si legge che nell’altare di Santa Lucia si trova un’urna
con il cereo simulacro di Sant’Agata, il cui volto sarebbe della
baronessa Rosana Petruso Grimaldi, baronessa di Pullicarini.
Pippo Costanzo
|
Il
palazzo dell'Università di Catania situato nell’omonima piazza
della città, deve il suo attuale aspetto ai lavori di ricostruzione
eseguiti a partire dal 1696, per far fronte ai danni causati dal
disastroso terremoto del 1693.
Realizzato per la prima volta su progetto degli architetti Francesco
Battaglia, Antonino Battaglia, e Giovan Battista Vaccarini, l’edificio
subì il primo intervento restaurativo nel 1818 ad opera
dell'architetto Mario Di Stefano, realizzatore della meravigliosa
facciata.
Il palazzo sede del rettorato dell’Università degli studi di
Catania, presenta un cortile interno a forma di chiostro, una
splendida Aula magna affrescata dal pittore Giovan Battista Piparo, ed
infine una Biblioteca dove sono custoditi oltre 200.000 volumi tra
codici, incunaboli, manoscritti e lettere autografe.
Il prospetto in gran parte ottocentesco, come del resto l’intero
edificio, accoglie lo stemma di Aragona, il cui re Alfonso il
Magnanimo fondò nel 1434 l'Università di Catania come unica
università siciliana, composta da sei docenti, le cui lezioni si
tennero in una struttura eretta in piazza Duomo accanto alla
Cattedrale di Sant'Agata.
Trasferita nel 1684 all’interno dei locali dell'ospedale San Marco,
l’Università raggiunse la sua attuale locazione subito dopo i
lavori di ricostruzione dell’edificio.
La
fondazione a Catania di uno Studium generale matura tra il 1434 e il
1444 come risarcimento alla città per il 'trasporto' a Palermo della
capitale di Sicilia. Nel 1434 Alfonso d'Aragona emana il privilegio
istitutivo che verrà assunto nella tradizione dell'Ateneo come la
data di fondazione: ma bisogna attendere il 1444 perché - grazie
all'iniziativa del domenicano di Palermo Pietro Geremia - siano
rimosse le resistenze locali, ed il pontefice Eugenio IV si induca a
firmare il breve istitutivo.
L'inizio dell'attività è fissato dal sermone del Geremia De laude
scientiarum che egli tenne il 26 luglio 1445.
Privilegio del sovrano e breve del pontefice contengono i dati
essenziali della costituzione dello Studium: cancelliere è il vescovo
di Catania, assistito da giurati cittadini; le risorse finanziarie
sono assicurate da tratte del locale caricatore dei grani e da fondi
dell'Ospedale di S. Marco.
L'Università di Catania
Gli
anni difficili
Dopo
un buon avvio, travagliato ma positivo, nel secondo Quattrocento, lo
Studium (ora Siculorum Gymnasium) vivrà nel Cinquecento forse il
tempo più difficile della sua lunga storia. Dovrà difendere il
privilegio da Messina (i gesuiti) e da Palermo, ma soprattutto vede
modificarsi profondamente il contesto geopolitico di Catania - in
seguito alla crescente presenza turca nel Mediterraneo: la città si
separa dal mare, e conosce il deperimento del caricatore (dalle cui
tratte dipende il bilancio del suo Ginnasio), e deve inoltre far
fronte al costo ingente della cinta muraria.
Frattanto
il vicerè, insieme tutore dei privilegi e dispensatore delle nuove
grazie sovrane (di Carlo V e di Filippo II), è chiamato a mediare i
costanti conflitti tra il Vescovo-cancelliere e il rettore degli
studenti, in sostanza tra la Chiesa e l'aristocrazia cittadina. La
vicenda della peste del 1575 sottolinea inoltre, e in modo clamoroso,
la sfasatura tra la medicina accademica e la medicina sociale
(Ingrassia): e il protomedicato erge barriere corporative alle
irruzioni entro la fortezza munita di un privilegio che ha portata
quasi esclusivamente fiscale.
Dal 1595 lo Studio ha lasciato frattanto il luogo dimesso che occupa
da mezzo secolo, per occupare la casa palazzata, in "contrata
della strata della luminaria" (la futura via Etnea): vi sarebbe
rimasto - salvo brevi interruzioni - sino al 1684. Quando in seguito
ad accorti acquisti e permute potrà insediarsi nel luogo del presente
Palazzo centrale.
Il Seicento conosce un declino del patriziato, del potere economico
cittadino: e Catania non pare in grado di ripetere il modello
napoletano. Catania si stringe allora a Messina, la cui egemonia si
espande nel territorio, nell'economia e nella politica: estende la
sfida a Palermo anche sul terreno culturale (Borrelli, etc.).
L'iniziativa di Mario Cutelli in funzione 'olivaresiana' non serve a
contrastare il controllo della Chiesa catanese sulla città e
sull'Università. Da questa in ogni caso non viene alcun supporto
tecnico-scientifico al piano di Alfonso Borrelli di fermare la lava
del 1669: se il velo di S. Agata non basta ad arrestar la colata,
bisogna accettarla come scelta della Provvidenza!
La città e l'Università saranno a vario titolo coinvolte nella
'guerra di Messina' (1674-79), pagano la nuova indipendenza ed il
ritorno alla grande dei privilegi con i costi della guerra e della
repressione: è la base dell'alleanza tra vecchia nobiltà e alto
clero, che ha nell'Università il suo centro politico, e che dovrà
guidare la ricostruzione di Catania distrutta dal sisma del gennaio
1693.
A loggia, il palazzo comunale che
delle antiche logge o pergole, dove il civico consesso si adunava
nei tempi di mezzo, serba il nome soltanto, sostituì il crollato
palazzo senatorio, nel 1741; della metà del Settecento è anche il
collegio Cutelli, ora trasformato in convitto nazionale: Mario
Cutelli, gran signore e giureconsulto egregio, destinò le sue
rendite alla istituzione di questo collegio «all'uso di Spagna», in
un tempo nel quale la moda spagnuola imperava, e lo stesso fondatore
scriveva in castigliano la sua curiosa Catania restaurada.
Prima del Cutelli, e dopo la
lunga notte del medio evo, i buoni studii erano rifioriti in
Catania, dove sorse la prima università di Sicilia, il
Siculorum Gimnasium.
Per concessione di Alfonso
d'Aragona, il 28 ottobre 1434 fu decretata la fondazione dello
Studio generale, eretto dieci anni dopo, quando il papa Eugenio IV
spedì la bolla accordante alla scuola catanese tutti i privilegi
largiti alle università italiane e particolarmente alla bolognese.
Questo Studio fu per qualche secolo il solo dove la gioventù
siciliana potè addottorarsi: di qui la nuova reputazione di sapiente
che fu goduta dalla città e che il Tasso confermò nella Conquistata:
O di Catanea, ove ha il sapere
albergo...
Il palazzo universitario, eretto
dapprima dove ora s'allarga la piazza del Duomo, fu poi noi 1684
demolito e ricostruito nella piazza da allora detta degli Studii; ma
dopo nove anni, quando l'interno dell'edifizio non era ancora
assestato, il terremoto lo travolse dalle fondamenta; la nuova
costruzione, di linee molto eleganti, più volte rafforzata ed in
parte rifatta per l'altro terremoto del 1818, non ha ancora un
secolo di esistenza. Ed una quantità d'istituti se ne sono a poco a
poco, con l'accrescersi dei gabinetti, staccati; buona parte hanno
posto la loro sede nel recinto del convento dei Benedettini.
da
"Catania" di Federico De Roberto
ISTITUTO ITALIANO D'ARTI
GRAFICHE — EDITORE 1907 |
Il
recupero dei privilegi
Dopo la 'cancellazione' di Messina ribelle, che aveva coinvolto
(1679) anche lo Studio messinese, l'Università catanese non ha rivali
in Sicilia: e vede rafforzati i suoi privilegi.
Supera, non senza difficoltà, la frattura del terremoto (1693) che ha
sconvolto l'assetto demografico e urbanistico della città e prende
parte diretta alle scelte di prestigio nell'avviata ricostruzione.
Dopo le istruzioni del Santo Stefano (1679), imposte dal 'partito
spagnolo' (nobiltà + Chiesa), interverranno a correzione le
Istruzioni austriache del vicerè Sastago. Protettore dell'Università
era (da Palermo) il consultore del vicerè; a reggerla il vescovo di
Catania nell'ufficio di Gran Cancelliere; e il Patrizio della Città
con la carica di Conservatore.
Tre le facoltà, dodici gli insegnamenti: teologia speculativa,
teologia dommatica, teologia morale, diritto civile de mane e diritto
civile de sero, diritto canonico, diritto feudale, istituzioni
(instituta) romane, medicina de mane e medicina de sero, filosofia de
mane e filosofia de sero, chirurgia, logica, matematica.
I docenti, scelti per concorso, avevano un incarico triennale: alla
scadenza, potevano ricandidarsi, anche per discipline diverse da
quella prima professata. La prevalenza, in numero e qualità di
docenti e studenti, va alle facoltà di Legge e di Medicina: un
prestigio che risale alle origini dello Studium, e che verrà posto in
discusssione solo nel tardo XX secolo.
Nel 1737 l'Università aveva visto ulteriormente confermati i
tradizionali privilegi. Conferma reiterata (1739) dal vicerè Corsini:
"nessun Naturale del Regno che pretendesse esercitar in esso le
Scienze o avere l'onori delli suoi gradi vada a studiare, nè a
buscarsi il Privilegio di Dottore di fuori Regno [...], dovendo
ogn'uno studiare [...] nella Università di questo Regno in
Catania". "alcuna persona [...] in virtù di [...] privilegi
forestieri potesse esercitare la Jurisprudenza, Medicina, Fisica, o
Chirurgica, nè qualunque Officio attinente a Dottori di dette
professioni, nè segli conferisca, nè permetta alcun atto onorifico
ex vi di detto grado di dottore".
A metà del secolo XVIII la tensione tra Senato e Vescovo esplode in
conflitto aperto: il vescovo S. Ventimiglia vorrebbe associare lo
Studio ad una vasta impresa di riforma del Seminario e della cultura
cittadina. Il Senato cittadino punta per contro alla difesa
corporativa dei suoi privilegi, e gioca la partita del contemporaneo
rigetto delle proposte curiali, e della domanda di riforme regie. Del
'67 sono le Ragioni del Senato di Catania, del Patrizio, de'
Collegianti, e de' Lettori dell'Università de' studj di detta Città
per l'osservanza delle leggi accademiche; del '71, dopo l'espulsione
dei Gesuiti dal Regno le Leges a Ferdinando III ad augendum, firmandum
et exornandum Siculorum Gymnasium latae. L'Università vive però come
assediata dalle tante accademie, 'conversazioni', gabinetti e musei
privati che nascono e prendono radice nella città, con una costante
attrazione sulla nobiltà e borghesia provinciale - che trova impiego
nell'Ospedale e nei tribunali.
L'epoca
delle riforme
La riforma generale degli Studi si ha però nel '78, quando le
risorse provenienti dall'Azienda gesuitica sono già destinate a
finanziare un sistema generale di istruzioni. Allora G. A. De Cosmi
presenta il suo Piano al vescovo-cancelliere: la Sicilia non è
"tra le nazioni illuminate e polite", e sono soprattutto 'le
discipline esatte' ad esser trascurate. "Si ha gran numero di
teologi di scuola, ma pochissimi che coltivano le lingue dotte,
l'ebreo, il siriaco, il greco, che sono le vere fonti della teologia
solida. Gran numero di giureconsulti di professione, ma per lo più
sforniti di quella culta e sublime letteratura, che capaci li renda di
profittare dei fonti greci e latini. Gran numero di medici, ma senza
sperienza di fisica, senza mecanica, senza sezioni anatomiche: che
imparano la medicina dai libri e non dalla natura. Scarsissima
soprattutto è la nazione di uomini esercitati nella pratica della
geometria e della meccanica. Non abbiamo una specola di astronomia.
Non un teatro anatomico, non una scuola di commercio, non
d'agricoltura, non d'idraulica, non d'industria". E chiede una
storia naturale della Sicilia.
La riforma dell'agosto 1779 porta a 30 le cattedre (di cui otto per
Legge), mentre innova le procedure di concorso: quasi duemila gli
studenti. Ora le lauree si tengono nel palazzo degli Studi; e nel 1787
il vicerè nomina un lettore della "gelosa cattedra del diritto
nazionale e de' feudi". L'anno dopo sarà creata la cattedra di
Istituzioni politiche. Non mancano le tensioni, e il fronte
riformatore denuncia lo squilibrio tra le innovazioni e il progetto De
Cosmi: D. Tempio, il poeta famulo del De Cosmi, parlerà di 'Sicula
minzogna'. La riforma amministrativa dei Borboni (1817) comporta
l'adeguamento dell'università alla domanda di nuove professioni -
anche se a Catania la domanda e la considerazione sociale restano
ancorate al prestigio delle lauree in Medicina ed in Diritto. Dal '17
il Siculorum Gymnasium passa, per la parte finanziaria, sotto il
controllo dell'Intendenza; e per la parte didattica e scientifica,
sotto quello della Commissione di pubblica istruzione (in Palermo).
Dal '19 Gran Cancelliere sarà, al posto del vescovo, il Presidente
della Gran Corte Civile. Presiedeva la Deputazione, della quale erano
parte il Rettore ("il capo immediato e il locale superiore
dell'Università", che vigilava "sulla esecuzione dei doveri
rispettivi de' professori, [..] degli scolari, e di tutti gli altri
impiegati"), il Segretario-Cancelliere, nominato come il rettore
dal re; e quattro membri, due eletti dall'Università e due dallo
intendente".
Lo
sviluppo tra Ottocento e Novecento
Nel 1824 nasce, e si insedia nel Palazzo l'Accademia Gioienia
(avrà da lì a poco, in stanze del piano terra il suo Gabinetto
letterario).
Nel 1828 C. Maravigna cede il suo gabinetto di conchigliologia e
orintologia (che sarebbe stato dello Aradas); e G. Reguleas eredita ed
accresce il Gabinetto anatomico con
calchi e cere. Dal 1835 C.
Gemmellaro ha trovato posto nel palazzo per il suo Osservatorio
meteorologico, "in un casotto sulla loggia in cima della stessa
Università". Lo sviluppo continua nonostante la crisi politica
del '37 (che produce il Regolamento del 1840): i concorsi di Economia
politica attivano competizioni prestigiose, che interpretano indirizzi
avanzati di politica sociale; due scienziati di prestigio, il geologo
G. B. La Via ed il botanico F. Tornabene, benedettini entrambi,
cercheranno senza successo di trasformare il grande monastero di S.
Nicola in sede attiva di collegi, laboratori, musei naturalistici. Né
avrà miglior successo la realizzazione dell'Osservatorio Astronomico
(bisognerà aspettare l'iniziativa del Tacchini e del Riccò degli
anni 1880-90).
Accanto al Teatro anatomico (ospedale di S. Marco, 1798) si avrà in
luoghi fuori del Palazzo nei tardi anni '40 l'Orto botanico.
Con l'Unità, dopo un breve trapasso (il 'soccorso' di Garibaldi),
Catania entra nella difficile spirale delle Università minori: ciò
spiega il crollo degli studenti - 600 nel 1857-58, 450 nel 1861-62,
solo 150 nel 1869-70. E nel dibattito parlamentare sulla Riforma
Baccelli, le voci dei catanesi (Majorana, De Felice, eccetera) sono
tra le più autorevoli: sarà il potere locale a sostenere (dal 1877)
lo Studio sul terreno politico e su quello finanziario. Dal 1885
l'Università torna tra le 'maggiori'. É questo il tempo dei
Majorana: Salvatore Majorana Calatabiano, un politico della Sinistra
colto ed esperto, ministro con Depretis, si fa capo di una dinastia
intellettuale. Programma e realizza l'istruzione dei figli, tre dei
quali - Giuseppe, Angelo, Dante - avranno ruoli prestigiosi
nell'Ateneo, ed uno come Angelo consumerà in una vita breve una
splendida carriera politica.
Il tardo Ottocento è un tempo grande per l'Ateneo ove accanto a Mario
Rapisardi e Luigi Capuana è un'imponente presenza di scienziati -
zoologi, fisiologi, biologi, fisici sperimentali. Ed è il tempo in
cui la chirurgia, da Reina a Clementi, diventa disciplina principe
della Facoltà medica.
Col primo Dopoguerra, ai Majorana s'affianca nell'impegno al controllo
politico ed accademico dell'Ateneo la famiglia dei Carnazza,
proprietari e titolari di professioni di successo: ed il maggiore dei
Carnazza, Gabriello, sarà ministro dei Lavori Pubblici nel primo
Ministero Mussolini. La riforma Gentile (1923) avrebbe riaperto la
questione della gerarchia: il Siculorum Gymnasium è collocato nella
seconda fascia, dispone perciò di risorse inadeguate ad assicurare un
corpo accademico di qualità. Per vie politiche, e in conseguenza
dello sforzo anche stavolta imponente del potere locale, la sfida è
vinta. Eppure domina per gli anni '20, a Catania e nel suo Ateneo, un
tono dimesso: se non di involuzione, di asfissia culturale, si ha come
un rallentamento, un ricambio insufficiente, timore di sclerosi.
Ed il periodo fra le due guerre, che è il tempo dei Majorana e insieme
soprattutto dei Condorelli, sarà segnato da nuove difficoltà che
cementano ancor più l'asse privilegiato tra Legge e Medicina: i
Majorana controllano la prima delle Facoltà, a Medicina si fanno
strada - in alleanza coi Reina ed i Clementi - i Condorelli. Sono,
su posizioni opposte, i Majorana liberali ed i Condorelli fascisti,
non solo i piloti del vascello accademico nel lungo viaggio
attraverso il fascismo: essi operano per consolidare alcuni
indirizzi, di ricerca e formazione, che riguardano le Facoltà
'inferiori' (Lettere, Scienze, Ingegneria) rispetto alle Facoltà
forti, che sono sempre Legge e Medicina - che assai meglio delle
altre si collocano nel circuito nazionale, e riescono a promuovere a
livelli alti figure locali di studiosi.
Nel 1934 l'Università celebra con grande solennità il 5° centenario
del placet di Alfonso per la fondazione dello Studio: e ne lascia,
buon testimone, una storia a più mani fatta di contributi originali
per le sezioni più antiche, e di sintesi di modesto profilo per i
tempi più moderni. Appartiene a questi decenni il consolidamento e
l'espansione dell'edilizia universitaria. Francesco Fichera,
innamorato della Catania settecentesca che vuol riscoprire, tenta
operazioni di maquillage architettonico sul Palazzo centrale.
Il nuovo sta altrove: gli insediamenti di via Androne crescono ad una
'cittadella' vera e propria; e nasce il Palazzo delle Scienze, con fra
le altre la nuova Facoltà di Economia e Commercio. E prende forma,
negli anni Trenta, quella politica di disseminazione dei luoghi
dell'Università da tempo preparata: quei luoghi son nodi vitali del
riassetto urbanistico di Catania, e collocano l'Ateneo tra i poteri
'forti' della città. Crescono gli studenti, soprattutto con
incremento costante a Medicina e a Legge, mentre cresce a Lettere la
presenza femminile. Aumentano anche presso gli ospedali cittadini le
cliniche universitarie (nel '34 al "Vittorio Emanuele" la
Clinica medica si aggiunge alla pediatrica).
Col secondo Dopoguerra, l'Ateneo assume e mantiene posizioni di tutto
rispetto nel confronto con gli Atenei siciliani e meridionali: il
mezzo secolo (1943-2003) che sta alle spalle si divide tra prima e
dopo il Sessantotto. Prima l'uomo-forte è stato Cesare Sanfilippo, un
romanista della scuola palermitana di S. Riccobono, che fu rettore dal
1950 al 1974: e lasciò per rinuncia, alle prese con trasformazioni
che non condivideva e temette di non poter governare; dopo, a
interpretare la fase tumultuosa della crescita avviata con le misure
urgenti del 1972, e a governare con polso fermo e lucido dinamismo,
sarà Gaspare Rodolico (1974-94). Per entrambi i periodi, il segno
più forte è rappresentato dalla politica edilizia. Sanfilippo volle
'la cittadella', il Nuovo Centro Universitario Clinico-Scientifico di
S. Sofia, come area di espansione dell'Università che sentiva come un
busto scomodo l'armatura del Centro storico: la volle sopratutto per
il Policlinico, e per esso realizzò l'Ufficio Tecnico. E potè dare
alla sua Facoltà giuridica la sede prestigiosa della villa Cerami,
acquistata e ristrutturata.
Più complessa e positiva l'opera di Rodolico, una personalità
dinamica e creativa, che scelse di lasciare nel Centro storico le
Facoltà umanistiche (Giurisprudenza, Lettere,
Economia, quindi lo
statizzato Magistero) trasferendo nella Cittadella le Facoltà
scientifiche - Medicina, Scienze, Ingegneria, Agraria: e realizzò un
programma imponente di costruzioni e trasformazioni. Espansione di
Giurisprudenza, insediamento di Lettere nel grande monastero dei
Benedettini (donato dal Comune), l'acquisizione di palazzo S. Giuliano
destinato ai servizi centrali e di palazzo Paternò Raddusa per la
Facoltà di Scienze politiche, riallocazione di Economia e del
Magistero. Questa accelerazione della politica edilizia, in una con la
dotazione di nuove strutture di ricerca (INFN, CNR, eccetera), ed un
incremento significativo delle risorse, caratterizza il decennio
successivo che ha visto il compimento non facile di quel disegno - in
una con le trasformazioni delle strutture di partecipazione e di
governo.
C'ERA UNA VOLTA LA FESTA DELLA
MATRICOLA
Con gli amici di larga frequenza
ci si riuniva nei periodi dell'apertura delle iscrizioni
all'Università per assaporare le gioie connesse al tradizionale
motto goliardico "Gaudeamus igitur".
La cosiddetta «Festa della
Matricola» ci trovava pronti a baldorie e scherzi inusitati. Ci
vestivamo in costume, ora seicentesco o di foggia e tipo promiscuo,
e ridevamo e danzavamo per le piazze. Facevamo caroselli attorno
alle belle fanciulle e alle leggiadre signore per riscuotere un
sorriso, e facevamo lo stesso presso distinti signori per intascare
l'obolo', che poteva essere indifferentemente in sigarette o in
denaro. Si saliva e si scendeva dai tram e dagli autobus con grande
scuotimento di capo dei conduttori; si cantava e si giocava per fare
ridere e ridere di noi stessi con grande sollazzo dei passanti che,
indulgenti e bonari, seguivano le nostre prodezze. Al nostro gioco
(che in fondo era tale) partecipava la cittadinanza e quanti si
trovavano involontariamente (o volontariamente) coinvolti. Era un
modo per dimenticare gli affanni e gli assilli del vivere
quotidiano.
Uno dei riferimenti del tempo era
la "Corda Frates" dove ci si riuniva per mettere a punto
l'arbitraria organizzazione del "papello" al quale interveniva col
"pontefice massimo, i fagioli, le colonne e le magne colonne"
dell'Ateneo. Le malcapitate (poi mica tanto) matricole facevano le
spese sottoponendosi a sberleffi e canzonature se il "magno gaudio"
mangereccio era stato alquanto inconsistente. Talvolta venivano
anche comminate punizioni di vario genere, a seconda della
resistenza fatta dall'imprudente e squattrinata matricola.
F.A. Giunta
La città è chiusa in una morta di
allegria: i ragazzi dai berretti a punta grondanti ciondoli
variopinti, si riversano come api soldati per le vie e gli slarghi a
vociare e ad eccitarsi per un nonnulla.
E' la "festa della matricola";
una caccia spietata si apre all'indifesa selvaggina (soprattutto se
di sesso femminile e col "papello" non in ordine) che "deve" pagare
lo scotto, la sbagnatina. Il veterano, la colonna fuoricorso, ha la
priorità sugli "assaggi" e, su eventuali controversie, la sua
decisione è insindacabile.
Blocchi stradali improvvisati;
raccolta di soldi ovunque per finanziare la manifestazione e spesso
le proprie tasche; sui mezzi pubblici non si paga, e non si paga
neanche al cinema.
Ecco lo spettacolo al "Sangiorgi"
(lazzi, massa vociante e, da presentatore, un pallido e imberbe
Pippo Baudo) che si conclude inevitabilmente con qualche cazzottone
e goliardiche pernacchie a chicchesia: artisti, registi, coreografi,
truccatori, datori di luce.
E infine - godibile tradizione -
'a puliziata al sederone, e parti limitrofe, del 2liotru" del Duomo
che la matricola selsionata (e commossa da tanto onore) deve
pubblicamente effettuare con spazzolone e creme detergenti varie.
S', c'era una volta anche la
festa della matricola....
(Aldo Motta)
tratto da "A Catania con
amore" di Aldo Motta - Edizioni Greco 1991
I DUE PALAZZI
DELL'AMMINISTRAZIONE CENTRALE
Palazzo Sangiuliano (Uffici amministrativi -
Personale - Finanziari - Ragioneria)
Palazzo dell'Università (Rettorato - Direzione
Amministrativa - Uffici amministrativi)
LA STORIA DEL PALAZZO
Era il 9 ottobre 1434 quando
Alfonso V d’Aragona, detto anche il Magnanimo, decise di istituire
l’Università di Catania. Non si trattava dell’inizio della storia di
un ateneo come gli altri, quella che vedeva la nascita era la prima
Università siciliana e fu poi papa Eugenio IV, con una bolla del18
aprile 1444 ad autorizzare la costituzione dello Studium Generale
Siciliae.
Il Palazzo degli Studi non poteva
sorgere in un luogo qualunque, ma in una zona centrale e
prestigiosa. Cosa poteva esserci di meglio di quel primissimo tratto
di via Etna (la vecchia via Uzeda) a pochi passi dal mare e dal
Duomo, proprio dove si svolgeva la gran parte della vita dei
catanesi e di quanti venivano in visita a Catania. Il Palazzo
dell’Università non resistette alla violenza distruttiva del 1693 e
la sua ricostruzione iniziò tre anni dopo, ripartendo proprio dalle
macerie lasciate dalla tragedia.
A prendere in mano il compito
della ricostruzione fu Giovan Battista Vaccarini, nel 1730. Sono i
risultati dei suoi progetti quelli che ammiriamo oggi a sinistra
della piazza risalendo la via Etnea. Vaccarini aveva pensato ad
un’opera elegante e funzionale al tempo stesso e partì da quel
cortile interno tanto famoso, pensato come un chiostro, con un
disegno fatto di ciottoli e incorniciato da un porticato a due piani
fatto di archi e colonne.
Toccò poi al catanese Giovan
Battista Piparo, affrescare il primo piano di quello che noi siamo
abituati a chiamare e l’Aula Magna, che è caratterizzata da pareti
completamente rivestite di prezioso damasco, mentre sul muro che fa
da sfondo alla cattedra si trova un arazzo che riporta lo stemma
della dinastia degli Aragona.
Il prospetto di Palazzo
dell’Università ha subito delle modifiche negli anni a venire, ad
opera dell’architetto Mario Di Stefano, dopo il terremoto del 1818
che fece alcuni danni proprio sulla facciata. Da notare che
l’edificio, che una volta accoglieva tutte le Facoltà, è costruito
su un intero isolato e, in origine, le sue porte permettevano di
accedere al chiostro da tutti e quattro i lati.
All’Ateneo Catanesi le lezioni
iniziarono il 19 ottobre del 1445, i docenti a quell’epoca erano
solo sei e mentre il palazzo veniva costruito, discenti e insegnati
furono accolti in quello che oggi è conosciuto come il Palazzo del
Seminario dei Chierici in piazza Duomo.
Oggi in piazza Università insieme
al Rettorato, e a suo uffici, si trova anche la Biblioteca
Universitaria, un luogo ricco di codici, manoscritti e lettere
autografe vantando una collezione di oltre 200.000 volumi alla quale
accedono studiosi da tutto il mondo.
http://www.peripericatania.it/cosa-vedere/palazzo-degli-studi-piazza-universita
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Salvatore
Majorana, il capostipite.
Avvocato,
Docente universitario di diritto e di economia,
Senatore del Regno
d'Italia,
due volte Ministro dell'Agricoltura
e Commercio nel Governo Depretis. |
da
Salvatore e Rosa Campisi (sposata in seconde nozze) nacquero sette figli
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Giuseppe
Majorana |
Angelo
Majorana |
Quirino
Majorana |
Dante
Majorana |
Docente
universitario di statistica, Deputato, Rettore dell'Università di
Catania |
Economista,
Docente universitario,
Rettore dell'Università di Catania,
Deputato,
due
volte Ministro del Governo Giolitti |
Fisico,
Inventore, Docente universitario,
Presidente della Società
Italiana di Fisica |
Giurista,
Docente universitario, deputato, Rettore dell'Università di Catania, |
Giuseppe
ebbe 3 figli: Francesco,
Salvatore
e
Tullio |
Angelo
ebbe 3 figli: Rosina,
Salvatore
e
Maria |
Quirino
ebbe 3 figle: Graziella,
Carmela
e
Silvia |
Dante
ebbe 4 figli: Angelo,
Salvatore, Claudio e Vittoria; |
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Elvira
Majorana |
Fabio Majorana |
Emilia
Majorana |
Sposò
Salvini-Nucci, Consigliere di Stato |
Ingegnere,
Fisico,
Ispettore
generale del Ministero delle PP.TT. |
Sposata
con l'Avv. Dominedò |
Elvira
ebbe 4 figli: Mario,
Angelo, Lavinia e Valeria
|
da
Fabio e Dorina Corso nacquero 5 figli: Rosina;
Luciano (ingegnere
civile, specializzato in ottica astronomica);
Salvatore
(avvocato e
filosofo);
Maria (Insegnante
di pianoforte al Conservatorio Santa Cecilia in Roma)
ed Ettore
(il genio più
grande della famiglia) |
Emilia
ebbe 4 figli: Francesco,
Valentino, caterina e Giovanna
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Ettore
Majorana scomparve misteriosamente e la sua morte fu un enigma
nazionale tutt'oggi insoluto: morto suicida? Rapito da qualche Paese
che già in quell'epoca conduceva studi
atomici? Rifugiato presso un convento di padri Gesuiti? La madre non
convincendosi della morte del figlio, aspettò sempre il suo ritorno.
La sua era una famiglia di illustri professionisti ed era il penultimo
di cinque figli. Ettore era un genio della Fisica, precocissimo,
eccentrico, ombroso, indolente: da lontano appariva smilzo, con
un'andatura timida e quasi incerta;da vicino si notavano i capelli
nerissimi, la carnagione scura, gli occhi neri, grandi e scintillanti.
Molto severo nei giudizi, ancor prima con se stesso per poi esserlo
con gli altri, le persone a lui vicine avevano finito col comprendere
che tanta severità era la manifestazione di uno spirito insoddisfatto
e tormentato. Sotto un apparente isolamento dal prossimo, non solo di
fatto ma anche di sentimenti, si nascondeva una sensibilità vivissima
che lo portava a stringere solo raramente rapporti di amicizia. Nato a
Catania il 5 agosto del 1905 in via Etna 251, trasferitosi con la
famiglia a Roma, studiò Ingegneria per quattro anni finchè l'amico
Emilio Segré lo convinse a cambiare facoltà, facendogli notare come
gli studi di Fisica fossero più consoni, di quelli di Ingegneria,
alle sue aspirazioni scientifiche ed alle sue capacità speculative.
Il cambio avvenne all'inizio del 1928 dopo un colloquio con Fermi,
allora professore straordinario alla cattedra di Fisica teorica
dell'Università di Roma e che voleva creare nella capitale una scuola
di fisica moderna su suggerimento di O.M.Corbino, professore di Fisica
sperimentale nella stessa Università. Majorana si laureò in Fisica
nel 1930. Conosciuto per il suo straordinario valore di scienziato e
ricercatore teorico, nel 1931 rifiutò i prestigiosi
inviti di trasferimento presso le università di Cambridge, di Yale e
della Carnegie Foundation. Non è motivato nemmeno il rifiuto per
partecipare, nonostante la segnalazione fatta da Fermi a Mussolini, al
concorso nazionale, per professore universitario di Fisica, bandito
nel 1936. Accettò invece la nomina, per meriti particolari, a
titolare della cattedra di Fisica teorica dell'Università di Napoli.
Trasferitosi
in questa sede, alloggiò presso l'albergo "Bologna" dove
continuò a coltivare i suoi interessi per la fisica. Si chiuse in
casa e rifiutò persino la posta, scrivendo di suo pugno sulle buste:
- Si respinge per morte del destinatario -. Agli amici più stretti
confidò che all'Istituto di Roma, dove peraltro non tornò più,
nessuno capiva nulla delle sue teorie (eppure c'erano Fermi e
Corbino!). Riuscivano a comprenderlo solo quattro uomini al mondo: i
tre premi "Nobel", cioè l'inglese Paul Dirac, il danese
Niels Bohr ed il tedesco Werner Heisemberg e con essi l'americano Carl
David Anderson. Majorana scrisse solo otto opere di non più di
sei-sette pagine ciascuna, tra le quali "Teoria simmetrica
dell'elettrone e del positrone", "Atomi orientati in campo
magnetico variabile", "Sulla teoria dei nuclei".
Allucinato dalla fatica diurna dell'insegnamento e notturna delle
meditazioni scientifiche, si lasciò persuadere ad intraprendere, nel
marzo 1938, un viaggio di riposo, Napoli-Palermo, su una nave della
"Tirrenia". A Palermo alloggiò, per mezza giornata,
all'albergo "Sole" e la sera fu di nuovo sul piroscafo dove
fu visto sul ponte all'altezza di Capri, come affermano alcune
testimonianze, ma a Napoli non arrivò mai. Dove scomparve e come? La
supposizione di suicidio per annegamento fu scartata: sul piroscafo
viaggiava un battaglione di reduci dall'Africa ed essendo il ponte
stipato qualcuno si sarebbe accorto di un uomo che si gettava in mare.
Quando in data stabilita non fu notato il suo rientro, fu lanciato
l'allarme e nella sua camera al "Bologna" mancava solo il
passaporto: era andato all'estero?
In quell'epoca pochi scienziati si occupavano di studi atomici e
nessun uomo di Stato poteva essere competente: chi poteva chiamarlo
con tanta segretezza? Vane si rivelarono le ricerche in tutto il
Paese, nei conventi in particolare, compiute dalla polizia. Al prof.
Antonio Carelli suo collega napoletano, era arrivato poco prima un
telegramma di Ettore che diceva: - Annullo notizia che riceverai- .
Evidentemente si riferiva ad una lettera giunta dopo il telegramma ,
nella quale si intravedeva, non chiaramente espresso, il proposito del
suicidio. Eppure non soffriva di malattie gravi, solo una nevrosi
gastrica ; non aveva relazioni sentimentali, non nutriva interesse per
il denaro, non aveva avuto litigi con alcuno. La sua era semplice
solitudine causata da incomprensioni di coloro che gli erano vicino.
Ricostruzioni televisive e giornalistiche sono state tentate in più
riprese e tutte, nell'affrontare il momento cruciale, hanno dovuto
fermarsi sulla soglia aleatoria e sfumata delle ipotesi.
Fonti
bibliografiche: L.Sciascia, "La scomparsa di
Majorana",Einaudi;
http://www.majoranabrindisi.it/majorana.php
|
\
Quando,
dopo di aver richiuso con molti giri di chiave la porta, averci
messo il grosso catenaccio, uscirono mancava ancora molto tempo
all'inizio dello spettacolo al Teatro Massimo.
Attraversarono piazza del Carmine ingombra delle foglie di cavolo e
di altre verdure del mercato che c'era stato la mattina, imboccarono
la via Pacini le cui lastre di lava erano ancora tiepide del sole
della giornata. Sebbene si fosse quasi a metà novembre a Catania
faceva ancora caldo come in estate, si incontrava gente in maniche
di camicia.
Per
ingannare il tempo lo zio li condusse a prendere un gelato alla
Birraria Svizzera.
Seduti a
un tavolino sul marciapiedi prendendo il gelato stettero a guardare
la gente che passava per via Etnea:giovanotti in maglietta e signori
anziani con tremolanti e trasparenti giacchette di alpagas nero come
se l'estate fosse cominciata allora.
....Poi
si avviarono a piedi verso il teatro. Percorsero la via Etnea già
affollata, attraversarono la Porta di Aci col monumento a Bellini
seduto su una Savonarola, con due piccioni sulle braccia e uno sulla
testa.
La zia e
la madre si fermavano alle vetrine mentre Nino e lo zio le
aspettavano un po' più in là.
Passarono
accanto allo sbocco di via Montesano davanti alla chiesa dei
Minoriti. Nino si ricordò di quel pomeriggio nel salottino di quella
casa quando lei gli si era strofinata sul ginocchio. Adesso dopo
quello che era accaduto aveva la prova definitiva che quella volta
lei era veramente eccitata e si era abbandonata di proposito su di
lui ; questo pensiero gli acuì un pensiero retrospettivo e gli fece
ancora pensare a lei che andava avanti con la madre camminando con
mollezza, fermandosi alle vetrine, come cosa sua,come scopo che gli
apparteneva con cui avrebbe fatto ancora all'amore tante volte, per
tutta la vita.
Ai
Quattro Canti imboccarono la via Lincoln (odierna Sangiuliano).Al
negozio d'angolo la madre si fermò davanti a una mostra di camiciole
da ragazzo a prezzi di liquidazione. Nino interpellato ne trovò una
a strisce bianche e blu di suo gusto.
Alla zia
Cettina quella maglietta piacque molto. Entrarono tutti a comprarla
mentre lo zio faceva premura perché ormai l'ora dello spettacolo era
vicina.
Percorsero via Lincoln un po' desolata in quella luce pomeridiana,
costeggiarono il terrapieno del giardino pensile del palazzo
Manganelli, voltarono per via Michele Rapisardi e finalmente
arrivarono davanti al Teatro Massimo. -
LA
PASSEGGIATA
(dal
libro "Un bellissimo novembre "(1967)di Ercole Patti (Catania
1903-1976)
UNA STRADA FAMOSA: LA
VIA ETNEA
(di Antonio Aniante)
-A Catania, la via Etnea è
popolata su tre chilometri, ma è lunga dal cratere centrale del
vulcano all'angiporto odoroso di spezie levantine, frequentato dai
giovanissimi greci.La via Etnea è la più rinomata officina di gelati
che ci sia al mondo, ed è autentica soltanto d'estate:quando le
stelle del cielo di Catania sono le più grosse e più luminose del
firmamento, e il gelsomino d'Arabia, che a spighe agghinda i
chioschi dei gazzosai, è paffuto e grande come una mano di bambino.
L' Angelus della sera vien dato dagli organetti di Barberia, dal
centro alle viuzze malfamate. Lassù,sugli alti pendii,la lava
incandescente fa strage di castagneti millenari.Quaggiù i cocomeri
di fuoco uniscono la loro lussuria a quella delle bombe al
cioccolato e al pistacchio. Per la via Etnea tutta,dalle nicchie
rossastre del gazometro marittimo, alle ombrate stanze
dell'Arcivescovado, dalle cabine dei paquebots ondeggianti nel molo
alle cellette liliali del convento dei minoriti, è un via vai di
gente assetata:in fretta si avvia alle cisterne che vomitano
variopinti gelati nei cento caffè aperti sugli ombrosi cortiletti
innaffiati di fresco. Fino a pomeriggio inoltrato, corso Stesicoro
vive nell'ansia degli innaffiatoi municipali. Appena la strada sente
della falsa pioggia, i cocchi splendenti della nobiltà cattolica e
le lunghe e puzzolenti automobili della borghesia liberale
irrompono, scorazzano, ma senza il minimo panico da parte dei pedoni
armati. Le sette chiese di via Etnea si affollano di mendicanti che
agognano il fresco e non han soldi per comprarsi cassate e
cannoli.Sui marciapiedi, i bei ragazzi dagli occhi a mandorla e di
velluto, vestiti di candida lana, vanno a passo largo di guappo in
cerca di liti,d'amore. Alle terrazze delle birrerie inondate di
acqua trottano nervosi i tavolinetti in un assordante vocio di
camerieri e di clienti. Ma coloro che san leggere e scrivere
preferiscono le gelaterie sacre a quelle profane e vanno a
nascondersi sotto i pergolati dietro la cattedrale normanna in
antiche e ombrose sorbetterie,consapevoli come sono,da tempi
immemorabili, che il vespertino incontro con le granite multicolori
è un rito.I più ricchi mercanti di Malta e di Smirne non osano
entrare, perfino il sindaco e il cardinale si accontentano di
consumare il torroncino di neve nella loro automobile chiusa. E,come
api attorno al miele, migliaia di angioli ingordi scorazzano,
svolazzano attorno alla baronessa Schininá ;è lei che leva al cielo
d'un purissimo azzurro, fra le dita inguantate, un ciclopico pezzo
misto.
Anche le bellissime donne
catanesi non aspettano che si accendano i fanali, per disertare le
gelaterie di via Etnea e far ritorno nelle case profumate
all'insalata di cetrioli. Il prelato attende che il corso Stesicoro
si svuoti, per portar la santa tredicenne a sorbir la vaniglia in un
piattino d'argento e con un cucchiaino d'oro.Per lei,padroncina
adorata della città, parata di gioielli per il complessivo valore di
cento miliardi, fu costruito un pozzo profondo, dalle pareti
incrostate di mandorle, noccioline e pistacchi;da un gradino
all'altro e passando per sette porte di bronzo, si scende fin sul
letto del fiume Simeto (che prima di me cantò,Ovidio nelle
Metamorfosi).Alla sua foce ,montan la guardia contro i ladri
internazionali mille e mille cherubini galleggianti su larghe fette
di cocomero. La beata pulzella vien portata nella sua reggia segreta
prima che un impetuoso vento africano si incanali da Porta Uzeda nel
corso Stesicoro, con un soffio intenso di catrame, di zolfo, di
assenzio, di pepe e di cannella;il vento inaridisce le gole e
protegge lo smercio delle bibite al cedro e all'amarena. La
passeggiata continua lo stesso, perché la folla elegante fa da fitta
siepe contro la sabbia volante e le maliose dame avanzano
imperterrite, mentre i mariti trattengono con le dita i loro
cappelli di paglia.-
-Ecco Mariuccia, meravigliosa
fanciulla di tredici anni ,nata d'un lampionaio e d'una pillucchèra
,eccola sotto le potenti lampade della pasticceria Caviezel far la
sua spettacolare apparizione in via Etnea; è stata la prima a
Catania a proclamarsi donna alla sua età, a usar dei cosmetici alla
sua età, a uscir sola alla sua età (ma a dieci metri di distanza
dietro di lei,la madre,che nasconde la faccia di strega nel nero
scialle,marcia e sorveglia la figlia, ha le saccocce piene di
sassi,un randello lungo la gamba epilettica).
Mariuccia, vestita alla moda del
continente, sventagliandosi veloce,fila,e uno sciame di giovanotti
le fa ala,attacca rissa di gelosia con la banda rivale,appena giunta
all'altezza del giardino Bellini. I grandi alberi di
magnolia,carichi di tutti i passeri della terra, piegano i rami fin
sulla strada. Mariuccia inaugurò arditamente la epoca moderna del
corso Stesicoro, fu pioniera d'emancipazione, fu lei che osò
portarsi una sigaretta alle labbra dipinte,seduta a un tavolo della
birreria svizzera!Oh le sue chiome corvine, i suoi larghi occhi neri
dalle maestose ciglia!Metà bimba metà donna, finì con la bambola in
braccio in un lettino d'ospedale, da che un orribile fiore spuntò
malefico alla sua bocca di corallo.
Ahi,l'immagine di Mariuccia ha
fatto presto a richiamare in me i ricordi tristi e tragici di via
Etnea:in primo tram,di marca belga,che manovrato da un omaccione di
centotrenta chili,andò a corsa pazza,coi freni rotti e con cinquanta
passeggeri ,a sbattere dal dazio nel mare.E il tram del pesce!Veniva
su,ogni giorno, alle una,dalla piazza del Duomo, zeppo di padri di
famiglia, tutti con pesci grandi e piccoli sotto la giacca.
Salivano le baronesse e le
marchesine, vestite di panna e di latte, e gli uomini, cavalieri
come lo sono soltanto i catanesi, cedevano il posto ancora sporco di
sardine.
Ricordo il grosso vescovo che
accompagnò Sant'Agata lungo la via Etnea, in mezzo a un mare di
fanatici; dal caldo soffocante che sprigionava la folla, il
monsignore perdette i sensi,cadde dal fercolo, fu calpestato e
ucciso senza che ce ne fossimo accorti.Ricordo la sera della
battaglia del gesso ,a Carnevale, lungo il corso Stesicoro
letteralmente occupato dalla teppaglia cruenta mischia che terminò
all'alba dinanzi al cancello dell'ospedale di Santa Marta .Ricordo
le fiaccolate, mostruose,che illuminarono la via principale al
ritorno dell'onorevole Giuseppe De Felice dal domicilio coatto.-
-A vero dire,spesso la via Etnea
finiva di appartenere ai regolari cittadini, per cadere nelle mani
dei facinorosi:come nei giorni apocalittici dei comizi elettorali,
l'avresti detta presa dalla peste o dal colera: caffè, negozi,
portoni e finestre si sbarravano in un batter d'occhio, al primo
petardo dei dimostranti, alla prima torcia che sbucava da una via
laterale. O erano gli studenti dell'istituto nautico, che pigliavano
d'assalto il centro, trascinandosi dietro tutta la studentesca delle
altre scuole. O la sera della festa di Sant'Alfio ,quando i carri e
i calessini con gli <<ubriachi>>in lunga teoria scendevano da
Trecastagni, sfilavano per via Etnea, abbandonata spelonca,
provocando la mafia che li attendeva al varco.O quella volta che più
del solito si fece sentire la fame,durante il primo conflitto
mondiale:il corso Stesicoro fu invaso da una moltitudine
preistorica, goyesca ,e chi in groppa a scheletrici cavalli e chi
armato di tridentino,feccia, ceffi mai visti,che saccheggiarono i
bei magazzini e sparirono sotto il fuoco dei carabinieri, non si sa
dove,come in un incubo,e chi li ha più visti?O all'alba i caprai che
scendevano in via Etnea alla testa dei più disparati greggi, si
spiegavano addosso alle saracinesche e in mezzo alla strada per un
intero chilometro. O le notti dai palazzi neri ,dal buio fitto i
viveurs, le chanteuses, i malandrini, i mendicanti, i mercantucci di
malaffare formavano gruppi sinistri come di monatti, visibili
soltanto al bagliore di un colpo di vecchia pistola.
Questa era la via Etnea che da
ragazzo mi dava paura. Mia madre,mia sorella ed io,la guardavamo
dall'alto della nostra casa:era per noi una bolgia dantesca che più
di una sera,più di una notte si trattenne mio padre.Non dimenticherò
mai le angosciose attese del capo di famiglia quando tardava a
risalire dal centro al borgo. La paura della Via Etnea si dissipava
un pò nella mia fantasia la domenica delle Palme, allorché nelle
vetrine delle pasticcerie troneggiavano voluminosi agnelli pasquali
,spuntavano già le margherite sui binari del tram e sui cappelli dei
commercianti, da un marciapiedi all'altro del corso,da un balcone
all'altro, a decine di migliaia e a una sola voce ,si scambiavano
gli auguri, baciandosi, abbracciandosi ,stringendosi le mani .
Ma in una così santa occasione,
non mancava l'ora tragica che porta il marchio di via Etnea;dai
balconi più alti piovevano sulle teste degli impassibili bellimbusti
i vasi rotti, e crepitavano, in segno di festa, le colubrine.-
-Crebbi con un folle terrore del
tratto di via Etnea che va dalla casa di Federico De Roberto a Porta
Uzeda sulla marina;trecento metri più o meno di bellissimi e
monumentali palazzi,neri,dal barocco inconfondibile:è il centro, è
il cervello della città. Aprite strade e trafori,spalancate
piazze,fate di Catania una metropoli, la sua testa rimarrà lì dove
l'ho descritta e li c'è tutto;e ai miei tempi, che erano quelli del
falsario Cicco Paolo Ciulla,vero direttore del Banco di Sicilia,
anche le false banconote, i falsi palazzi,le false opere d'arte, i
falsi nobilotti erano ancora più belli dei veri.
Fin che fuggii come perseguitato
da quel tratto di strada che pure fermo,veniva a gettarsi addosso
nelle mie insonnie di precoce adolescente;dissi addio al cuore di
Catania che non avevo ancora diciassette anni. Ho fatto di tutto,
nei miei vagabondaggi attraverso il mondo, per dimenticare
l'aristofanesco cervello di Catania. Mi fu impossibile far pelle
nuova;dovunque andavo,mi portavo sulle spalle rachitiche la via
Etnea;senza volerlo, tentai di liberarmene, gettandola di peso nei
miei cinquanta e più volumi di romanzi e novelle.Ora soltanto
comprendo,a sessant'anni, che il cervello di Catania è il mio
cervello, la via Etnea sono io,ed ogni qualvolta ritorno al mio vero
me stesso con le sue false e genuine qualità,la ritrovo, come
adesso:fosforescente scia levantina che va dal vulcano nativo al mio
mare .
__________________________________________________
tratto da "I Catanesi" di Antonio
Ariante (1970)
|
La facciata Nord del Municipio
Palazzo Sant'Alfano
VIA ETNEA,CATANIA,NATA DOPO IL DEVASTANTE
TERREMOTO DEL 1693
La via Etnea sorse soltanto alla fine del XVII secolo a seguito del disastroso terremoto dell'11 gennaio 1693.
L'evento tellurico rase pressoché al suolo la città di Catania e
sotto le macerie perirono circa i due terzi dei suoi abitanti. Il
duca di Camastra, inviato dal viceré con il mandato di
sovraintendere alla ricostruzione della città, decise di tracciare
le nuove strade secondo delle direttrici ortogonali e partì proprio
dal duomo che era uno dei pochi edifici non completamente distrutti.
Venne così creata una strada che dal duomo si dirigeva verso l'Etna
e una strada che la incrociava con direttrice est-ovest. Nacque così
quella che oggi è la via Etnea. La strada venne chiamata via duca di
Uzeda, in onore del viceré del tempo. Nel corso dei secoli il suo
nome venne poi mutato in via Stesicorea ed infine nell'attuale di
via Etnea visto che la strada si dirige verso l'Etna. La strada era
allora lunga circa settecento metri e terminava nell'attuale piazza
Stesicoro, allora chiamata porta di Aci. Qui esisteva una delle
porte della città di Catania. La strada perpendicolare, attualmente
via Vittorio Emanuele, venne invece chiamata via Lanza e
successivamente Corso per poi cambiare il suo nome nell'attuale
durante il XIX secolo.
I palazzi che vennero costruiti lungo le due
strade furono edificati nello stile del barocco siciliano dagli
architetti Giovan Battista Vaccarini e Francesco Battaglia. Lungo la
via Etnea vennero edificate ben sette chiese che partendo dalla
cattedrale sita in piazza Duomo proseguivano con la basilica della
Collegiata, la chiesa dei Minoriti, la chiesa di San Biagio, la
chiesa del Santissimo Sacramento, la chiesa di Sant'Agata al Borgo e
la chiesa della Badiella. Lungo il suo percorso vennero costruiti
molti palazzi della nobiltà catanese ed edifici pubblici. Partendo
dalla piazza Duomo si incontra il palazzo degli Elefanti, sede del
municipio e quindi il palazzo dell'Università ed il palazzo San
Giuliano. Proseguendo si incontrano il palazzo Gioieni ed il palazzo
San Demetrio ai Quattro Canti. A piazza Stesicoro si trovano il
palazzo del Toscano ed il palazzo Tezzano. Proseguendo si trova il
palazzo delle Poste e l'ingresso principale della villa Bellini. Nel
corso del XX secolo la strada si sviluppò oltre l'incrocio con i
viali e proseguì fino a piazza Cavour, il Borgo per i catanesi, dove
si trova la fontana di Cerere in marmo di Carrara, conosciuta dai
vecchi catanesi come 'a tapallara (dea Pallade), e quindi al Tondo
Gioieni, dove negli anni cinquanta del XX secolo venne costruita
l'allora circonvallazione di Catania.
Dal 1915 al 1934 la via ospitò i binari della
tranvia Catania-Acireale.
Gli scatti di memoria di Franz Cannizzo
|
Era la famosa gioielleria di
A. Russo progettata da Carlo Sada.
La
foto è riportata nel volume "Vecchie foto di Catania" a pagina 212. Il primo
volume del 1986 facilmente rintracciabile in qualsiasi biblioteca. Il
curatore data la foto alla fine del 1800.
Lo studioso Salvatore Nicolosi indica la
posizione
del sito in via Etnea 48, angolo via Fragalà, di fronte la Collegiata.
La ditta fondata nel lontano 1846 cessò
nel 1961. Dapprima ebbe sede in corso Vittorio Emanuele (notate "corso"), la
Agatino Russo e figli, oltre a fare i cambiavalute e scontare «cuponi e
cartelle di rendita» (quindi comportando come una sorta di banca), vendeva
monete antiche e oggetti di antichità, «bisciutteria», gioielleria,
argenteria e lavori di corallo.
Lo storico Giarrizzo commentava: "Il mercato
è tentatore, ma capriccioso, e l'imprenditore siciliano lo rincorre come
può, o cambiando attività, o diversificando i settori del suo intervento."
(il "Banco" era al n. 9 di via Fragalà).
I bombardamenti aerei e navali della
seconda guerra mondiale nel 1943 danneggiarono il palazzo nel quale si
trovava la gioielleria (notare che nella foto è scritto "giojelleria")
Hanno
due chitarre sgangherate che non le vorrebbero nemmeno al
festival degli stonati, corde di metallo caricate fin dai
tempi di Modugno ormai così piene di ruggine che diventa
pericoloso addirittura tentare di accordare gli strumenti
(strumenti?), un amplificatore utile solo per far dire
"mamma" alla bambola .... e poi le mani, le loro magiche
mani che volano su quelle tastiere ridotte ai minimi
termini.
In queste paradossale
situazione, quasi al limite della produzione di un suono,
questi due chitarristi sudamericani regalano piccoli momenti
di felicità musicale lungo i marciapiedi di via Etnea
carichi di addobbi natalizi. Sono bravissimi e le offerte
che ricevono sono meritate.
E poi un'offerta a un
musicista di strada non si nega mai.
|
Questa
Basilica sorge su una preesistente edicola dedicata alla Madonna
dell'Elemosina, che era infatti dedicataria della Basilica al
principio.
Nel corso dei secoli, la Chiesa divenne sempre più importante ed
assunse dal 1396 il titolo di Regia Cappella, essendo spesso oggetto
delle frequentazioni dei Reali aragonesi.
Dal 1446, ivi venne istituito un Collegio di Canonici (da qui il
titolo di Collegiata), tramite una bolla pontificia di Papa Eugenio
IV.
Anche quest'edificio subì danni ingentissimi dal violento sisma del
1693 e dovette essere riedificato, anche se stavolta la facciata venne
rivolta lungo la via Etnea, che era divenuta nel mentre una delle
arterie principali della città.
La facciata settecentesca fu realizzata nel 1781 da Stefano Ittar, ed
è uno degli esempi più fulgidi di barocco catanese.
Si articola su due ordini, dei quali il primo presenta 6 colonne in
pietra, sormontate da una balaustra, e sul secondo si apre una grande
finestra centrale, incorniciata da 4 statue dei Santi Agata, Paolo,
Pietro e Apollonia, due ai lati della balaustra e due in nicchie nel
muro, separate da lesene piatte.
Al di sopra della finestra poi, si trova la campana della Chiesa,
secondo uno stile che ricorda quello delle chiese di area spagnola.
L'accesso al tempio è garantito da uno scalone. Delimita il sagrato
una bella cancellata in ferro battuto.
STORIA DELLA REGIA CAPPELLA MARIA
SANTISSIMA DELL'ELEMOSINA
Sulle rovine del tempio di Proserpina sorse nei primi
tempi del cristianesimo un'edicola con un'icona dedicata alla Madonna che i
bizantini chiamavano Madre della Misericordia e che poi fu detta Maria
Santissima dell'Elemosina, perché si sosteneva con le offerte dei fedeli.
Essa è ricordata nelle vite dei vescovi catanesi S.Leone (V sec)e Ruggero
(1194).
Nel 1356 Federico III d'Aragona, fissando la propria
dimora a Catania, riconobbe che il tempio era dal 1226 di regio patronato e
lo insigni del titolo di "Regia Cappella ";re Martino I poi lo doto' di
notevoli benefici e ricche rendite nel 1396.
Papa Eugenio IV (1431-1447)con una bolla del 31 marzo
1446 elevo' la chiesa al rango di Collegiata (cioè chiesa con capitolo di
canonici ma non sede di cattedra vescovile )concedendole gli stessi
privilegi goduti dalla cappella di S. Pietro nel Palazzo reale di Palermo.
Nel 1589 i padri capitolari acquistarono un terreno
limitrofo al sacro edificio in costruzione per poterlo ampliare, come
richiedeva il suo prestigio, dato che esso veniva subito dopo al Duomo per
importanza.
Nel 1629 il vescovo Innocenzo Massimo
(1624-1633)istituì nella parte del coro a mezzogiorno, vicino alla cappella
di S.Apollinare, un cimitero per i padri capitolari.
Nel 1655 il tetto della Chiesa fu nuovamente rifatto
:al culmine stava l 'immagine della Madonna seduta in trono "con il sacro
Figlio messo al petto ".In quel tempo la Collegiata era doviziosa di arredi,
argenterie e vesti sacre :aveva 5 cappelle con quadri preziosi e un organo a
5 registri con cantoria; nel 1658 poi l'icona della Vergine fu rinnovata e
l'antica immagine -dopo lunghe discussioni -fu sostituita con quella di
Maria Purificata .
Il 9/11 gennaio 1693 il catastrofico terremoto
distrusse ,insieme a quasi tutta la città, anche il glorioso monumento dei
32 padri capitolari la metà peri sotto le macerie; del tempio rimasero
soltanto le due campane piccole e quella più grande, fusa nel 1676 da mastro
Giacomo Marotta da Tortorici e dal calabrese mastro Giuseppe Rinaldo.
Nel 1697 il vescovo Andrea Riggio (Pa1660-Roma
1717)pose la prima pietra della nuova chiesa, che si volle più grande della
precedente e orientata in modo diverso, così da presentare il prospetto
lungo la nuova via Duca di Uzeda .
Nel 1697 Antonino Amato ottenne l'appalto per l'estaglio
delle statue nel prospetto con il visto del faber murarius Giuseppe
Longobardo;mentre Alonzo Di Benedetto, l'architetto scampato al terremoto,
aveva l'incarico di fornire le pietre bianche e nere per la costruzione. Si
ha notizia di un altro scultore :il messinese Domenico Biundo,e si sa che il
marmo di Carrara arrivava da Genova per mare.
Nel 1703 appare per la prima volta il nome del
progettista :Angelo Italia (Licata 1628-Palermo 1700),il padre gesuita
venuto a Catania per costruire la chiesa del suo Ordine, statuarius ,sculptor,architectus
.
Nel 1705 i lavori per la facciata si interruppero per
una diatriba legale con i vicini fra cui il barone Paternò Castello, che
rivendicavano la proprietà dell'area scelta per il campanile.
Nel 1767 Stefano Ittar disegnò la nuova facciata
abbattendo (dal 1768 al 1769)
l'antico prospetto a pietre bianche e nere e il
campanile situato sulla destra, che era stato iniziato da mastro Giuseppe
Longobardo con il concorso del P.Crocifero messinese Vincenzo Cafarelli.
Il 29 maggio 1794 il vescovo Corrado Deodato Moncada
consacrò la nuova Collegiata.
Nel V centenario dalla fondazione, il 3 marzo 1946
,Papa Pio XII innalzo' la chiesa alla dignità di Basilica Pontificia.
Nel 1981 è stata istituita la festa della Madonna
della Misericordia al 10 di ottobre di ogni anno.
Il 1*settembre 1982 Papa Giovanni Paolo II ha
benedetto in piazza San Pietro l'immagine sacra .
Fonte descrittiva museale
|
L'interno ha un impianto a croce latina, a tre navate.
Il battistero si trova nella navata di destra. Nella stessa parte
della Basilica, troviamo tre altari con tele che rappresentano Santa
Apollonia e Sant'Euplio di Olivio Sozzi, oltre al Martirio di
Sant'Agata di Francesco Gramignani.
In fondo alla navata, è collocato l'altare dell'Immacolata:
antistante, una balaustra in marmo che reca una statua, altresì
marmorea, della Vergine, di pregevole fattura.
Nell'abside della navata centrale poi, si trova una preziosa icona
russa, che raffigura la Madonna. Essa è posto tra un coro ligneo e
due opere su tela del pittore locale Giuseppe Sciuti.
La volta della cupola e della Chiesa sono state affrescate dallo
stesso Sciuti, con scene della vita di Maria, circondata da angeli e
Santi.
Le pareti sono dipinte di vivaci colori pastello, tipici degli stilemi
del tardo barocco, che ben si sposano con la ricchezza della
decorazione pittorica e marmorea.
Nella navata di sinistra si trova la Cappella del SS. Sacramento, che
possiede un altare in marmo.
Infine, dietro l'altare maggiore, è posto un bell'organo in legno del
XVIII secolo.
A tutti i Numi dell'Olimpo
sorsero qui tempii sontuosi, e ad uno ad uno furono sostituiti —
vecchia storia — da altrettante chiese cristiane. Quello di Bacco,
presso le terme Achillee, ricco di dodici altari, somigliava,
assicurano, a quello di Eliopoli: sulle sue ultime rovine, nel 1400,
coi tesori di Ximene e Paolo di Lerida e i doni della regina Bianca,
si fondò il monastero di S. Placido.
Sul tempio di Giano, San Leone II,
il ravennate taumaturgo vescovo di Catania, eresse una chiesa a S.
Lucia; caduta questa col terremoto del 1075, fu sostituita dalla
chiesa dell'Annunziata e nel 1200 da quella del Carmine ancora
esistente. Castore e Polluce avevano un sacrario di marmo, di stucco
e d'oro, sul quale, nel 1295, fu costruita la chiesa e la badia di
S. Giuliano. Nel 1329 la regina Eleonora, moglie di Federico II,
fece costruire a proprie spese, ordinando poi che ve la
seppellissero, il convento di S. Francesco sulle rovine del tempio
di Minerva. Sedici anni dopo, nel 1355, fondandosi la chiesa di S.
Benedetto, si trovarono e scomparvero tosto per sempre i ruderi del
tempietto d'Esculapio ed il suo simulacro.
Sui rottami del tempio di
Proserpina fu eretta, nel 1382,
la Collegiata;
nel 1396 un ospedale e nel 1555 la chiesa dei Gesuiti occuparono
l'area del tempio di Ercole, del quale resta una statua mutilata e
rabberciata nel museo Biscari. L'ultima sostituzione avvenne nel
1558, quando sui vestigi del tempio di Venere, sulle sue colonne
infrante, sui frammenti dei suoi mosaici, i Benedettini costruirono
la loro casa.
da
"Catania" di Federico De Roberto
ISTITUTO ITALIANO D'ARTI
GRAFICHE — EDITORE 1907 |
EX NEGOZIO FRIGERIO 1909 CIRCA
VIA MANZONI 95
AUTORE:TOMMASO MALERBA (1866-1962)
-Il negozio di mode e confezioni, vincolato
con D.A. n.988 del 14/04/1986,delle sorelle Frigeri è una piccola bottega
costruita in un angolo posto a fianco dell'abside della Basilica Collegiata.
Essa viene progettata da Tommaso Malerba nel
1909 con la stessa cifra stilistica che aveva usato per palazzo Marano di via
Umberto. In linea con l'espressione linguistica liberty che aveva tracciato la
II esposizione agricola siciliana.
L' ubicazione marginale e la dimensione
ridotta non limitano la creatività dell'autore che invece esprime una sorta di
ricchezza ed aulicità decorativa.
L' edificio è caratterizzato da un essenziale
e squadrato volume, costituito da un angolo tripartito, organizzato
semplicemente nelle sue linee generali ed arricchito plasticamente da una serie
di fregi mistilinei.
Il tema principale della facciata è
costituito da una larga trabeazione a coronamento dell'edificio a due elevazioni
che costituisce l'architrave delle aperture del primo piano ed il sostegno ad
una ricca merlatura, metafora degli antichi acroteri. Il resto della facciata
sorregge la trabeazione attraverso l'uso di una superficie a specchiature
policrome, (già utilizzato in città nella facciata del palazzo Del Grado di
Carlo Sada, anche se con altre aggettivazioni),e di una serie di cornici che si
intrecciano sinuosamente raccordandosi tra le aperture.
Il piano terra è composto da un basamento
semplice e austero in contrapposizione alla leggerezza espressa dall'apparato
decorativo del primo piano.
Ex negozio Frigerio - Via
Manzoni/Via Collegiata (foto di Andrea Mirabella)
La decorazione a stucco che Malerba elabora è
di tipo avvolgente come prevedono i dettami del liberty, il repertorio
decorativo si incentra su rilievi floreali molto accentuati con elementi
scultorei puntuali quali le teste muliebri che sottolineano e invadono le
aperture del piano superiore e le aquile che segnano la rotazione delle
superfici piene del piano terra.
All'interno della trabeazione ricca la
struttura della decorazione a nastro che viene concentrata nella zona
tradizionalmente del fregio,mentre la parte, che secondo lo schema classico,
definisce l'architrave, è appena tracciata sui muri da piccole cornici.
La geometria del decoro prevede una
successione di elementi floreali ad altorilievo rigidamente rappresentati
secondo le proiezioni ortogonali, interrotta in corrispondenza delle aperture da
un elemento scultoreo, Esso,mentre costituisce l'architrave dell'apertura, nega
la sua stessa valenza strutturale invadendo lo spazio della finestra proprio al
centro. Si tratta di un fregio a ventaglio che circonda una testa muliebre
arricchita da nastri. Sopra questa larga fascia una piccola cornice rettilinea
percorre tutto il fronte, sormontata da una merlatura di sapore orientale.
Questo tipo di coronamento piuttosto inusuale nelle architetture cittadine
catanesi,veniva utilizzato in alcune case di campagna settecentesche
dell'hinterland etneo e riproposto nelle fogge e nei decori moreschi in alcuni
edifici ottocenteschi. Malerba lo ripropone qui con una sequenza di fioroni. -
(Vittorio Percolla, dal catalogo "Catania
1870-1939"dell'Assessorato alla Regione Siciliana)
|
Quando
Mara Messina morì, il 14 di agosto del 1907, il cordoglio si sparse per
le strade di Catania rapido come l’inconfondibile profumo dei suoi
biscotti all’anice, ancor oggi rinomati in tutta la Sicilia. E fu con un’affettuosa
gratitudine che i catanesi si recarono a rendere l’ultimo omaggio alla
donna che aveva saputo portar fuori dal convento, quasi come Prometeo con
il fuoco, il segreto di dolci semplici e gustosi. Un sentimento conservato
quasi intatto fino a oggi che ricorre il centenario della scomparsa della Monaca dei viscotta d’a
monica. Sì, perché fu proprio
Mara Messina, nella Catania degli ultimi decenni dell’Ottocento, a
metter su con la nipote Rosaria Di Mauro, che avrebbe poi sposato Giovanni
Arena, una piccola rivendita di biscotti in via Mancini, proprio dietro la
Piazza dell’Università, dove ancor oggi si trova un punto vendita della ditta.
Da allora i viscotta d’a monica sono i biscotti dei catanesi per
antonomasia. Se volessimo esagerare potremmo dire che i cromosomi del
cittadino marca liotru hanno forma di esse, un color mielato scuro e... un forte odore d’anice.
La ricetta dei viscotta rimane però ancor oggi segretissima: la famiglia
Arena non ne vuol sapere di rivelarla. Ma si può ipotizzare che siano a base di
farina, strutto e semi d’anice, visto che dolci simili, di cui è nota
la ricetta, vengono preparati anche a Cefalù e sulle montagne di Pistoia. Di certo c’è che sono
inconfondibili: per il profumo, la forma a esse, per il crocchiare quando
vengono addentati.
E perché, come le ciliege, non ci si stanca mai di mangiarne (qualcuno
sostiene addirittura siano digestivi). Quel che comunque ci preme non è
parlare dei viscotta d’a monica, è tentare di ricostruire la vicenda umana della Monaca
stessa: Maria Messina, meglio nota come Mara.
Via
Etnea fu la prima e più importante strada tracciata dal Duca Lanza di
Camastra, inviato dal Vicerè Gian Francesco Paceco Duca di Uzeda,
dopo il tremendo terremoto del 1693. Congiunge in linea retta il mare
con le prime pendici del vulcano. Quì i notabili e i patrizi più
importanti, costruirono le loro lussuose dimore, che furono realizzate
dai migliori architetti. Tra gli edifici più pregevoli, quello
appartenuto ad una delle famiglie che ebbero un ruolo importante nella
vita della città:i Gioieni, discendenti da Arrigo d'Angiò,
consanguineo di Carlo I d'Anjou. L'edificio è situato all'angolo fra
via Etnea, piazza Università e via Euplio Reina. Sul fianco
dell'ingresso principale, si trova un bassorilievo bronzeo, opera
dello scultore Mario Rutelli, degli inizi del '900. Sulla stessa
piazza, di fronte al palazzo dell'Università si nota il palazzo dei
marchesi di S.Giuliano, oggi proprietà del Credito Italiano.
Costruito dal Vaccarini (il genio palermitano), ricorda un edificio
del Vanvitelli che si trova a Napoli, il palazzo Fontana Medina. I San
Giuliano, come i Gioieni, fanno parte di un gruppo di famiglie
catanesi notabili. Uno di essi, Antonio Paternò Castello, marchese di
S.Giuliano, fu un insigne statista. Morì a Roma nell'Ottobre del
1914. Sul prospetto dell'edificio rivolto in via Euplio Rejna, una
targa di marmo ricorda il 'Machiavelli' teatro dialettale che fu la
scuola iniziale di attori come Giovanni Grasso e Angelo Musco.
Sul lato opposto, due edifici, il secondo dei quali è quello di 'Casa
Biscari'. Quasi di fronte, prima dei 'Quattro Canti', c'era un bel
prospetto di antico palazzo, nel quale si apriva il balcone dal quale
Garibaldi proclamò: 'O Roma o morte!'. In seguito, il palazzo,
gravemente lesionato, venne abbattuto.
Sullo stesso lato della strada, sorge il settecentesco palazzo
'Carcaci' e, di fronte, il palazzo 'S.Demetrio'. Fu il primo ad essere
innalzato dopo il terremoto e lo ricordano 2 iscrizioni nell'atrio,
dove figura anche il nome del proprietario: Eusebio Massa barone di S.Gregorio e precettore della Valle dei Boschi. L'edificio, in pietra
bianca, ricchissimo di ornamenti e bassorilievi, è opera di Pietro e
Francesco d'Amico e di Pietro Flavetta. Venne quasi interamente
distrutto dai bombardamenti aerei del 1943 e riedificato subito dopo,
come una copia dell'originale!
Dietro palazzo Carcaci, sulla piazza omonima, sorge uno degli edifici
monumentali più importanti: il palazzo dei Principi Manganelli.
Su piazza Stesicoro, con una facciata rivolta a via Etnea, vi è
palazzo Tezzano, costruito nel 1724 da Alonzo Di Benedetto. Ha un
coronamento turrito, sul quale si notano le teste di 2 mori ed un
grande orologio sotto le campane. Fino al 1880 ospitò l'ospedale di
S.Marco, poi fu sede del Tribunale e, nel 1953 fu adibito a scuola
pubblica.
Di
fronte a palazzo Tezzano, s'innalza il palazzo del marchese del
Toscano, colossale costruzione in stile rinascimentale, opera
dell'architetto napoletano Errico Alvino (1864). Sorge su un antico
palazzo, opera del Vaccarini, ed era di proprietà del nobile Pietro
Maria Tedeschi Bonadies.
Tra piazza Stesicoro e Corso Sicilia, ecco il palazzo del barone di
Beneventano, che ha uno stile analogo. All'angolo di via Etnea-via
Pacini, sorge il palazzo del principe del Grado, opera di Carlo Sada.
Appena dopo l'ingresso del Giardino Bellini, la casa dove morì
Federico De Roberto e di fronte, ad angolo con via Umberto, la casa
del barone Pancari, di gusto barocchetto, realizzata dal Sada.
Prima di arrivare a piazza Cavour, ecco un'altra opera del Sada, l'ex
palazzo Libertini e, quasi di fronte, l'Orto Botanico, fondato nel
1858 dal prof. Mario Di Stefano. Al civico 575, una lapide ricorda la
casa del poeta Mario Rapisardi, che vi morì il 4 Gennaio 1912. Cento
metri più avanti, l'Ospizio dei Ciechi, fondato da Tommaso Ardizzone
barone di Gioieni (1911). Via Etnea termina al 'Tondo Gioieni', inizio
di un importante nodo stradale e in cui si articola la
Circonvallazione.
http://www.puzzle.altervista.org/katane/monumenti.php
La
via Etnea è la strada principale del centro storico di Catania. Si
snoda nella direttrice sud-nord, ha un andamento rettilineo ed è
lunga circa tre chilometri. Va da Piazza Duomo al Tondo Gioieni.
La via Etnea sorse soltanto alla fine del XVII secolo a seguito del
disastroso terremoto dell'11 gennaio 1693. L'evento tellurico rase
pressoché al suolo la città di Catania e sotto le macerie perirono
circa i due terzi dei suoi abitanti. Il Duca di Camastra, inviato dal
viceré con il mandato di sovraintendere alla ricostruzione della
città, decise di tracciare le nuove strade secondo delle direttrici
ortogonali e partì proprio dal Duomo che era uno dei pochi edifici
non completamente distrutti.
Catania è bella è affascinante
proprio per quel connubio inscindibile di pregi e difetti che ti fa
innamorare, è una città che ti dice “vivimi così come sono, non
giudicarmi ma amami”.
Giuseppe Fava
|
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Palazzo Mannino Acanpora
(Via Carcaci) |
Palazzo Cilestri |
Catania - Com’erano felici
gli anni 60.
Catania cresceva a ritmo
impetuoso, la muratura non si fermava mai perché si costruivano nuovi
quartieri, le arance arrivavano fino nell’Urss, Via Etnea era lo splendido
salotto e Turi Ferro, il mattatore di “Tutta la città ne parla” (e poi dello
Stabile) era l’erede moderno di Giovanni Grasso. Il lavoro si trovava
facilmente, ti veniva incontro.
Io sono entrato a “La Sicilia” nel 1952,
a vent’anni. Trovai allo Sport una bella cumacca e furono tempi eccezionali.
Ebbi un colpo di fortuna perché il film “La dolce vita” di Fellini aveva
conquistato il pubblico di tutto il mondo e il protagonista, Marcello
Mastroianni, era sceso ad Augusta per girare un altro film. Andai a trovarlo
e gli feci un’intervista. Piacque e l’editore Domenico Sanfilippo
incontrandomi in corridoio mi disse: «Illustre amico, ma allora lei non sa
scrivere solo di sport?». Così, quando ci fu la strage del Vajont, la diga
che si ruppe facendo precipitare una valanga d’acqua che seppellì un intero
paese, duemila morti, l’editore mi chiamè assieme a Nino Milazzo (poi
diventato vicedirettore del Corriere della sera) e disse: «Andate al Vajont.
Milazzo scriverà la nota politica e Zermo farà la cronaca».
Cominciò così la mia carriera da inviato
perché poi vennero il terremoto del Belice, le Brigate rosse, la guerra del
Golfo del 1991, le stragi di Palermo e quant’altro, questo per dire come a
quei tempi era possibile trovare a Catania un lavoro interessante
costruendoci sopra una famiglia e una casa. Era il tempo dell’inciminata, le
palline dolci che i bambini trovavano nei contenitori di vetro delle
tabaccherie.
A quell’epoca i giovani si conoscevano
tutti. Io prima di cominciare a fare il giornalista bivaccavo all’Università
nella facoltà di Giurisprudenza. E siccome avevo tanto tempo libero andavo a
passeggiare in Via Etnea assieme a qualche amico. In sostanza facevo parte
dei “consumatori di basole”, di quelli che a furia di passeggiare
consumavano non solo le suole delle scarpe, ma anche le basole di lava.
Eravamo in tanti i passeggiatori e ci si incontrava con piacevolezza. Uno di
loro, con qualche anno in più di noi, era Alvaro Paternò dei principi di
Biscari che potevi vedere quasi tutti i giorni mentre procedeva con passo
lento. Un uomo molto dolce e gentile, quasi affettuoso, che si fermava
sempre alla Pasticceria Svizzera dei fratelli Caviezel per assaggiare
pasterelle e pizzette. Non c’erano solo principi tra i consumatori di basole,
ma anche personaggi del popolo come Pippo de’ pirita, o Jachino Marletta,
forzuto sollevatore di basole per scommessa. Poi andò a fare il cinema a
Roma, tornò gay.
Il vero scopo dei consumatori di basole
era di incontrare qualche ragazza. Non si trattava di ingravidare balconi,
perché di balconi nella parte superiore di Via Etnea che va da piazza
Stesicoro alla Villa non c’è quasi nessun balcone. La passeggiata era solo
un inebriarsi della vista di belle ragazze e di signore di classe. Uno che
si vedeva spesso era anche Nando Torrisi il bello, fratello di Pinella poi
moglie di Nino Drago in seconde nozze. C’era anche Puccio Distefano detto il
bello per distinguerlo da Puccio Distefano il brutto.
Stranamente i pallanotisti della Jonica,
del Cus Catania e del Giglio Bianco, cioè la meglio gioventù di allora, non
passeggiavano in Via Etnea, non avevano bisogno di cercare ragazze. Solo
quelli del Giglio Bianco ci dovevano passare per forza in Via Etnea
recandosi nella sede sociale di via Penninello. C’erano centinaia di gradini
da scalare, ma i picciotti erano forti e non si abbarruavano. A proposito di
basole, negli anni 70 sulla sede stradale di Via Etnea fecero una fissaria
quanto una casa: furono tolte le basole e al loro posto misero cubetti di
porfido. Se non ricordo male i lavori furono affidati ad una ditta trentina
perché Flaminio Piccoli, presidente della Dc, era di Trento... Solo le
basole dei marciapiedi erano rimaste al loro posto.
Quando pioveva forte, l’acqua che
scendeva a torrente dall’Etna invadeva Via Etnea fino a Piazza Duomo facendo
saltare come birilli i cubetti di porfido. A quel punto scrissi un articolo
invitando l’allora sindaco Scapagnini a rimettere le basole nella sede
stradale, suggerimento che il sindaco accolse. Quindi anche nella sede
stradale di Via Etnea da allora ci sono le basole di lava, il che mi fa
venire un pizzico d’orgoglio. A Catania poteva succedere anche questo: che
il giornalista scrivesse una cosa e che il sindaco lo ascoltasse.
Tony Zermo.
http://www.lasicilia.it/news/catania/146150/amarcord-i-consumatori-di-basole-nella-via-etnea-anni-60.html
L’attuale Palazzo dei Minoriti è il frutto
della ricostruzione, dopo il terrificante terremoto del 11
gennaio 1693, del preesistente edificio conventuale e
dell’annessa chiesa, costruiti l’uno e l’altra nella prima metà
del Seicento, per alloggiare i Chierici Regolari Minori, il cui
ordine era stato fondato da Papa Sisto V nel 1588 e che presto
si era diffuso in Sicilia.
Utilizzando in maniera appropriata il
terreno preesistente e in piena sintonia con le direttive dei
tecnici che collaboravano il Duca di Camastra, sia il Convento,
sia la Chiesa, furono allineati con la nuovissima arteria
cittadina, intitolata inizialmente al viceré Uzeda ed oggi
ovunque nota col nome di Via Etnea.
L’edificio conventuale ebbe forma
quadrilatera, disposta attorno ad un giardino, salvo una breve
appendice posta dietro la Chiesa, intitolata a San Michele
Arcangelo, così come la precedente andata distrutta. Esso fu
dapprima costituito da un piano terra, un basso ammezzato e un
piano primo, il cosidetto “piano nobile”. Il piano terra, dal
lato esterno, fu adibito a botteghe su tutti i tre lati liberi
(attuali Via Etnea, Via Prefettura, Via Manzoni), affinché dalla
loro locazione ne venisse un reddito per il Convento. Il quarto
lato era cieco in quanto confinante con la Chiesa. L’autore del
progetto fu probabilmente Francesco Battaglia (1701-1788).
Il Convento subì qualche danno a seguito
del terremoto del 1818 (maggiori furono quelli occorsi
all’adiacente Chiesa). Successivamente, negli anni ’30
dell’Ottocento, su progetto e direzione dell’arch. Sebastiano
Ittar (1778-1847) fu elevato il secondo piano, così come appare
in una stampa di Antonio Zacco inserita nel volume “Vedute e
monumenti antichi di Catania” edita nel 1847.
Come accadde in tutta Italia a tutte le
proprietà ecclesiastiche, nel 1866 il Convento fu requisito ai
Minoriti (così erano chiamati per brevità i Chierici Regolari
Minori) e dato in proprietà alla giovane Amministrazione
Provinciale di Catania, che vi si insediò, concedendone metà
alla Prefettura del Regno. Anzi, per rispetto al maggiore rango,
a quest’ultima fu concessa la metà di maggiore pregio, cioè
quella prospiciente la Via Etnea, mentre la sola Chiesa rimase
di proprietà dei religiosi. Entrambi gli Enti si insediarono nel
1868.
Con la nuova destinazione si ebbero
notevoli modifiche strutturali e architettoniche, prima tra
tutte un complesso intervento di abbassamento del piano di
calpestio lungo la Via Etnea, a seguito dell’eliminazione di una
lunga gobba che questa strada presentava in quel tratto.
Successivamente, per accontentare le sempre maggiori esigenze di
spazio delle due Amministrazioni e senza riguardo per la
tipologia architettonica originale, i portici che circondavano
il chiostro furono chiusi per ricavarne ulteriori locali e,
addirittura, sul lato interno di ponente dello stesso chiostro,
fu costruito un lungo corpo di fabbrica a semplice piano, privo
di alcuno stile.
Anche la guerra lasciò il suo segno
nell’edificio, che subì danni dal bombardamento del 16 aprile
1943 e che dovette accogliere, interrato nel cortile, un rifugio
antiaereo per la protezione degli impiegati e delle autorità, ma
mai questi danni pareggiarono l’ultimo oltraggio, ancora sul
lato prospiciente Via Manzoni, dovuto alla costruzione di un
ulteriore piano privo di stile, adibito a Zona Telecomunicazioni
per la Sicilia Orientale.
Finalmente, a seguito della sensibilità
del Presidente della Provincia in carica negli ultimi anni ’90,
furono demoliti il piano tecnico sulla Via Manzoni e tutte le
strutture che rendevano ciechi, o che nascondevano, i quattro
lati a portico del chiostro, che tornò così all’aspetto
originale, mentre l’edificio subiva un restauro anche al suo
interno
Nei suoi locali, di particolare pregio
nella metà utilizzata dalla Prefettura, troviamo lo scalone
principale, il grande salone di rappresentanza ed il corridoio
di levante, tutti ornati con importanti opere d’arte pittorica.
Nella metà in uso alla Provincia, spicca
il corridoio d’onore, lato di ponente dell’edificio, sulle cui
pareti è esposta una collezione di stampe antiche dell’Etna e
dei dintorni di Catania, raccolta dall’antiquario Franz
Riccobono e acquistata dalla Provincia. Notevole la Sala del
Consiglio Provinciale, restaurata nel dicembre del 2000, con le
pareti decorate dal pittore Francesco Contraffatto, con una
particolare tecnica ad olio monocromo su superficie argentata a
foglie. Su di esse è ricordata la “civiltà del lavoro” delle
comunità etnee. Meritevole anche il corridoio di tramontana, con
i ritratti dei presidenti.
http://www.6insicilia.it/citt%C3%A0/catania/cosa-vedere-a-catania/130-palazzo-dei-minoriti-catania.html
Passavo per caso davanti a Palazzo Minoriti in via Etnea, certe
musiche mi attraevano e ci sono entrato. Dritto nel suo affascinante
cortile.
Per
la prima volta ho visto ballare il Tango dal vivo durante il suo
Festival a Catania. Ma non era quello delle feste in famiglia dove
lo zio faceva il buffone, bensì quello ballato come Dio comanda. Al
centro, sul ring, si esibivano le coppie di tangheri spinte lì sopra
dai magici ritmi di chitarre e fisarmoniche argentine.
Prima di oggi, a sentire la parola Tango mi era sempre venuta in
mente l’immagine di Rodolfo Valentino volta ad ammaliare la sua
partner.
Invece niente di tutto questo. Adesso ho capito come il Tango sia in
grado di conciliare nello stesso tempo passionalità e grazia,
galanteria e garbo. Dalle scrupolose, accurate, quasi professionali
movenze dei concentratissimi ballerini si capisce quanta educazione
ci sia in quest'arta con la A maiuscola.
E'
Bellissimo vederla quasi sfiorare, quasi toccarla la donna, dico
“quasi”, perchè sembra che ci sia addirittura timidezza e, nello
stesso tempo, voglia di prenderla per i fianchi e trasportarla via
con forza.
O
vedere quanto l’essere “maschio” del ballerino, che sembra apparire
prepotente nelle sfrontate giravolte (la rosa in bocca è solo
un’invenzione del cinema), svanisca e crolli miseramente ogni
qualvolta venga ceduto con gentilezza ogni passo, ogni centimetro,
ogni sguardo, alla compagna di danza.
Secondo me, è lei che comanda, contrariamente a quanto si pensi. Lui
è solo uno schiavo trascinato sul velo di quella bella signora, che
se lo porta a spasso dove vuole fra le sonore balere della Pampas.
Questo non è un ballo, ma una religione.
2013
CHIESA SAN MICHELE ARCANGELO AI
MINORITI
-I Chierici regolari minoriti
furono istituiti dal vescovo Massimo nel 1626 ed ebbero la chiesa
parrocchiale di San Michele. Dopo 4 anni il nobile catanese
Giobattista Paternò diede loro tutti i suoi beni,ed indi i suoi
Flavia Anzalone.
Nel 1693 cadde la chiesa che
cominciato avevano, ed il convento. Fanno oggi mostra del comodo
convento e di una chiesa magnifica. Hanno un'altra casa sotto il
titolo della Concezione eretta nel fine del secolo decimosettimo dal
loro religioso Bartolomeo Asmundo sopra le rovine di antiche Terme
che avrà dovuto più rovinare,e presso una vetusta come dei SS.Alfio,Filadelfo
e Cirino, e del vescovo S.Cataldo. -(Francesco Ferrara, Storia di
Catania )
-La chiesa elegante decorata di
un bel prospetto di pietra calcare forma insieme alla vasta Casa
eretta da'chierici regolari minoriti il migliore ornamento della
strada Stesicorea.Era prima l'antica chiesa parrocchiale di
S.Michele che nel 1628 fu cessa a detti religiosi. Questo tempio a
tre navi,sormontato da cupola, frequentatissimo, offre un organo
sonoro da recente costruito in Bergamo; un S.Michele Arcangelo sopra
tavola del secolo XIII coperto di lamine di argento cesellate nel
secolo XVII; il crocifisso a tutto rilievo di un sol pezzo di marmo
di Carrara, opera di Agostino Penna romano;due quadri di Marcello
Leopardi -il Transito di S.Giuseppe e la S.Agata; -il S.Francesco
Caracciolo lasciato incompleto dallo stesso Leopardi e terminato dal
Ferreri suo allievo; l'Annunziata del Borremans.-L'altare maggiore
mostra la gajezza delle lave dell'Etna portate a pulimento ,e dei
marmi dei nostri dintorni. Le cappelle del S.Michele e del
Caracciolo sono di alabastri orientali, di verde antico, e di altri
pregevoli marmi.-(Editore Galatola, 1867
...nel 1943 quando venne
bombardata la prefettura volò (e si frantumó al suolo) la statua di
San Michele arcangelo che stava in alto sulla facciata...mentre San
Francesco Caracciolo venne diviso in due cosicché oggi è ancora solo
la parte bassa del corpo (statua in alto a sinistra guardando la
facciata). Negli anni 80 inspiegabilmente venne rimossa la maiolica
blu che decorava l'esterno della cupola....
Note e foto di
Milena Palermo per Obiettivo catania
https://www.facebook.com/ObiettivoCatania/
Palazzo Trigona di
Misterbianco (Via Montesano)
Venne così creata una strada che dal
Duomo si dirigeva verso l'Etna e una strada che la incrociava con
direttrice est-ovest. Nacque così quella che oggi è la via Etnea. La
strada venne chiamata via duca di Uzeda, in onore del viceré del
tempo. Nel corso dei secoli il suo nome venne poi mutato in via
Stesicorea ed infine nell'attuale di via Etnea visto che la strada si
dirige verso l'Etna. La strada era allora lunga circa settecento metri
e terminava nell'attuale piazza Stesicoro, allora chiamata Porta di
Aci. Qui esisteva una delle porte della città di Catania. La strada
perpendicolare, attualmente via Vittorio Emanuele, venne invece
chiamata via Lanza e successivamente Corso per poi cambiare il suo
nome nell'attuale durante il XIX secolo.
I palazzi che vennero costruiti lungo le due strade furono edificati
nello stile del barocco siciliano dagli architetti Giovan Battista
Vaccarini e Francesco Battaglia. Lungo la via Etnea vennero edificate
ben sette chiese che partendo dalla Cattedrale sita in piazza Duomo
proseguivano con la Basilica della Collegiata, la chiesa dei Minoriti,
la chiesa di San Biagio, la chiesa del SS. Sacramento, la chiesa di
Sant'Agata al Borgo e la chiesa della Badiella. Lungo il suo percorso
vennero costruiti molti palazzi della nobiltà catanese ed edifici
pubblici. Partendo dalla piazza Duomo si incontra il Palazzo degli
Elefanti, sede del municipio e quindi il Palazzo dell'Università ed
il Palazzo San Giuliano. Proseguendo si incontrano il Palazzo Gioieni
ed il Palazzo San Demetrio ai Quattro Canti. A piazza Stesicoro si
trovano il Palazzo del Toscano ed il Palazzo Tezzano. Proseguendo si
trova il Palazzo delle Poste e l'ingresso principale della Villa
Bellini. Nel corso del XX secolo la strada si sviluppò oltre
l'incrocio con i viali e proseguì fino a piazza Cavour, il Borgo per
i catanesi, dove si trova la Fontana di Cerere in marmo di Carrara,
conosciuta dai vecchi catanesi come 'a tapallara (Dea Pallade), e
quindi al Tondo Gioieni, dove negli anni cinquanta del XX secolo venne
costruita l'allora circonvallazione di Catania.
La strada è stata recentemente ripavimentata, con selciato in pietra lavica
dell'Etna, ed è ora un'isola pedonale nel tratto che va da Piazza del Duomo
ai Quattro Canti. Nel tratto che dai Quattro Canti va fino al Giardino Bellini
è invece percorsa dai soli mezzi pubblici e dai taxi. È la via dello
shopping ed una delle strade più frequentate della città sia di giorno che
nelle ore notturne. Infatti nelle strade circostanti esistono un centinaio di
locali fra ristoranti, birrerie, pub e pizzerie che sono frequentati da
giovani e meno giovani catanesi.
http://it.wikipedia.org/wiki/Via_Etnea
Via
Etnea, il salotto buono di Catania.
Filippo Arriva,
16 gennaio 2010
Allontaniamoci dalle note stonate per fare due passi nel salotto, e qualcuno
aggiunge buono, come se ci fosse quello cattivo, di Catania: via Etnea. Per
motivi diversi mi ritrovo spesso a percorrere la mitica via cittadina sul
tratto che va da piazza del Duomo a via Umberto. Un bel tratto, forse il cuore
di questa via, che ha visto Brancati e Aniante, Martoglio e Patti… L’epoca
in cui si aveva anche il tempo di sedere al bar e parlare di un nuovo nodo
alla cravatta.
Riviste patinate giurano, con belle foto a doppia pagina, che il fascino
antico non è tramontato. Catania “chiù sta e chù bedda addiventa”,
dicono. Ovviamente nulla da eccepire sul fatto che ormai le nostre vie (ma
questo accade ovunque) sembrano percorse da pazzi scatenati che sembra parlino
da soli (fa sempre una certa impressione, vero?), gesticolano o urlano i loro
sentimenti al telefono mobile con cui vivono in simbiosi. Ed è altresì
inutile dire che via Etnea, come tutte le strade del mondo, ha perduto tutti i
negozi storici per passare ai grandi magazzini delle multinazionali. Mi
addolora ancora la fuga di Barbisio da via Etnea per far posto a una insegna
che trovi uguale in tutte le città. Ma è così e nessuno può far nulla, mi
dicono.
Sì, c’è il sole. I ragazzini mangiano arancini o un gelato. Resto a
fissarli e vedo che nei confronti delle ragazzine non hanno quegli sguardi
ansiosi e curiosi che avevamo noi (Anni Sessanta, voglio dire). Si ha la
sensazione che quel sesso brancatiano, che in qualche modo ha bollato questa
via, non esista più. Sono vestiti tutti allo stesso modo, e questo lo
sappiamo, ed hanno tutti lo stesso sguardo.
E’ una via che necessita di ronde. Da quando gruppi di tre giovani in divisa
vanno avanti indietro, e di tanto in tanto fermano qualcuno che assomma
trsitezza e miseria, sembra che si viva più tranqulli. Così sento dire,
seduto al bar o dentro quelle due librerie rimaste. Sì, perché anche le
librerie sono andate al diavolo per far posto a negozi di vestiti o, se va
bene, a un supermarket del libro dove le signorine non sanno nemmeno chi ha
scritto I promessi sposi senza consultare il computer!
La ronda che sta per immettersi su piazza del Duomo punta delle belle ragazze
straniere. Le fanciulle rispondo di buon grando all’attacco, abbasano il
ponte levatoio, sparano un sorriso e aspettano l’abbordaggio. L’avvicinamento
non è discreto, fatto di buongiorno e “possiamo essere utili?”. I tre si
lanciano nel dare informazioni su strade e piazze (geografiche e storiche) con
una miscela di francese, inglese e siciliano che farebbe impallidire Totò e
Peppino che
chiedono informazioni al vigeli milanese. La ronda tentenna e
tracolla alla domanda: perché un elefante al centro della piazza? Il più
furbetto ci prova: perché siamo vicini all’Africa! Ma c’è il sole, le
ragazze accettano tuutto e nonostante il mese di fine anno, indossano canotte
colorate e tessono sguardi luminosi.
Intanto assessori comunali, vigili urbani e affiliati entrano ed escono dai
bar ridendo e scherzando, con quella soddisfazione che possiede solo chi ha
risolto i problemi della città e con la precisione di ogni ora si può
permettere di andare a prendere un bel caffé.
Risalgo e dopo piazza dell’Università esce trafelata da un negozio una
ragazza con secchio d’acqua sporca che svuota al bordo del marciapiede.
E’
d’uso per lei, non si guarda in giro ed certamente convinta d’aver fatto
opera meritevole svuotando il secchio con gabo, cioé senza schizzi. Ho notato
che in altre vie, se malauguratamente davanti al negozio c’è un alberello
con un metroquadrato di terra, quello ha l’onore di beccarsi il secchio d’acqua
sporca.
Auto, taxi, bus, moto, biciclette percorrono via Etnea. Non ho mai capito se
è zona pedonale, quale tratto e per quanto tempo. Misteri catanesi! Ho
altresì la sensazione, ma di certo sbaglio, che gli autobus catanesi siano
più rumorosi di ogni altra città. Se ti passano accanto: primo non senti
più il tuo interlocutore, secondo resti inquinato per un’ora, perché
lasciano vere e propie nuvole di smog. Non parliamo poi se ne restano in coda
indiana tre o quattro. Allora sembra di essere in un film sul disastro
nucleare. Ma è il salotto della città.
Un salotto che ha un orario di apertura e di chiusura. Quella dei negozi. Ho
la sensazione che sia loro il potere assoluto. Eccoli in molti, pochi minuti
prima della chiusura serale, lasciare a fianco dell’ingresso, scatole e
scatolone ricche di scarti e rifiuti da negozio. Qualcno nella notte ritirerà
tutto, ne sono certo, ma intanto…
Intanto qualche cane pensa di rovistare tra il cartone, che ne sa il poverino
che non troverà cibo, ma se gli va bene un appendino da rosicare.
Mi fermo a
guardarlo mentre scava con il muso. Si ferma, mi osserva con lo sguardo triste
alla Rex che sembra dire: che si deve fare per campare! E poi riprende. Più
giù dei ragazzi (mica tanto: tutti sui trenta!) allegri. spensierati e con la
vocazione al calcio hanno deciso che è venuto il momento di prendere a calci
cartoni (dei suddetti negozi) e buste per metter sù una bella partita di
calcio-rifiuti in piena via Etnea. Che estro, che fantasia questi meridionali…
Degni di un film di Salvatores!
A questo punto che proprio sia il caso di rientrare casa, dove non posso, non
voglio, non devo avere un salotto.
http://blog.lasiciliaweb.it/wp_granbarsicilia/?p=104
|
Il
convento di San Nicolò Minore, detto anche
San Nicolella
o San Nicola dei Triscini a Catania, occupa l'angolo sud-ovest dei
Quattro Canti tra le vie di Sangiuliano, Etnea, Biscari, Manzoni e
la piazza San Nicolella. Il suo aspetto attuale è posteriore al
terremoto del Val di Noto del 1693.
Il convento apparteneva al Terzo
ordine regolare francescano che ottenne licenza di edificare un
convento a Catania nel 1606 nel luogo dove ora sorgono i Quattro
Canti, area che, prima del terremoto del 1693 che distrusse il
convento e l'intera città, portava il nome di "Piano dei Trixini".
In seguito alla ricostruzione
l'Ordine tenne l'edificio fino alla soppressione delle corporazioni
religiose del 1866 voluta dal governo unitario.
Adiacente al Monastero sorgeva la
Chiesa di San Nicolò Minore, popolarmente detta San Nicolella, che
affacciava sulla via Alessandro Manzoni (prima del 1693 via Trixini,
poi divenuta dei scoppettieri) e sulla piccola piazza intitolata a
San Nicolella, dove sorge il palazzo della Questura, alle spalle del
palazzetto Biscari.
Demolita nel 1955, fu sostituita
da un palazzo moderno a più piani. Un'epigrafe in un angolo ne
ricorda il costruttore, l'imprenditore catanese Luigi Umberto
Tregua, mentre il portale maggiore dell'inizio del XVIII secolo fu
smontato e rimontato sul fianco della Chiesa di San Sebastiano in
piazza Federico II di Svevia di fronte al castello Ursino.
Palazzo ex Convento di Santa
Nicolella
Sempre all'interno
dell'originario complesso conventuale sorge la piccola Chiesa del
Santissimo Sacramento al Duomo (in via Biscari) dei primi del 1700,
in origine sede dell'omonima arciconfraternita.
Dal 1866 l'edificio, in parte
adibito dal comune a sede di uffici in parte ceduto a privati, è
stato notevolmente modificato tanto che è ormai quasi impossibile
individuarne l'antica destinazione d'uso, anche perché già nei primi
anni del secolo XIX i padri terziari avevano dovuto cedere a privati
parte del convento. Le finanze dei Regolari catanesi erano infatti
in così cattivo stato che la parte dell'edificio prospettante sui
quattro canti era rimasta incompleta, e il comune, preoccupato che
il quarto angolo rimanesse solo sulla carta rovinando la
monumentalità dell'incrocio, riuscì ad ottenere dall'ordine la
cessione dell'area a privati, dietro pagamento di un affitto, i
quali privati avevano l'obbligo di completare la quinta monumentale.
WIKIPEDIA
L’edificio
che occupa l’isolato compreso fra le vie Etnea, A. di Sangiuliano,
Mancini e Vasta, è conosciuto con il generico nome di “Palazzo dei
Quattro Canti”; per i più informati è Palazzo Geraci.
In realtà un nome ce l’ha ma non
Geraci dato che i palazzi sono due e furono costruiti a distanza di
vent’anni l’uno dall’altro. Basta osservare il prospetto principale
per rendersi conto della presenza di due distinte strutture, elevate
in tempi diversi, aventi in comune il portone d’ingresso, l’androne
e la corte. L’ala orientale, posteriore al 1830, fu edificata da
Giacomo Guerrera, ricco possidente originario di Mineo; quella
occidentale (lato via Etnea) da Paolo Geraci, imprenditore
nell’industria della seta. La confusione nasce dal fatto che
l’isolato fu acquistato da Geraci per erigervi un grandioso palazzo,
rimasto incompleto per sopraggiunte difficoltà economiche. Il
fallimento e il successivo frazionamento hanno disperso la memoria
del primo acquisitore al quale bisogna riconoscere il merito di
avere bonificato l’ultimo dei cantoni di via Etnea che, a distanza
di un secolo dal terremoto, era deturpato ancora da misere case
terrane.
Palazzo Geraci-Guerrera
Le notizie più antiche sul
“tenimento” di case risalgono al 1679 e si riferiscono a una
donazione a favore di Antonio Paternò Sigona, barone di Manganelli,
fatta da Giacinta Amico, ava materna.
Distrutti dal terremoto del 1693,
i caseggiati furono ricostruiti dallo stesso donatario, e tale
rimase il tenimento nella sua consistenza di botteghe, magazzini e
abitazioni terrane fino agli inizi
dell’Ottocento.
Nel 1813 il principe di
Manganelli vendette l’immobile a Paolo Geraci Wrzì al prezzo netto
di 4293,10 onze. A garanzia dei pagamenti rateizzati, quest’ultimo
sottopose a ipoteca il luogo della Mecca, nell’area dell’ospedale
Garibaldi di piazza S. Maria di Gesù, con l’opificio di seta e il
giardino annesso.
Continua qui:
http://www.edizionincontri.it/wp-content/uploads/2014/01/14-Miccich%C3%A8.pdf
Occupa l'angolo nord-ovest dei Quattro Canti tra la via Etnea e la via
di Sangiuliano ed è considerato, insieme al coevo Palazzo Biscari, il
maggiore esempio di architettura tardobarocca della città oltre ad
essere il simbolo
stesso della rinascita di Catania, non solo del dopoterremoto ma anche
del più recente secondo dopoguerra; fu infatti ricostruito pietra
per pietra dopo che i bombardamenti del 1943 lo avevano distrutto
quasi completamente.
Il palazzo fu il primo a risorgere, dopo il terribile terremoto che
nel 1693 distrusse per intero la città di Catania e tutto il Val di
Noto, per volere del Barone di San Demetrio, Don Eusebio Massa che nel
1694 pose nell'androne del nuovo edificio un'epigrafe a ricordo del
terremoto e come buon auspicio per il futuro:
« D.O.M. Nell'anno primo dei terremoti siciliani 1694, di nostra
salute, Don Eusebio Massa; B.ne della terra di S. Gregorio e
ricevitore della valle dei boschi, costrusse per primo le case recenti
che vedete in questo quadrivio, primizie di Catania rinscente. Ospite,
da qui trai buon auspicio e vattene illeso. »
Nel XVIII secolo la famiglia Massa, di origine genovese e ricchissima,
fu tra le più importanti a Catania e molti suoi membri ricoprirono
numerose cariche pubbliche, mentre il palazzo continuamente ampliato,
con la costruzione tra l'altro di un teatro (uno dei pochi a Catania
in quell'epoca),oggi scomparso e dove più tardi avrebbe mosso i primi
passi anche Vincenzo Bellini. Notevoli cambiamenti sono stati
apportati nel corso dei secoli all'edificio in particolare con la
costruzione di un nuovo palazzo nel XIX secolo, prospettante sulle vie
Manzoni, Prefettura e Sangiuliano, ad inglobare il precedente di cui
però non fu intaccata la facciata sulla via Etnea e sull'angolo dei
Quattro Canti.
Palazzo Massa di San Demetrio
Quest'ultimo prospetto fu però modificato nel corso
dei lavori di livellamento del piano stradale (1870) che in quel punto
fu abbassato di circa due metri provocando un notevole alteramento
delle proporzioni dell'edificio con piccoli e grandi accorgimenti per
riequilibrarlo col nuovo livello stradale. Così le cornici delle
botteghe appaiono assolutamente incongrue e l'abbassamento del portone
è stato camuffato con una finestrella cinta di goffe decorazioni
baroccheggianti. Durante la Seconda guerra mondiale, Catania fu
pesantemente bombardata e il 16 aprile 1943 due bombe caddero sul
palazzo sventrandolo; in piedi rimasero solo i tre balconi angolari
mentre circa settanta persone rifugiatesi nell'androne perirono sotto
le macerie. Nel dopoguerra fu ricostruito basandosi su foto e
progetti.
http://it.wikipedia.org/wiki/Palazzo_San_Demetrio
Il "Palazzo Paternò Castello, dei
duchi di Càrcaci", il cui ex feudo corrisponde ad un Comune
dell'attuale Città Metropolitana di Enna, poi accorpato a quello di
Centuripe, è sito nell'angolo nord-est dei Quattro Canti, fra le vie
Antonino di San Giuliano, piazza Manganelli, Càrcaci e Etnea.
All'interno vi è un capitello
dorico chiamato "Pietra del Malconsiglio", trasferito lì da Piazza
San Nicolella, dove si riunivano i congiuranti contro Don Francesco
Paternò, barone di Raddusa, che era diventato Capitano d'Armi di
Catania dopo la morte del Re di Spagna Ferdinando il Cattolico nel
1516.
Palazzo Carcaci
Via Sangiuliano
Via Lincoln negli anni 20
Un
palazzo prospiciente il “chiano della Sigona” venne costruito
sulla Lava Larmisi nel 1400 e aveva un solo piano, quello nobile. Non
aveva fregi ed apparteneva alla famiglia Tornambene. Nel 1505 Bernardo
Tornambene vendette il palazzo ai baroni di Sigona la cui ultima
erede, Isabella, andò sposa nel 1655 ad Alvaro Paternò.
Il terremoto del 1693 lo distrusse quasi interamente ma i muri
perimetrali resistettero al sisma.
L’attuale Palazzo Manganelli, che conserva le mura perimetrali del
'400, fu costruito a partire dal 1694, su commissione di Antonio
Paternò, dagli architetti Alonzo Di Benedetto e l'arco di San
Benedetto) e dal suo discepolo Felice Palazzotto. Costruito come oggi
si vede a meno dell'ultimo piano che fu aggiunto successivamente e a
meno di un importante dettaglio.
Il livello della città sino al 1873 era quello delle chiese di San
Michele Minore e di Santa Teresa. Quando fu abbassato, il
palazzo
Manganelli subì una lesione e il principe del tempo chiese
all'ingegnere Ignazio Landolina, progettista del livellamento, di fare
un preventivo per un piano di ristrutturazione. Furono così ricavate
le botteghe della via San Giuliano e fu aggiunto l'ultimo piano.
Il nome del palazzo coincide con quello del predicato nobiliare della
famiglia e si riferisce al principale apparecchio che si usava nei
secolo passati per la filatura della seta. Il ramo in questione della
famiglia Paternò gestiva una ricca attività in questo settore, con
un centinaio di operai, e possedeva molti manganelli, che ispirarono
il re Filippo IV, venuto in visita a Catania, ad abbinare ad essi il
titolo di barone, con cui gratificare la famiglia.
Tra i personaggi più notevoli, Giuseppe Alvaro Paternò (1784 –
1838) 3° Principe di Sperlinga dei Manganelli, 4° Duca del Palazzo,
10° Barone delli Manganelli e 4° Barone del Mastronotariato dal
1831; Gentiluomo di Camera del Re delle Due Sicilie, Intendente Regio
a Messina, Catania, Palermo e Abruzzo Citra, che donò al Comune di
Catania cinque zappe di acqua di Valcorrente,
che equivalevano a 24,40
litri al secondo, e fece costruire a proprie spese un acquedotto lungo
sedici chilometri e oltre otto chilometri di rete interna.
Suo
figlio Antonio Alvaro (1817 -1888), 4° Principe di Sperlinga dei
Manganelli sposò tre volte. La terza moglie, Angela Torresi, una
donna bellissima per la quale Mario Rapisardi scrisse un'ode, fece
venire da Firenze architetti per apportare modifiche al palazzo.
Poiché non amava i mobili antichi, fece sostituire tutto
l'arredamento. Gli affreschi e le porte dipinti da Olivio Sozzi furono
ricoperti, i saloni che prima si affacciavano sulla piazza Manganelli
furono trasferiti nel lato dei giardino dove prima erano gli
appartamenti privati.
Tutti
i mobili dei '700 andarono perduti, del secolo precedente non rimase
nulla anche perché i soldati garibaldini, nonostante le assicurazioni
date dal generale al principe con una lettera in cui gli diceva “rispondo
della vostra vita”, avevano saccheggiato il palazzo. Nell’androne,
opera di Sebastiano lttar, fu posta una statua scolpita a Firenze da
Valerio Pochini nel 1894, che rappresenta la storia della famiglia.
Dopo un Giuseppe Alvaro (1842 – 1916) che fece anche costruire a sue
spese dallo scultore Mario Rutelli la statua di Umberto I, il re a
cavallo, come lo chiamano i catanesi, e fu presidente della Croce
Rossa a Catania venne Antonio Alvaro (1879 - 1937), 6° Principe di
Sperlinga dei Manganelli alla cui morte il titolo di principessa di
Sperlinga e Manganelli passò all'unica figlia, Angela (1902 - 1973),
mentre il titolo di duca di Palazzo ritornò alla Corona. Si estinse
così la linea maschile dei Paternò di Sperlinga Manganelli. Angela
secondo la legge del tempo, non avrebbe potuto ereditare il titolo
paterno ma, per intercessione dei principi di Piemonte, di cui il
marito era gentiluomo di Corte e lei dama di palazzo, ottenne dal re
l'autorizzazione a succedere nel titolo. Angela aveva sposato nel 1927
il principe Flavio Borghese, da cui ebbe tre figli, Camillo,
Marcantonio e Vittoria. Alla morte dei genitori, il primogenito
Camillo ha ereditato tutti i titoli ma per rispettare un desiderio
della madre e del padre rinunciò in favore del fratello Marcantonio
al titolo di principe di Sperlinga e Manganelli.
http://www.palazzomanganelli.com
Palazzo Manganelli
Un palazzo prospiciente il
“chiano della Sigona” venne costruito sulla Lava Larmisi nel 1400 e
aveva un solo piano, quello nobile. Non aveva fregi ed apparteneva
alla famiglia Tornambene. Nel 1505 Bernardo Tornambene vendette il
palazzo ai baroni di Sigona la cui ultima erede, Isabella, andò
sposa nel 1655 ad Alvaro Paternò.
Il terremoto del 1693 lo
distrusse quasi interamente ma i muri perimetrali resistettero al
sisma. L’attuale Palazzo Manganelli, che conserva le mura
perimetrali del ‘400, fu costruito a partire dal 1694, su
commissione di Antonio Paternò, dagli architetti Alonzo Di Benedetto
e l’arco di San Benedetto) e dal suo discepolo Felice Palazzotto.
Costruito come oggi si vede a meno dell’ultimo piano che fu aggiunto
successivamente e a meno di un importante dettaglio.
Il livello della città sino al
1873 era quello delle chiese di San Michele Minore e di Santa
Teresa. Quando fu abbassato, il palazzo Manganelli subì una lesione
e il principe del tempo chiese all’ingegnere Ignazio Landolina,
progettista del livellamento, di fare un preventivo per un piano di
ristrutturazione. Furono così ricavate le botteghe della via San
Giuliano e fu aggiunto l’ultimo piano.
Il nome del palazzo coincide con
quello del predicato nobiliare della famiglia e si riferisce al
principale apparecchio che si usava nei secolo passati per la
filatura della seta. Il ramo in questione della famiglia Paternò
gestiva una ricca attività in questo settore, con un centinaio di
operai, e possedeva molti manganelli, che ispirarono il re Filippo
IV, venuto in visita a Catania, ad abbinare ad essi il titolo di
barone, con cui gratificare la famiglia.
Tra i personaggi più notevoli,
Giuseppe Alvaro Paternò (1784 – 1838) 3° Principe di Sperlinga dei
Manganelli, 4° Duca del Palazzo, 10° Barone delli Manganelli e 4°
Barone del Mastronotariato dal 1831; Gentiluomo di Camera del Re
delle Due Sicilie, Intendente Regio a Messina, Catania, Palermo e
Abruzzo Citra donò al Comune di Catania cinque zappe di acqua di
Valcorrente, che equivalevano a 24,40 litri al secondo, e fece
costruire a proprie spese un acquedotto lungo sedici chilometri e
oltre otto chilometri di rete interna.
Suo figlio Antonio Alvaro (1817
-1888), 4° Principe di Sperlinga dei Manganelli 1 sposò tre volte.
La terza moglie, Angela Torresi, una donna bellissima per la quale
Mario Rapisardi scrisse un’ode, fece venire da Firenze architetti
per apportare modifiche al palazzo. Poiché non amava i mobili
antichi fece sostituire tutto l’arredamento. Gli affreschi e le
porte dipinti da Olivio Sozzi furono ricoperti, i saloni che prima
si affacciavano sulla piazza Manganelli furono trasferiti nel lato
dei giardino dove prima erano gli appartamenti privati.
Tutti i mobili dei ‘700 andarono
perduti, del secolo precedente non rimase nulla anche perché i
soldati garibaldini, nonostante le assicurazioni date dal generale
al principe con una lettera in cui gli diceva “rispondo della vostra
vita”, avevano saccheggiato il palazzo. Nell’androne, opera di
Sebastiano lttar, fu posta una statua scolpita a Firenze da Valerio
Pochini nel 1894, che rappresenta la storia della famiglia.
Dopo un Giuseppe Alvaro (1842 –
1916) che fece anche costruire a sue spese dallo scultore Mario
Rutelli la statua di Umberto I, il re a cavallo, come lo chiamano i
catanesi, e fu presidente della Croce Rossa a Catania venne Antonio
Alvaro (1879 – 1937), 6° Principe di Sperlinga dei Manganelli alla
cui morte il titolo di principessa di Sperlinga e Manganelli passò
all’unica figlia, Angela (1902 – 1973), mentre il titolo di duca di
Palazzo ritornò alla Corona. Si estinse così la linea maschile dei
Paternò di Sperlinga Manganelli. Angela secondo la legge del tempo,
non avrebbe potuto ereditare il titolo paterno ma, per intercessione
dei principi di Piemonte, di cui il marito era gentiluomo di Corte e
lei dama di palazzo, ottenne dal re l’autorizzazione a succedere nel
titolo. Angela aveva sposato nel 1927 il principe Flavio Borghese,
da cui ebbe tre figli, Camillo, Marcantonio e Vittoria. Alla morte
dei genitori, il primogenito Camillo ha ereditato tutti i titoli ma
per rispettare un desiderio della madre e del padre rinunciò in
favore del fratello Marcantonio al titolo di principe di Sperlinga e
Manganelli.
palazzo-manganelli-catania-2
Giardino del Palazzo Manganelli
di Catania
Palazzo Manganelli è oggi un
grande edificio settecentesco con un prospetto di quasi 38 metri
sull’omonima piazza, uno di 66 metri sulla Via Antonino di San
Giuliano, comprendendo il giardino pensile di cui si dirà ed un
terzo sulla Via Recalcaccia.
Le due facciate principali
presentano sostanziali differenze. Sulla Via di San Giuliano si
aprono sette ampie luci per botteghe, realizzate dopo l’abbassamento
del livello stradale, su cui insistono altrettanti piccoli balconi
di un piano ammezzato. L’altezza del piano terra e dell’ammezzato
corrisponde a quella del terrapieno racchiuso, da un robusto
muraglione che contiene il terreno che forma il giardino pensile.
Questo muraglione si svolge anche su Via S. Teresa ed in parte su
Via Recalcaccia e sfrutta un segmento di quella che fu la cinta
muraria cinquecentesca della città.
La medesima fascia dell’edificio
è utilizzata diversamente sulla facciata prospiciente la piazza, la
principale, che espone al centro un ingresso monumentale con due
finestre per lato, di cui quelle inferiori di grande dimensione e
monumentalità e quelle del piano ammezzato di dimensione minore ed
appena contornate da semplici mostre. L’ingresso è decorato nel più
puro stile barocco ed è sormontato dallo stemma della casata,
costituito a destra dallo stemma dei Paternò e a sinistra da quello
dei Borghese, costituito da un’aquila che sormonta un drago. Dal
portone si accede, tramite un’elegante androne, opera del primo
Ottocento di Sebastiano Ittar, in un cortile quadrato di circa 20
metri di lato. Nella galleria, a sinistra, su un piedistallo, la
statua di Valerio Polchini, di elegante fattura. Molto elaborato il
cancello in ferro battuto che consente l’accesso al cortile.
Le quattro finestre del piano
terra, protette da forti grate in ferro, hanno mostre in pietra
bianca di Siracusa, annerite dal tempo, sormontate da un timpano ad
arco spezzato.
Oltre i piani terra e mezzanino,
su entrambi i lati si colloca il piano nobile del palazzo, con
cinque aperture ad ovest, e sette aperture a sud, tutte balconate
singolarmente, tranne le due ad angolo, che fruiscono di un unico
lungo balcone ad L a lati uguali. Anche in questo caso viene data
priorità al prospetto sulla piazza, dove le aperture hanno mostre
con timpani ad arco spezzato ulteriormente elaborati, mentre quelli
sulla Via di San Giuliano hanno mostre con più semplici retti. Molto
elaborate e tipicamente barocche le mensole di sostegno dei balconi
di entrambi i lati. E’ questo piano nobile che gode della
possibilità di accedere, dal lato est, al giardino pensile,
collocato allo stesso livello.
Infine, solo per una parte
dell’edificio, un ulteriore piano, che chiameremmo secondo, di
minore altezza e ornato con semplicità, costruito, come detto, negli
anni ’70 dell’Ottocento.
(Rosanna Marchese, Giambattista
Condorelli – Delegazione Fai di Catania)
TURI
DELL'OLIO. Turi
dell’ olio si guadagna da vivere oleando le saracinesche dei
negozianti di Catania, lo si può vedere ovunque quasi tutti in città
sanno chi è, e tutti gli voglione bene.
Lo si vede girare con un vecchio motorino che quasi arranca per le
strette vie del centro storico e per i grandi vialoni della periferia,
insdossa sempre abiti ironici con sopra il suo nome, è pieno di
gadget caratteristici e quando fa il suo lavoro lo fa al meglio.
Da Wikipedia : Turi di l’ogghiu s’ammintò nu travagghiu: iddu furìa pi la
citati di Catania jènnu nta tutti li nigozzii e … ci metti l’ogghiu
nta li guidi di li saracineschi.
Fa nu travagghiu bonu e pulitu: havi nà spazzula cu lu manicu longu e
cu chissa apprima pulizzia beddu pulitu la guida di la saracinesca e,
appoi, cu n’autra spazzuledda cchiù nica, ci passa l’ogghiu.
Ogni
cummircianti è cuntentu di ssu travagghiu e ci duna vulinteri quarchi
sordu.
Ci
fu quarcunu di sti cummiccianti ca, pi ssu sirvizziu ci desi na vota
picca sordi, e iddu non ci dissi nenti, ma, di tànnu, non ci passò
chiù l’ogghhiu nta la saracinesca.
Ora,
ssi cummiccianti si mangiunu li manu, ca vidunu a l’àutri nigozzi
isàri la saracinesca senza nuddu sforzu, mentri iddi….
“Turi,
ci u passi l’ogghiu ?”
“Ora spirdìu, doppu passu “
ma non ci torna chiù.
Turi
non jìvu a scola, ma lu sò travagghiu lu fa cu dignità e granni
prufissiuni.
Si
fici macari la pubblicità: nta lu muturinu ci misi na cascitedda unni
teni l’attrezzi (lanna cu l’ogghiu, spazzuli, strazza) e nta ssa
cascitedda ci misi la scritta pubbricitaria in talianu “ TURI DELL’OLIO”.
http://www.periodicolavoce.it/?p=249
Palazzo
della famiglia Clarenza a Catania. Dopo aver acquistato il Casale,
il Clarenza non costruì alcuna dimora gentilizia, in quanto non
dimorò ne vi sostò per il periodo estivo. Tutti i componenti della
famiglia abitarono in un maestoso palazzo che tutt’ora esiste nei
pressi di Piazza Bellini a Catania, precisamente nell’attuale via
Michele Rapisardi, sul cui frontone è ancora visibile lo stemma
gentilizio. Come quasi tutti i nobili, egli preferì abitare in città
ove svolgeva una vita più comoda e brillante. Nessuno dei
discendenti della famiglia Clarenza si curò dei Casali sparsi nei
loro feudi, preferendo trascorrere la villeggiatura nel paese di San
Gregorio ove edificarono una grande dimora con giardini all’interno,
in cui si stabilirono definitivamente solo quando vendettero il
palazzo di Catania.
|
Il
cuore della movida catanese è piazza Teatro Massimo, ovvero Piazza
Bellini. Nei locali della
piazza e nelle vie limitrofe ogni sera, con particolare rilievo nel
fine settimana e nei “mercoledì universitari”, prende forma e
sostanza il nightlife alle pendici dell'Etna.
Via
Landolina, via Teatro Massimo, Via Pulvirenti, Via Michele Rapisardi
costituiscono la rete di vie e viuzze che è palcoscenico naturale per
locali, ragazzi e turisti che vogliono uscire e divertirsi.
Spostandosi di poco si incontrano altre artie altrettanto attive
nell'accogliere locali e avventori.
Via
Vasta, Via Biscari, Via Carcaci, via Bicocca, Via Fragalà, Via
Colleggiata sono tappe obbligate del tour notturno nella movida
cittadina. Infine la via Alessi con annessa scalinata (da sempre
chiamata Scalinata Nievski per via dell'omonimo pub cittadino aperto
25 anni anni fa) che culmina su una parte di via Crociferi, la più
bella, con tanto di chiese barocche illuminate. Sipario.
L'Intendenza
di finanza, organo periferico dell'amministrazione finanziaria, fu
istituita nel 1869 con il compito di vigilare sulle entrate
pubbliche e provvedere alla riscossione dei tributi e degli altri
proventi, di amministrare i beni patrimoniali immobili dello Stato e
tutelare i beni del demanio pubblico. A Catania, subito dopo l'unità
d'Italia, ebbe sede nell'ex convento annesso alla chiesa di San
Francesco d'Assisi all'Immacolata. Nel 1926 in piazza Vincenzo
Bellini fu costruito il palazzo delle finanze. Nel nuovo ufficio si
trasferirono, però, soltanto gli uffici principali. Un apposito
reparto dell'Intendenza si occupava delle ricevitorie del lotto, e
Catania era sede dell'<<archivio segreto del lotto>> ove affluivano
tutte le bollette delle giocate delle province di Catania, Ragusa,
Siracusa ed Enna. Nel 1991 le competenze dell'Intendenza sono state
trasferite alle Direzioni regionali delle entrate.
CASA CACIA POI SCIUTO PATTI (1854-1877)
in
via Landolina angolo piazza Vincenzo Bellini (a sinistra nella foto)
(Descrizione di Vincenzo Busà da "Carmelo e
Salvatore Sciuto Patti, archivi di architettura tra '800 e '900" a cura di
Fulvia Caffo)
- Il progetto, costituito da cinque elaborati
relativi alla casa Cacia e del successivo progetto di ampliamento, è redatto da
Carmelo Sciuto Patti a partire dal 1854.
L' insieme di questi disegni descrive, seppur
frammentariamente ,il rapporto esistente tra questa "casa palazzata "e lo stesso
professore che, da affittuario,ne diviene poi proprietario eseguendo un insieme
di lavori al fine di trasformarla sia in abitazione che in studio.
La casa,posta nell'antico piano di Nuovaluce,
oggi piazza Vincenzo Bellini, viene acquistata dal procuratore Bernardo Cacia
negli anni 1843-1844,e probabilmente porzioni di aree limitrofe anche negli anni
successivi, come testimonia il documento "Ragioni per la Sig.ra Maddalena Auteri
Beretta contro i Signori Cacia e Consorti",Catania, 1898.
Il 27 febbraio del 1854,Carmelo Sciuto Patti
esegue il rilievo dell'edificio. L' impianto planimetrico evidenziato nella
"Pianta Icnografica "si estende su un lotto rettangolare che confina a nord con
il piano Nuovaluce, ad ovest con la via Landolina-dove si apre l'ingresso-a sud
con la casa del Sig.D.Giuseppe Zaffarana ed ad est con le case di proprietà dei
Sig.ri Viola e Martinez ,e con una "stradella comune privata ".L' abitazione
,che nella sua organizzazione assume una forma ad L,si sviluppa tra la piazza e
l'interno del lotto, definendo tre cortili:uno molto ampio e adiacente la via
Landolina dove si trova il pozzo ,un secondo cortile più piccolo adiacente il
limite meridionale della proprietà Cacia, ed un terzo, ancora più ridotto come
dimensioni a conclusione della "vanella privata ".
Don Bernardo Cacia incarica il giovane
ingegnere di redigere il progetto per la "ristrutturazione "del proprio
edificio. I lavori si susseguono dal 1855 al 1858 ,come certificano le numerose
relazioni conservate nel Fondo Sciuto Patti.
Il 29 giugno 1861,Carmelo Sciuto Patti sposa
Maddalena Auteri Beretta ,nipote dell'omonima zia moglie di don Bernardo Cacia.
Di certo possiamo indicare che a partire dal 1866 ,un quarto del palazzo è
abitato dalla famiglia Sciuto grazie, come attestano alcune ricevute di
pagamento relative all'affitto.
Il 19 giugno 1875,Maddalena Auteri Beretta,
con il consenso del marito Carmelo, acquista "tutta l'area della casa palazzata
"passata in eredità alla zia. L' atto d'acquisto specifica che è compresa nella
vendita anche "l'area delle terrazze a cielo "e l'ultimo piano del quarto dove i
compratori sono residenti. Questa vendita autorizza gli acquirenti a costruire
nuovi corpi di fabbrica, altri piani superiori, a rinnovare le volte e le
coperture che coprono le stanze del piano nobile, all'uso del cortile e al
prolungamento della scala grande per collegarla ai nuovi piani.In cambio, e
senza alcun onere per la venditrice, si chiede di ricavare una nuova cucina ed
una camera da pranzo visto che allo stato attuale questi ambienti si trovano in
corrispondenza della scala che andrà prolungata.
L' atto,così come indicato dalla notazione a
matita del professore Sciuto Patti, si riferisce all'acquisto dell'arca dove
viene costruito il terzo piano della casa.Ma i disegni in esame evidenziano che
prima ancora, o contestualmente, all'intervento di sopraelevazione edilizia
indicato dal rogito, il cortile maggiore, quello prospiciente la via Landolina,
viene saturato dalla realizzazione di una serie di ambienti collegati al corpo
scala, all'ingresso e serviti da un piccolo cortile, porzione rimasta di quello
originario.
I lavori di Casa Sciuto Patti, documentati a
partire dal 1876,si susseguono sino al 30 settembre 1877, quando in presenza del
notaio, della zia, del marito Carmelo, Maddalena Auteri Beretta salda tutte le
maestranze che hanno eseguito le opere.
In questa abitazione avrà sede anche lo
studio tecnico Sciuto Patti, poi trasmesso secondo l'asse ereditario al figlio
Salvatore, che prosegue la carriera del padre. -
CASA DEL MUTILATO
(Piazza Vincenzo Bellini, anno di
costruzione 1933/1939,autore Ercole Fischetti)
La severa mole cubica della Casa
del Mutilato, in stile littorio, spicca nel contesto architettonico
della piazza Bellini, interposta com'è tra l'eclettico Teatro
Massimo, che ne chiude la testata ovest, ed il neoclassico Palazzo
delle Finanze, che ne chiude quella est.
Progettata nel 1933
dall'ingegnere Ercole Fischetti, che ne curò anche la direzione dei
lavori, l'opera fu finanziata con le elargizioni di enti celebrati
su una targa muraria apposta nell'arengario,per un totale di lire
750.000 ,oltre all'importo di lire 50.000 donato dal Comune,
unitamente all'area di sedime della preesistente casa Ardini,attribuita
al Vaccarini, residenza di villeggiatura dei duchi di Tremestieri
,della quale, in uno dei prospetti secondari, permane l'artistico ed
originale portale con mascherone riutilizzato secondo quanto
prescritto dalla Regia Soprintendenza in una nota del 14/03/1933.Il
portale introduce nel corpo scale da cui si accede nel grande
arengario a tutta altezza, perno dell'intera fabbrica, al cui piano
terra si aprono perimetralmente alcuni vani,tra i quali una cappella
che accoglie una raffigurazione scultorea della Pietà.
Nel ballatoio dell'arengario
incombe una mistica atmosfera creata dalla tenue e diffusa luce, che
filtra dai lucernari interposti alle travi della copertura, e che
poi affievolita,illumina fino al piano terra.
All'esterno, l'elemento di
maggior spicco è senz'altro l'enorme arco trionfale aggettante, al
cui interno due elaborati signum, antichissimi simboli di potenza,
raffiguranti i fasci littori, giganteggiano ai lati del portone
principale a guisa di sentinelle, sfoggiando orgogliosamente uno
stile militaresco ,nell'insieme ancor più accentuato dalla
esasperata verticalità delle strette finestre e delle interposte
paraste, incavate a botte, che sembrano elevarsi fino ad indicare le
sei figure di combattenti che campeggiano sul portale trionfale,
nell'evidenza della retorica glorificazione del regime.
L' inaugurazione risale al 23
maggio 1939,anno del completamento.
L' edificio è di proprietà
privata.
(Descrizione della Soprintendenza
ai beni culturali)
razie a Milena Palermo per
Obiettivo Catania
https://www.facebook.com/ObiettivoCatania/
Il
Teatro Massimo "V. Bellini", costruito su progetto
dell'architetto milanese Carlo Sada, fu inaugurato nel 1890. Nei
cent'anni della sua esistenza questo centro propulsore della vita
musicale catanese ha visto passare sulle tavole del suo palcoscenico
molti tra i maggiori musicisti dei Novecento: da Gino Marinuzzi a
Vittorio Gui, da Antonio Guarnieri a Georg Solti, Lorin Maazel,
Riccardo Muti, Giuseppe Sinopoli, Alain Lombard; da Toti Dal Monte
alla Callas alla Caballé alla Scotto alla Freni; da Schipa a Gigli, a
Corelli a Pavarotti a Pertile a Del Monaco a Di Stefano; da Galeffi a
Bechi, a Gobbi, a Nucci, ed ha rappresentato in pratica tutti i
capolavori del teatro musicale da Mozart a Berg, nonché opere
contemporanee come, ultima in ordine di tempo, la Divara di Azio
Corghi in prima esecuzione assoluta nella versione originale in lingua
italiana. Il "Bellini" dispone di un'orchestra di 105
elementi, di un coro di 84 elementi, di un nutrito gruppo di tecnici
di palcoscenico, di laboratori scenografici che negli ultimi anni
hanno realizzato allestimenti di Ezio Frigerio, Pet Halmen, Maurizio
Balò, Hugo de Ana, Luciano Ricceri, Dante Ferretti, Franca
Squarciapino.
Gli spettacoli sono stati curati da registi quali Pierre
Ponnelle, Werner Herzog, Claude D'Anna, Gilbert Deflo, Giuliano
Montaldo, Denis Krief. Nella sua sala di milleduecento posti,
dall'acustica perfetta, si svolgono ogni anno una stagione d'opera,
con sette turni d'abbonamento, ed una stagione sinfonica e da camera,
con due turni d'abbonamento. Molti concerti vengono replicati in
località della Sicilia ed una intensa attività promozionale viene
svolta da piccoli complessi strumentali e vocali formati da elementi
dell'orchestra e del coro.
Il Sada modificava pertanto lo schema progettuale venendo incontro
all'esigenze finanziarie dell'Amministrazione Comunale che, nel 1880,
per completare i lavori stanziava 605.000 lire ( complessivamente il
costo dell'opera fu all'incirca di un milione di lire dell'epoca). I
lavori stavolta procedettero abbastanza regolarmente e nell'arco di
sette anni il teatro venne ultimato. Ma al momento dell'inaugurazione
mancarono i contributi destinati all'impresario che doveva gestirlo.
Inoltre, proprio in quel periodo sopravvenne un'epidemia di colera,
che comprensibilmente distolse l'attenzione da ogni altro problema che
non fosse quello della salute pubblica. In questa situazione, il
Teatro , pur pronto, dovette attendere ancora tre anni per la sua
apertura ufficiale. L'inaugurazione ebbe luogo il 31 maggio del 1890
con Norma, il capolavoro di Vincenzo Bellini.
Di
un teatro pubblico a Catania si cominciò a parlare già nel '700, nel
fervore della ricostruzione seguita al terremoto che nel 1693 aveva
distrutto la città. Ma fu solo nel 1812 che venne posta la prima
pietra di quello che, nelle intenzioni dei catanesi, doveva essere il
"Gran Teatro Municipale" degno di una città in espansione.
Ad avviare i lavori fu l'architetto Salvatore Zahra Buda in piazza
Nuovaluce, di fronte al monastero di Santa Maria di Nuovaluce, proprio
nell'area dell'attuale teatro. La progettazione del "Teatro
Nuovaluce", grandiosa sotto tutti i punti di vista, fu concepita
per dar vita a un'opera tra le più innovative d'Italia. Ma i lavori,
dopo un promettente avvio, dovettero essere interrotti per mancanza di
fondi, determinata dal dirottamento dei finanziamenti alla costruzione
di un molo foraneo, opera, questa, ritenuta prioritaria per esigenze
di difesa.
A
distanza di anni, il Senato catanese decise di dotare la città di un
teatro minore, il " Teatro Comunale Provvisorio", che venne
infatti realizzato n un ex magazzino alla Marina e inaugurato nel
1822. (Questo teatro, dopo una più che dignitosa
"carriera", verrà distrutto nel 1943 da un bombardamento
aereo e mai più ricostruito). Finché, nel 1865, l'area venne ceduta
a privati per
finanziare la costruzione di un nuovo teatro. Era il 1870 quando
all'architetto Andrea Scala, specializzato in costruzioni teatrali,
veniva dato l'incarico di individuare un sito idoneo per il nuovo
teatro. Su questa scelta si apriva un fervido dibattito: dove far
sorgere l'agognato "Massimo "?
Le opzioni erano diverse:
piazza Stesicoro, dove ora si vede l'Anfiteatro, allora ancora celato;
oppure, in alternativa, l'area della stessa piazza dove sorgeva
l'ospedale San Marco; o, ancora, piazza Cutelli, largo Manganelli, via
Lincoln ( l'attuale via Sangiuliano) nella zona adiacente al Teatro
Sangiorgi e infine piazza Cavour, allora alla periferia della città.
Quasi tutti esclusero l'area dell'Arena Pacini di piazza Nuovaluce.
Alla fine, la scelta cadde su Piazza Cutelli. Ma le difficoltà
finanziarie bloccarono ancora una volta l'iniziativa. Si pensò allora
di ristrutturare l'arena Pacini per farne un Politeama, che servisse
ad ogni tipo di rappresentazioni, anche equestri. Fra tanti ostacoli e
incertezze, finalmente veniva approvato il progetto dello Scala che
con l'assistenza dell'architetto Carlo Sada portava avanti i lavori,
finanziati dal gruppo di azionisti della Società Anonima del
Politeama. La Società poi cedette il passo al Comune per insufficenza
di fondi. E una commissione comunale, che affiancava il Sada, decise
allora che la struttura andava recuperata, con opportune modifiche,
non come Politeama ma come Teatro lirico.
http://www.teatromassimobellini.it/storia.asp?id=22
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DEDICATO AL TEATRO
La lunga attesa del
teatro
Agli inizi dell' Ottocento, il
molo e il teatro erano il chiodo fisso dei catanesi. Tutti ne
parlavano e ne scrivevano.
Tra lamentele, frizzi e motteggi,
ogni discorso toccava quel tasto e si concludeva invariabilmente con
questo ritornello: Teatro e molo sono ancora per via.
Con lo stesso detto i piú
spiritosi aprivano le loro missive, specialmente quelle indirizzate
ai pubblici amministratori. E il Tempio cantava:
... Ccà un molu, ddà un tiatru,
ma 'n prugettu, e chiu di chistu non si vidi nenti, ca lu disignu di
lu so architettu nell' archetipa idea ristau a li venti!
Passato il fervore della
rinascenza settecentesca, si segnò il passo in fatto di opere
pubbliche, e i catanesi dovettero loro malgrado inaugurare il
periodo delle lunghe o lunghissime attese che non si esaurisce col
completamento del molo e del teatro, ma continua con la villa, la
ferrovia, l’ospedale, la passeggiata a mare e tante altre opere la
cui realizzazione si trascinerà fino agli inizi del corrente secolo.
Il teatro non poteva sfuggire a
questo destino.
________________
“Realizzare un’opera pubblica a
Catania, realizzarla senza intralci e in tempi brevi , è stata
sempre cosa ardua, se non addirittura impossibile. E ciò non tanto
per le obiettive difficoltà di carattere tecnico e finanziario che
spesso comporta la realizzazione di un’opera pubblica, quanto per le
pervicaci interferenze dei privati, ciascuno dei quali ha sempre
creduto di saperne, in tema di opere pubbliche, molto più degli
altri”
Dal 1812, allorché ne furono
gettate le fondazioni, al giorno della inaugurazione passarono
ottant'anni, uno dopo l’altro.
E se vogliamo essere pedanti, il
conteggio ci porta ad un risultato assai piú lungo perché, in
effetti, la mancanza di un pubblico teatro era stata avvertita sin
dagli inizi del Settecento: quando, non potendosi disporre di
adeguate strutture, si dovette ripiegare sul piano degli Studi dove
vennero allestite diverse pubbliche rappresentazioni. D' estate,
naturalmente. Poi, all' incirca verso la metà del secolo, mentre i
nobili si accontentavano dei concerti in casa, gli studenti
prepararono una sorta di teatro nel Siculorum Gymnasium.
Ma servì soltanto a loro e non fu
nemmeno sufficiente a soddisfare le esigenze dei giovani stessi.
D'altra parte, l’ idea di costruire un teatro dentro la casa
comunale, che ne aveva ospitato uno nel Seicento, abortì prima di
nascere, per difetto non tanto di quattrini quanto di volontà.
Talché, il primo teatro coperto
si dovette all' iniziativa di un privato, al principe Ignazio di
Biscari.
Questo autentico mecenate riuscì
a trasformare, con la collaborazione dell' architetto Francesco
Battaglia, alcuni locali del suo palazzo e, nel giro di pochi mesi,
il Teatro Comunale alla Marina fu un fatto compiuto.
"Trovavisi in alcuni magazzini
del Principe Biscari, e propriamente nell' attuale via Dusmet, al n.
53 il palcoscenico, al n. 55 la platea del pubblico. Si vedono
ancora pendenti dal tetto gli anelli di ferro ai quali si
attaccavano le scene ed il sipario. La volta del proscenio mostra
tracce di pittura. In una parete del magazzino adibito a
palcoscenico - in alto - esiste anche una piccola porta che va negli
appartamenti del Principe, il quale aveva il diritto di potere
assistere alla rappresentazione. Gli affittuari ricordano che il
loro padre raccontava che in alto del proscenio, nel centro, v' era
un grande stemma dei Borboni".
Si giunge così agli inizi dell'
Ottocento.
L' idea di costruire un pubblico
teatro era nel frattempo maturata nella coscienza degli
amministratori catanesi, e nel 1812, su progetto dell' architetto
maltese Zhara-Buda, furono avviati lavori per la costruzione del
Gran Teatro Nuovaluce da elevarsi sulla piazza omonima, lato di
ponente (attuale piazza Bellini).
Purtroppo, quel seme non era destinato a fruttificare. Anzi, non
germinò neppure. I lavori furono sospesi prima di cominciare e i
fondi stornati nella costruzione del Molo.
Sei anni dopo, il 25 novembre
1818,' "vista l’ impossibilità di affrontare la spesa per il
grandioso teatro, e conoscendo ad
evidenza quanto sia difetto sensibilissimo quello di avere un teatro
solo in progetto ...- il Comune deliberò 800 onze per costruirne uno
in legno".
Nel quartiere del Vecchio
Bastione, alla Marina, nasceva così il futuro teatro Coppola che
sarà distrutto dai bombardamenti aerei nel 1943, dopo 125 anni di
vita. In prosieguo, essendosi trovate le somme necessarie, viene
riaperto il cantiere di piazza Nuovaluce, e la fabbrica comincia
gradualmente a crescere. Tanto che nel 1841, il Carcaci può
scrivere: "Onde restasse eternamente impresso nella mente dei
catanesi il nome dell' attuale regina che nel 1838 qui si
intrattenne tre giorni... il Teatro di piazza Nuovaluce ad ovest,
dall’ anno scorso si nomina Teatro Maria Teresa. Non vi ha compì to
che le mura esterne e due ordini del prospetto. L' idea del disegno
fu così grandiosa che dopo trent' anni e piú, da che vi si diede
principio, non è potuta recarsi a compimento..." .
Il disegno di cui parla il
Carcaci non era quello originario, era un altro.
Infatti, nel 1833 - disatteso il
progetto dell' architetto Zhara Buda - il Comune incaricò tre
architetti catanesi (Musumeci, Ittar, Lanzerotti) di redigere
ciascuno un suo progetto per il gran teatro di piazza Nuovaluce. Si
sarebbe scelto il migliore.
E poiché dopo sei anni, nessuno
dei detti professionisti aveva tracciato una linea, malgrado varie
volte sollecitati, il Comune si rivolse all' architetto Carimazzi di
Bergamo. Fu una mossa che generò soltanto polemiche.
Di fatto, nulla si concluse, all'
infuori dell' allestimento di un baraccone di legno, impiantato
sulle precedenti strutture murarie, chiamato Politeama Nuovaluce e
poi Arena Pacini (da non confondere con l’ Arena Pacini che sorgerà
in seguito nei pressi di via Tevere, attuale largo Paisiello).
Per una quarantina d' anni,
Catania non ebbe che due baracconi di legno per teatro: il Coppola e
il Pacini.
La questione di un teatro vero e
proprio o, quanto meno, di un politeama capace di ospitare anche
spettacoli equensi venne ripresa nel 1873 allorché "una società di
gentiluomini catanesi domandò al Comune la concessione dell' Arena
Pacini per costruirvi un edifizio piú decoroso e solido".
Le sequenze del teatro sono state girate al Teatro Massimo Bellini di
Catania, mentre quelle del furto della banana a Letojanni (Messina),
dove tuttora si possono trovare la bottega dell’ortolano, del barbiere
ed il bar. L'autogrill dove viene ucciso Johnny è quello di Roccalumera
Est.
|
|
SANTA MARIA DI
NOVALUCE (1414)
La chiesa e il
convento vennero costruiti nel 1414 dai Certosini, dai
padri Cassinesi di S. Agata, dai padri Teresiani e dai
padri Riformati degli eremiti scalzi di S. Agostino.
Sulla sua ubicazione
si hanno notizie contrastanti. Per alcuni sorsero vicino
la chiesa di S. Agostino, per altri vicino la chiesa di
S. Maria dell'Elemosina alla Collegiata. Lo storico
Guglielmo Policastro asserì che si trovava dove oggi è
ubicato il palazzo di S. Giuliano.
Dopo il terremoto del
1693 venne ricostruito fuori le mura della città, tra la
odierna piazza Bellini e via Teatro Massimo. Grande
splendore e notorietà ebbe la chiesa e il convento
quando ospitò dal 1804 al 1826 l'Ordine sovrano militare
di Malta .
Nel 1866 il convento
passava al demanio dello Stato. Dopo il 1870 veniva
aperto l'Ufficio Tecnico Erariale. Invece la chiesa, che
era stata già chiusa al culto, veniva demolita nel 1925.
Al suo posto sorgeva il palazzo dell'Intendenza di
Finanza.
|
Via Teatro Massimo, dove una
volta esisteva il convento
Della redazione del progetto fu
incaricato il celebre Andrea Scala di Milano che, eseguito il
disegno, inviò sul posto, per la realizzazione dell' opera, I'
architetto Carlo Sada, suo valente collaboratore.
Quando tutto sembrava procedere
per il verso giusto, e il nuovo Politeama si preannunciava come uno
dei piú grandiosi fin allora progettati, finirono i soldi. Non
restava che licenziare le maestranze, chiudere il cantiere, offrire
il manufatto al Comune perché lo portasse a compimento. Il Comune
accettò l'offerta e rilevò il cantiere per 230 mila lire.
Da quel momento una tempesta di
polemiche si abbatté su quanti, per un motivo o per un altro, ebbero
da fare col Teatro.
Dicevamo all' inizio che a
Catania la realizzazione di un' opera pubblica di un certo impegno è
stata preceduta sempre da una lunga attesa, e sempre accompagnata da
polemiche. Le polemiche non sono mancate mai: nate spesso dalla
presunta furbizia di alcuni, sono servite solo a far perdere tempo e
a gettare discredito sugli stessi catanesi, come s' è visto.
Poteva sfuggire alla regola il
Teatro? Nemmeno a pensarci. Questa volta la polemica si presenta
come un' idra dalle sette teste: velenosa, composita, sconcertante.
Il Teatro lo vogliono tutti. Ma
ognuno lo vuole a modo suo, ognuno ha una propria idea da far
prevalere, qualcosa da proporre in alternativa ai deliberati
comunali.
- Il Comune, rilevando il
Politeama, ha salvato dal fallimento una società privata. Dunque, ha
fatto solamente gli interessi di alcuni privati cittadini.
- Il Comune, rilevando il
Politeama, ha guardato soltanto ai propri interessi. E anzi, ha
approfittato dell' occasione per strozzare alcuni privati cittadini
in difficoltà.
- Il Comune deve costruire
un
teatro, anche modesto ma subito.
- Il Comune deve costruire un
gran teatro, il piú grande possibile, anche a costo di rinviarne la
realizzazione.
- Con degli ottimi professionisti
residenti a Catania, il Comune va a possiede l’ Opera d' oggi,
Vienna lo stesso, quello di Palermo è ancora in costruzione e chi sa
quando sarà terminato, perché sebbene Palermo sia una grande città,
pure le sue risorse non le permettevano di fare un passo molto piú
lungo della gamba. In quanto a quelli che si contenterebbero dell'
intonacata alla meglio, crediamo che convenga di piú, tanto per non
perdere il frutto del capitale, affittarlo come magazzino, e
continuare a contentarsi del cassone della Marina...".
A questo punto, prendendo
posizione a favore della strada di mezzo, il Comune avvia trattative
con l’ architetto Scala per la realizzazione di un decoroso teatro
massimo. Fra Catania e Milano s' intreccia una fitta corrispondenza.
Alla fine si giunge ad un accordo e Scala propone il Sada come l’
uomo piú adatto a realizzare l’ opera. Sada è il suo piú valente
collaboratore, è stato a Catania, conosce la questione, ha diretto i
lavori del Politeama. Ora si tratta di elaborare un progetto di
trasformazione che tenga conto delle vecchie strutture, risparmiando
ciò che risulti compatibile col decoro e la funzione del costruendo
teatro, demolendo ciò che non sia possibile utilizzare, aggiungendo
quant' altro occorra per la migliore riuscita dell' opera.
Chi meglio del Sada può far tutto
questo? Non la pensano così un gruppo di catanesi.
E mentre sui banchi dei
consiglieri comunali piovono proposte, suggerimenti, lagnanze,
esortazioni, si dà la stura ad una campagna di stampa acida e
pungente. Stralciamo da un opuscolo fra i tanti stampati in quell'
occasione. "...Si osservi per un istante la consorella Palermo. Qual
differenza di concetto non vi scopriamo coi nostri? Come si tende in
quella nobile città al grandioso, al monumentale, alla bellezza? Il
Teatro Massimo di quel paese sarà il piú completo di quelli che
attualmente sono o si costruiscono nella nostra Italia. Che cosa
intende fare, invece, il Municipio di Catania?...
Facendo plauso all' egregio Scala
per altre sue opere, diciamo ora il fatto nostro e come
l’intendiamo. Noi siamo per un teatro da costruirsi di sana pianta,
grandioso, monumentale... e se i mezzi pecuniari presenti al
Municipio non lo permettono, lasciamo dormire il tutto in tale
arnese,
per isvegliarlo quando la cassa
ribocca di numerario, alfin di vestirlo e nutrirlo
convenientemente...".
Si analizzano faziosamente i vari
aspetti del problema, si giudica con avventatezza, si condanna con
preconcetta determinazione.
Dimenticando che quel sito era
stato scelto un secolo prima, si scrive: "La figura planimetrica del
costruendo teatro è irregolare. Il suo fronte è a levante, e
prospetta sul largo Nuovaluce; i laterali fronteggiano su due
stradelle. Una delle quali, quella a nord, denominata vico del
Segreto (attuale via Perrotta) larga mt. 5,70 in circa, incomincia
col sudetto largo e sbocca sulla strada dei Morti (attuale via
S.Orsola); quella a sud, invece, denominata vico della Birreria è
strettissima e per male maggiore non confina con tutto il
prospetto...".
Malgrado questi (e altri)
tentativi diretti a boicottare l’ iniziativa del Municipio, il 18
maggio del 1880 Carlo Sada giunge a Catania con la sua brava
Relazione del progetto di completamento del Teatro Nuovaluce.
In essa il valente architetto
illustra i criteri che dovranno presiedere alla costruzione del
Teatro Massimo Bellini, ne analizza, con ricchezza di dettaglio, gli
aspetti strutturali, architettonici, decorativi, prevedendo l’
ampiezza della sala e del palcoscenico, l’ articolazione dei palchi
e dei
orridoi, la dimensione del
ridotto e del vestibolo, le prese d' aria, l’ acustica, l’
illuminazione, l’arredamento e così via.
Il suo progetto, naturalmente,
tiene conto della lezione e della esperienza "dell' esimio cav.
Scala che ebbe la bella fortuna di costruire sino ad oggi 14 teatri"
ed è tale da offrire "non uno spettacolbso monumento e nemmeno un
qualche meschino fabbricato, ma un' opera dignitosa, informata alle
esigenze attuali e future del paese, da completarsi con lusso
decorativo sia dall'esterno che dall’ interno". Infine, una
prospettiva confortante: la spesa complessiva sarà contenuta entro
limiti tollerabili e "l’ opera pel bisogno di Catania ben poco
lascerà a desiderare, tanto piú pensando al famoso detto d' un
esimio professore d' estetica secondo cui senza gusto e senza
economia può architettare chicchessia".
Non parvero. Due mesi dopo
cominciano i lavori. Durano dieci anni, e il Sada, trapiantatosi con
la famiglia a Catania, ha tutto il tempo per dimostrare il suo
talento, l’ amore per la Città, la nobiltà del suo sentire.
Ma tutte queste cose insieme non
bastano a far tacere le male lingue. E mentre i pubblici
amministratori gli accordano fiducia affidandogli la direzione dell'
opera nel suo complesso (decorazione, pittura e arredamento
compresi), mentre alcuni privati lo incaricano di progettare case,
scuole, ville, dentro e fuori Catania, altri lo pongono al centro
d'una assurda e ingenerosa polemica.
Gli attacchi sono orientati su
diversi fronti. Reclami in Consiglio Comunale contro "gli
sconvenienti portici" agli imbocchi delle vie che fiancheggiano il
Teatro (9); proteste contro la ventilata espropriazione di alcune
casupole contigue alla fabbrica; censure sul tipo di illuminazione;
critiche sul modo di condurre i lavori; riserve sulla qualità del
materiale,e così di seguito.
Il valente professionista,
assillato da rapporti, reclami, lettere e memoriali che si abbattono
quotidianamente sul suo tavolo, distratto dalle beghe che gli
rovesciano addosso gli appaltatori, è costretto spesso a lasciare il
lavoro per provvedere alla propria difesa. E nondimeno tiene testa a
questa guerra a oltranza, durante la quale gli si fa carico di
tutto. Di aver preferito il gas alla luce elettrica (era di pubblico
dominio che il Comune, legato alla Società Belga del Gas con un
contratto a lunga scadenza, non aveva altra scelta), di aver
chiamato artisti mediocri per decorare gli interni, d' aver
impiegato porporina di ottone invece di oro zecchino nel quadro
centrale della volta, e persino d' essere responsabile della morte
d'. un ragazzo entrato di soppiatto nel cantiere e rimasto vittima
d' una disgrazia (gli cadde sulla testa una secchia piena di calce).
Dài e dài, il Comune è costretto
a nominare una commissione di esperti per indagare sui lavori e, in
particolare, sulle decorazioni interne che - secondo quanto aveva
scritto qualcuno - "facevano ridere anche i paperi di Villa Pacini".
I docenti universitari, membri di
questa commisssione, indagarono e, avendo riscontrato ogni cosa ben
fatta, assolsero con formula piena il Sada. L' esito del processo
non valse a nulla; anzi indispettì gli avversari del Sada i quali
insistettero con pervicace ostinazione nei loro attacchi.
Ecco un esempio fra i piú
illuminanti: "...Respingo l’ accusa d' aver calunniato il Sada... e
non ostante che la stampa siasi dichiarata a me ostile e ripugnante
ad accogliere le mie ragioni, procurerò di fare ricredere i giornali
di buona fede e ridurre al silenzio i venduti. Oggi o domani, una
classe di cittadini che comincia a comprendere di aver doveri e
diritti domanderà se era lecito all' Amministrazione Comunale
addossarsi enormi debiti, che dovranno essere pagati con le
contribuzioni di tutti, per realizzare opere di lusso, destinate al
godimento di una classe privilegiata, quando c' era bisogno di altre
opere di utilità economica...".
Tutto considerato, non sappiamo
se il Sada, in cuor suo, abbia maledetto il momento in cui decise di
accettare l’ incarico di progettare e costruire il Teatro Massimo di
Catania. Osiamo sperare di no.
Alla fine, seppure in mezzo alla
tempesta, egli riuscì a condurre in porto la sua barca: il Teatro,
bello e luccicante come una bomboniera, fu inaugurato il 31 maggio
1890. Dopo la lunga attesa, i catanesi lo applaudirono. Ma ci fu
anche chi si compiacque di definirlo "un vaso di porcellana con gli
orli di terracotta, ospitante un mazzo di cipolle".
Quel vaso di porcellana con gli
orli di terracotta era costato al Comune 975 mila lire. Al Sada,
dieci anni di amarezze, piú il prezzo del biglietto, acquistato la
sera dell' inaugurazione
_____________________________
da “I catanesi com’erano”
di Lucio Sciacca - Vito Cavallotto Editore Anno 1975
Teatro Bellini. Alla
ricerca dell'equilibrio tra innovazione e tradizione.
(Prof. Ing. Umberto Rodonò)
Nel maggio del 1890 si inaugurava
a Catania il teatro d'opera di città, ponendo così fine a una lunga
e tormentata querelle che aveva coinvolto l'intera popolazione. Già
dal primo decennio dell'Ottocento si era avvertita la necessità di
un teatro pubblico; negli anni successivi, poi, l'ascesa borghese
aveva ulteriormente incrementato le aspettative cittadine tanto che
l'amministrazione aveva deciso di ampliare il teatro intitolato alla
Regina Maria Teresa, detto anche Nuovaluce, per il nome della piazza
in cui sorgeva.
A quel tempo non si era ancora
deciso se intervenire sulla struttura esistente per realizzare un
politeama all'aperto (destinato prevalentemente a spettacoli
circensi) riservando un'altra area cittadina al teatro d'opera,
oppure optare per una soluzione che fungesse al tempo stesso da
politeama e teatro, capace quindi di funzionare all'aperto e al
chiuso, in estate e in inverno.
Dal 1812 al 1870 la questione
venne affrontata dai tecnici più rinomati della città (Zahra Buda,
Di Stefano, Stefano Ittar) e da critici di "alto livello" (Musumeci,
Leone Savoia, G. B. Filippo Basile); furono così proposti diversi
progetti e formulate svariate congetture, senza però approdare a
nessuna soluzione definitiva. Si pensò così di chiamare progettisti
esterni (il Bergamasco ingegnere Cominazzi, l'ingegnere Queureu e lo
"specialista in teatri" Andrea Scala, da Udine), nella speranza di
sbloccare la situazione di impasse che si era venuta a creare.
Soltanto nel 1873 si ebbe una effettiva svolta, anche in seguito
all'istituzione di una Società Anonima per l'edificazione del
Politeama che affidò ad Andrea Scala il progetto per un teatro
all'aperto dotato di una copertura mobile in ferro e vetro,
utilizzabile quindi per diversi tipi di spettacolo e caratterizzato
da un sistema misto di gradoni (ad anfiteatro) e palchi . Per
seguire i lavori del teatro ed elaborare i disegni Scala mandò a
Catania un suo giovane e promettente collaboratore, Carlo Sada, il
quale, dal 1876 (data in cui venne sciolta la "Società del
Politeama"), rimase unico responsabile del progetto, insieme
all'ingegnere capo del comune, Apostolo Zeno.
I problemi con cui Sada dovette
confrontarsi furono numerosi e di diversa natura: intanto fu
costretto a fare i conti con le strutture esistenti e a occuparsi
delle connesse tematiche di carattere teorico, tipologico,
tecnologico: poi, in seguito alla sopravvenuta decisione di
abbandonare l'idea del politeama a favore di quella di teatro
lirico, fu obbligato a modificare il progetto e a ridisegnare
l'impianto della sala. Soprattutto egli dovette misurarsi con un
forte vincolo di carattere economico, legato alla ridotta
disponibilità delle casse comunali. E tutt'oggi sorprendente il modo
in cui Sada si impegnò per superare le difficoltà occorse, assumendo
il parametro economico come fattore guida del processo, controllando
di continuo il progetto e la produzione, adeguando gli elementi di
fabbrica e i procedimenti costruttivi alle rinnovate esigenze. A
tale riguardo, cospicuo è il numero di tavole per la definizione
della soluzione finale di copertura elaborate nel corso dei lavori
per la realizzazione del politeama: l'impennata del prezzo del ferro
aveva fatto rinunciare alla copertura mobile in favore di una
tradizionale con capriate lignee e "comuni" tegole locali,
suc-cessivamente completata con un controsoffitto avente funzione di
cassa armonica.
Nei confronti dell'aspetto tecnologico Sada dimostrò
un coinvolgimento connotato da scrupolosità e "modernità" da questo
atteggiamento scaturirono la meticolosa applicazione delle scoperte
scientifiche nel campo della fisica e il continuo confronto con
autorevoli progetti nazionali e internazionali: dal Carlo Felice di
Genova all'Opera di Parigi. Degno di nota in tal senso è l'ingegnoso
sistema con il quale venne connessa la climatizzazione degli
ambienti all'illuminazione artificiale, incanalando i prodotti della
combustione del gas illuminante lungo condotti collegati a camini
che, sfruttando i moti convettivi, conducevano l'area da espellere
fuori dall'edificio. Le stesse canne-camino fungevano da tiraggio
per l'aria viziata degli ambienti, mentre una rete di cunicoli posti
sotto i pavimenti dei palchi e della platea distribuiva l'area
esterna rinfrescata per mezzo di acqua nebulizzata. Grande
attenzione fu rivolta anche ai problemi di acustica: oltre al
ridimensionamento della sala, Sada scelse di rinunciare ai piani
.sottoscena - che avrebbero assorbito il suono all'origine -
realizzando la volta "a cucchiaio", che rifrange il suono
diffondendolo fino agli ultimi posti, e utilizzò la risonanza della
camera di refrigerazione dell'aria posta sotto il golfo mistico.
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da Architettura tra
cronaca e storia- n. 581/marzo 2004
BREVE STORIA DELLA STATUA BRONZEA DI VINCENZO BELLINI
È
collocata al centro del sontuoso foyer del Teatro Massimo Bellini di Catania una
scultura raffigurante il maestro compositore catanese di fama internazionale ma
non fu così sin dall'origine della costruzione del Teatro.
Il
teatro dopo anni di vicissitudini per la sua edificazione, fu inaugurato la sera
del 31 maggio 1890 ma seppur fosse stato intitolato a Vincenzo Bellini ,al suo
interno non era presente una sua scultura.
Bellini era nato a Catania il 3 novembre 1801 e morto in Francia il 23 settembre
1835 e le sue spoglie fecero ritorno in patria nel 1876 ,per dar lustro al
concittadino gli si intitolo' la villa pubblica e il teatro ma si pensò solo
agli inizi del Novecento a realizzare monumenti celebrativi come ad esempio in
piazza Stesicoro con la maestosa scultura realizzata da Monteverde.
Solo
intorno al 1920 si pensò ad una scultura per il teatro e il Comune pubblico' un
bando di concorso per l'affidamento dell'opera da realizzare e da sistemare
nell'immenso foyer del Teatro.
Il
concorso fu vinto da un giovane scultore catanese Salvo Giordano che realizzò
un'opera interamente in bronzo e di grandi proporzioni tanto da superare
l'altezza umana. Impiegò parecchi anni per realizzarla e quando la magnifica
opera fu pronta nel 1931 non fu subito collocata nel luogo prescelto ma restò
accantonata per vent'anni fino a quando non fu sistemata tra le colonne nel 1951
in previsione delle celebrazioni del 120 * anniversario della morte del maestro
(1955)
La
scultura poggia su una base quadrata di marmo ed è alta circa 3 metri e
raffigura Vincenzo Bellini in piedi ,a braccia conserte con lo sguardo verso
l'ingresso del lussuoso foyer come se stesse accogliendo i numerosi ospiti
spettatori. Infine è doveroso ricordare che alcune scene del famosissimo film
"Johnny Stecchino "di Roberto Benigni furono girate al teatro Bellini di Catania
nonostante la trama fosse ambientata a Palermo, semplicemente perché il teatro
Massimo di Palermo all'epoca non era disponibile
Milena Palermo
Bellini, Vincenzo. - (Catania
1801 - Puteaux, Parigi, 1835).
Figlio d'un organista e maestro
di cembalo, fu avviato dal padre allo studio della musica: a sette
anni già componeva, tra l'altro, un Tantum ergo e un Salve Regina.
Diciottenne, si recò a Napoli ove completò in tre anni i suoi studi
con G. Furno, C. Conti, G. Tritto e N. Zingarelli. Appartengono a
questo periodo sei sinfonie (all'italiana, ossia in un solo tempo),
due messe, una cantata
e varie romanze. Nel 1825, al teatrino del conservatorio di S.
Sebastiano, il B. diede la sua prima opera, Adelson e Salvini, e nel
1826, al S. Carlo, la seconda, Bianca e Fernando. Nel 1827 un nuovo
lavoro, commissionatogli dall'impresario Barbaia per la Scala di
Milano, Il Pirata (su testo di F. Romani, che gli divenne fraterno
amico e collaboratore), suscitò entusiasmo negli ambienti milanesi.
Nel 1828 si riprese a Genova Bianca e Fernando (rielaborata) e anche
questa ottenne grande plauso, come poi (1829) una nuova opera, su
testo del Romani, La Straniera, al teatro alla Scala. Cominciarono
per lui gli onori, ma anche le invidie e le calunnie.
Disgraziatamente egli stesso sembrò giustificarle, dando (1829 a
Parma) una affrettata Zaira (testo del Romani), condannata dal
pubblico.
La rivincita venne subito con I
Capuleti e i Montecchi (Venezia, 1830), e soprattutto con La
Sonnambula rappresentata nel 1831 al Carcano di Milano con esito
trionfale. Un insuccesso invece ebbe la Norma (sempre su testo del
Romani, composta e rappresentata nel 1831 alla scala), ma l'opera fu
poi accolta con entusiasmo a Milano stessa, a Bergamo, ecc. Seguì
(1833) alla Fenice di Venezia, con scarso successo, la Beatrice di
Tenda. Nel 1833 il B. fu invitato a dirigere sue opere a Londra e a
Parigi. A Londra trionfò la Norma; a Parigi (1834), le sue opere
furono applauditissime e il B. vi godé un breve momento di felicità:
l'amore di Maria Malibran, l'amicizia e la stima dei maggiori
artisti e poeti (tra i quali G. Rossini e H. Heine). A Puteaux
(1834), con meditata lentezza compose i Puritani, su libretto di C.
Pepoli, rappresentata al Théâtre italien di Parigi nel 1835, con
esito trionfale. Otto mesi dopo B. moriva. Arte più lirica che
drammatica, quella del B., dalla linea melodica pura e limpida,
spoglia di estrinseche complessità, dove le armonie, i contrappunti
e gli effetti strumentali hanno valore soltanto in funzione del
canto.
DALLA
NORMA MUSICALE ALLA NORMA GASTRONOMICA. LA MAGNIFICIENZA,
ATTRAVERSO UN CELEBRE
PRANZO, IL PASSO FU BREVE.
https://www.accademiavincenzobellini.com/
http://www.istitutobellini.it/
http://www.tmblogiudice.it/
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"SCRIGNI"
della Musica: il Teatro "Sangiorgi" di Catania.
Agli
albori del XX secolo, Catania era una città bella e moderna. Grazie
alla politica del Prosindaco De Felice e degli amministratori dell’epoca,
si era addirittura pensato di renderla una città turistica “di
svernamento”, al pari di altre città europee che godevano dello
stesso clima mite e di simili tradizioni storico-artistiche. Anche
Catania, dunque, visse la propria “Belle époque". La temperie
culturale che la città attraversava in quel momento era estremamente
ricca e variegata: dalle opere letterarie immortali del grande
Giovanni Verga (1840-1922), che giganteggiava su tutti, all’aulica
poesia di Mario Rapisardi (1844-1912); dall’arte incisoria e
pittorica di Francesco Di Bartolo (1826-1913) e di Calcedonio Reina
(1842-1911), al fermento musicale “belliniano”, che tese a
trasformare in Museo la casa natale del Musicista. Nella città, bella
anche a vedersi per le opere pubbliche volute e realizzate in quell’epoca
dorata, spiccava, fra l’altro il “nuovo” Teatro Massimo “Vincenzo
Bellini”, splendido e ricchissimo, inaugurato nel 1890, progettato
dall’architetto Carlo Sada (1849-1924) ed affrescato dai più abili
pennelli dell’epoca, non ultimo Giuseppe Sciuti (1834-1911), autore
anche del magnifico sipario, ancor oggi in uso, raffigurante l’immaginaria,
storica vittoria dei Catanesi sui Libici.
Insomma, a Catania, in quell’epoca
fortunata, che precedeva momenti storici ed economici purtroppo assai
bui, la Cultura era in fermento. Le sollecitazioni del nuovo secolo
facevano crescere nei suoi abitanti e nei turisti anche il desiderio
di svago ed intrattenimento. Accadde proprio in tale temperie
storico-culturale che Mario Sangiorgi, ex idraulico passato all’attività
imprenditoriale (dapprima fabbricò cappelli, poi specchi, quindi
testate di letti in ferro, più avanti avrebbe riprodotto e diffuso il
modello della sedia thonet, costruendola in patria sull’originale
austriaco) pensò di creare una struttura che oggi definiremmo “multimediale”,
quale aveva visto in un suo viaggio a Parigi. Nella propria
intraprendenza imprenditoriale, quindi, la struttura era
autenticamente avveniristica nella sua concezione.
Nacquero, così i
cosiddetti “Esercizi Sangiorgi”. L’impresa era titanica, ma le
risorse del cavaliere lo erano altrettanto: l’idea fu realizzata
materialmente senza problemi di sorta, seguendo lo stile della moderna
architettura, il Liberty; il progetto fu dell’ing. Salvatore
Giuffrida, gli stucchi e le decorazioni del pittore napoletano
Salvatore Di Gregorio. Nelle intenzioni, pienamente realizzate, del
cav. Sangiorgi, la nuova struttura degli “Esercizi” comprendeva
innanzitutto un teatro all’aperto, dove si rappresentavano opere,
operette e spettacoli di prosa. A cavallo fra Ottocento e Novecento,
Catania, oltre al suddetto Teatro Massimo “Bellini”, disponeva di
ben altre dieci sale teatrali, nelle quali la faceva da padrone il
teatro dialettale di tradizione, del commediografo catanese Nino
Martoglio (1870-1921) soprattutto,
con gli interpreti Giovanni Grasso,
Angelo Musco, Rosina Anselmi in grande attività, ma dove venivano
ospitati non di rado attori del calibro di Eleonora Duse o di Leopoldo
Fregoli; persino Sarah Bernhardt approdò in quel periodo a Catania.
Il Teatro Sangiorgi divenne allora, immediatamente, sala scelta e
frequentatissima dalle migliori compagnie teatrali. Il Teatro degli
“Esercizi Sangiorgi” fu inaugurato il 7 luglio del 1900, con la
Bohème di Puccini, diretta dal M°. Filippo Tarallo, primadonna il
soprano Bice Adami. Era, come sopra accennato, all’aperto, ma
sarebbe stato ricoperto nel 1907 e poi ristrutturato nel 1938. Ma la
struttura degli “Esercizi” non si fermava al teatro, con annessi e
connessi: comprendeva anche un salone interno di caffè concerto, un
ristorante, una sala da pattinaggio, vari spazi di ritrovo e di
ristorazione e, non ultimo, un albergo. Gli “Esercizi Sangiorgi”
erano stati realizzati in pieno centro della città ed anche per
questo divennero polo di attrazione per i catanesi; ma non solo per
coloro che desideravano svaghi arditi per l’epoca: anche per signore
e signorine, come si specificava nella pubblicità, che potevano
frequentarlo serenamente, dato l’ambiente serio e controllato e,
addirittura, per famiglie, in vena di sorbire un gelato guardando un
gradevole spettacolo o, magari di fare una pattinata. Il Sangiorgi
(chiamato così dai catanesi, nel suo complesso) divenne, quindi, meta
di svago e punto di ritrovo privilegiato. A volte, si poteva fruire di
qualche sorpresa, come un importante avvenimento sportivo o
addirittura una proiezione cinematografica. Il Cinema arrivò al
Sangiorgi nell’autunno del 1900, con la proiezione di “Quadri dell’esposizione
di Parigi”, ben dieci anni prima che a Catania si inaugurasse l’”Eliseo”,
il primo cinema cittadino.
Natalia
Di Bartolo
http://www.teatro.org/rubriche/prosa/scrigni_della_musica_il_teatro_sangiorgi_di_catania_i_8878
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DI
GIORNO |
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NOTTE |
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Parrocchie
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AI MINORITI Via Etnea - 95100 Catania - 095 316974
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