La verdura L'autunno avanza e il freddo che (si suppone) presto arriverà su tutta la penisola invita a piatti più robusti. Le insalate lasciano il posto a verdure cotte, stufate o al forno, in timballi, zuppe, e altre ricette che scaldano corpo e anima. I prodotti di questo mese? Si va sempre più nella stagione delle crucifere: cavoli e broccoli, broccoletti, cavolfiori, verze, cavoli cappuccio, cavoletti di Bruxelles. Ma non solo: rape, barbabietole e sedano rapa, patate novelle, topinambur e funghi, e ancora zucca e poi i primi finocchi e carciofi. Le bietole, anche rosse, gli spinaci e le cicorie per gli amanti delle verdure a foglia, l'indivia belga e i radicchi, i primi dell'anno. Mescolate insieme i prodotti di stagione: arance e finocchi, appena se ne trovano di buoni, cachi e castagne, ma anche castagne e funghi, o castagne e ceci, o patate, rape e cicorie, per una minestra rustica e corposa. La frutta Bisogna attende la metà del mese perché siano buone, ma già occhieggiano sui banchi arance e clementine, e poi cachi o loti che dir si voglia, castagne, kiwi, mele, pere e ancora si trova qualche grappolo d'uva, da usare anche in ricette salate, per esempio in piatti di carne. Le pere cotte (attenzione a lasciarle ancora compatte) si abbinano alla perfezione ai formaggi, anche erborinati, ma sono ottime anche con una ricotta setacciata e un crumble realizzato con farina di mandorle; cotte nel vino rosso con cannella e chiodi di garofano – invece - sono un dessert supertradizionale ma irresistibile, soprattutto se accompagnate da una crema leggera. Se poi siete in vena di sformare... beh non c'è che l'imbarazzo della scelta: pere e cioccolato, mele e cannella, oppure un bel dolce al cucchiaio di castagne e cachi. E che dire di un mont blanc o di una bella marmellata di castagne? a cura di Antonella De Santis
Monte Etna
_____________________________________________________________________________________________________________
BROCCOLO SPARACELLO PALERMITANO
CAVOLFIORE VIOLETTO NATALINO
Violetto Natalino. Questa particolare varietà di cavolfiore viene raccolta mediamente tra gli 80 e i 90 giorni dopo la semina. Si adatta a tutti i tipi di terreno ma predilige quelli freschi e ben drenati, nei quali non necessita di particolari concimazioni, se non di frequente irrigazione durante la formazione del frutto. La testa è di colore roseo, vicino al violetto, il peso medio di circa un chilogrammo. A livello di proprietà presenta un alto contenuto di sali minerali e, in cucina, non provoca odori durante la cottura. La maggior zona di produzione è il territorio regionale della Sicilia. Palla di Neve. Questa bella varietà di cavolfiore, si coltiva da luglio fino a settembre. Si raccoglie a 105 giorni dal trapianto. Pianta per raccolta invernale, con ciclo di maturazione medio-tardiva. Eccezionale qualità del fiore, compatto di un bellissimo colore bianco molto protetto dal fogliame. Può superare il peso di 1 kg.
Boschi dell'Etna in autunno (foto Nino Gemmellaro)
__________________________________________________________________________________________________________________
Con il termine generico di agrumi vengono oggi indicate tutte quelle specie e cultivar (arance, mandarini, pompelmi, pummeli, limoni, lime e cedri) conosciute e diffuse, presenti sulle nostre tavole, nei mercatini rionali o nei grandi mercati, nelle ville patrizie o nei più moderni e accoglienti terrazzi cittadini o, ancora, nelle vie e nelle piazze di molte città mediterranee, appartenenti principalmente al genere Citrus. Il termine prende origine dalla forma latina cedrus, derivante a sua volta dalla parola greca kedros, che indicava alberi di cedro, pino e cipresso. Il genere Citrus appartiene all’ordine delle Geraniales, famiglia Rutaceae, sottofamiglia delle Aurantioideae. La famiglia delle Rutaceae comprende circa 160 generi e ben 1650 specie tra alberi e arbusti. L’individuazione dell’area di origine e diffusione degli agrumi ha rappresentato un aspetto di difficile lettura che ha portato a conclusioni non sempre concordanti. Tuttavia oggi, alla luce dell’ampiezza del germoplasma agrumicolo ivi presente e sulla base delle numerose ricerche svolte, si concorda nel ritenere le regioni tropicali e subtropicali del Sudest asiatico, del nord-est dell’India, della Cina meridionale, della penisola indocinese e dell’arcipelago malese i centri primari di origine a partire dai quali iniziò la diffusione negli altri continenti. Le specie vere. Barrett e Rhodes, nel 1976, hanno proposto di considerare solamente tre le “specie vere” all’interno del sottogenere Citrus definito da Swingle: il cedro (C. medica), il mandarino (C. reticulata) e il pummelo (C. maxima). Gli altri agrumi devono essere considerati discendenti dalle tre “specie vere” o da alcune specie appartenenti a generi affini. In effetti l’ipotesi di poche valide specie all’interno del genere Citrus era già stata formulata da affermati tassonomisti: Linneo nel 1753 considerava tre specie e tre varietà. Frutti veri di agrumi. Il gruppo comprende il genere Citrus e altri 5 generi considerati affini a esso: Fortunella, Eremocitrus, Poncirus, Clymenia e Microcitrus. Il genere Fortunella comprende 4 specie: F. margarita (kumquat ovale), F. japonica (kumquat rotondo), F. polyandra e F. hindsii. È il genere che si avvicina maggiormente al genere Citrus in molte caratteristiche morfologiche dell’intera pianta. L’albero, di piccole dimensioni, presenta fiori di colore bianco e frutti piccoli, di forma diversa, da ovale a rotondeggiante, con colorazione da giallo all’arancio, con epicarpo più o meno sottile e aromatico a seconda della specie. Il genere Poncirus è costituito da due specie dalle caratteristiche foglie trifogliate: P. trifoliata e P. polyandra. È l’unico genere appartenente al gruppo C (frutti veri di agrumi) ad avere foglie caduche, caratteristica che lo rende particolarmente resistente alle basse temperature. Classificazione delle specie del genere Citrus A livello mondiale i frutti di agrumi sono divisi in cinque gruppi di significativa importanza economica: arance dolci [C. sinensis (L.) Osbeck], mandarini (C. reticulata Blanco e C. unshiu Marc.), pompelmi (C. paradisi Macfadyen), limoni [C. limon (L.) Burmann f.] e lime (C. aurantifolia Christm. Swingle). Altre specie quali l’arancio amaro, il pummelo, il cedro hanno minore importanza dal punto di vista commerciale. Vengono di seguito riportate alcune caratteristiche delle principali specie oggi coltivate e diffuse.
Classificazione delle specie del genere Citrus
A livello mondiale i frutti di agrumi sono divisi in cinque gruppi di significativa importanza economica: arance dolci [C. sinensis (L.) Osbeck], mandarini (C. reticulata Blanco e C. unshiu Marc.), pompelmi (C. paradisi Macfadyen), limoni [C. limon (L.) Burmann f.] e lime (C. aurantifolia Christm. Swingle). Altre specie quali l’arancio amaro, il pummelo, il cedro hanno minore importanza dal punto di vista commerciale. Vengono di seguito riportate alcune caratteristiche delle principali specie oggi coltivate e diffuse. Arancio dolce e arancio amaro L’arancio dolce [C. sinensis (L.) Osbeck] e l’arancio amaro (C. aurantium L.), facilmente distinguibili per differenti caratteri morfologici e sensoriali, hanno origine parallela: entrambi derivano dall’incrocio tra il pummelo, genitore femminile, specie monoembrionica, e il mandarino. Mandarini e mandarino-simili Il mandarino è una delle tre specie originarie, capostipite degli agrumi coltivati, e la sua origine è molto antica. Secondo Swingle l’eterogeneo gruppo dei mandarini si può ricondurre a un’unica specie, C. reticulata Blanco. Egli però avvertì la necessità di separarli in vari gruppi secondo affinità di ordine botanico. Hodgson, invece, riconobbe diverse specie e separò i mandarini in 5 gruppi principali: satsuma, Citrus unshiu, mandarini mediterranei, Citrus deliciosa, mandarino King, Citrus nobilis, mandarino comune, Citrus reticulata e mandarini a frutto piccolo. Tanaka, infine, elencò ben 36 diverse specie di mandarini. Il problema dell’inquadramento botanico di tali specie è ancora più complesso in considerazione dell’elevato numero di ibridi naturali intraspecifici e interspecifici esistenti oltre a quelli derivanti da incroci artificiali. A livello mondiale oggi viene utilizzato un sistema combinato tra le classificazioni già citate che vede essenzialmente riconosciuti i gruppi dei mandarini King, satsuma, mandarini veri e mediterranei, tangerini e tangor, tangeli e mandarini a frutto piccolo. Pompelmi e pummeli Il pompelmo, C. paradisi Macf., può essere considerato, in ordine di tempo, l’ultima specie di importanza commerciale a essere stata rinvenuta e anche l’unica autoctona del Nuovo Mondo. È un ibrido derivato dall’incrocio naturale tra il pummelo e l’arancio dolce. Ne esistono diverse varietà sia pigmentate sia a polpa chiara. Il pummelo [C. grandis (L.) Osbeck o C. maxima (Burm.) Merr.], specie originaria, è un agrume oggi molto popolare in Cina e in vari altri paesi asiatici, mentre è pressoché sconosciuto in Occidente. Generalmente il frutto è molto grosso, il più grosso tra gli agrumi, e forse è proprio questo il motivo dello scarso successo riscontrato nei paesi europei. Essendo specie autoincompatibile, si ibrida facilmente e nel tempo ha dato origine a numerose varietà molto variabili per forma e dimensione così come per la colorazione della polpa. Limoni e cedri Sull’origine genetica del limone [C. limon (L.) Burmann f.] nel tempo si sono succedute diverse ipotesi, spesso divergenti: alcuni lo hanno considerato ibrido tra cedro e lima, altri un triibrido tra cedro, pummelo e una specie del genere Microcitrus o, ancora, ibrido tra arancio amaro e lima. Da recenti studi molecolari sembrerebbe che il limone sia discendente dal cedro e dall’arancio amaro. Numerosi e molto diffusi sono oggi gli ibridi tra limone e cedro. Il cedro, C. medica Linneo, è la terza specie originaria, molto antica, di provenienza indiana. Trova oggi diffusione principalmente per l’utilizzo dei suoi frutti nei rituali religiosi dei popoli ebrei o per la produzione dei canditi. Forse nessun frutto, al pari del cedro, è stato così largamente influenzato nella sua diffusione e nella sua utilizzazione dai riti religiosi. Il cedro è una specie che ha dato origine a numerosi altri importanti ibridi di agrumi quali il bergamotto, C. bergamia Risso e Poit., il limone volkameriano, C. volkameriana Ten. e Pasq. (entrambi ibridi tra arancio amaro e cedro), il limone rugoso, C. jambhiri Lush. e la lima di Rangpur, C. limonia Osbeck (entrambi ibridi tra cedro e mandarino). Lime Anche per la classificazione delle lime dobbiamo fare riferimento a quanto indicato da Swingle e da Tanaka. Il primo le raggruppa in una sola specie, C. aurantifolia, il secondo ne elenca altre due, C. limettioides e C. latifolia. Oggi le lime vengono commercialmente distinte in dolci e acide; queste ultime a loro volta vengono ulteriormente classificate a frutto grande e a frutto piccolo. Tra le lime dolci, C. limettioides Tan., la lima di Palestina, è la più diffusa: essa deriva dall’incrocio tra cedro e arancio dolce. Tra le lime acide a frutto grande, C. latifolia Tan., sono maggiormente diffuse la lima di Tahiti e la lima Bearss. Tra le lime acide a frutto piccolo, C. aurantifolia (Christm) Swing., è la lima messicana quella maggiormente conosciuta e diffusa; essa insieme all’alemow, C. macrophylla Wester, è un ibrido tra cedro e C. micrantha, specie appartenente al sottogenere Papeda. Prof.ssa Elisabetta Nicolosi Dipartimento di Agricoltura, Alimentazione e Ambiente dell'Università di Catania
http://www.colturaecultura.it/content/inquadramento-tassonomico
Stanno per tornare le ARANCE DOLCI La stagione siciliana delle arance sta per iniziare. Questo frutto è uno dei simboli della Sicilia; proviamo ad avere qualche informazione in più. "...l’arancio dolce si è originato, attraverso complessi cicli di ibridazione e backcross, dall’incrocio tra due ancestrali, nello specifico il pummelo [C. maxima (Burm.) Merr.] e il mandarino (C. reticulata Blanco), presumibilmente in Cina. " "..l’attuale ampio panorama varietale di arancio dolce derivi esclusivamente da mutazioni gemmarie insorte e selezionate nei diversi areali di coltivazione.
Sono 4 le grandi categorie di arance dolci 1) arance bionde (comuni), il gruppo varietale dei Valencia è il più rappresentativo e diffuso; 2) arance ombelicate (Navel), i cui frutti sono caratterizzati da sincarpìa, cioè dalla presenza di un frutticino secondario e di una piccola apertura stilare (detta navel = ombelico). 3) arance pigmentate (rosse), composto da cultivar con frutti caratterizzati da pigmentazione rossa nella polpa. I principali gruppi varietali (Tarocco, Moro e Sanguinello) sono stati selezionati e prevalentemente diffusi in coltivazione nelle aree della Sicilia prossime all’Etna. 4) arance a basso contenuto di acidità (“acidless”), di minore diffusione ed importanza commerciale. Grazie al dr. Sebastiano Seminara e al prof. Gaetano Distefano, coautori della ricerca. Fonte: Rivista di frutticoltura e di ortofloricoltura, Edagricole, n. 1 gennaio 2023.
MANDARINO (Citrus reticulata)
E' un albero da frutto appartenente alla famiglia delle Rutacee. Il nome comune mandarino si può riferire tanto alla pianta quanto al suo frutto. Il mandarino è un arbusto poco più alto di due metri, in alcune varietà fino a quattro metri. Le foglie sono piccole e profumatissime. Il frutto è di forma sferoide, un po' appiattito all'attaccatura, e si lascia cogliere facilmente. La polpa è di colore arancio chiaro, costituita da spicchi facilmente divisibili, molto succosa e dolce, entro la quale vi sono immersi numerosi semi. La buccia è di colore arancione, sottile e profumata, con un'albedo molto rarefatta e granulosa che consente una facile pelatura del frutto. Spesso la buccia addirittura si distacca dalla polpa ancora prima che il frutto venga colto dal ramo, il che gli conferisce un aspetto "ammaccato". È particolarmente semplice rimuovere la buccia con le mani, proprio in quanto scarsamente attaccata alla polpa. Ha un profumo agrodolce e aromatico come la clementina; il gusto è molto dolce e buono. I mandarini sono normalmente consumati come frutta fresca o lavorati nella produzione di marmellate e frutta candita. Dalla buccia si estrae un olio essenziale che è un liquido di colore giallo oro leggermente fluorescente. Chimicamente si tratta perlopiù di d-limonene che spesso viene sofisticato con l'olio ricavato dal frutto intero non maturo. Un albero adulto può dare da 400 a 600 frutti all'anno. Negli Stati Uniti d'America la varietà più coltivata è la satsuma o mikan, importata nel 1876 dal Giappone. Da notare che Satsuma, oltre al nome di una regione nel Kyushu, è anche una città dell'Alabama cresciuta con i mandarineti. Questa varietà viene coltivata anche in Sicilia, assieme all'avana e al paternò. Da non dimenticare vi è la rarissima e protetta varietà del Mandarino tardivo di Ciaculli dal sapore zuccherino che, viene coltivato nell'omonima frazione di Palermo, nel cuore della pianura Conca d'oro. Nel Regno Unito e negli USA, oltre alla parola mandarino si usa come sinonimo anche e soprattutto il nome tangerine, dal che possiamo dedurre che il frutto veniva importato dapprima dal Mediterraneo, presso il porto marocchino di Tangeri. Ma si tratta in realtà di due distinte varietà. Il vero mandarino è di colore arancio chiaro e leggermente appiattito; il peduncolo si trova in una piccola infossatura. Il tangerino è un ibrido del mandarino con l'arancio, perciò la buccia è di colore arancio acceso; il peduncolo esce da una piccola protuberanza (come in certi limoni); le foglie sono più larghe. Alcuni esperti, specialmente americani, includono tra i mandarini anche i clementini, ma la classificazione è molto discussa. Anche i clementini sono degli ibridi, e precisamente tra il mandarino e l'arancio amaro, per cui – come i tangerini - si potrebbero catalogare a pari diritto pure tra gli aranci. È stata fatta anche la proposta di includere in un'eventuale unica varietà comune sia i tangerini sia i clementini. I tangerini sono ritenuti una varietà di mandarini, mentre i clementini fanno specie a parte, in quanto hanno dimostrato di possedere qualità durature e ripetibili, il che li porrebbe sullo stesso piano, ad esempio, delle limette. Ma una classificazione definitiva non è stata ancora concordata. Tenendo presente quanto sopra detto a proposito delle molteplici varietà ed ibridazioni di questo frutto, nonché della relativa incertezza sulla loro classificazione, si indicano di seguito alcune tra le più note denominazioni commerciali del mandarino. (Wikipedia)
______________________________________________________________________________________________________
SATSUMA MIYAGAWA (Citrus unshiu).
Arriva l’Autunno e con questo, anche la nostra tavola cambia: ancora possiamo gustare le ultime susine, l’uva, tante mele di diverse varietà, le pere, i primi cachi. Fra la verdura, comincia a far capolino il cavolo nero, verza e cappuccio e i primi funghi. Per le arance nostrane bisogna ancora attendere un po’, tuttavia possiamo godere di un anticipo grazie ad un piccolo agrume originario del Giappone: il Mandarino Satsuma Miyagawa (nome scientifico Citrus unshiu). L’ho notato giusto ieri, sui banchi del mercato e incuriosita, ho deciso di provarlo. E’ un agrume da poco introdotto in Italia ma coltivato con successo anche in Sicilia e nel Lazio. Ha una forma tondeggiante, la superficie leggermente schiacciata e la buccia di colore verde - giallo brillante. Proprio quest’ultima può trarre in inganno gli inesperti che possono considerarla sinonimo di scarsa maturazione. Si tratta di un incrocio fra il clementino e il pompelmo, ottimo connubio per coloro che cercano un sapore dolce ma con una punta di acidulo data appunto dal pompelmo. La polpa all’interno è, per la gioia della maggior parte, priva di semi, ricca di succo e di un bel colore arancio. La buccia poi, viene via facilmente senza dover usare il coltello. Il periodo di maturazione è precoce rispetto agli agrumi nostrani, appunto fra settembre e novembre e il prezzo poi, rispetto ai mandarini è di gran lunga più economico e anche questo ha contribuito, specie di questi tempi, alla sua diffusione. Come tutti gli agrumi, è ricco di vitamina C, potassio, calcio e fosforo e inoltre ha proprietà diuretiche. Rappresenta un valido presidio per mucose, capillari e malattie da raffreddamento. Ottimo anche per contrastare l’insonnia, distendere il sistema nervoso. Nella scelta, orientatevi sui frutti che hanno un peso “consistente” rispetto al volume e dalla buccia “bella tesa”, attaccata alla polpa. Mi sono chiesta, visto che all’apparenza può sembrare un Mapo (nome scientifico Citrus x tangelo), quali sono le differenze: bene, essendo questo, frutto dell’incrocio fra il mandarino Avana e il pompelmo Duncan, è tutta un’altra cosa in termini di sapore, decisamente più acidulo! Ma anche da un punto di vista nutrizionale, le sue proprietà si avvicinano di più a quelle del pompelmo. Insomma, se anche voi come me attendete con ansia gli agrumi nostrani come le arance succose e i dolci mandarini potete intanto iniziare ad accontentarvi del fratellino giapponese!
Bosco etneo
Il limone è una pianta generosa: seguendo il ciclo delle stagioni sa regalare tre differenti fioriture, garantendo freschi raccolti per tutto l’anno. Si tratta di una naturale magia che accompagna un frutto dalle potenti proprietà benefiche. Ecco perché le tre fioriture di limoni rientrano nella selezione di prodotti a marchio Orto Italiano di Citrus: frutta e ortaggi a filiera controllata che aiutano gli studi scientifici finanziati dalla Fondazione Umberto Veronesi nell’ambito della Nutrigenomica e promuovono l’educazione alimentare.
CLASSIFICAZIONE
Varietà di Limoni
Femminello comune (con le sue diverse clonazioni (Femminello a Zagara Bianca, Femminello IGP siracusano, Femminello apireno Continella, femminello Dosaco, Femminello SantaTeresa, Femminello Scandurra, Femminello Lunario) è la cultivar più diffusa a livello nazionale, sopratutto in Sicilia e in Calabria, coprendo quasi il 70% della produzione nazionale. Presenta la caratteristica della rifiorescenza, per cui a parte la produzione normale, caratterizzata da limoni con epicarpo rugoso ma dotati di elevata acidità, che copre il periodo ottobre-marzo, il ripetersi della fioritura consente una raccolta più precoce (Sett-ott) con il Primofiore, mentre il periodo Aprile-Maggio viene coperta dai Bianchetti, con l'epicarpo poco rugoso, di scarsa acidità e di colore giallo pallido. I verdelli si raccolgono durante il periodo estivo e si presentano meno acidi, privi di semi e con l'epicarpo liscio.' Interdonato: è diffuso nel versante Ionico messinese, di origini incerte, è di pezzatura medio-grande allungata, ma poco succoso , la sua rilevanza è da accreditare alla precocità della produzione basata sopratutto sul Primofiore. Monachello: poco rilevante poichè di scarsa produttività, anche se rispetto alle altre cultivar resiste di più al malsecco. Sfusato amalfitano (o femminello sfusato): diffuso nella costiera amalfitana , è di grande pezzatura, quasi privo di semi, presenta la scorza piuttosto spessa e rugosa, ricca di oli essenziali, da cui per la prima volta i contadini della zona hanno prodotto e diffuso il famoso Limoncello. Femminello Lunario: è un cultivar dalla scarsa produttività e scarso contenuto di acido citrico e oli essenziali, nonostante la sua caratteristica sia quella della fioritura durante tutto l'anno "il limone delle quattro stagioni". Alla scarsa importanza commerciale, si contrappone, proprio per la sua grande capacità di fioritura e fruttificazione continua, un largo impiego negli orti e giardini o come pianta ornamentale da vaso. Femminello apireno Continella: prende nome dall'agricoltore Saverio Continella di Acireale, che lo ha scoperto; varietà pregiata, poichè quasi priva di semi, è di piccola pezzatura, con la buccia spessa, di buona succosità e con un tasso piuttosto alto di acidità. http://www.valdiverdura.com/limoni-di-sicilia
La pianta del limone è giunta in Italia dalla Birmania, Nazione da cui origina, tramite i traffici dei commercianti di Mesopotamia e Medio Oriente. Qui, essa si è ben adattata al clima in quanto necessita di un habitat che sia secco, quasi per nulla umido; i luoghi del mondo in cui il limone viene al meglio coltivato e conservato, sono infatti quelli della fascia Mediterranea: Italia, Spagna, Grecia e Turchia, ma anche aree similmente calde e miti come Sud Africa, California e Uruguay. La sua coltivazione intensiva però risale ad un periodo particolarmente recente. Fino al Cinquecento e per una prima parte del Seicento infatti, il limone veniva utilizzato per preparazioni classiche e piuttosto lussuose; furono i padri Gesuiti a introdurne le coltivazioni in territorio siracusano, sfruttandole in maniera intensiva non prima del XVII secolo. Nel 1891, la produzione di questo frutto arrivò a raggiungere le 11.600 tonnellate, dichiarando ufficialmente il limone il frutto del sostentamento della zona di Siracusa, e facendo diventare, la Sicilia, una delle principali produttrici di limone al mondo. Molta fortuna la fece infatti l’area del siracusano, attraverso i commerci con l’estero, in particolare con gli Stati Uniti e l’Inghilterra, ma anche con altri porti dell’Italia e del resto del mondo: come Trieste, Malta e Fiume. Assieme al limone, che i siciliani coltivavano soprattutto per ricavarvi citrato di calcio e acido citrico, il porto di Siracusa divenne uno dei più importanti snodi commerciali della Sicilia dell’Ottocento e del primo Novecento, grazie ai traffici che includevano anche le arance, dolci e amare, e prodotti del limone, come il citrato di calcio stesso. Nonostante la massiccia urbanizzazione che ha interessato l’area del siracusano nel Secondo Dopoguerra, la coltivazione del limone nei dintorni di Siracusa, è stata tutt’altro che abbandonata. Il limone di Siracusa I.G.P. deriva da una cultivar detta femminello, una pianta particolarmente conosciuta per la sua abbondanza produttiva; il frutto è infatti presente sul territorio italiano, praticamente tutto l’anno, dato che la pianta fiorisce in tre periodi specifici: con il primofiore, che caratterizza il periodo che va da ottobre a marzo, il bianchetto, che matura tra aprile a giugno, e il verdello, che copre i mesi estivi, da luglio a settembre. Ognuna di queste specie è differente, ma tutte hanno forma ellittica e succo citrino; sono accomunate da una particolare abbondanza di succo e da una ricca presenza di ghiandole oleifere che rendono la buccia del limone di Siracusa, così aromatica e ricca di olii essenziali, da essere particolarmente noto ed utilizzato nell’industria profumiera e cosmetica delle grandi case di moda, ma è conosciuto anche nel settore alimentare per la realizzazione di prodotti di catene leader come Polenghi e le gelaterie Grom. In Italia il femminello viene coltivato in oltre 12mila quattrocento ettari di terreno, ed è proprio la Sicilia, sulla cui superficie di 5.300 ettari si produce una media di 150 mila tonnellate di prodotto, la regione che rappresenta il 42% della produzione nazionale. Il limone di Siracusa I.G.P. viene anche esportato, con particolare successo, all’estero: il suo principale bacino d’utenza è la Norvegia, mentre carichi imponenti raggiungono periodicamente anche diversi Paesi dell’Unione Europea come Germania, Francia, Regno Unito, Danimarca e Austria. L’area di coltivazione di questo frutto di estende lungo la fascia costiera di 10 comuni della provincia di Siracusa, tra cui nominiamo Augusta, Avola, Noto, Solarino e Sortino. Il limone di Siracusa, parte dei prodotti agroalimentari tradizionali presenti nella lista stilata dal Ministero delle Politiche Agricole, è inoltre protetto dal consorzio I.G.P. dal 2011, assieme al limone Interdonato di Messina e ad altre varietà italiane come il limone di Sorrento o il femminello del Gargano. A Siracusa, durante le celebrazioni realizzate in onore di Santa Lucia, nel giorno del 20 di dicembre, il limone, assieme alle arance, viene utilizzato per adornare i ceri che vengono portati in processione insieme al noto simulacro in argento. Il frutto è un dono alla Santa, ma rappresenta anche il passaggio simbolico della processione, dalla campagna alla città, ovvero dall’area di piazza Santa Lucia alla Borgata fino all’Isola di Ortigia. In campo medico, il limone di Siracusa è stato testato con una certa efficacia dagli Ospedali Riuniti di Bergamo, per farne un prodotto in grado di prevenire la calcolosi renale nei soggetti recidivanti. Tradizionalmente, il citrato di potassio è infatti l’unico ingrediente in grado di impedire e ridurre la formazione dei calcoli, anche se il farmaco da cui viene derivato provoca diversi effetti collaterali ai pazienti che ne fanno uso, che sono costretti per questo, dopo un po’, a sospendere la cura. Il trial clinico effettuato con la collaborazione tra l’Istituto di Ricerche Farmacologiche “Mario Negri” e il Consorzio di Tutela, ha determinato come il succo di tre o quattro limoni possa riprodurre gli stessi benefici del farmaco, minimizzandone le conseguenze sul corpo del paziente. Enrica Bartalotta
__________________________________________________________________________________________________________ Il melo è tra le specie più rappresentative della frutticoltura del territorio etneo. L’ampia adattabilità di questa specie ad ambienti più freddi ne consente, infatti, la presenza lungo le pendici del vulcano a quote più elevate rispetto a quelle raggiungibili da altre specie (fino a 1500 m s.l.m.. Si può senz’altro affermare che la diffusione sul massiccio etneo del melo è relativamente maggiore rispetto a quanto si registra in altri contesti dell’isola. La fascia altitudinale maggiormente interessata alla melicoltura è quella compresa tra i 600 e 1400 m di quota, mentre gli areali maggiormente interessati alla coltivazione sono quelli ricadenti nei comuni di Zafferana Etnea, Milo, Sant’Alfio e Mascali per quanto riguarda il versante orientale e Pedara, Nicolosi, Ragalna, Biancavilla, Adrano per quanto riguarda il versante sud-occidentale.
PUMA COLA, LE REGINE DELL'ETNA
di Paola Pasetti (In Viaggio - supplemento a La Sicilia) Da qualche decennio, però, la Cola ha dovuto cedere lo scettro della più coltivata a sua “figlia”: la Gelato-Cola. O Cola-Gelato, se si preferisce. Un ibrido nato dall’innesto su un’altra varietà autoctona dell’Etna, la “Gelatu”, oggi quasi del tutto scomparsa. Chi ha avuto la fortuna di addentarla, ne ricorderà sicuramente la tipica vitrescenza della polpa, da cui per alcuni deriverebbe il nome.
Le caratteristiche della “nuova nata” la rendono diversa dalla Cola per
il sapore della polpa, meno acidula, per il profumo più intenso e per la
grana più raffinata. A occhio nudo, la si riconosce comunque per la
forma tronco-cilindrica e per il colore che va dal giallo-verdolino
subito dopo la raccolta al paglierino chiaro, quando la maturazione
arriva a compimento.
Per raggiungerla, bisogna lasciare la strada asfaltata che da Zafferana
sale verso Piano dell’Acqua all’altezza del fontanile di Scalazza.
Subito sulla sinistra si apre una stretta stradina sterrata che scende
per qualche centinaio di metri all’interno della grande conca in cui
confluiscono valle San Giacomo e il vallone Cavasecca. La Scalazza
inizia proprio lì, alla base del costone che divide le due vallate. Una
visione mozzafiato: il sentiero, in gran parte lastricato, è
completamente immerso nel bosco di castagni; cento tornanti consentono
di coprire un dislivello di quasi 500 metri, dai 700 di Piano dell’Acqua
ai 1200 della zona di Cassone,
LE VARIETA' PIU' DIFFUSE IN QUESTO MESE
Fonte: Antichi frutti dell'Etna, di C. Bonfanti, A. Continella, A. Gentile, S. La Malfa
LA MOSTARDA E IL VINO COTTO Parecchi secoli dopo, abbiamo cominciato, noi siciliani, a preparare il vino cotto succo zuccherino dei fichi d'India che, introdotti dagli spagnoli hanno trovato il loro habitat divenendo caratteristiche del paesaggio siciliano. Alessandro Dumas padre, rimasto impressionato dalla quantità di fichi d'India che spontanei crescevano nelle campagne siciliane, scrive: «Il fico d'India è della grandezza di un uovo di gallina, avvolto in un involucro verde, difeso da ciuffi di spine la cui puntura provoca una dolorosa e prolungata sensazione di prurito: occorre quindi usare una certa perizia per sventrarlo senza incidenti. Completata questa operazione esce dalla spaccatura un globo dalla polpa giallastra, dolce. fresca e prima lo si comincia a gustare con un certo distacco, ma dopo otta gorni, finisce con il diventare una esigenza. I Siciliani adorano questo frutto, che è per loro l’equivalente del cocomero per i napoletani, con una differenza però che quest'ultimo necessita di una qualche coltivazione e quindi lo si può procurare gratuitamente, mentre il fico d'india cresce dappertutta e bisogna soltanto prendersi la briga di raccoglierlo.” Secondo una leggenda, riportata da Pierè. in origine i fichi d'India erano velenosi. Sarebbero stati i Turchi per debellare gli infedeli cristiani ad introdurli in Sicilia ma i Siciliani li hanno miracolosamente trasformati in un frutto dolce, succoso sostanzioso. Con gli spinosi fichi d'India le nostre massaie fanno anche a mustadda (la mostarda). Mio padre in settembre ne mandava a casa mia col bburdunar (malamere) quattro caffina (grandi cestI fatti di verghe e liste di canna intrecciate). Togliere la spinosa buceta ai fichi d'India era una grande fatica, ma fortunatamente le donne del vicinato insieme a mia madre, sedute nel cortile, chiacchierando allegramente li sbucciavano. Poi procedevano a preparare non solo u vinu cottu ma anche a mustadda. Alla fine le compagne di lavoro portavano a casa una grande scodella di mostarda arricchita con nocciole, mandorle, pistacchi tostati e tritati. Era stata una piacevole fatica. Nelle Madonie e nel Nisseno le bucce dei fichi d'India non si batttono ma si preparono delle saporite cotolette.
Fonte: SPIGOLATURE STORICHE SULLA CUCINA DI SICILIA – Gino Schilirò – Aracne editrice 2019 - © tutti i diritti riservati - esclusiva concessione del Prof. Schilirò per il sito web mimmorapisarda.it come farla : https://blog.giallozafferano.it/ilcaldosaporedelsud/mostarda-di-mosto-cotto/
ortaggi da tubero: patata, topinambur
LA PATATA SICILIANA
In Sicilia, grazie alle favorevoli condizioni climatiche riscontrabili in alcune aree costiere, vengono realizzati due cicli di coltivazione extrastagionali: autunno/vernino-primaverile ed estivo-autunnale, temporalmente differenti dal ciclo ordinario, primaverile-estivo. Con il primo ciclo, di gran lunga il più importante, si ottiene la classica ed affermata produzione precoce (denominata anche primaticcia o novella), realizzata tra marzo e inizio giugno, molto apprezzata, soprattutto dai mercati europei e del Nord Italia per la sua freschezza e fragranza. Con il ciclo estivo-autunnale si realizza, invece, la produzione invernale o bisestile o di secondo raccolto (da dicembre a febbraio), che in questi ultimi anni ha visto aumentare la propria importanza relativa. Con i tuberi raccolti in entrambi i cicli è possibile, pertanto, realizzare un calendario di produzione pressoché continuo di 6-7 mesi, da dicembre a maggio-giugno. Entrambe le tipologie di prodotto (patata precoce, o novella, e patata bisestile) sono destinate al consumo fresco e vengono commercializzate subito dopo la raccolta.
Cenni storici La coltivazione della patata precoce in Sicilia, come riportano i numerosi lavori di due illustri studiosi di questa coltura, Jannaccone e Foti, ebbe inizio intorno al 1910 nella fascia costiera ionica catanese, compresa tra Acireale e Taormina (ME). Essa nacque come frutto della collaborazione tra i commercianti di vino della zona di Giarre-Riposto che introdussero i primi tuberi-semi dalla Germania, dove esportavano i vini dell’Etna, e i coltivatori dei vigneti del luogo, alla ricerca di un’occupazione nel lungo periodo di inattività tra le vendemmie dell’autunno e la ripresa vegetativa della vite, in primavera. I commercianti anticipavano ai pataticoltori i tuberi-seme, ma anche concimi, agrofarmaci e, talvolta, somme di denaro, contro l’impegno da parte dei coltivatori a consegnare le patate novelle raccolte, che venivano in larga misura esportate in area tedesca. La terra veniva data in affitto dai proprietari dei vigneti, i quali, oltre al canone, ricevevano come corrispettivo anche gli effetti residui delle lavorazioni e delle laute concimazioni effettuate alla patata, nonché la sistemazione del terreno dopo la raccolta dei tuberi. La patata precoce in quella fase storica ebbe il merito di innescare, nel territorio etneo, un nuovo equilibrio economico-sociale che consentì di superare le ricorrenti crisi della viti-vinicoltura con nuove fonti di reddito per le aziende. A seguito della conversione dei vigneti in limoneti e delle ampliate possibilità di collocamento della patata novella soprattutto sui mercati esteri, ma anche su quelli del Nord Italia, tra gli anni Sessanta e Settanta sono state destinate alla coltura nuovi areali nelle province di Messina e Siracusa che beneficiavano di condizioni più favorevoli. L’ampliamento degli areali di coltivazione, oltre a comportare una maggiore e più articolata produzione complessiva, consentì un sostanziale allargamento del calendario di raccolta e di commercializzazione e un significativo miglioramento della qualità del prodotto. Quest’ultimo è stato reso possibile sia dall’utilizzo delle cosiddette “terre rosse” nel Siracusano sia dall’impiego della varietà Sieglinde, dalle eccellenti qualità del tubero, nel versante messinese. Da allora, con vicende sia pure alterne, la patata precoce siciliana ha visto incrementare progressivamente le superfici coltivate, che sono passate dai circa 3600 ha del 1939 agli attuali 10.000 ha. Areali di coltivazione Le aree di coltivazione, prevalentemente dislocate lungo le zone costiere della Sicilia orientale, hanno manifestato, nell’ultimo ventennio, una sostanziale variazione del loro assetto territoriale. Procedendo da nord verso sud, troviamo la prima zona pataticola isolana lungo la fascia costiera settentrionale della provincia di Messina, con le aree di Milazzo e Torregrotta, caratterizzate, nella seconda metà del Novecento, dall’esclusiva coltivazione della varietà Sieglinde, il cui eccellente prodotto veniva esportato in larghissima misura in Germania. Negli ultimi vent’anni le superfici coltivate in provincia di Messina hanno subito un significativo ridimensionamento, passando dai quasi 2000 ha del triennio 19871989 agli attuali 500 ha. Il secondo areale fa capo alla costa ionica catanese tra Acireale (CT) e Taormina (ME), dove spicca la storica e già citata area di Giarre-Riposto. Qui la coltura viene realizzata prevalentemente su terreni sabbiosi di origine vulcanica, i quali, imbrattando l’epidermide dei tuberi, conferiscono loro la caratteristica colorazione scura, poco apprezzata dai mercati. Per tale motivo il prodotto raccolto nei terreni vulcanici deve subire un attento lavaggio prima del confezionamento. Anche le superfici pataticole di quest’area hanno subito una forte contrazione, passando dai poco meno 1300 ha della fine degli anni Ottanta agli attuali 400 ha. La terza area si colloca in provincia di Siracusa, dove la coltura viene principalmente realizzata lungo la fascia che dal capoluogo si estende fino a Pachino, con particolare concentrazione in Agro di Cassibile. In quest’area la patata, oltre a trovare condizioni pedoclimatiche più consone alle sue esigenze, ha beneficiato di una fase congiunturale favorevole a causa della progressiva contrazione delle superfici negli areali del Catanese e del Messinese, e del basso impiego di manodopera richiesto per la sua coltivazione. Qui la patata ha largamente occupato il posto del pomodoro precoce in pien’aria e del carciofo, colture che, al contrario, richiedevano molta manodopera. Tutto ciò ha fatto sì che la crescita della pataticoltura siracusana, a partire dagli anni Sessanta, risultasse costante e, da vent’anni a questa parte, addirittura impetuosa, passando da poco più di 2000 ha agli attuali oltre 6000 ha, che rappresentano il 60% delle superfici coltivate dell’isola. Caratteristica comune alle tre aree pataticole tradizionali è la cospicua incidenza della monosuccessione della coltura sullo stesso terreno sia per l’elevata frequenza di appezzamenti di limitata estensione (aree tra Messina e Catania) – inconveniente che, tra l’altro, ha fortemente ostacolato una completa meccanizzazione delle operazioni colturali – sia per la carenza di colture ortive alternative alla patata, nel Siracusano. In ogni caso il forte ricorso alla monosuccessione ha portato a una serie di problemi fitosanitari (peronospora, rizoctonia e, soprattutto, nematodi) che attualmente pongono seri limiti alla redditività della coltura in alcune località. È anche per questo motivo che negli ultimi anni la coltura è andata diffondendosi in alcune nuove aree costiere delle province di Ragusa e Caltanissetta dove ha trovato condizioni pedoclimatiche in grado di soddisfare meglio le esigenze delle coltivazioni fuori stagione. In ogni caso, un limite comune a tutte le aree pataticole siciliane è rappresentato dalla mancanza di sistemi organizzati per un’efficace valorizzazione del prodotto. È comunque da segnalare con soddisfazione la presenza in coltura, anche con buoni risultati agronomici, delle prime varietà costituite in Italia. Attualmente, accanto alle già affermate Arinda, Mondial, Timate, Nicola e Ditta (preferita, quest’ultima, per le colture biologiche), il panorama varietale include anche nuovi genotipi, quali Marabel, Safrane, Labadia, Matador e le italiane Antea e Bellini, tutti con tuberi a buccia gialla, nonché Romanze e Red Fantasy, con tuberi a buccia rossa. La nuova articolazione varietale della pataticoltura siciliana ha sensibilmente migliorato la capacità di intercettare con efficacia le variegate richieste di un mercato sempre più esigente. In questo quadro è opportuno segnalare la costituzione, negli ultimi anni, di una rete regionale di sperimentazione sulla patata precoce promossa dalla collaborazione tra l’università di Catania e il servizio allo sviluppo dell’assessorato Agricoltura e foreste della Regione Siciliana, che ha già permesso di individuare nuove varietà adattabili alla coltura precoce, quali Everest, Ambition, Labadia, Madeleine e Allians, delineando per ciascuna di esse il profilo qualitativo e la destinazione culinaria più rispondente. Raccolta e manipolazione del prodotto La raccolta viene generalmente effettuata con l’ausilio di macchine scavatuberi, che hanno la funzione di portare in superficie i tuberi stessi, i quali sono poi raccolti manualmente. I tuberi ricavati dalle colture nei terreni vulcanici dell’area di Giarre Riposto, prima di essere confezionati e commercializzati, vengono sottoposti, mediante apposite macchine, a lavaggio con acqua per asportare i residui terrosi di colore scuro. Questa operazione, un tempo esclusiva di tale area, va sempre più estendendosi anche ai tuberi raccolti negli altri areali. I tuberi, dopo opportuna cernita e ripulitura, vengono confezionati in cartoni, retini ecc. e, relativamente a quelli esportati, anche in cesti di castagno oppure sacchi di juta o altre fibre. L’extrastagionalità permette che una quota apprezzabile della produzione, seppure in forte contrazione nell’ultimo decennio, sia collocata sui mercati esteri. L’altra quota di prodotto è destinata, invece, alla grande distribuzione organizzata e ai mercati ortofrutticoli, del Centro-Nord Italia in particolare.
Prof. Giovanni Mauromicale - Dipartimento di Agricoltura, Alimentazione e Ambiente dell'Università degli Studi di Catania http://www.colturaecultura.it/capitolo/patata-sicilia
L'Olio Extravergine di Oliva si ottiene dal frutto della pianta di Olivo. L'oliva è un frutto carnoso detto, in botanica, drupa. Il fatto che l'olio di oliva si estragga da un frutto e non da un seme, è molto importante dal punto di vista organolettico, nutrizionale e salutistico poiché oltre ai grassi, molte altre sostanze preziose, tipiche solo dei frutti, si trasferiscono nell'olio. L'olio extravergine di oliva è uno dei pochi prodotti dell'agricoltura derivati da un frutto, per semplice estrazione fisico-meccanica, che può essere consumato direttamente senza che subisca ulteriori processi industriali. Più di ogni altro prodotto alimentare, la sua qualità dipende dalla delicatezza con cui si eseguono tutte le lavorazioni del frutto stesso (l'oliva).
Le caratteristiche di pregio dell'Olio Extravergine di Oliva sono: Tecnologia di estrazione fisico-meccanica, senza aggiunta di solventi chimici; Presenza nell'olio di una serie di componenti minori, derivati dal frutto dell'oliva (steroli, squalene, alcoli, pigmenti, fenoli, tocoferoli e sostanze volatili) che costituiscono la frazione insaponificabile; Composizione equilibrata in acidi grassi (in saturazione intermedia). Odore più o meno intenso, che ricordi il frutto fresco dell'oliva (fruttato); In bocca deve dare una leggera sensazione di amaro e piccante alla base della lingua, non deve essere untuoso, ma fluido. Secondo il mito, la prima regione italiana a ricevere l’albero sacro dalla Grecia fu la Sicilia grazie ad Aristeo, figlio di Apollo, che ne introdusse la coltivazione e insegnò alle popolazioni locali come ricavare l’olio dalle olive. In base al regolamento Europeo, Reg. CE 1513/2001, l’olio viene cosi classificato: – Olio di oliva extravergine: gusto assolutamente perfetto e acidità libera, espressa in acido oleico, non superiore allo 0,8% (0.8 grammi per 100 grammi). – Olio di oliva vergine: gusto perfetto e acidità libera non superiore al 2%. – Olio di oliva vergine lampante: gusto imperfetto e/o acidità libera superiore al 2%. L’introduzione dell’olivo nella zona orientale della Sicilia è avvenuto intorno al II° millennio a.C., ad opera dei Fenici e dei Greci. In questo areale, la presenza del vulcano Etna, con le sue manifestazioni eruttive, ha alimentato il mito di questa coltura: il Ciclope Polifemo, personificazione dell’Etna con il suo occhio iniettato di fuoco, viene accecato da Ulisse con un tronco di olivo. Testimonianza dell’importanza della produzione oleicola “etnea” si riscontra già nell’opera di Pietro Bembo che, nel suo “De Aetna”, cita la bontà ed il pregio della coltura dell’olivo coltivato intorno al vulcano. Tocqueville nel 1827, durante il suo viaggio in Sicilia, a proposito della zona dell’Etna parla di prosperità ed abbondanza grazie alle coltivazioni locali di olivo rese particolarmente fertili grazie anche alle peculiari proprietà conferite dal terreno vulcanico. Oggi sull’Etna la “cultura dell’olio”, parte integrante e preponderante della cultura delle sue genti, assurge a simbolo di qualità della vita e di rispetto di secolari tradizioni.
Per Nocellara il futuro è Dop. L’oliva da tavola etnea conquista l’attenzione dei buongustai e degli Enti locali
Al mattino presto, l’aria è piena d’odori e il sole che scalda la terra e il cuore dei siciliani sembra non conoscere mezze misure. Il silenzio dei giardini è rotto da grilli e cicale, quando un refolo di vento s’incunea tra i rami di secolari ulivi, straordinari nell’offrire doni come la Nocellara dell’Etna: un’oliva verde, grande, tonda dalla polpa consistente. Olive da mangiare condite con olio, aglio, sedano, prezzemolo e aromi. Una produzione tipica che merita il marchio DOP (Denominazione d’origine protetta). Con questo scopo si sono riuniti a Paternò, all’auditorio “Don Dilani”, produttori e trasformatori, politici e amministratori per dare avviare la costituzione di un consorzio dell’oliva da tavola. “Ottenere questo riconoscimento – dice il consigliere provinciale Salvo Panebianco, promotore dell’iniziativa – è molto importante soprattutto se si pensa che nel 2006 non saremo più tra i Paesi dell’Unione Europea ad obiettivo 1. Ciò comporterà, inevitabilmente, che saranno finanziate solo le produzioni di qualità e la Nocellara Etnea può diventare volano di sviluppo locale”. Certo l’oliva da mensa può rappresentare insieme con altri prodotti della provincia catanese, come il vino e l’arancia rossa, la punta di diamante del “made in Sicily”alimentare. Un pacchetto di prodotti tipici d’alta qualità in grado di assicurare un futuro più roseo alla nostra agricoltura. E’ il primo passo del percorso che deve portare all’ottenimento del marchio DOP. Tra i punti più importanti ricordiamo le zone di produzione, riservate ad ampie fasce dei comuni di Bronte, Adrano, Biancavilla, Santa Maria di Licodia, Ragalna, Paternò, che rientra quasi per intero nell’area delimitata, Catenanuova, Belpasso, Motta S.Anastasia e Ramacca. Altri requisiti indispensabili perchè si possa parlare di Nocellara DOP sono: il tipo di raccolta che va effettuata a mano e le tecniche di coltivazione esclusivamente tradizionali in modo da dare alle olive specifiche caratteristiche organolettiche. Un’agricoltura che, di fronte alla globalizzazione dei mercati deve puntare con coraggio e determinazione su prodotti che si collocano nelle fasce più alte del mercato. D’altra parte i consumi in tutto il mondo stanno crescendo e sono finalmente riconosciute alle olive proprietà non solo organolettiche a sostegno della dieta mediterranea, ma anche salutistiche, basta pensare all’olio extravergine, che ne fanno un prodotto unico e insostituibile. Salvo Reitano
MONTE ETNA
L'olio
"Monte Etna" DOP è ottenuto dalla varietà Nocellara etnea per
almeno il 65% e da altre varietà presenti nella zona (Moresca, Brandofino,
Biancolilla, etc.). Al consumo ha un colore giallo con riflessi verdi, odore
fruttato leggero, sapore fruttato con leggera sensazione di amaro e
piccante. La zona di produzione delle olive destinate alla produzione dell'olio extravergine di oliva a denominazione di origine protetta comprende, nell'ambito del territorio amministrativo della regione Siciliana, i territori olivati dei comuni (atti a conseguire le produzioni con le caratteristiche qualitative previste nel disciplinare di produzione) che elenchiamo di seguito: La D.O.P. “Monte Etna” ricade in un comprensorio compreso tra 100 e 1000 m sul livello del mare appartenente al rilievo montuoso vulcanico dell’Etna. Le tradizionali sistemazioni a terrazze e i muretti a secco in pietra lavica ne segnano in modo inconfondibile il paesaggio. Il clima ventilato e il terreno vulcanico costituiscono un “unicum” capace di conferire all’olio etneo caratteristiche uniche ed irripetibili. Recenti ricerche hanno fra l’altro evidenziato nell’ olio Monte Etna significative differenze nella composizione in acidi grassi rispetto ad oli di diversa provenienza. La zona di produzione delle olive destinate alla produzione dell'olio extravergine di oliva a denominazione di origine protetta comprende, nell'ambito del territorio amministrativo della regione Siciliana, i territori olivati dei comuni (atti a conseguire le produzioni con le caratteristiche qualitative previste nel disciplinare di produzione) che elenchiamo di seguito: Provincia di Catania: Adrano, Belpasso, Biancavilla, Bronte, Camporotondo Etneo, Castiglione di Sicilia, Maletto, Maniace, Motta S. Anastasia, Paterno', Ragalna, Randazzo, Santa Maria di Licodia, San Pietro Clarenza. Provincia di Enna: Centuripe. Provincia di Messina: Malvagna, Mojo Alcantara, Roccella Valdemone, Santa Domenica Vittoria.
VAL DI MAZARA
La denominazione fa riferimento ai giustizieriati (province) di epoca Normanna che dividevano la Sicilia in cosiddette Valli: Val di Mazara, Val di Noto e Valdemone. Le notizie storiche sulla diffusione dell’olivo in questo territorio sono antichissime e si confondono tra mitologia e storia. Testimonianze storiche sono fornite dai ritrovamenti nei paramenti sepolcrali d’età Sicana. La testimonianza più tangibile è però data dai millenari esemplari che facilmente si possono incontrare nelle campagne dell’Agrigentino (Sciacca), in cui si ritrova anche una ricca variabilità genetica e cultivar di olivo spesso ancora poco note. Il Val di Mazara nasce nell’intero territorio della provincia di Palermo e in alcuni comuni della provincia di Agrigento (Alessandria della Rocca, Bivona, Burgio, Calamonaci, Caltabellotta, Cattolica Eraclea, Cianciana, Lucca Sicula, Menfi, Montallegro, Montevago, Ribera, Sambuca di Sicilia, Santa Margherita del Belice, Sciacca, Villafranca Sicula). Prodotto di grande qualità e salubrità, è frutto esclusivamente di varietà di olive locali: Biancolilla, Nocellara del Belice, Cerasuola (per il 90%) e Ogliarola Messinese e Giarraffa (per il restante 10%). La coltivazione in queste terre avviene secondo metodi tradizionali, tali da non modificare le caratteristiche originarie delle olive, la cui raccolta avviene con leggero anticipo rispetto alla piena maturazione al fine di estrarre un olio di maggiore fragranza e contenente più alti valori di antiossidanti naturali. Di odore e sapore leggermente fruttai, aroma mandorlato, retrogusto dolce ed eccellente persistenza aromatica, il Val di Mazara è leggero e fragrante al gusto e benefico per la salute. E’ infatti ricco di vitamine e di polifenoli, ha una scarsa presenza di perossidi e una concentrazione di acidi monoinsaturi. La zona di produzione si estende per 35.000 ettari circa. Le aziende olivicole sono circa 30.000 distribuite nella provincia di Palermo e nell’Agrigentino.
VALLI TRAPANESI Fin dall’antichità le olive erano usate nell’alimentazione dei locali e, a partire dal IV secolo a. C., nella Sicilia occidentale, le olive più grosse venivano trattate con sale e morchia e conservate nello stesso olio, come riferiscono molte commedie latine a proposito delle grosse olive dell’Ericino conservate in salamoia d’erbe. L’olio di oliva era dunque sempre presente sulle mense dei Sicilioti e, in seguito, dei latifondisti Romani. Questi ultimi, nelle grandi tenute, in cui era divisa la provincia di Sicilia, ricavavano l’olio anche dall’olivo selvatico e dall’olivo nano. La denominazione di origine protetta “Valli Trapanesi” è riservata all’olio extravergine di oliva ottenuto dalle seguenti varietà di olivo presenti, da sole o congiuntamente, negli oliveti: Cerasuola e Nocellara del Belìce in misura non inferiore all’80%. Possono, altresì, concorrere altre varietà presenti negli oliveti in misura non superiore al 20%. Le condizioni ambientali e di coltura degli oliveti devono essere quelle tradizionali e caratteristiche della zona e, comunque, atte a conferire alle olive ed all’olio derivato le specifiche caratteristiche. I sesti di impianto, le forme di allevamento ed i sistemi di potatura devono essere quelli tradizionalmente usati o, comunque, atti a non modificare le caratteristiche delle olive e dell’olio. La produzione massima di olive non può superare 8.000 kg per ettaro negli oliveti specializzati. Anche in annate eccezionalmente favorevoli la resa dovrà essere riportata sui limiti predetti attraverso accurata cernita purché la produzione globale non superi di oltre il 20% il limite massimo sopra indicato. La raccolta delle olive destinate alla produzione dell’olio extravergine di oliva a denominazione di origine protetta “Valli Trapanesi” può avvenire con mezzi meccanici o per brucatura. La raccolta inoltre viene effettuata nella fase della seminvaiatura e non deve protrarsi oltre il 30 dicembre di ogni campagna oleicola. La resa massima di olive in olio non può superare il 22%. Le olive devono essere molite entro i due giorni successivi alla raccolta. Per l’estrazione dell’olio sono ammessi soltanto processi meccanici e fisici atti a produrre oli che presentino il più fedelmente possibile le caratteristiche peculiari originarie del frutto. L’olio di oliva extravergine a denominazione di origine protetta “Valli Trapanesi” presenta le seguenti caratteristiche: colore: verde con eventuali riflessi giallo oro - odore: netto di oliva con eventuali toni erbacei - sapore: di fruttato con sensazione leggera di piccante e di amaro - acidità massima totale espressa in acido oleico, in peso, non eccedente a grammi 0,5 per 100 grammi di olio Il prodotto si presenta alla vista di un colore verde intenso con decisi riflessi giallo dorati. Si caratterizza per l’odore fruttato di media intensità oltre ad essere dotato di ricchi sentori di pomodoro di media maturità e spiccate note balsamiche. Ha un gusto fruttato di media intensità, caratterizzato da eleganti note di pomodoro acerbo e spiccati toni di erbe officinali. Amaro e piccante sono equilibrati e ben distribuiti. Le olive destinate alla produzione dell’olio di oliva extravergine della denominazione di origine protetta “Valli Trapanesi” devono essere prodotte, nell’ambito della provincia di Trapani, nei comuni di:Alcamo, Buseto Palizzolo, Calatafimi, Castellammare del Golfo, Custonaci, Erice, Gibellina, Marsala, Mazara del Vallo, Paceco, Petrosino, Poggioreale, Salemi, San Vito Lo Capo, Trapani, Valderice, Vita. La zona predetta è delimitata in cartografia: 1:25.000. L’olivo caratterizza il paesaggio locale fin dal tempo dei Greci e dei Fenici, ma è con gli Arabi e ancor di più con gli Spagnoli che l’olio di questa zona è diventato rinomato per il suo valore nutrizionale. Molti degli oliveti impiantati dagli Spagnoli sono ancora oggi presenti nelle Valli Trapanesi e hanno assunto un valore storico e a volte monumentale. http://www.tp.camcom.it/porting/guidaagricoltura/Sito/src/Trapanesi.htm
VALDEMONE Area di produzione - comprende i territori di tutti i comuni della provincia di Messina, fatta eccezione per Floresta, Moio Alcantara e Malvagna. Varietà - è ottenuto dalle varietà di olivo Santagatese, Ogliarola Messinese e Minuta presenti negli oliveti, da soli o congiuntamente, nella misura minima del 70%. Le varietà Mandanici, Nocellara Messinese, Ottobratica, Verdello e Brandofino possono essere presenti per il restante 30%. Caratteristiche al consumo - aspetto limpido e leggermente velato; colore da verde con tonalità gialle a giallo oliva; fruttato: la sensazione olfattiva mette in risalto il profumo più o meno intenso delle olive appena raccolte, accompagnato sempre da sentori di erbe, foglie e fiori di piante spontanee presenti nel corteggio floristico degli oliveti della provincia di Messina; sensazioni gustative: al gusto, l'olio ribadisce le percezioni olfattive con una sensazione di olive fresche appena raccolte contrastata, in minor misura, dall'amaro; le sensazioni retro-olfattive che accompagnano più o meno nettamente l'olfatto e il gusto dell'olio Valdemone, sono la mandorla, la frutta fresca, il pomodoro, il cardo; l'acidità massima è dello 0,7%. Metodo di produzione - la raccolta deve essere effettuata dalla pianta sia a mano che con macchine agevolatrici (es. pettini vibranti). E' ammesso l'impiego di reti per l'intercettamento delle olive al momento della raccolta; dove possibile è ammessa la raccolta meccanica con l'impiego di vibratori. E' comunque vietato l'impiego di prodotti cascolanti così come non sono ammessi altri metodi di raccolta che possono danneggiare le olive o determinare il contatto del frutto con il terreno. L'operazione di raccolta deve essere effettuata nel periodo che va da ottobre fino a gennaio. Le olive appena raccolte vanno conservate in cassette di plastica finestrate, ben arieggiate in modo da non alterare la qualità originaria e vanno molite entro due giorni dalla raccolta. Per il trasporto si possono usare anche cassoni di plastica di maggiore capacità. Le olive devono essere prive di imperfezioni (attacchi di mosca e tignola) che potrebbero influenzare negativamente la qualità dell'olio. Le operazioni di oleificazione e di imbottigliamento dell'olio devono essere effettuate entro il territorio previsto dal disciplinare. La produzione massima di olive per ettaro non deve superare i 60 q.li negli impianti tradizionali e i 100 q.li per ettaro negli impianti intensivi. Le rese massime in olio delle olive non possono superare il 24%. Prima della molitura, le olive devono essere preventivamente lavate e defogliate. Per l'operazione di frangitura sono ammessi tutti i tipi di frantoio. L'operazione di molitura avviene con il controllo della temperatura che non deve superare i 28-30 °C. I frantoi tradizionali possono essere a 2-4 macine. Nei frantoi a molazza, i tempi di lavorazione sono di 20-30 minuti, mentre con i frangitori sono dell'ordine di un minuto; tali tempi di lavorazione variano in funzione del grado di maturazione delle olive. La temperatura ottimale della gramolatura si aggira intorno ai 28-30 °C, mentre i tempi di lavorazione sono mediamente di 30 minuti. http://www.lavinium.com/dop/olio_valdemone.shtml
MONTI IBLEI La DOP "MONTI IBLEI", è il riconoscimento ufficiale delle caratteristiche di pregio dell'Olio Extra Vergine di Oliva ottenuto nel comprensorio omogeneo dei Monti Iblei, territorio, a sud della Sicilia, nel cuore del mar Mediterraneo, antica porta di ingresso dell'olivo in Europa. Il consumatore può riconoscere un prodotto di qualità assaggiando direttamente il prodotto, leggendo ed individuando in etichetta il marchio comunitario DOP (Denominazione di Origine Protetta) e IGP (Indicazione Geografica Tipica) che danno garanzia che quel prodotto è stato sottoposto a severi controlli di tracciabilità e all'analisi organolettica di un Panel ufficiale. Consumare Olio Extravergine di Oliva DOP significa, pertanto, avvicinarsi al territorio di origine, alla sua storia, alle sue tradizioni ed apprezzare il frutto del lavoro dell'uomo. La nostra terra di Sicilia, grazie alla secolare abilità ed esperienza degli olivicoltori e frantoiani, ha ottenuto il prestigioso riconoscimento europeo. L'ampia gamma di profumi e sapori che le tre varietà principali di oliva sono in grado di esprimere, consentono di ottenere oli unici ed inimitabili. Aree di produzione: Il territorio di produzione dell'olio extra vergine d'oliva DOP Monti Iblei riguarda le province di Catania, Ragusa e Siracusa, per una superficie complessiva di 19.000 ha circa. In questa zona elettiva la coltivazione dell'ulivo si basa su sistemi tradizionali e ciò è testimoniato dalla presenza di migliaia di ettari di uliveti e di centinaia di piccoli frantoi, che utilizzano processi di estrazione dell'olio tramite centrifuga, o secondo sistemi ancora più tradizionali, quali i meccanismi a pressione. L'estensione della coltura ha determinato la nascita di decine di aziende che imbottigliano il prodotto e lo commercializzano e che sono proiettate sui mercati nazionali ed esteri. Le varietà più coltivate sono: la Moresca, la Tonda Iblea e la Nocellara Etnea o Verdese, in minor misura si trova la Biancolilla, la Siracusana, la Nocellara Messinese, e di recente introduzione varietà non siciliane come la Carolea e la Coratina. La raccolta delle olive viene fatta in maniera differenziata a seconda dell'altitudine, dal mese di settembre a gennaio. L’areale Monti Iblei è un massiccio di natura calcarea, che due milioni di anni fa è emerso dal fondo del Mar Mediterraneo. I movimenti orogenetici e i continui sollevamenti della crosta hanno determinato l’attuale configurazione del territorio, creando le masse rocciose, le caratteristiche cave dal lento digradare verso il mare e gli spettacolari canyons.
NOCELLARA DEL BELICE Le caratteristiche organolettiche tipiche di quest’olio extravergine di oliva sono: colore verde intenso, profumo di fruttato d’oliva appena raccolta, tono erbaceo, sentori di pomodoro e carciofo, retrogusto di mandorla con sensazioni di amaro e piccante. Acidità massima dello 0,70% e una densità di valore medio. Ciclo produttivo La raccolta delle Olive di Nocellara per olio ha inizio i primi di Ottobre e si conclude, di norma, entro la fine di Novembre. Le olive subito dopo la raccolta vengono trasportate al frantoio dove vengono trasformate in olio entro le 12 ore successive in impianti di trasformazione a freddo (la temperatura nel processo di macinatura non deve superare i 27°c). Nel processo di trasformazione si possono distinguere quattro fasi importanti: Pulitura, le olive vengono lavate e defogliate con getti di acqua calda e aria forzata. Molitura, le olive vengono macinate meccanicamente. Gramolatura, le olive macinate vengono ridotte in pasta. Estrazione, dalla pasta di olive viene estratto l’olio, la sansa (residui solidi), e l’acqua, separati da moderne centrifughe. Ottimo per le fritture, perché il suo punto di fumo è di 140-180° e può raggiungere i 280° senza bruciare grazie alla sua bassa acidità, nessun altro grasso può resistere a temperature così elevate e a differenza di altri oli o grassi per frittura, dopo il primo uso, può essere conservato ed adoperato per molte altre volte. La sua coltivazione si estende in tutta la Valle del Belice tra Partanna, Campobello di Mazara, Santa Ninfa, Salaparuta, Poggioreale e Gibellina. Differenza tra Olio Vergine ed Extravergine Un olio estratto solo con processi meccanici a una temperatura tale da non provocare alterazioni negative al prodotto finale, può essere definito “Olio Vergine”. A sua volta, un “olio vergine”, per ottenere la denominazione di “extravergine” deve obbligatoriamente rispettare determinati parametri di qualità molto restrittivi (valore di acidità, indicatori di perossidazione, caratteristiche organolettiche). Quindi l’Olio Extravergine risulta essere superiore rispetto all’Olio Vergine. Questi due eccellenti prodotti Siciliani, le olive da mensa e l’olio Nocellara del Belice, possono essere acquistati online anche su Essenze di Sicilia, direttamente da Castelvetrano (TP). testo a cura di essenzedisicilia.it http://www.viedelgusto.it/nocellara-del-belice-olive-olio-extravergine/
COLLINE ENNESI L’olio extravergine d’oliva "Colline Ennesi” è prodotto il territorio della provincia di Enna: Agira, Aidone, Assoro, Barrafranca, Calascibetta, Catenanuova, Centuripe, Cerami, Enna, Gagliano Castelferrato, Leonforte, Nicosia, Nissoria, Piazza Armerina, Pietrapezia, Regalbuto, Sperlinga, Troina, Valguarnera, Caropepe e Villalrosa. Deve essere ottenuto da oliveti composti dalle seguenti varietà: Moresca, Nocellara Etnea e Biancolilla per il 70% e altre varietà tra le quali Giarraffa, Tonda Iblea e Ogliarola per un massimo del 30%. E’ un olio extra vergine di oliva dal colore che va dal verde al giallo oro. Fruttato medio o intenso, esibisce leggere sensazioni di erba e sensazioni di piccante amaro, con eventuali sentori di carciofo, sedano, pomodoro. La coltivazione dell'ulivo e di conseguenza la produzione dell'olio tipico dell'ennese, possedendo queste singolari qualità organolettiche che lo differenziano nettamente da altri oli, non si configura solo per l'importanza data da una significativa produzione locale, ma anche, nella tradizione antica, come albero di culto al quale tutti i sicilioti dovevano portare somma venerazione così come dimostrato da una ampia e ricca documentazione storica. Questa testimonia una antica presenza della coltivazione dell'ulivo nel territorio provinciale ennese unitamente ad una profonda tradizione degli usi e delle consuetudini ancora vive nel contadino, legati non solo alla produzione di olio ma anche alle sue utilizzazioni. Le cultivar che si sono specializzate nel territorio rispondono all'esigenza tramandata dai greci di un frutto dedicato alla mensa, l'oliva, ed un prodotto, l'olio, che come unguento era legato ai riti propiziatori: da questo, l'affermarsi di cultivar a duplice attitudine. Qualità e tipicità dell'olio nella provincia di Enna risultano in diretto collegamento. Studi sul germoplasma confermano l'esistenza di una caratterizzazione genetica ennese di Olea Europea e l'analisi chimico fisica dell'olio in relazione al germoplasma oggetto di studio ha evidenziato che le caratteristiche specifiche dell'olio ennese hanno comunque una forte correlazione con la matrice genetica. La combinazione tra cultivar presenti nel territorio di antico insediamento, così come è emerso dall'indagine sul germoplasma, condizioni pedoclimatiche e particolarmente del clima mite mediterraneo che caratterizza questo territorio prevalentemente di media ed alta collina, collocato in area interna priva di diretta influenza del mare, sta alla base della qualità elevata e della tipicità del prodotto i cui specifici parametri chimici hanno come conseguenza la notevole stabilità dell'olio nel tempo a vantaggio del carattere decisamente fruttato che permane a lungo. I terreni sono particolarmente vocati alle coltivazioni arboree ed in particolare per olivo e mandorlo.
COLLI NISSENI L’area di produzione dell’olio extravergine di oliva "Colli Nisseni” interessa, come facilmente intuibile dal nome dell’olio, tutto il territorio dei 22 comuni della provincia di Caltanissetta: Acquaviva Platani, Bompensiere, Butera, Caltanissetta, Campofranco, Delia, Gela, Marianopoli, Mazzarino, Milena, Montedoro, Mussomeli, Niscemi, Resuttano, Riesi, San Cataldo, Santa Caterina Villarmosa, Serradifalco, Sommatino, Sutera, Vallelunga Pratameno e Villalba. L’olio deve essere ottenuto da oliveti composti dalle varietà: Tonda Iblea, Moresca, Nocellara del Belice per almeno il 70% e altre varietà tra le quali Carolea, Giarraffa, Nocellara Etnea, Nocellana Messinese, Biancolilla e Coratina per un massimo del 30%. La tipicità dell’olio extravergine di oliva "Colli Nisseni” D.O.P. ci giunge dalla specifica piattaforma varietale, dai fattori naturali dell'areale di produzione quali il microclima, il terreno e le cultivar (le varietà delle olive utilizzate), nonché dalle particolari tecniche di coltivazione e di produzione tramandate nei secoli dagli olivicoltori nisseni. Il clima della zona è tipico dell'area mediterranea, caratterizzato da inverni miti e piovosi e da estati calde ed aride. La caratteristica comune di molti terreni dei "Colli Nisseni”, fortemente acclivi, ricchi di scheletro e poveri di strato superficiale coltivabile è propria quella di prestarsi poco all’utilizzazione con colture più esigenti. Per queste ragioni l’olivo si trova fortemente diffuso, rientrando, fin dai secoli più remoti nell’economia della zona, continuando ancor oggi ad essere di primaria importanza sia per l’alimentazione che per l’utilizzo come fonte energetica, o come materia prima per l’artigianato. In questo contesto ambientale ed umano si sono radicate tradizionali tecniche di sfruttamento della pianta d’olivo, idonee a esaltare le pregiate caratteristiche dell’olio prodotto, che denota una sua spiccata tipicità. L’insieme di tali fattori concorre a differenziarlo nelle sue caratteristiche chimiche ed organolettiche, da qualsiasi altro olio extravergine d’oliva, rendendolo quindi unico. L’olio extravergine di oliva Colli Nisseni D.O.P. presenta colore da verde a giallo paglierino con riflessi verdognoli, è un fruttato di intensità media, con sentori di erba fresca e pomodoro. Il sapore esprime sensazioni di amaro e di piccante.
L'OLIO D'OLIVA ENTRO QUANDO VA CONSUMATO?
L’olio d’oliva è uno degli alimenti principali della dieta mediterranea e, per noi amanti di cucina, un ingrediente semplicemente irrinunciabile. Chi ne fa un uso frequente lo acquista in genere in cisterne o damigiane, comprandone grandi quantità e poi conservandole nel modo opportuno. Entro quando però va consumato questo olio? Ha una data di scadenza? C’è un limite oltre il quale non è più possibile consumarlo in sicurezza? Cercheremo di rispondere a questo e ad altri quesiti in un articolo che chi ama la buona cucina dovrebbe mandare a memoria. 12 mesi, massimo 18 Un vecchio adagio recita <<vino vecchio, olio nuovo>> a sottolineare la profonda differenza tra questi due prodotti. Se il primo infatti può, in determinate condizioni, essere invecchiato e migliorato, il secondo andrebbe invece consumato quasi fresco e comunque mai oltre i 18 mesi dalla produzione. L’olio d’oliva infatti tende a perdere le sue caratteristiche organolettiche (quindi colore, sapore, acidità e via dicendo) a partire dal primo anno successivo alla produzione, e oltre il limite dei 18 mesi il prodotto non dovrebbe essere più consumato, perché ormai diventato lontano parente dello straordinario prodotto che era in principio. L’olio extravergine vecchio fa male? No, non fa male, tant’è che fino a pochi anni fa (prima della UE per intenderci) le conserve a base d’olio d’oliva extravergine si consumavano anche dopo qualche anno dalla produzione. L’olio non fa male, anche se ha superato i 18 mesi, ma perde molte delle sue proprietà e dei suoi sapori, diventando un prodotto scadente e che non merita l’attenzione di chi ama cucinare e mangiare bene. Se ne fosse rimasto in dispensa meglio smaltirlo, soprattutto se ci teniamo al gusto dei nostri piatti. Olio da supermercato: la scadenza non la racconta giusta Curiosa è la situazione degli oli d’oliva da supermercato, dato che la normativa europea permette dei strani giochini che possono mantenere sul mercato un prodotto che non dovrebbe essere, in una situazione normale, destinato alla vendita. La normativa parla infatti di una scadenza da apporre al momento dell’imbottigliamento e non al momento della produzione, il che permette ai produttori di guadagnare qualche mese. Facciamo l’esempio di un produttore che mantiene l’olio stoccato per 3 mesi, per poi imbottigliarlo. La bottiglia riporterà una data di scadenza ultima che indicherà in totale 21 mesi dalla produzione, ben oltre il limite massimo entro il quale l’olio conserva inalterato il suo sapore. Come si altera l’olio Non stiamo parlando di un prodotto stabile, stiamo parlando di un prodotto che subisce ossidazioni e trasformazioni e che cambia (e di molto) il suo sapore dopo il periodo che abbiamo indicato. Il sapore dell’EVO ad esempio tende a diventare più acido, quasi metallico, se non addirittura con note decise di muffa, segno che il prodotto è ormai inutilizzabile e deve essere smaltito il prima possibile.
http://tecnichef.it/lolio-doliva-scadenza-entro-quando-consumato/
La Sicilia 26/11/2017 di Carmen Greco Dalle lenticchie nere di Leonforte a quelle di Ustica e Villalba la forza di piccole produzioni che combattono con la qualità contro la globalizzazione del cibo Gioielli piccolissimi, ma gioielli. La riscoperta dei legumi di Sicilia è cosa relativamente recente, non più di 10-15 anni. Nel 2007 secondo il Consorzio di ricerca Gian Pietro Ballatore di Palermo c’erano 50mila ettari coltivati a fava, 10mila per il fagiolo e 1.800 per la lenticchia. Oggi, dopo dieci anni di globalizzazione selvaggia, le colture siciliane si sono ulteriormente contratte (su tutto il territorio siciliano si contano circa 24.000 ettari coltivati a legumi) ma gli agricoltori “illuminati” hanno deciso - in primis per sopravvivere - di seguire la linea della qualità, l’unica strada per entrare in quella nicchia di mercato che privilegia la storia della nostra cultura agricola e che apre vere prospettive di futuro per fave, lenticchie e fagioli “made in Sicily”. «Certo, siamo Davide contro Golia - osserva il produttore Luca Parano di Leonforte - non possiamo competere con le multinazionali del Canada e del Messico che contano su estensioni infinite e pianeggianti per coltivare e soprattutto praticano trattamenti (leggasi glifosato e veleni vari) che noi non possiamo, nè vogliamo fare, intanto perché Italia e Ue li vietano, poi perché non è la nostra filosofia». Parano è proprio uno di questi agricoltori “illuminati” che, quindici anni fa, ha deciso di diversificare la produzione di pesche di Leonforte igp, must dell’azienda di famiglia, recuperando la coltivazione della “lenticchia nera” e della “fava larga”, due presidi Slow Food (tre con le pesche tardive igp). Quando parla dei “suoi” legumi gli si illuminano gli occhi. «Sono ottimi - descrive - sotto tutti i punti di vista, organolettico, nutrizionale, tengono benissimo la cottura, hanno un gusto unico. La lenticchia nera è una pianta nana e tutte le fasi della lavorazione, dalla raccolta alla pulitura, devono essere fatte necessariamente a mano. E’ un prodotto che non subisce alcun tipo di trattamento, non viene lavorato da macchinari, è tutto fatto dall’uomo». Anche per questo un chilo di lenticchia nera di Leonforte costa 20 euro al kg rispetto alla lenticchia classica del Canada che di euro al chilo ne costa appena 2. Un abisso, ma soprattutto un abisso qualitativo se si pensa, un dato su tutti, che le lenticchie nere hanno il 36% di ferro in più rispetto alle lenticchie comunemente commercializzate. Una caratteristica che, oggi, i consumatori hanno cominciato ad apprezzare. «Assolutamente sì - conferma Parano - la gente lo sa e vuole la nostra lenticchia pur essendo molto più cara. Io faccio parte del circuito di Campagna Amica (i mercatini a km zero di Coldiretti ndr) e ho difficoltà a coprire la richiesta. Non ho il tempo di pulirla, la richiesta è più alta dell’offerta. Ma la lenticchia nera non è l’unica eccellenza, a Villalba, per esempio coltivano un’altra bellissima varietà. Noi produttori abbiamo cominciato a capire che queste coltivazioni andavano recuperate e rilanciate quando siamo stati invasi da tutte le produzioni estere a bassissimo costo e a bassissima qualità. La Val Dittaino, parlo per il mio territorio, era il granaio dei Romani e finalmente qui gli agricoltori hanno capito che bisognava puntare sulla qualità dei prodotti autoctoni siciliani. Io non pianto il cece grosso californiano, coltivo due varietà autoctone, il “cece sultano” e il “cece pascià” due autentici prìncipi della nostra agricoltura e mi augurerei della nostra alimentazione». A “schiacciare” da un punto di vista commerciale le produzioni di legumi siciliani sono Canada ed Egitto con le fave, Messico con i fagioli, la California con produzioni di ceci, anche se meno massicce. Di fatto, nei supermercati siciliani è raro trovare i legumi autoctoni, a meno che non ci siano delle aree dedicate alle produzioni di nicchia. «Negli Anni Settanta - ricorda parano - la lenticchia nera si stava perdendo e qui a Leonforte, un unico produttore ne ha preservato il seme dall’estinzione. E’ grazie a lui se la lenticchia nera oggi esiste ancora, e nell’area ennese siamo in 7-8 a coltivarla. Io ci credo, e ci credo tanto. Ci stiamo lavorando molto sul cibo buono e pulito. Coinvolgo i miei vicini a fare lo stesso, li invito a non abbandonare i terreni, a non lasciarli incolti, a prediligere i prodotti ricercati come la fava larga e le lenticchie nere. Sono pronto ad aiutarli a commercializzare questi prodotti. Per me i legumi siciliani hanno un grande futuro e questa convinzione mi viene anche dal riscontro con le persone con le quali parlo nei mercati. La gente sta imparando a capire, c’è molta più attenzione, chi ha la possibilità di comprare i nostri legumi, anche se mi rendo conto che non sono accessibili a tutti, lo fa con molta curiosità e competenza. Vuole sapere come vengono prodotti, che trattamenti sono stati fatti sul terreno, che caratteristiche hanno da un punto di vista nutrizionale, come si cucinano. Io non mi stanco mai di raccontare la storia di questi prodotti, la manualità che c’è dietro, le tecniche di coltivazione che sono quelle tradizionali anche se oggi incontrano la tecnologia. Per esempio stiamo provando dei sistemi per la sterilizzazione naturale della lenticchia nera mettendola in celle frigorifere a meno 40° e ci siamo accorti che la “farfallina” non si formava più. Ecco, per me, il futuro è questo». http://www.lasicilia.it/news/cibo-salute/123392/legumi-di-sicilia-gioielli-di-qualita.html
Il territorio etneo è ricco di piante erbacee spontanee molte delle quali, assieme ai funghi ed ai frutti di bosco, fino ad un passato non troppo lontano rappresentavano una fondamentale risorsa alimentare per le popolazioni locali (contadini, boscaioli, pastori, ecc.). Infatti, era prassi quasi quotidiana andare per le sciare, le timpe, i coltivi ed i boschi in cerca di verdure selvatiche. Tale abitudine alimentare, principalmente, traeva origini da uno stato di necessità, data la cronica indigenza in cui versava la popolazione rurale e talora quella cittadina. Pure i cacciatori avevano l'abitudine di raccogliere piante selvatiche che trovavano nel loro girovagare. Si cercavano verdure selvatiche anche per variare la dieta giornaliera, principalmente a base di pasta, carne e legumi, e per la mancanza delle diverse varietà di ortaggi carnosi, multicolori ed esotici che oggi si trovano, invece, in bella mostra nei negozi di frutta e verdura. Da questa abitudine alimentare, attraverso i secoli, è giunto fino a noi un imponente patrimonio culturale, tramandato di generazione in generazione. http://www.dipbot.unict.it/alimurgiche/introduzione.htm
_____________________________________________________________________________________________________________
Boschi dell’ambiente montano
betulla dell'Etna (foto Nino Gemmellaro)
La betulla dell'Etna è una pianta arborea, che raggiunge altezze da 4 a 15 metri, ma che alle altitudini superiori ai 2000 metri può assumere un portamento arbustivo. Le foglie hanno forma romboidale o sub-triangolare, meno acuminate di quelle della Betula pendula, con margine crenato. I fiori sono riuniti in infiorescenze di colore giallo quelli maschili, e verde chiaro quelli femminili. Fiorisce in aprile-maggio. I frutti sono piccoli acheni conici di colore marrone. In fitoterapia, vengono adoperate le gemme, la linfa e sopratutto le foglie, per preparare degli infusi che stimolano le funzioni renali ed alleviano i leggeri disturbi infiammatori dell’apparato urinario.
Alberi da frutta
MEDITERRANEO. Formaggio di pezzatura medio-grande da latte di pecora e latte di capra a pasta molle semicotta , con leggera occhiatura , di forma tonda . Peso da 4 a 8 kg. , stagionatura da 60 a 90 giorni . Il formaggio Mediterraneo nasce dal desiderio del casaro di esaltare al massimo la trasformazione del latte di pecore e capre allevate nella nostra azienda . Viene prodotto dai pastori nel periodo estivo, quando le pecore cominciano ad andare in asciutta e le capre sono al massimo della loro lattazione, perchè a differenza delle pecore , sfruttano al massimo i pascoli estivi fatti da arbusti e macchie di piante sempreverdi , quindi il latte di capra che abbonda viene unito a quello di pecora che comincia a scarseggiare . Gli aromi e i profumi della flora della macchia mediterranea si ripresentano, infatti, in modo variegato nella pasta del formaggio , esaltando un gusto che riporta ai sapori antichi del mondo agro-pastorale della nostra Sicilia , fatto di lunghe transumanze e di convivenze con intemperie atmosferiche caratterizzate da caldi afosi e da gelide nevicate ,che erano parte integrante dell’uomo- pastore e del suo gregge . Il gusto è intenso ed al contempo delicato ; è un formaggio tradizionale , adatto anche a consumatori più giovani e meno giovani dai fini palati che vogliono riscoprire quei sapori che la civiltà moderna e strapiena di tecnologie e comodità ha fatto dimenticare . Il nome “Mediterraneo” è un pregevole intuito di Gino Armetta, titolare dell’omonima storica salumeria a Palermo e grande intenditore di formaggi , il quale assaggiandolo per la prima volta, non ha avuto esitazione nel dargli questo nome, proprio perchè trasmetteva in pieno la sensazione di sicilianità e centralità del Mediterraneo . Azienda Polizzi
Nel 1924, dopo più di 50 anni dall’esordio sul mercato, il Comm. Alfio Fichera rileva l’azienda che oggi porta il suo nome e, insieme ai figli e ai suoi più stretti collaboratori, dà vita a una vera e propria famiglia aziendale che lavora con grande spirito di solidarietà e di intraprendenza per portare la distilleria ad altissimi standard qualitativi. Alla fine degli anni '50, l'azienda si amplia e ammoderna le attrezzature, divenendo così una delle più apprezzate fornitrici di distillati per grandi aziende nazionali, quali la Stock di Trieste. Nel 1967, la scomparsa del Comm. Alfio Fichera ha lasciato un profondo vuoto nel cuore dell’azienda, ma non ha esaurito la determinazione dei suoi discendenti che hanno deciso di guardare avanti, fino a far diventare l’azienda leader nel settore dei liquori e dei distillati. Passione che adesso anche la nuova generazione continua ad alimentare, per tramandare la tradizione di famiglia, e per donare alle Distillerie Comm. Alfio Fichera fama riconosciuta a livello internazionale.
cotognata
Il 'tiraciatu' o gongilo: rettile temuto dai siciliani Il gongilo è un rettile metà serpente e metà lucertola che in terra siciliana viene chiamato 'tiraciatu'. Ecco il perchè
Flavio Sirna 4.9.2019
Forse in molti non ne hanno mai sentito parlare in vita loro, altri invece ci hanno avuto a che fare nel momento in cui se lo sono trovati di fronte sollevando una pietra, attraversando un terreno sabbioso, sotto cataste di legname o sotto altri rifugi. Parliamo del gongilo, meglio conosciuto dai siciliani come 'tiraciatu'. Si tratta di un piccolo rettile metà serpente e metà lucertola, dotato di zampe, che può raggiungere fino ai 30 cm di lunghezza. Ha la testa piccola, il corpo cilindrico e le zampe molto piccole che gli permettono di muoversi serpeggiando. In terra sicula viene chiamato in questo modo perchè si diceva in passato che venisse attratto dall'alito dei lattanti e per questo motivo era temuto dalle mamme, preoccupate che si sarebbe potuto avvicinare alle culle dei bambini. Nella realtà il gongilo ricopre un ruolo fondamentale negli ecosistemi perchè rappresenta un anello della catena alimentare, fungendo da predatore e preda (mangia artropodi, chiocciole ed altri invertebrati). Non è assolutamente pericoloso o nocivo per l'uomo, anzi è una specie molto timida ed innocua. E' diurno e se si spaventa scappa via tra le piante. Favorisce la dispersione di alcune piante, su tutte il fico d'india. Nelle zone eccessivamente aride si nutre dei frutti di queste piante. L'ingestione e la successiva espulsione, mediante le feci, di queste piante, fa sì che esse vengano disperse nel territorio e possano aumentare la loro capacità di colonizzazione. Al momento si ritiene che in gongilo sia ancora presente, oltre che in Sicilia, anche in Sardegna, nel Nord dell'Africa ed anche nelle zone della Turchia. A minacciare la sua tranquilla esistenza sono la frammentazione degli habitat, l’uso di pesticidi e sostanze chimiche in agricoltura, e l’uccisione da parte del gatto domestico.
|