Come ogni mese torna puntuale la nostra rubrica dedicata ai migliori prodotti da portare sulle nostre tavole. Sono quelli più gustosi, nutrienti e anche economici: i prodotti di stagione che danno il meglio di sé proprio nella stagione fredda, portandoci in dono gusto e benefici. Per esempio uno schermo prezioso contro il freddo. Dato da vitamine e sali minerali che si trovano in cavolfiori, spinaci, bietole, cavoletti di Bruxelles, broccoli, carciofi, catalogna, scarola, indivia; si trovano poi altri prodotti che hanno un forte potere depurativo e antiossidante (e con il Carnevale così anticipato un po' di detox serve proprio), come per esempio i finocchi, cardi, radicchio, sedano. Questa è anche la stagione di barbabietole e scorzonere, carote, topinambur e altre radici. Con tutta questa scelta si possono fare davvero tante, tantissime ricette, alcune classiche e semplicissime, altre più elaborate. Come per esempio il pollo arrotolato con mantecato di patate, cipolla in agrodolce e broccoli, o il più tradizionale risotto al radicchio.
Anche la frutta di questo periodo dell’anno ci viene in soccorso per superare indenni i giorni più freddi perché rappresenta una riserva eccezionale di vitamina C: arance, cedri, kiwi, limoni, mandarini, pompelmi, ma anche pere e mele, da consumare al naturale (magari in una bella spremuta mattutina) o da usare per preparare dolci sfiziosi, prime tra tutte le confetture che si prestano a tante varianti, soprattutto quella di arancia, più o meno dolce, mescolata al pompelmo, oppure profumata con cannella o zenzero. Ma gli aranci sono una scorta di sapori e aromi da usare anche in piatti salati, per esempio al posto del limone, moltissimi piatti di piatti di carne e di pesce possono essere insaporiti con le zeste e succo di agrumi, come pure i primi piatti, ai quali una poco di buccia di limone o arancia regala personalità, come nel caso della triglia con pane e arance. Ma scegliete sempre frutta coltivata in modo naturale, che non abbia residui di trattamenti chimici sulla buccia. a cura di Antonella De Santis
lattuga, radicchio, bietola, asparago, indivia, borragine, sedano, spinacio, rucola, catalogna, cavolo, basilico, bietola, spinaci, cardo, cicoria;
La cicoria (Chichorium intybus), appartiene alla famiglia delle Composite. Nota per stimolare la concentrazione, è utile per capelli, pelle, reni e per combattere la sonnolenza. Scopriamola meglio. La cicoria stimola la concentrazione, aiuta a combattere la sonnolenza, ha potere lassativo, stimola l’attività di pancreas e fegato. Grazie alle sue proprietà aiuta a regolare la quantità di glucosio e di colesterolo nel sangue; è dunque un alimento particolarmente prezioso per chi soffre di diabete o colesterolo alto. La cicoria contiene cicorina, inulina, colina, tannino, amido, sali minerali e vitamine, tutte sostanze molto utili all’organismo, grazie alle quali questo vegetale vanta proprietà astringenti, toniche, disinfettanti e disintossicanti. Inoltre, favorisce il funzionamento della cistifellea e dei reni e stimola la digestione. Gli impacchi fatti con il decotto di cicoria aiutano a lenire le irritazioni cutanee. La cicoria, infine, è considerata un vero toccasana per l’acne.
E'una pianta perenne. Ha un caratteristico sapore amarognolo, dovuto alla presenza di sostanze alcaloidi. In realtà, comunque, il sapore varia da cicoria a cicoria, perché ne esistono diverse tipologie, ognuna con una palatabilità diversa, più o meno amarognola. Quando si acquista la cicoria, come per tutte le altre verdure a foglia, bisogna controllarne bene l’aspetto, per essere certi di portare a casa un prodotto fresco. Le foglie della cicoria devono apparire prive di lesioni e parti scure e non devono essere ingiallite. Nel periodo napoleonico, in Francia, la radice della cicoria veniva usata come surrogato del caffé; abitudine che venne presto diffusa anche in Inghilterra e Stati Uniti. Secondo una credenza popolare la cicoria, soprattutto quella selvatica, sarebbe in grado di risvegliare l’eros. Sarebbe, infatti, un vasodilatatore naturale, capace di aumentare l’afflusso di sangue agli organi sessuali maschili. http://www.cure-naturali.it/cicoria/3410
LA CICORIA SELVATICA
La cicoria selvatica (Cichorium intybus) è una pianta erbaccia perenne appartenente alla famiglia delle Composite. Conosciuta anche col nome di radicchio selvatico o di cicoria amara, è presente in quasi tutte le regioni d’Italia fino a 1500 m d’altitudine, nei terreni calcarei, argillosi e asciutti, nelle zone erbose incolte e bordi delle strade. Il fusto, rigido e angoloso, può raggiungere l’altezza di 1 m ed è molto ramificato. Le foglie basali sono profondamente incise a denti acuti, quelle superiori sono piccole, lanceolate, inguainanti il fusto. I fiori (luglio-settembre), raggruppati in grandi capolini di uno splendido colore azzurro (raramente bianco o roseo), si schiudono all’alba e si richiudono, decolorandosi, verso il tramonto. La radice a fittone è cilindrica, lunga e carnosa ed è da sempre utilizzata, previa essiccazione, arrostimento e macinazione, come surrogato del caffè. PROPRIETA’ TERAPUTICHE E USI DELLA CICORIA SELVATICA La cicoria selvatica contiene sali di potassio, ferro, con un glucoside amaro, glucidi, lipidi, protidi, vitamine B, C, P, K, aminoacidi, inulina (le radici). Tutta la pianta contiene anche un lattice bianco fortemente amaro che fa parte dei numerosi principi attivi della pianta. Grazie a questi suoi componenti, la cicoria è un ottimo tonico, amaro-digestivo, remineralizzante, antianemico, depurativo, diuretico, coleretico (aumenta la secrezione biliare) e leggermente lassativo. Sia le foglie che le radici si usano per curare l’anoressia, l’astenia, l’anemia, le insufficienze biliari ed epatiche, l’atonia gastrica, la gotta, l’artrite eccetera. Per uso esterno è usata per curare i foruncoli e gli ascessi. LA RACCOLTA E LA CONSERVAZIONE Le foglie si raccolgono prima della fioritura e si seccano in luoghi aerati; le radici si raccolgono invece in autunno, si dividono in più parti e si mettono ad essiccare al sole. Si consiglia pure di consumare di frequente le foglie della cicoria – particolarmente amare e non più commestibile dopo la fioritura - sotto forma di alimento, sia crude in insalata, sia bollite per sfruttare il loro contenuto in minerali e vitamine e ottenerne un ottimo effetto depurativo. Anche le radici, cotte e condite al modo delle carote, svolgono una notevole azione terapeutica. USI TERAPEUTICI DELLA CICORIA Un efficace infuso depurativo si prepara con 30 g di foglie preferibilmente fresche per ogni litro d’acqua: se ne prende 1 tazza prima dei pasti. Una tisana, utilissima nei disturbi intestinali, si ottiene versando in mezzo litro d’acqua bollente 10 g di radici di cicoria e una cucchiaiata di fiori di borragine; dopo 5-6 minuti si può aggiungere un po’ di miele e bere a tazze. Il decotto per combattere la stitichezza e l’inappetenza dei bambini, per depurare il fegato e stimolare la secrezione biliare, si prepara con circa 20 g di radici fresche per ogni litro d’acqua; si fa bollire per 5 minuti e si tiene in infusione per 15; se ne vede 1 tazza prima dei pasti principali. http://salute.leonardo.it/erbe-officinali-proprieta-terapeutiche-e-usi-della-cicoria-selvatica/
RADICCHIO SEMPRE PIÙ "CULT", DALLE ALPI ALLA SICILIA Sempre più usato nelle pubblicità e nelle campagne promozionali sia a livello regionale che nazionale, il radicchio ormai fa tendenza. Attraente e ammiccante, colpisce attenzione e fantasia; in una parola: stimola. Un ortaggio “cult”. È la conferma della popolarità che ha acquisito negli ultimi tempi. In primo piano si distingue il tardivo di Treviso, ma anche le altre varietà, precoci e tardive, sono entrate nel repertorio di creativi e di campagne di comunicazione. Giancarlo Pasin, autorevole chef di Treviso, è rimasto felicemente sorpreso da un mega manifesto, posto all'aeroporto di Catania, che pubblicizzava il “Sicilia Fashion Village”, il primo e più grande outlet di grandi firme della Sicilia. Sul cartellone una donna affascinante “in abito di radicchio”. Lo Chef ne è rimasto colpito: “Mi sono illuminato davanti a un'immagine tanto bella e prestigiosa del mio radicchio trevigiano. È stato esaltante!”.
carciofo, cavolfiore, broccolo;
Carciofo spinoso i Palermo o Menfi (Cerda, Cefalù, Palermo, Castelvetrano, Sambuca, Sciacca) Carciofo violetto catanese (prov CT e Gela)
La Città del carciofo violetto. Raccontare la storia di una prelibatezza come il carciofo passa attraverso i tanti nomi con i quali viene indicato: carcióffula, carciofaia, carcióufu, caquórcila, cacuórciulu, cacùccila, e chi più ne ha più ne metta. Si arriva addirittura ad indicare una persona piena di sé, che ostenta e si pavoneggia come uno che “si senti cacòccila”. Ma nel linguaggio parlato manca la dizione più interessante, e cioè capòzzula che è quella che dà l’etimo: cioè “caput”, il capo, la testa, a voler significare come questo ortaggio frutto dell’amore, della sapienza e dell’esperienza che ogni giorno le nostre famiglie, i nostri produttori e i nostri contadini mettono nel lavoro di una terra straordinariamente fertile, la terra di Ramacca, sia veramente il capo, la guida, il re della tavola e della salute. Nella cucina della nostra isola, e non solo, i carciofi trovano larghissimo impiego e non sono secondi a nessun altro ortaggio per il numero delle ricette che si possono preparare, dall’antipasto al dolce. Curiosità a parte, esiste tutto un fascino, un modo di vivere, un costume, intorno al carciofo: il mangiarne non è solo cibo, ma soprattutto un ottimo motivo tenendo qualcosa in mano bere un buon bicchiere di vino, tra amici… tra buoni amici. http://www.vivienna.it/2011/04/05/ramacca-xxi-sagra-del-carciofo-violetto/
CIMA DI RAPA (Brassica rapa subsp. sylvestris var. esculenta) è un ortaggio tipico dell'agricoltura italiana, coltivato soprattutto in tre regioni, Lazio, Puglia e Campania, nelle quali si estende il 95% della superficie agricola dedicata a questa pianta. Introdotta dagli emigranti italiani, la sua coltivazione si è estesa anche all'estero, negli Stati Uniti d'America e in Australia. Della pianta si consumano le infiorescenze in boccio (dette anche friarielli,nel napoletano, broccoletti o broccoli di rapa) insieme alle foglie più tenere che le circondano, secondo ricette che, in generale, fanno riferimento alla tradizione locale nelle diverse regioni. Per la sua caratteristica di vegetare e produrre con basse temperature è considerato un ortaggio autunnale o invernale, di cui si consiglia l'uso per il contenuto in sali minerali, vitamine e fattori antiossidanti Si semina a spaglio a fine estate o all'inizio dell'autunno, talvolta si trapianta in file distanti 30 cm e a 30 cm di intervallo sulla fila. Nella prima fase vegetativa, la pianta emette una rosetta basale di foglie, mentre in fase riproduttiva sviluppa steli terminanti in infiorescenze tenere e carnose. Le varietà fanno capo a ecotipi la cui denominazione ricorda la località di coltivazione (Cima di rapa Cassanese) e la lunghezza del ciclo (Natalina, Marzatica) oppure combinazioni tra i due caratteri (Tardiva di Fasano, Aprile di Carovigno). Le varietà precoci impiegano 80 giorni dalla semina alla fioritura (es. Quarantina), mentre quelle più tardive (es. Cima di rapa di aprile, Maggiaiola di Sala Consilina) 190-200 giorni. L'altezza della pianta è proporzionale alla lunghezza del ciclo di crescita: le popolazioni precoci sono di taglia bassa (50-60 cm) le tardive primaverili più alte (es. 110 cm la Cima di rapa di marzo di Mola di Bari). La raccolta, scalare, si esegue in autunno, inverno o nella successiva primavera secondo la lunghezza del ciclo, raccogliendo a mano le infiorescenze con lo stelo fino all'inserzione delle infiorescenze laterali, con tutte le foglie annesse. L'apertura dei fiori deprezza la qualità del prodotto, scarsamente commestibile. La cima di rapa è largamente utilizzata e molto diffusa nella cucina tradizionale meridionale, in particolare in quella pugliese e campana. Viene consumata cotta e rappresenta l'ingrediente principale di numerosi piatti tipici della cucina pugliese, tra cui le famose "orecchiette alle cime di rape", gli "strascinati e cime di rape" , le "rape stufate col peperoncino", "fave e rape", "cime di rapa lesse condite con olio extravergine di oliva"). Altra specialità pugliese, diffusa, in particolare, nel Palagianese, è la puccia con rape e salsiccia. Si preferisce l'uso di giovani esemplari, non più di 15 cm, per via del loro sapore meno amaro. Nella zona di Mottola, invece, si preferisce l'uso di esemplari più adulti, tra 25 e 30 cm, accompagnati da un sugo di lumache di terra.
CAVOLO VERZA La verza o cavolo verza (Brassica oleracea var. sabauda L.), detta anche cavolo di Milano (o cavolo lombardo e cavolo di Savoia), è una varietà di Brassica oleracea simile al cavolo cappuccio, ma a differenza di questo presenta foglie grinzose, increspate e con nervature prominenti. Pianta biennale con radice fittonante non molto profonda, possiede fusto eretto, di lunghezza raramente superiore ai 30 centimetri. La palla, verde o rosso-violacea, non è molto compatta; le foglie interne sono bianco-giallastre. Viene coltivato in varie zone d'Italia ed è un ortaggio molto conosciuto. Di origine antichissima, il cavolo verza è coltivato soprattutto nelle regioni centro-settentrionali d'Italia. Particolarmente diffusa è la produzione nel Canavese: a Montalto Dora in novembre si svolge una tradizionale Sagra del cavolo verza. Le malattie da funghi che colpiscono più frequentemente il cavolo verza sono l'oidio (causato da Erysiphe cruciferarum), la peronospora (causata da Peronospora brassicae), l'alternariosi (causata da Alternaria brassicae), l'ernia delle crucifere (causata da Plasmodiophora brassicae), il marciume secco delle crucifere (causato da Phoma lingam). Tra gli insetti, i parassiti più importanti sono: l'afide ceroso del cavolo Brevicoryne brassicae, la mosca del cavolo (Delia radicum) e due lepidotteri, la cavolaia maggiore (Pieris brassicae) e la nottua del cavolo (Mamestra brassicae). Il suo utilizzo in cucina è diffuso in gran parte d'Europa e in molte regioni italiane, soprattutto previa cottura e per la preparazione di zuppe e minestre: particolarmente apprezzati sono il ris e verza cun custëini (risotto alla verza e costine di maiale, del Piacentino) e la zuppa 'd pan e còj (zuppa di pane e cavoli verza) del Canavese. Nei secondi interviene, spesso in abbinamento a carne di maiale, in alcuni piatti caratteristici come i Capunet piemontesi, i dolmades greci, il sarma della Romania, i Kohlrouladen dell'area germanica, i verzolini della cucina piacentina, le verze sofegae venete, il bottaggio milanese e la nota cassoeula. Nella cucina valtellinese è utilizzata per la preparazione dei famosi pizzoccheri, tipo di pasta di grano saraceno, con aggiunta di patate a tocchetti, formaggio valtellina casera, grana grattugiato, aglio, burro e salvia. Infine anche la cucina olandese fa uso di una specie di verza nel suo piatto più noto, la boerenkool met worst. Anche alcune preparazioni di sushi prevedono l'utilizzo di foglie di verza. Anche la verza si può consumare cruda, come si usa per il cappuccio, tagliata sottile e mista ad altre insalate con la differenza che il suo sapore è un po' forte e non gradito a tutti. (Wikipedia)
CAVOLO CAPPUCCIO Il cavolo cappuccio (Brassica oleracea var. capitata L.) è una varietà di Brassica oleracea. Ha la caratteristica di avere le foglie esterne lisce, concave e serrate, che racchiudono le foglie più giovani in modo da formare una palla compatta detta "testa" o "cappuccio". In base all'epoca di maturazione, si possono avere varietà primaverili, estivo-autunnali o invernali; le primaverili si possono definire precoci, le invernali tardive. Tra le varietà primaverili si possono ricordare il Cuore di bue e l'Expert precocissimo, tra le estivo-autunnali il Mercato di Copenaghen e il Green boy, tra le invernali il Bianco olandese tardivo e il Brunswich. Tecnica colturale La semina viene eseguita in semenzaio e il trapianto in pieno campo viene effettuato dopo un paio di mesi. Per le varietà destinate alla produzione di crauti, si può eseguire la semina diretta nel terreno. Le varietà primaverili vengono seminate a settembre, le varietà estive e autunnali sono seminate tra marzo e maggio e le varietà invernali vengono seminate a maggio-giugno. Prima della semina, il terreno deve essere preparato con una lavorazione profonda. Dopo il trapianto, vengono praticati durante la coltivazione lavori di sarchiatura. L'irrigazione è indispensabile per le varietà estive e autunnali. La raccolta avviene quando il cappuccio è compatto e ben chiuso. In genere, le varietà primaverili sono raccolte a maggio, le estivo-autunnali tra giugno e ottobre e le invernali durante tutto l'inverno.
CAVOLO VECCHIO DI ROSOLINI Perché si chiama cavolo vecchio di Rosolini? Fino agli anni ’60, ogni agricoltore possedeva una salina, ossia una concimaia scavata nel terreno in cui veniva accumulato il letame proveniente dalla pulizia delle stalle. Il cavolo vecchio veniva coltivato proprio al margine della salina e qui cresceva rigoglioso. A Rosolini, la sua coltivazione ha continuato ad essere eseguita ad opera di pochissime famiglie che ne hanno preservato l’esistenza. Da qualche anno un ristretto e motivato gruppo di persone, veri e propri cavalieri in difesa del cavolo vecchio, ha inteso portarne alla ribalta proprietà organolettiche e gusto. Pare infatti che il cavolo vecchio di Rosolini non solo appartenga alla famiglia delle Brassicacee ma, secondo alcuni autori, potrebbe essere il capostipite da cui sono derivate tutte le diverse declinazioni di cavoli, broccoli, cavolfiori. Quest’ortaggio dal sapore intenso si contraddistingue per la durata poliennale 5/7 anni del ciclo biologico e per una fase vegetativa molto prolungata che gli ha fatto guadagnare il nome di cavolo vecchio. Perché di Rosolini? Perché è una specie autoctona che nasce e cresce nei territori dei comuni di Rosolini, Noto e Palazzolo (Siracusa), Ispica, Modica e Ragusa (Ragusa). Il cavolo vecchio, che ha rischiato la scomparsa dal terreno e dalle tavole, è oggi un gioiello su cui punta l’intero territorio. Da poco presidio Slow Food, apprezzatissimo al Salone del Gusto di Torino del 2014, nel 2015 è sbarcato a Expo, dove mercoledì 24 giugno ha conquistato e affascinato il pubblico presente al Cluster Biomediterraneo nella giornata dedicata al Comune di Rosolini. A parlare di proprietà organolettiche, stagionalità e produzione il dott. Agronomo Nicola Agosta, Presidente dell’Ass. “Brassicari rosolinesi” e Referente dei produttori del Presidio Slow Food del Cavolo Vecchio, a capo della due giorni “Ke Cavolo a Rosolini- La festa del gusto con il cavolo vecchio e non solo” in programma in Piazza Garibaldi a Rosolini per giorno 5 e 6 gennaio. Alessandra Brafa http://www.eastsicily.com/perche-si-chiama-cavolo-vecchio-di-rosolini-un-po-di-storia/
ortaggi da bulbo: cipolla, aglio, scalogno, porro, cipollotto.
I cipollotti sono i bulbi immaturi delle cipolle che, già in questo loro primo stadio di vita, racchiudono numerose proprietà benefiche per l’organismo e anche un grande valore dal punto di vista gastronomico. Allora scopriamo insieme tutte le virtù dei cipollotti. Sono diuretici e depurativi, in grado anche di prevenire le infezioni urinarie grazie alla loro azione antibatterica. Possono essere un valido aiuto per tenere sotto controllo l’ipertensione arteriosa e i livelli di colesterolo nel sangue. Emollienti e decongestionanti, sono utili per alleviare i sintomi nei casi di bronchite, tracheite e raffreddore. Coadiuvanti nel trattamento dell’osteoporosi, sono anche preziosi alleati contro stress e affaticamento. Usiamoli per prevenire le infezioni intestinali e le emorroidi. Consigliati a chi ha una digestione lenta. Vanno ben puliti, togliendo la barba e le parti più esterne. L’ideale è consumarli crudi: in insalata o aggiunti a fine cottura nelle zuppe di legumi, come la pasta e fagioli della tradizione napoletana. Se li trovate troppo forti, affettateli e lasciateli a bagno con un po’ di aceto rosso, il sapore sarà attenuato! Ottimi anche cotti: grigliati, gratinati, in vellutata, come fondo di cottura o abbinati con fantasia ad altri ingredienti. Da secoli il cipollotto viene coltivato in Campania nell’area del bacino del Sarno, se ne trovano raffigurazioni nei dipinti dell’antica Pompei. Il “Cipollotto Nocerino” è un prodotto di eccellenza che ha ottenuto il riconoscimento D.O.P.
basilico, maggiorana, prezzemolo, santoreggia comune, cerfoglio.
PREZZEMOLO Il prezzemolo è una pianta conosciuta fin dai tempi antichissimi e pare sia originario della Sardegna. Il nome prezzemolo deriva dal greco ‘petroselion‘ che significa “sedano delle pietre”, ed i Greci portavano in testa ciuffetti di questa pianta quando parprutusinotecipavano ai banchetti perché credevano stimolasse l’appetito e mettesse allegria. I Romani invece ne facevano un uso diverso: lo usavano per adornare le tombe dei congiunti e proprio per questo, almeno fino al Medioevo, la gente ebbe la convinzione che piantare il prezzemolo significasse morte e raccolti scarsi. Ai tempi di Nerone i gladiatori lo mangiavano prima di ogni competizione e si portavano in arena un ramoscello. Il prezzemolo era famoso anche per il suo valore “magico” e simbolico: nel mondo classico: sia i Greci che Romani usavano scolpirlo sulle lastre tombali come simbolo dell’Aldilà. Presso gli Etruschi era chiamato “petroselinum” e nasceva come erba spontanea. Era considerato pianta magica e veniva usato con altre sostanze animali per comporre un unguento dalle proprietà miracolose . Gli Etruschi pare lo usassero anche in cucina insieme all’aglio per insaporire le carni. Il prezzemolo, considerato fin dall’antichità una pianta più da stregoni che da medici, anche se ai tempi degli antichi Romani veniva usato insieme ad altre erbe per aromatizzare il vino, cominciò ad essere usato abitualmente in cucina solo a partire dal Medioevo. Ricordato nel trattato di Ildegarda di Bingen come rimedio universale era il ”vino di prezzemolo”, composto da miele, aceto, vino e prezzemolo usato insieme ad altre misture di erbe e medicamenti: si credeva che il vino al prezzemolo ne potenziasse gli effetti terapeutici velocizzando la guarigione.
E’ una pianta biennale se coltivata, perenne se allo stato spontaneo. La pianta è provvista di fusti eretti, tubolari che possono raggiungere i 70cm di altezza e radice a fittone ingrossata e carnosa. Definita una pianta molto rustica e che cresce bene nelle zone a clima temperato, le temperature ottimali di sviluppo sono tra i 16-20°C. Temperature sotto 0°C e sopra 35°C non sono tollerate. Il prezzemolo va annaffiato spesso, quasi tutti i giorni in modo da mantenere il terreno costantemente umido. Cresce in pieno sole ma preferibilmente a mezz’ombra. Il prezzemolo non è particolarmente esigente in fatto di terreni, ma la sua coltivazione si avvantaggia se si usa un terreno ricco di sostanza organica, leggero e a ph leggermente acido e ben drenante in quanto non ama i ristagni idrici: è, pertanto, preferibile aggiungere un po’ di sabbia fine. L’epoca in cui effettuare la semina è variabile: per raccogliere il prezzemolo nei mesi estivi, va fatta verso gennaio-febbraio se la semina viene fatta in serra o in un luogo comunque protetto, viceversa, se la semina viene fatta in vaso o all’aperto, il periodo più consono è marzo – aprile. Per raccogliere il prezzemolo in autunno si semina a maggio-giugno, per raccoglierlo la primavera successiva si semina a settembre – ottobre in ambiente protetto. E’ importante seguire ogni passaggio descritto. Le proprietà aromatiche del prezzemolo sono derivate dal fatto che contiene un’essenza costituita da apiolo, apioside e miristicina contenute in tutte le parti della pianta ma soprattutto nelle foglie. http://www.paccozero.it/2016/01/28/il-prezzemolo/
fava, pisello, fagiolo, lenticchia, cece, cicerchia, lupino
LE LEGUMINOSE SECCHE
Con il termine legumi si intendono i semi commestibili delle piante appartenenti alla famiglia delle leguminose (papilionacee), che possono essere consumati allo stato fresco, secco, surgelati e conservati. Le leguminose più usate in Italia sono: i fagioli, i piselli, le fave, le lenticchie, i ceci, scarsi il consumo di lupini, eccezionale quello di cicerchie. I legumi freschi sono semi immaturi, ad elevato contenuto d'acqua, le cui caratteristiche nutrizionali li fanno rientrare nel gruppo delle verdure e degli ortaggi. I legumi secchi sono un'ottima fonte di di proteine, ne contengono infatti più del doppio dei cereali e più delle stesse carni, ma di qualità inferiore. L'associazione legumi cereali migliora la qualità proteica, questo è il motivo per cui l'uomo in tutto il mondo ha imparato a preparare piatti come: pasta e fagioli, riso e piselli, ecc. Alla famiglia delle leguminose appartengono anche le arachidi e la soia, dai cui semi vengono estratti gli oli di arachide e di soia, per cui vengono indicate come oleaginose. Attualmente i consumi di legumi secchi sono estremamente bassi, 4,5 kg/abitante/anno. Le motivazioni di questi bassi consumi sono da ricercarsi nei lunghi tempi di ammollo e di cottura, ma probabilmente anche nel fatto che qualcuno li ha definiti la carne dei poveri. I bassi consumi di legumi secchi rappresentano un fatto negativo dal punto di vista nutrizionale, ma anche dal punto di vista della salute, in quanto sono in grado di abbassare la colesterolemia, grazie al buon contenuto di lecitina.
foto di Francesco Raciti
ARANCIA MORO varietà tipicamente italiana, è disponibile sul mercato dalla terza decade di gennaio a tutto marzo. La presenza nella polpa di particolari pigmenti, gli antociani, conferisce al succo del moro un caratteristico colore rosso intenso. Il frutto è ovoidale e sferoidale, con base arrotondata, apice troncato. La buccia è di medio spessore, superficie papillata e peduncolo di lunghezza media, ha colore arancio con sfumature rosso vinose. La polpa è rosso vinosa, di tessitura fine, succosa, con contenuto zuccherino medio e acidità elevata, e con screziature arancio intenso. I semi sono assenti. Il succo ha colore vinoso, ed ha una resa superiore al 35%. A temperatura di 8 - 10° c ed umidità del 75 - 80% i frutti si conservano per 30 - 50 giorni. Prodotto stagionale disponibile nei mesi di: Gennaio - Febbraio - Marzo
ALTRI TAROCCHI
Tarocco rosso. Si tratta di un clone a media epoca di maturazione; risulta interessante per l’intensa pigmentazione della polpa e della buccia che a piena maturazione presenta un colore rosso vellutato. Questa caratteristica, tuttavia, non si esprime in modo costante negli anni e nei diversi luoghi di coltivazione; andrebbe coltivato in quegli ambienti in grado di esaltare la biosintesi dei pigmenti antocianici. Tarocco Sciara. Sia la pianta che i frutti sono molto simili a quelli di Tarocco dal Muso e anche l’epoca di maturazione è più o meno coincidente. Negli ultimi anni sta suscitando un certo interesse specie per l’elevata pezzatura dei frutti e la buona produttività. Si dispone di una linea nucellare ottenuta mediante coltura in vitro di ovuli non sviluppati presso il CRA-ACM di Acireale, denominata Arancio Tarocco Sciara nucellare C1882. Tarocco Meli. È una selezione nucellare ottenuta nel 1988 da coltura in vitro di ovuli non sviluppati presso il CRA-ACM di Acireale; la pianta è di notevole sviluppo e piuttosto spinescente. Presenta una discreta diffusione ed è principalmente apprezzata per la tardiva epoca di maturazione (marzo-aprile) e la buona pezzatura. I frutti hanno forma tendenzialmente ellissoidale; la buccia è di spessore medio e pigmenta molto poco mentre la polpa raggiunge buoni livelli di pigmentazione. A piena maturazione i frutti perdono di consistenza e si possono verificare fenomeni di cascola.
Le coltivazioni agricole della piana di Catania rinomate ormai in tutto il mondo sono quelle degli agrumi, in particolare delle arance rosse, che come accennato, grazie alle proprietà del terreno molto fertile e ricco di minerali, hanno un sapore unico. Gli agrumi di questa parte di Sicilia vengono utilizzati non solo per il commercio alimentare, per il quale risultano un eccellenza gastronomica, ma anche per l’industria della cosmesi e in particolare dei profumi. Gli studi hanno anche confermato che mangiare queste arance significa non solo fare una scorta di vitamina C, per rafforzare il sistema immunitario, ma anche per combattere l’azione dei radicali liberi. Alle arance di Sicilia sono state riconosciute, infatti, proprietà antitumorali. Nella zona ci sono anche diversi uliveti, che danno un ottimo olio extravergine, mentre nella zona che ricade nella provincia di Enna ci sono anche coltivazioni di cereali e di legumi. In passato una delle coltivazioni più importanti era quella del grano duro. Altre coltivazioni tipiche della piana sono i cedri e i pompelmi considerati merce molto pregiata anche per l’industria dolciaria e profumiera. A queste si aggiunge anche la produzione dei fichi d’India ,di cui si utilizzano sia i frutti che le foglie, e le carrube. (dal web)
PIRETTI o CEDRI SINONIMI E TERMINI DIALETTALI Spadafora di Trabia, Pirittuni, Piretto, Cannerone CARATTERISTICHE Come tutti i limoni cedrati (ibridi tra il limone ed il cedro), presenta caratteristiche intermedie rispetto a tali frutti. Nel caso del limone cedrato di Trabia, la pezzatura (mediamente oltre i 300 grammi) e lo spessore del mesocarpo (la parte interna del frutto a contatto della buccia) si avvicinano a quelle del cedro mentre le dimensioni dell’albero (abbastanza ridotte) ed il sapore dei frutti sono più simili ai limoni. Come tutti gli agrumi contiene elevate quantità di vitamina C. TERRITORIO INTERESSATO ALLA PRODUZIONE Trabia, nel comune di Palermo. METODICHE DI LAVORAZIONE, STAGIONATURA E CONSERVAZIONE La tecnica di produzione non si discosta da quella utilizzata per la coltivazione dei limoni con interventi di irrigazione, limitate potature e ridotte concimazioni minerali a base soprattutto di azoto. La maturazione dei frutti avviene in un lungo intervallo di tempo tra ottobre e febbraio, con punte produttive che possono toccare i 100 kg annui per pianta. Produzione: Questa varietà è coltivata tradizionalmente solo su pochi ettari di agrumeti ubicati nel comune di Trabia. La produzione (qualche decina di tonnellate annue) è destinata all’autoconsumo ed ai mercati locali. Trattandosi di una specie rifiorente la raccolta viene fatta scalarmente ad ottobre, fine dicembre ed in febbraio. Piante isolate sono comunque presenti nei “giardini” ad aranceto presenti lungo tutta la costa palermitana. L’origine di questo agrume è sconosciuta, ma probabilmente va attribuita ad incroci spontanei tra il cedro, presente in zona fin dal I secolo d.C. ed i limoni introdotti in Sicilia dagli arabi nel XII sec. Alcuni autori propendono invece per considerare il limone cedrato una specie di agrumicola a sé stante(“Citrus Limoni Medica L.”). In ogni caso all’origine della selezione della varietà di Trabia è senz’altro il particolare sapore di questi frutti, molto apprezzato a livello locale. fonte: http://www.agroqualita.it/ Foto inviata da Sebastiano Lo Buono https://www.siciliafan.it/i-pirittuna-cedri-di-trabia-pa/
BELLAVEDOVA (Sucamele)
Pianta erbacea perenne con rizoma sottile provvisto di 2-4 tubercoli di aspetto digitato, dal quale, sul finire dell`inverno, si sviluppano alcune foglie lineari lunghe 3-6 dm. In primavera, fra le foglie emerge il fusto, alto non più di 30 cm, che produce un unico fiore, piuttosto caratteristico, avvolto parzialmente da una spata, e simile a quello del Giaggiolo, ma con tepali esterni di colore nero-purpureo e tepali interni verde-giallastro. Il frutto è una capsula obovata senza setti. La Bellavedova si rinviene nelle boscaglie e nelle garighe dell`Italia centro-meridionale (esclusa la Sardegna), dal livello del mare fino a ca. 1500 m di quota. Si consuma, fondamentalmente, il rizoma tuberizzato, ricco di amido e chiamato patatella a Randazzo, buttuni a Linguaglossa e Castiglione, ovu a Milo e patacchedda a Ragalna. Per la sua estrazione dal terreno è indispensabile una zappetta. Si utilizza, inoltre, meno comunemente il peduncolo fiorale. I rizomi della Bellavedova si consumano arrostiti alla brace oppure bolliti in acqua e sale dopo aver tolto la pellicina esterna. Nel territorio in esame l`uso alimentare dei rizomi della Bellavedova è limitato solo ad alcune aree ben localizzate, quali Linguaglossa, Castiglione e Randazzo. In molte altre località, la pianta, pur presente e nota, non trova alcun impiego alimentare. Il peduncolo fiorale non ha un vero e proprio impiego gastronomico, ma si assapora masticandolo crudo per il suo succo di sapore dolce; per questo motivo, nelle campagne di Linguaglossa, la pianta è chiamata Sucamele. I rizomi della Bellavedova, altamente ricchi di sostanze nutritive, costituiscono uno degli alimenti preferiti dall`Istrice (Histrix cristata L.). Questo robusto roditore li dissotterra scavando con le sue robuste unghie buche che lasciano inconfondibile traccia della presenza dell`animale nel territorio. Castiglione: Buttuni di jaddu Linguaglossa: Sucameli, Buttuni di jaddu Milo: Cricch`ê addu Ragalna: Cantaliaddi, Cantajaddu, Canta addu Randazzo: Castagnotto Zafferana: Pizzicaladdi http://www.dipbot.unict.it/alimurgiche/scheda.aspx?i=7
LAMPONE (Amareddu di Sanfranciscu)
Lampone (Rubus idaeus). Il lampone, dall’inconfondibile colore acceso che piacevolmente contrasta con il suo aspetto vellutato, è, fra i frutti spontanei del bosco aperto e della prateria montana, quello più ricercato, quello che più facilmente si gusta in loco senza volere e senza aspettare di rientrare a casa. Un gusto particolare, che anche quando è reso caldo dal sole estivo ha sapore di fresco e di aria pulita. Un frutto capace di appagare non soltanto la vista per il suo prezioso colore e per il suo gusto pieno, ma anche il tatto per la sua consistenza elastica e setosa. Un arbusto facile da riconoscere Il lampone si presenta come un arbusto con fusti eretti, ma spesso arcuati nella parte terminale, di forma cilindrica, muniti di aculei piccoli, diritti e non paragonabili per potere aggrappante e offensivo a quello delle rose e ai rovi. Le foglioline, di colore verde chiaro nella pagina superiore e di colore bianco argenteo nella pagina inferiore, e di forma ovato-oblunga-acuminata dal margine seghettato, sono raccolte in numero di tre-cinque in una foglia imparipennata. I fiori sono raccolti in racemi solitari e corti con ricettacolo spugnoso. Questa struttura è destinata ad ospitare i frutti: piccole drupeole che nell’insieme costituiranno il corpo fruttifero. Il lampone di colore prima verde e poi rosso è di forma subglobosa e pubescente. Facile da trovare Il lampone predilige i terreni freschi delle zone montane e submontane dove si può trovare nelle radure, negli incolti in via di ricolonizzazione, ai margini dei boschi, nelle praterie declivi, nei boschi aperti. Raggiunge i 1500 metri d’altitudine. Il nome scientifico, Rubus idaeus, risale a Dioscoride che lo cita per la prima volta nel suo “De materia medica”. Il termine idaeus secondo il Mattioli indicherebbe nel monte Ida il luogo d’origine del frutto. La leggenda vuole che sul monte Ida, nell’isola di Creta, la dea dell’amore Afrodite raccogliesse lamponi per i suoi molteplici amori e per il figlio Enea. In realtà il lampone può essere considerato originario di un vastissimo areale che comprende l’Europa, l’Asia minore e le regioni settentrionali dell’Asia. Il gusto della raccolta Il lampone deve essere raccolto a piena maturazione e cioè quando il colore si presenta pieno, ma ancora brillante e non opaco, di consistenza elastica e soda tanto da permettere di essere spiccato senza sgranare e perdere succo. Ponete i frutti raccolti in contenitori rigidi, e prestate attenzione a non metterne troppi perché l’eccessivo peso tende a schiacciare quelli del fondo riducendo il tutto in una poltiglia, che in buona parte andrà perduta nelle operazioni di conservazione domestica e che è in ogni modo inadatta anche al consumo fresco. Meglio allora prevedere piccoli contenitori seriali che consentano ai frutti di respirare, come i cestini vuoti delle fragole, le cassettine di legno basse, o, anche, le vaschette per gelato non chiuse. Una volta che la raccolta è terminata non lasciate i frutti al sole o nel baule dell’auto, che nelle ore più calde rischia di trasformarsi facilmente in un vero e proprio forno. Ricco di vitamine, poco calorico Il lampone è caratterizzato dalla completa edibilità del frutto composito e dal suo limitato apporto calorico, che è pari a sole 35 calorie per 100 grammi. L’acqua è di gran lunga il maggiore componente superando il 90% della composizione dei frutti. Trascurabili i contenuti in grassi e proteine. Soltanto gli zuccheri, pari a circa il 6%, sono ben rappresentati. Ottimi gli apporti vitaminici per vitamina C (circa 200 mg. per 100 gr. di frutti), B1, B2, PP, e provitamina A. Il sapore tipico è conferito dalla combinazione di acidi organici, alcoli e composti carbonilati. http://www.giardini.biz/piante/piante-spontanee/lampone/
PORRO SELVATICO (Porru sarbaggiu) Il soffritto di cipolla, le cozze piccanti e la frittata di porri, secondo una tipica ricetta palermitana, sono alcune delle proposte più ricorrenti in cui si impiegano le tre alliacee. La famiglia botanica delle Liliacee, comprendente il genere "Allium" ed altri generi, per i principi attivi contenuti nei bulbi e nelle foglie cauline prossime al bulbo, sino a non molto tempo addietro erano ritenuti un toccasana per tutte le infezioni e ancor oggi negli ambienti agricoli il loro impiego è correlato alle virtù benefiche ed alle loro molteplici proprietà. Olii essenziali, glucosidi, fitormoni, disolfuri, fruttosani, flavonoidi, mucillagini, pentosani , cellulosio ed altre sostanze presenti attribuiscono all'aglio, alla cipolla ed al porro proprietà antibatteriche naturali quasi insostituibili, contribuendo alla depurazione, se necessario, dell'apparato intestinale. Non è da sottovalutare inoltre anche la loro azione positiva nella secrezione biliare. L'unica controindicazione di questi vegetali è dato dalle sostanze volatili presenti in quantità forse eccessiva e quindi l'alito, a seguito di consumo crudo, può venirne compromesso negativamente, ma gli effetti sul nostro organismo, in contrapposizione, sono ineguagliabili. Aglio, cipolla e porro sono vegetali noti sin dalla preistoria e le loro origini si perdono nella notte dei tempi. Ciò fa ritenere più che probabile, allora, l'uso di quasi tutte le liliacee spontanee che presentano tutte analoghe caratteristiche organolettiche e quindi il loro impiego nella alimentazione umana. La civiltà assiro-babilonese prima e poi tutti gli altri popoli antichi conoscevano le proprietà dell'aglio, della cipolla e del porro e la cipolletta è stata una delle prime specie ad essere introdotta in Italia e poi in tutto il bacino del mediterraneo con impiego alimentare principale. Del resto è nota l'utilizzazione delle cosiddette "cipolle da fiore" inglobando in questa denominazione generica sia le specie del genere "Allium" che le specie note di altri generi della Appartenente alla famiglia delle Liliacee si dice che venissero utilizzati anche i bulbi di tulipano. In tempi più recenti, del resto è notorio limpiego del cipollaccio selvatico (Muscari camosum), in particolare in Puglia, localmente denomina to lampasciuoli o lampagioni, apprezzatissimi in cucina ed oggetto di specifico commercio, al pari delle cipolle. Quasi tutte le specie note del genere "Allium" trovano un impiego in cucina e la grandezza dei bulbi li seleziona per le diverse utilizzazioni, dai sottaceti alle gustosissime ed insostituibili "insalate rustiche", che in città non è d'uso preparare, ma molto in voga quando siamo in campagna, avendo a disposizione i prodotti vegetali freschi. Aglio, cipolla e porro sono alimenti per certi versi "poveri", ma di indiscusso beneficio per la salute umana, che non può farne a meno. http://www.isaporidisicilia.com/agricoltura/piantespontanee/021.htm
campagna ennese con l'Etna sullo sfondo (foto Nino Gemmellaro)
AGGHIU SERBAGGIU Nome scientifico: Allium spp. (Allium triquetrum L.A. sativum, A. vineale, etc.) Nome volgare: Aglio selvatico, aglio triangolo, aglio, porro Nome dialettale: Agghiu sarvaggiu, agghiu a costi, agghiu ri favara, cipudduzza, agghicedda sarvaggia, agghiu ri lavura, porru, purriceddi Descrizione botanica Il genere Allium comprede diverse specie aventi tutte la caratteristica di essere piante bulbose, vegetanti per lo più sin dall'inizio dell'inverno e fioritura in primavera-inizio estate. Le foglie sono lunghe, due o più emergenti dal bulbo sotterraneo di colore verde lucido e dal tipico odore di aglio. I fiori sono raccolti in corimbi di colore bianco, bianco sporchi o rosei, a seconda delle specie considerate. I frutti sono capsule contenenti sino a 4 piccoli semi (acheni) neri. Utilizzazioni Le parti utilizzabili sono principalmente le parti aeree, foglie, boccioli fiorali, compresi i giovani corimbi, da consumare sia allo stato fresco che cotti. I bulbi ed i bulbilli, trovano utilizzazione per la preparazione dei sottaceti.
MENTA POLEGGIO
Il puleggio (nome botanico: Mentha pulegium) detto anche mentuccia è una delle diverse varietà della menta e venne chiamata dai romani “mentha pulegium”, ossia “menta della pulce”, in quanto per molti secoli è stata utilizzata per scacciare questo fastidioso animaletto. puleggio, mentuccia. Nel Medioevo quest’erba godeva di una fama straordinaria, in virtù della sua efficacia nel combattere uno numero davvero esorbitante di malattie: l’unguento, ottenuto con l’erba tritata unita al miele, per esempio, era ritenuto un ottimo rimedio contro le contratture; la sua polvere, invece, assunta con miele, era un miracoloso espettorante, in grado di liberare i polmoni dagli umori vischiosi; sorbita con l’idromele o con aceto diluito in acqua veniva usata per contrastare la nausea e i crampi allo stomaco; somministrata con il vino, infine, la polvere di puleggio era considerata un eccellente antidoto contro i morsi velenosi dei serpenti. In qualsiasi caso di gonfiore, i monaci medievali solevano applicare la sua radice, pestata e mescolata ad aceto, sulla parte interessata, mentre utilizzavano la polvere della pianta, bevuta con vino rosso per combattere la tosse e, cotta nel vino, per realizzare un decotto dall’intenso potere diuretico. I marinai del XVI secolo la usavano addirittura per purificare le riserve d’acqua. Chiamato anche “mentuccia” e appartenente alla famiglia botanica delle labiate, il puleggio è una pianta annuale o perenne, dai fusti corti e ramosi, coperti da una fine peluria; le foglie hanno dimensioni minute, sono pelose e di color verde sfumato, mentre i fiori, che compaiono da luglio ad ottobre, presentano un pallido color azzurro. Essa è originaria dell’Europa e cresce spontanea nei luoghi umidi ed ombreggiati; può venir anche coltivata (per seme o per radice), ma sopporta poco le temperature rigide. Come già i nostri antenati avevano mirabilmente intuito e sperimentato, il puleggio è un’erba ricca di preziosi componenti attivi, come il mentolo, il tannino, la carvona, il levulosio e l’essenza di menta: attualmente è infatti usata nei rimedi erboristici per combattere vari disturbi, tra i quali l’itterizia, il raffreddore, l’asma e la pertosse. Viene utilizzata soprattutto mediante infuso: in caso di indigestione, si faccia bollire 1 litro di acqua con circa 15 grammi di sommità fiorite e se ne assuma una tazza (dolcificata con miele) dopo ogni pasto: questa tisana costituisce un efficace antisettico intestinale. Per combattere, invece, i vermi intestinali, si prepari un infuso con 25 grammi di sommità fiorite (sempre in un litro d’acqua) da consumare nella quantità di due bicchieri al giorno (senza dolcificare). Per un infuso contro l’emicrania si utilizzino invece 25 grammi di foglie e di cime fiorite in parti uguali (per ogni litro d’acqua) e se ne prendano 3 tazze al giorno. http://www.erbavitale.it/il-puleggio.html
Boschi dell’ambiente planiziario e Ambiente delle siepi campestri Alberi da frutta
Rossa Mediterranea o Derivata di Siria La Rossa Mediterranea (o Derivata di Siria) deriva dalla razza Siria o Mambrina, originaria del versante medio-orientale del Bacino del Mediterraneo. In Italia viene allevata nel Centro-Sud, soprattutto in Basilicata e in Sicilia. L'allevamento è estensivo al pascolo per la produzione di latte. Il Registro Anagrafico in Italia è stato istituito nel 2003. Razza con attitudine alla produzione di latte da destinare alla trasformazione in prodotti caseari tradizionali. Viene allevata in piccoli e medi allevamenti, allo stato semi-brado o semi-stabulato. Caratteristiche morfologiche e produttive Taglia: media. Testa: piccola e leggera, con presenza facoltativa delle corna. Profilo fronto-nasale rettilineo (in alcuni soggetti leggermente montonino); barba presente in entrambe i sessi; orecchie lunghe e pendenti. Tronco: collo lungo e sottile con presenza o meno di tettole; torace profondo con addome voluminoso; mammella ben sviluppata di tipo pecorino, raramente piriforme, con capezzoli sviluppati. Arti lunghi e leggeri con unghielli scuri. Vello: di colore rosso, più o meno chiaro, con possibilità di pezzature e maculature bianche. Pelo lungo e folto, a volte brillante. Altezza media al garrese: - Maschi a. cm. 79 - Femmine a. cm. 72 Peso medio: - Maschi a. Kg. 70 - Femmine a. Kg. 48 Produzione media latte: - primipare lt. 272 - pluripare lt. 443 Fertilità: 95%
LU PANI DI CASA di Angela Marino Un tempo il pane si faceva in casa. C’erano , si, i fornai dove si poteva andare a comprare il pane già pronto, ma molta gente preferiva farselo da sé. Da qui la distinzione tra : “pani di casa”, “pani di furnu” e, a partire dal dopoguerra, “pani di furnu elettricu”. La preparazione del pane era lunga e laboriosa e spesso richiedeva la collaborazione di tutta la famiglia, per cui il pane di casa si faceva solo un paio di volte alla settimana e veniva conservato per vari giorni spesso avvolto in panni che ne mantenevano la fragranza e la morbidezza. Ogni volta che si faceva il pane, si conservava un panetto di impasto crudo preferibilmente avvolto in una pampina di vite e conservato dentro un recipiente di terracotta o vetro, e, la sera prima di quando si doveva panificare nuovamente, si impastava quel panetto ormai fermentato e quasi asciutto con farina ed acqua tiepida e lo si metteva in un luogo ben riparato: era il “ cruscenti” (lievito naturale) e l’indomani sarebbe stato pronto per lievitare tutto il pane. La mattina dopo le donne di casa preparavano uno “scanaturi (asse) su cui sarebbe stato impastato il pane. Per prima cosa si pesava la farina che veniva “cirnuta” (setacciata con un “crivu di sita” (setaccio molto sottile) e poi veniva messa sullo “scanaturi” a formare una piccola montagna. A questo punto si procedeva all’impasto , veniva fatto un cratere al centro della montagnetta in cui veniva adagiato il “cruscenti” preparato la sera prima, poi si cominciava ad aggiungere aqua riscaldata (ma non troppo) e salata, cercando di sciogliere il cruscenti fino a ridurlo in poltiglia, pian piano, cercando di non far fuoriuscire il liquido contenuto nel cratere, si andava aggiungendo la farina , quando il liquido terminava si versava dell’altra acqua tiepida fino ad imbibire tutta la farina ed ottenere un impasto abbastanza solido, che, la più forzuta della famiglia, cominciava a “maciriari” cioè a lavorare l’impasto girandolo e ripiegandolo sullo scanaturi fino ad ottenere un tutto omogeneo , liscio ed elastico. Con questo impasto venivano modellate una o due grandi pagnotte che venivano messe da una parte dello scanaturi e coperte con una salvietta: la pasta per il pane era pronta, ora bisognava prenderne un pezzettino per volta e farne pani di diverse forme e dimensioni, ma il primo pezzo veniva conservato come lievito per la prossima panificazione. Le forme di pane più comuni erano: la “scanata” o “cuddrura” ( una corona di pane), il “chichiri” ( un semicerchio, mezza scanata), il “pupuni” o “pistuluni” (pane di forma allungata), la “mafalda”( una treccia di pane),le “guasteddri” (grosse pagnotte) ; certe volte si preparavano anche i “muffuletta” pagnotte rotonde preparate con un impasto più morbido,” caddriatu” ( ulteriormente ammorbidito con acqua tiepida e talvolta anche un po’ d’olio) spesso si facevano anche dei “muffulitteddra” piccole pagnotte monodose da mangiare farcite con olio , sale , filetti di acciughe salate , formaggio, etc (pani cunzatu) o con altre farciture. Infine i vari pani, tranne i muffuletta, venivano abbelliti con disegni e incisioni e impreziositi con una spolverata di “paparina”(semi di papavero) o di “giuggiulena” (sesamo) Appena finita l’operazione di panificazione, i pani venivano adagiati su una tovaglia stesa sul letto, coperti con un altro telo e con delle “ mante” (coperte di lana) e lasciati a riposare per qualche ora …e intanto, spesso con la collaborazione dei maschi di famiglia, cominciava l’ operazione forno. I tipici forni siciliani avevano generalmente forma di un emisfero, con un’apertura a semicerchio, erano costruiti con mattoni compatti di terracotta e murati con gesso, anche la porticina (“balata”) era costruita in gesso o in pesante lamiera. Prima di “ famiari” ( riscaldare il forno per cuocervi il pane) i forni venivano ripuliti con vecchie scope perché il pane sarebbe stato poggiato direttamente sui mattoni. Gli addetti al forno preparavano la legna( fascine di rami ben secchi e anche pezzi di legna da ardere, un “furcuni”( lungo bastone ), una o più vecchie scope di sagina, una pala di legno e dei recipienti pieni d’acqua. Poi si cominciava ad accendere il fuoco: dentro il forno si preparava una vera e propria impalcatura di legna da ardere a partire dai rametti secchi più sottili accompagnati da qualche manciata di “ristucca” (stoppia) che prendevano fuoco facilmente fino ad arrivare a dei piccoli ciocchi, il fuoco si propagava facilmente fino a consumare tutto il combustibile, allora il forno veniva liberato dalla cenere con delle scope bagnate e quando era ben pulito, veniva riempito nuovamente di combustibile ed alimentato continuamente fino a quando le sue paretti non diventassero bianche. A questo punto il forno veniva pulito definitivamente ed era pronto per accogliere il pane, operazione da fare in tutta fretta per non disperdere troppo calore. Si controllava la lievitazione del pane , lo si percuoteva col palmo di una mano tenendolo appoggiato delicatamente sull’altro e, se faceva un rumore di vuoto ad indicare che le sue molecole si erano abbondantemente distanziate tra loro con la lievitazione, il pane era pronto. Con un coltello ben appuntito, venivano ripresi i disegni che vi erano stati fatti , soprattutto quello centrale (“sgrignatura” ) per permettere al pane di aprirsi durante la cottura, poi veniva deposto sullo scanaturi o su una “maiddra”(asse con delle sponde) e portato in prossimità del forno. Qui, ad uno ad uno, i pani venivano deposti su una pala di legno ed adagiati sul pavimento del forno, i più grandi in fondo, i panini, vicini all’apertura, avendo cura di distanziarli tra loro e dalle pareti del forno per dar loro lo spazio di gonfiare senza “ncugnarisi” (attaccarsi gli uni agli altri). Finita questa operazione il forno veniva chiuso in gran fretta e la “balata” veniva sigillata con un impasto di cenere ed acqua perchè non si disperdesse il calore. Dopo almeno una ventina di minuti, si socchiudeva la balata e si controllava la cottura: se non c’erano problemi, si risigillava , e, controllando di tanto in tanto si attendeva la cottura completa; se i panini piccoli situati appositamente vicino all’uscita erano già cotti si tiravano fuori in tutta fretta e si lasciava cuocere il resto della fornata; se il pane rischiava di bruciarsi, il forno veniva lasciato un po’ socchiuso; se ,invece, pareva che avesse difficoltà a prendere colore, gli si “faciva la facci” cioè si accendeva un po’ di rametti o di stoppia davanti alla porta affinché la temperatura salisse del necessario. Alla fine le fragranti pagnotte venivano sfornate (sempre con la pala) e adagiate in ceste o sull’ asse e messe sul tavolo a intiepidirsi…PERCHÈ IL “PANI DI CASA” NON VA MAI MANGIATO TROPPO CALDO http://www.siciliafan.it/lu-pani-di-casa-di-angela-marino/
Il Ragusano DOP
Il formaggio Ragusano DOP viene prodotto nell’intero territorio della provincia di Ragusa e dei Comuni di Noto, Palazzolo Acreide e Rosolini in provincia di Siracusa. Il Ragusano Dop è un formaggio a pasta filata, ottenuto attraverso un processo di filatura che avviene utilizzando acqua calda a 70-80ºC. È prodotto con latte vaccino intero e crudo durante le stagioni tardo autunnale, invernale e primaverile, in presenza di foraggio verde . L’alimentazione delle bovine è costituita in prevalenza dal pascolo delle essenze spontanee dei pascoli naturali del territorio ibleo ed eventualmente di erbai coltivati. I foraggi in esubero, anche affienati, costituiscono foraggio integrativo al pascolo nella stagione successiva. Il latte di una o più mungiture, coagulato a 34 - 36ºC, sfrutta lo sviluppo spontaneo della microflora casearia. La lavorazione avviene artigianalmente, con utensili in legno e con metodi tradizionali, la salatura, in salamoia satura, non deve comportare un contenuto di sale superiore al 6%.. La stagionatura avviene in ambienti freschi con pareti geologicamente naturali tali da garantire 14-16ºC e 80-90% di umidità. Le forme vengono legate a coppia con sottili funi e poi appese a cavallo di travi di legno. Per ottenere il marchio DOP, il formaggio deve stagionare minimo 3 mesi. La stagionatura può protrarsi anche oltre i 12 mesi.
Le caratteristiche. La forma del Ragusano Dop è parallelepipeda e di colore giallo dorato o paglierino tendente al marrone, e si presenta a sezione quadrata con angoli smussati leggermente deformati dalla corda che la tiene sospesa durante la stagionatura, e riporta il marchio aziendale del caseificatore, le stampigliature della denominazione, la numerazione ed il marchio a fuoco di certificazione della qualità. Il suo peso può variare da 10 a 16 Kg. La crosta è liscia, sottile, compatta di colore giallo dorato o paglierino tendente al marrone con il protrarsi della stagionatura; può essere anche cappata con olio di oliva. La pasta è bianca, tendente al giallo paglierino, compatta. Le peculiarità organolettiche. Di sapore alquanto gradevole, il Ragusano dop è un formaggio dolce e poco piccante nei primi mesi di stagionatura e diventa piacevolmente piccante a stagionatura avanzata . Grasso/ss non inferiore al 40% per i formaggi da tavola, non inferiore al 38% per i formaggi stagionati oltre 6 mesi. Umidità massima 40%. La scritta punteggiata “Ragusano” ai lati della forma, 2 marchi a fuoco sulla parte alta e bassa con scritto “Ragusano Dop” e una matrice verde di caseina con un numero identificativo per la rintracciabilità, rendono riconoscibile il formaggio DOP. Consigli per degustarlo. Il Ragusano DOP è molto utilizzato nella preparazione dei piatti tipici della gastronomia siciliana e si accompagna molto bene ai vini bianchi. Quello stagionato, invece il sapore viene esaltato se gustato con i vini rossi. È particolarmente adatto ad accompagnare i vini tipici siciliani come Nero d'Avola, Merlot, Syrah, e il Cerasuolo di Vittoria. http://www.consorzioragusanodop.it/ragusano.php
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