Finite feste, cenoni e pranzi in famiglia arriva il momento di tornare nei ranghi di un'alimentazione più equilibrata e salutare. E magari anche un po' depurativa, visto che veniamo da giornate di grande abbuffate. Per sapere quali prodotti prediligere basta affidarsi a quanto offre la natura a gennaio.

 

Forse finalmente freddo, neve e voglia di cose sane e buone. L'inverno, quello dell'anno nuovo, si prospetta così. Come organizzare una tavola adeguata? Partendo dai prodotti di stagione, naturalmente. Che in più ci aiutano a depurarci dagli eccessi della fine dell'anno e a difenderci dal clima rigido. Come sempre l'invito è scegliere un'ottima materia prima: fresca buona ma soprattutto di stagione, per avere il massimo risultato nei nostri piatti e anche un tesoro dal punto di vista nutrizionale, fondamentale per resistere al clima rigido di questa stagione.

Oltre ai dolciumi che la Befana porta nelle nostre case, il mese di gennaio apre le porte anche a tantissima frutta di stagione: mele, peree kiwi sono accompagnati da profumatissimi agrumi, veri protagonisti dei giorni più rigidi e un toccasana per fare il pieno di vitamina C: limoni, cedri, mandarini, arance e pompelmi. Fatene anche scorta per preparare liquori o marmellate. Mescolateli a piatti salati, usatene la scorza per vivacizzare le portate più semplici. Le mele e le pere cotte al forno sono un dessert non troppo calorico, che vi toglie la voglia di dolce ma non mette in crisi i buoni propositi del nuovo anno. Così come le arance: un spolverata di cannella, mezzo cucchiaino di zucchero di canna e il dolce è fatto.

L'inverno detta le sue regole: tra le verdure ci sono bietole, tutta la famiglia delle crucifere- broccoletti, verza cavolfiori, cavolini di Bruxelles, cavolo rosso – poi cardi, carote, carciofi (è tempo di mammole, i cosiddetti carciofi romaneschi), cicoria, cipolle, finocchi, indivia riccia, lattuga romana, patate, porri, scarole, radicchio, rape e barbabietole. Se non sapete come utilizzarle affidatevi alle tradizioni: i cardi gratinati, i carciofi alla romana o alla giudia, oppure cotti sotto la brace, se avete la fortuna di avere un camino. Minestre con fagioli e cavoli neri, vellutate di patate e porri, risotti con il radicchio o radicchio alla piastra, o ancora a crudo insieme alle arance in una variante golosa della classica insalata finocchi e arance. Tempo di minestre e zuppe, di timballi e verdure al forno, di contorni golosi che diventano facilmente un piatto unico se uniti a un riso in bianco di ottima qualità.

fonte: Antonella De Santis - Gambero Rosso

 

 

 

 

 

 

 

 

lattuga, radicchio, bietola, asparago, indivia, borragine, sedano, spinacio, rucola, catalogna, cavolo, basilico, bietola, spinaci, cardo, cicoria;

 

 

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LATTUGA LOLLO bionda o rossa

 

La lollo rossa è una qualità di lattuga introdotta in Campania da circa un decennio dal Nord Europa, con cespi di colore rosso leggero tendenti al verde oppure nella variante "TRIPLE RED" di un rosso accesso e tendente allo scarlatto e poi con cespi mediamente leggeri (200 gr in media), portamento basso e semisferico.

La lollo verde è una tipologia di lattuga con cespi di colore verde brillante chiaro, bassa ed semisferica. Poverissima di calorie, è un ottimo rinfrescante e aperitivo. Presenta una buona dose di vitamine, minerali e oligoelementi, specialmente iodio, nichelio, cobalto, manganese e rame.

Entrambe sono specie biennale, il primo anno forma una rosetta, il secondo lo scapo fiorale. Le foglie basali formano un grumolo o "testa" più o meno compatto. Lo scapo fiorale è alto 100-150 cm e porta ramificazioni corimbiformi terminanti con un capolino. I fiori sono ermafroditi, ligulati e gialli, i semi sono costituiti da un achenio di colore bianco marrone e nero, separato dal pappo.

Dal gusto intenso è adatta a condimenti forti ed è ampiamente usata in cucina mescolata con altri tipi di lattuga, nelle insalate miste.

La lollo è coltivata in prevalenza per IV gamma per la produzione di TRIS insieme con altre tipologie, croccante e di sapore leggermente amarostico, ottima shelf life.

http://www.terramore.net/lollo-rossa-e-verde.html

 

 

 

 

IL FINOCCHIO

 

Il finocchio (Foeniculum vulgare) fa parte della stessa famiglia delle carote, così come il prezzemolo, il sedano, l'aneto e il coriandolo. Diversamente dai suoi aggraziati parenti, però, il finocchio è un ortaggio goffo, dall'aspetto buffo: un corpo bulboso, croccante e bianco sormontato da steli con foglioline svolazzanti. Ma ha un pregio: diversamente dalla maggior parte delle verdure, è commestibile in ogni sua parte (corpo, gambo, foglie e semi), e può essere usato per una gran varietà di piatti, dalle insalate alla ceviche.

Il finocchio coltivato (o dolce) è una pianta annuale o biennale con radice a fittone. Raggiunge i 60–80 cm di altezza. Si consuma la grossa guaina a grumolo bianco che si sviluppa alla base.

Il finocchio è ampiamente coltivato negli orti per la produzione del grumolo, una struttura compatta costituita dall'insieme delle guaine fogliari, che si presentano di colore biancastro, carnose, strettamente appressate le une alle altre attorno a un brevissimo fusto conico, direttamente a livello del terreno.

Il suo colore bianco è dato dalla tecnica dell'imbianchimento: si tratta di una rincalzatura e si effettua a cadenza regolare nel corso dello sviluppo del grumolo o almeno due settimane prima della raccolta.

La raccolta dei grumoli avviene in tutte le stagioni, secondo le zone di produzione. Si adatta a qualsiasi terreno di medio impasto con presenza di sostanza organica. Le piante vengono disposte in file e distanziate di circa 25 cm l'una dall'altra. La raccolta del grumolo avviene dopo circa 90 giorni dalla semina. Richiede frequenti e abbondanti irrigazioni e preferisce un clima temperato di tipo mediterraneo.

Il finocchio è sempre stato considerato un cibo saporito e versatile, e un tempo alimentava anche un grande mercato. Nel mondo antico, una varietà di finocchio gigante di nome silfio ha fatto la fortuna di Cirene, una colonia greca in Nord Africa, nell'attuale Libia. Il silfio era così importante per l'economia del posto che la sua immagine veniva impressa sulle monete, sia sotto forma di baccello a forma di cuore (secondo una teoria, da qui deriverebbe la raffigurazione del classico cuore di San Valentino), sia accanto a una figura femminile che si indica il pube in modo significativo: oltre a essere molto usato nelle ricette romane (Marco Gavio Apicio, nel suo De re coquinaria, raccomanda di servirlo con il melone bollito), il silfio di Cirene era ampiamente usato come contraccettivo. Da qui deriverebbe la sua massiccia richiesta: nell'antichità, insomma, il finocchio era quanto di più simile si potesse trovare alla pillola del giorno dopo.

 

 

Non possiamo provarlo, sfortunatamente. Il silfio sembra essersi estinto intorno al primo secolo dopo Cristo, forse proprio a causa della raccolta eccessiva per usarlo a scopi contraccettivi. Plinio il Vecchio lo raccomandava anche per i morsi di serpente e le punture di scorpione, per curare la gotta e l'epilessia (ma, avverte, non per il mal di denti: lo scrittore racconta di un uomo che dopo aver applicato un impacco di silfio su un dente sofferente si era buttato giù da una scogliera per il dolore), e sostiene che l'ultimo stelo di silfio sia stato divorato dall'imperatore Nerone.

La resina odorosa viene prodotta dal carnoso fittone (la radice principale) della pianta, quando ha quattro anni; è usata, seccata e fatta in polvere, nella cucina indiana. L'odore agghiacciante se ne va quando l'assafetida viene gettata nel burro o nell'olio bollente, trasformandosi in un piacevole aroma simile a quello dell'aglio. In Occidente, l'assafetida contribuisce all'aroma speziato della salsa Worcestershire.

Al'inizio del XX secolo, si pensava che il cattivo odore dell'assafetida fosse in grado di curare qualsiasi cosa, probabilmente perché si dava per scontato che nessun organismo patogeno avesse il coraggio di avvicinarsi. Fu addirittura inserita nella farmacopea degli Stati Uniti come rimedio per l'epidemia di spagnola del 1918. Generazioni di riluttanti studenti sono stati obbligati a indossare attorno al collo dei sacchetti contenenti assafetida per prevenire qualsiasi malattia, dalla poliomielite al morbillo, dalla pertosse al comune raffreddore. In alcuni casi potrebbe aver aiutato davvero: di sicuro, nessuno voleva avvicinarsi a chi girava con un pacco di assafetida, cosa che potrebbe aver limitato alcuni casi di contagio.

E per la stessa ragione, potrebbe aver avuto un effetto deterrente per quanto riguarda i rapporti sessuali. Anche se, probabilmente, non è proprio ciò che avevano in mente gli antichi romani.

http://www.nationalgeographic.it/food/2016/08/04/news/finocchio_l_ortaggio_multitasking-3192670/

 

 

Nel finocchio non esistono piante «maschio» e piante «femmina»; questo è solo un modo comune di chiamare i grumoli (e neppure in tutte le zone dove si coltiva questo ortaggio). I grumoli non sono altro che la parte del finocchio che si consuma: quelli con forma tendenzialmente tondeggiante (nella foto) sono considerati «maschi», destinati in prevalenza a essere consumati crudi; quelli con forma sostanzialmente appiattita sono considerati «femmine», utilizzate soprattutto dopo cottura. Lo sviluppo di grumoli cosiddetti «maschio» o di grumoli cosiddetti «femmina» dipende soprattutto dalla selezione delle sementi delle varietà disponibili per il piccolo appassionato. La presenza di grumoli «femmina» è limitatissima nelle varietà a disposizione dei coltivatori professionisti.

 

 

 

carciofo, cavolfiore, broccolo;

 

BROCCOLO

Il broccolo (Brassica oleracea var. italica), chiamato anche cavolo broccolo, è una varietà di Brassica oleracea, la grande famiglia di piante conosciute comunemente come cavoli e che comprende numerose varietà molto diverse di aspetto. I broccoli rientrano nel gruppo di piante di cui non vengono mangiate le foglie bensì le infiorescenze non ancora mature.

Viene coltivato in varie zone d'Italia e del mondo anche se è una pianta originaria dell'area mediterranea e diffusa già all'epoca romana (come suggerisce anche il nome scientifico). È un ortaggio molto conosciuto.

 

 

Il suo utilizzo in cucina è diffuso in gran parte d'Europa e del mondo, soprattutto previa cottura e per la preparazione di zuppe e minestre. Il broccolo è originario del Sud Italia e ancora oggi, fuori dall'Italia, viene associato alla cucina italiana. Si può consumare crudo pinzimonio, ma è valorizzato soprattutto dalla cottura al vapore, gratinata o saltata. Rientra in numerose preparazioni tipiche regionali.

 

 

 

 

 

CAVOLFIORE VIOLETTO DI ADRANO

Il cavolfiore è il  fiore commestibile della  pianta erbacea Brassica oleracea L., appartenente alla famiglia delle Crucifere. In Italia questo ortaggio presenta diverse proprietà organolettiche in relazione al luogo in cui viene coltivato.

Nel catanese, in particolar modo nella città Etnea di Adrano il Cavolfiore cambia connotati rispetto al classico cavolfiore bianco.

Queste caratteristiche sono dovute ad modifiche genetiche ad opera degli agricoltori del luogo: Il  cavolfiore diventa ricco di antiossidanti, tra cui antociani carotenoidi, presentando la tipica colorazione violetta.

Il cavolfiore violetto è una verdura tipica del catanese appartenente al VII gruppo degli alimenti per il suo quantitativo quantitativo di vit. C (acido ascorbico); parallelamente, potrebbe essere inquadrato tra gli alimenti del VI gruppo, in quanto non mancano i carotenoidi (pro-vitamina A). Grazie al notevole contenuto di antiossidanti (anticiani, il sulforafano, la clorofilla ecc.) il cavolfiore crudo rappresenta un alimento dalle caratteristiche anti-aging e anti-tumorali.

Il cavolfiore apporta un’ottima razione di fibra alimentare, componente saziante, preventiva e terapeutica verso la stitichezza, modulatrice dell’indice glicemico, prebiotica ed ipocolesterolemizzante. Analogamente alle altre Brassica oleracea, anche il cavolfiore cotto e frullato (a comporre una minestra brodosa) può essere utilizzato nella purificazione e nel ripristino della funzionalità intestinale ed epatica in seguito a periodi di cattiva alimentazione.

D’altro canto, il cavolfiore è ricco di purine, ragion per cui viene escluso dalla dieta preventiva dell’iperuricemia e della gotta.

Perché utile nella prevenzione di tumori.

Molti  tumori a crescita rapida consumano una notevole quantità di energia, assorbendo l’ossigeno che si trova nelle aree circostanti e rendendo la presenza di HIF-1 critico per la loro sopravvivenza. HIF-1 (transcription hypozya-inducible factor 1)  è una proteina che può svolgere la propria funzione solo in  presenza di un elevato livello di radicali liberi. Se gli antiossidanti eliminano radicali liberi, tendono ad arrestare l’azione della proteina HIF-1 e di conseguenza la crescita del tumore.

Un gruppo di ricercatori Johns Hopkins University, attraverso esperimenti condotti sui topi, è riuscito a dimostrare  che una significativa supplementazione nella dieta con vitamina C fosse in grado di prevenire il cancro ed inibire la crescita di alcuni tumori. Come? per via della capacità degli anti ossidanti nel destabilizzare la crescita crescita di alcuni tumori in condizioni di scarsità di ossigeno.

I ricercatori hanno concluso che l’azione protettiva degli antiossidanti non deriverebbe dalla prevenzione dei danni al DNA ma sfrutterebbe un altro meccanismo. In particolare, coinvolgerebbe la proteina HIF-1, ove la sua elevata presenza a causa di ipossia (mancanza di ossigeno) e radicali liberi aumenti la proliferazione delle cellule tumorali. Mentre l’impiego di antiossidanti, quali vitamina c, diminuendo i radicali liberi e conseguentemente l’azione di HIF-1 la quale viene inibita, porti all’arresto della crescita delle cellule cancerogene.

 

A cura del dott. Carmelo Gulli

http://www.mitocondrio.it/cavolfiore-violetto-di-adrano-un-alleato-nella-prevenzione-di-tumori/

https://www.mimmorapisarda.it/altro/ctcalcio/cart/69-87.jpg

https://www.mimmorapisarda.it/altro/ctcalcio/cart/04.jpg

 

 

Vi presento il 'bastardo'

 

Devo una spiegazione in merito alla foto, non mia, pubblicata ieri, in quanto, com’era forse da aspettarsi, non tutti i miei amici hanno colto l’associazione, fatta da un 'erbaiuolo', tra la foto dei cavolfiori e un noto politico. "Cosa c’entra?" mi ha scritto un amico non catanese; "Ma io non ho capito, eppure sono sicula etnea!", commenta un’altra.  Approfitto dunque dell’occasione, prendendola alla lontana, per parlarvi dei nomi del ‘cavolfiore’ (Brassica oleracea, var. botrytis) in Sicilia.

Scrive su "Il ruggito degli Iblei" (19-11-2009) la blogger siculo-piemontese  che si fa chiamare ‘Piccola samurai’ che «In Sicilia tutto è broccolo. Non importa se bianco, verde, rosso, nero, cappuccio o che altro. Tutto è broccolo. Pertanto, quando cerchi di spiegare una ricetta che tu fai con il broccolo, quello che per te è verde, uno capisce cavolfiore, l'altro capisce cavolo. Insomma, una zuppa».

In realtà le cose non stanno così: è vero, per esempio, che ‘broccolo’ può significare ‘cavolfiore’, ma non nella stessa area. In ogni area, infatti, i parlanti distinguono con nomi diversi i vari ortaggi cui fa riferimento la blogger. Parliamo dunque dei nomi del cavolfiore, avvertendo che in Sicilia ne sono coltivate e commercializzate almeno tre diverse varietà, quella bianca, quella verde e quella viola.

Il nome più diffuso sembrerebbe il tipo "cauliçiuri" ("caulu di xiuri" nell’Hortus Catholicus di Francesco Cupani, 1696) con diverse varianti. Nella Sicilia occidentale prevale il tipo "bbròcculu", "vròcculu", con varianti fonetiche e morfologiche. Chi va in una trattoria di Palermo e ordina la ‘pasta coi broccoletti arriminati’ in realtà mangia ‘penne o bucatini conditi con mollica abbrustolita e cavolfiore prima cotto in acqua e poi soffritto con aglio, pinoli ed altri ingredienti’. In area centrale prevale il tipo "smuzzatura", con varianti. Nella Sicilia sudorientale troviamo i tipi "scamuzza", "scamuzzatura" e "çiurietti". Giungiamo, finalmente, a Catania e in qualche altro centro etneo in cui il ‘cavolfiore’ è chiamato "bbastaddu".

Perché, potreste chiedere a questo punto, il cavolfiore a Catania e dintorni si chiama ‘bastardo’? Cominciamo, intanto, col dire che ‘bastardo’ significa ‘prodotto ibrido di due razze diverse’; ‘pianta per incrocio’, ed è evidentemente ricavato da una locuzione sostantiva come *"càulu bbastardu*, o anche *"bbròcculu bbastardu", entrambe derivate dall’italiano "cavolo bastardo" e "broccolo bastardo", documentate in alcuni trattati di botanica, come in questi due esempi, fra i tanti:

1) «Sanno eglino ab immemorabili, che molte piante congeneri, e di famiglia, che fioriscono alla stessa epoca, possono, attesa la mescolanza de’ pulviscoli, o frutti, e semi imbastarditi, quindi niuno di essi, sebbene all’oscuro dei due articoli inseriti nel Calendario georgico, semina i Cetrioli presso i Poponi, nè le belle varietà del Cavol fiore presso il Cavol nero appunto per evitare il tralignamento, che darebbe ai Poponi il cattivo odore de’ cetrioli, e farebbe sparir la palla dal Cavol fiore, riducendolo al così detto Cavolo bastardo, che non è nè un Cavol fiore, nè un Cavol nero, ma una razza di mezzo tra l’uno, e l’altro» (recensione al " Calendario georgico della R. Società agraria di Torino per l’anno 1882");

2) «Tanto per gli animali quanto per le piante che fuorviano dalle loro naturali qualità, s’impiega il verbo spuriare. Spuriati, sost. pl., sono una varietà di cavolfiore bastardo, dal colore violetto» (Giustiniano Gorgoni, "Vocabolario agronomico" 1891).

Appare evidente, dunque, che ‘bastardo’ è riferito a una particolare varietà di cavolfiore, quella che si è affermata nel Catanese, appunto, un «ibrido di media precocità che si differenzia per la caratteristica infiorescenza a palla di colore viola intenso che alla cottura diventa di un bel verde tenero» (aziendaagricolalacollina.it). Il colore viola è dovuto al contenuto molto alto di antociani e carotenoidi, sostanze che sono in grado di ridurre i danni provocati dai radicali liberi. Particolarmente apprezzato da chi scrive è il ‘cavolfiore di Adrano’, "u bbastardömi", una varietà locale che si contraddistingue dagli altri cavolfiori per il suo sapore inconfondibile e unico.

Quanto all’etimo, infine, del nostro lessema, "bastardo" deriva dal francese antico "bastard" ‘figlio  nato  da  un  principe  con  una  donna  tenuta  in  concubinaggio’, voce di ambito giuridico, assai  probabil¬mente dal germ. *bansti *fattoria, grangia ’ (cfr. got. bansts, con  lo  stesso  valore),  che  spiega  anche  l’antica  espressione  fils o fille de bast (GDLI).

Alfio Lanaia

 

 

 

 

IL MONDO DEGLI AGRUMI

 

è talmente vasto e articolato che ogni suo aspetto, culturale e colturale, potrebbe essere, da solo, oggetto di un intero volume. Si tratta, infatti, non solo di alcuni dei prodotti alimentari, in particolare le arance e i loro derivati, più diffusi e consumati a livello mondiale, ma di frutti, come il cedro, che hanno accompagnato lo sviluppo dell’agricoltura sin dagli albori della civiltà indoeuropea, a Babilonia, 6000 anni orsono, fino a diventare parte importante della prima grande religione monoteista, l’ebraismo.

Ogni agrume è, infatti, testimone di epoche e di grandi civiltà e dovunque essi siano stati coltivati hanno sempre suscitato meraviglia tale da essere divenuti rapidamente protagonisti delle lettere e delle arti, oltre che dei mercati e della gastronomia. Così, l’arancio è il simbolo stesso della civiltà islamica europea, diffusa nella Sicilia arabo-normanna e in Andalusia a cavallo dell’anno mille e nei secoli successivi. Simbolo di sapienza agronomica e, nello stesso tempo, di diletto. Ma gli agrumi diventano, poi, in qualche modo, protagonisti del Rinascimento italiano, e, in particolare, della bellezza delle Ville Medicee, che ne sono simbolo imperituro.

L’idea stessa del paesaggio italiano, come luogo di eterna primavera, reso immortale da Botticelli, con il boschetto di agrumi che la rappresenta, fa sviluppare, in tutte le grandi corti europee la moda, se non la necessità, delle orangeries, la cui tradizione, seppur in altro modo, continua oggi con la fortuna dell’agrumicoltura ornamentale di fattura italiana.

Stessa sorte tocca al limone, senza il quale il paesaggio della Costa Amalfitana non potrebbe immaginarsi e che nel XIX secolo dalla Sicilia raggiunse i mercati di tutto il mondo, quando alla navigazione a vela fece seguito quella a vapore. E, ancora, il mandarino, che conquistò la Conca d’Oro palermitana nel XIX secolo e del clementine capace di cambiare il volto della piana di Sibari e dell’arco ionico tarantino, dando luogo, negli ultimi decenni del XX secolo, a un sistema colturale utile a garantire sviluppo economico in territori fino ad allora marginali.

Per non parlare, poi, di alcune specificità, tutte italiane, anzi, calabresi, come la coltivazione del cedro e del bergamotto, i cui prodotti, per ragioni affatto diverse sono comuni a larga parte del mondo, anche se purtroppo, poco del loro valore aggiunto rimane nel nostro Paese o, almeno, nei luoghi di coltivazione.

Abbiamo, volentieri accolto l’invito di coordinare questo volume, che non poteva mancare nella Collana Coltura&Cultura di Bayer CropScience. Lo abbiamo fatto immaginando un percorso articolato, tra scienza e arte, in più di 50 capitoli, ma coerente con lo stile e la ragion d’essere della Collana. Abbiamo chiamato a collaborare con noi oltre 60 Autori, tutti nomi di rilievo assoluto nel mondo degli agrumi e in quelli comunque ad esso legati.

Il nostro obiettivo, che ci auguriano sia condiviso dal Lettore, è stato quello di aver ancorato la divulgazione alle solide radici della ricerca scientifica. Abbiamo voluto fornire al lettore informazioni chiare, ricche di particolari, a volte anche di aneddoti, capaci, fin dove possibile, anche nella scelta delle immagini, di compendiare il rigore della ricerca con la vivacità dell’informazione; rispecchiando, in definitiva, i valori propri del giardino di agrumi come luogo “fruttifero e dilettevole”, dove scienza e arte si fondono.

E' un atto di fiducia verso un mondo che tanto ha dato alla cultura del nostro Paese e tanto ha contribuito alla sua bellezza, certi di poter continuare ad affermare, con Stendhal, che “C’è proprio un Paese dove gli aranci crescono in piena terra? Chiedevo alla zia e avendo spiegato la zia Elisabeth che c’era questo Paese e si chiamava Italia...”.

 

Eugenio Tribulato & Paolo Inglese

http://www.colturaecultura.it/titoli-agrumi.asp

 

 

 

Dagli scarti degli agrumi un’alternativa all’olio di palma. Allo studio l’uso del pastazzo per scopi alimentari

E se dai residui della spremitura industriale delle arance, il cosiddetto pastazzo fatto di bucce, semi e parte della polpa, si ottenesse un prodotto in grado di sostituire almeno in parte l’olio di palma usato nei prodotti da forno? È il progetto al quale sta lavorando un gruppo di ricercatori dell’Università di Catania, in collaborazione con aziende locali e con la società di consulenza per l’industria agrumaria Citrech.

 «L’ambito più generale è quello della ricerca sui riutilizzi del pastazzo, fino a poco tempo fa considerato esclusivamente come rifiuto e ora invece riproposto come sottoprodotto di lavorazioni alimentari da destinare, se possibile, a nuova vita» spiega Salvo Barbagallo, professore di idraulica agraria e coordinatore del progetto relativo ai nuovi impieghi in ambito alimentare. In effetti nella sola Sicilia si producono ogni anno oltre 340 mila tonnellate di pastazzo, che costano alla filiera oltre 10 milioni di euro l’anno per lo smaltimento.

Da qui l’esigenza di trovare nuovi impieghi per questo sottoprodotto secondario della lavorazione . «Il primo riguarda l’ambito energetico, negli impianti a biomasse» continua Barbagallo. L’anno scorso è stato realizzato  il primo digestore pilota per la conversione degli scarti di agrumi in energia, promosso dal Distretto Agrumi di Sicilia e dall’Università di Catania con un cospicuo finanziamento della Fondazione Coca Cola. Poi c’è il settore agrario, dove il pastazzo potrebbe essere impiegato come fertilizzante, ma è soprattutto l’ambito alimentare quello che potrebbe riservare le sorprese più interessanti, per le industrie ma anche per i produttori. «Si tratterebbe di un impiego pregiato, cosa che permetterebbe di aumentarne il valore economico» commenta Barbagallo. In questo caso, il progetto è finanziato dal Ministero dello sviluppo economico grazie a fondi erogati con la legge di stabilità 2014.

L’attenzione è puntata in particolare non sul pastazzo tout court, ma su una fibra essiccata che si può ottenere proprio a partire dall’insieme dei residui. «In pratica, si tratta di lavare ripetutamente il pastazzo con acqua per allontanare tutto quello che non è fibra ed eliminare eventuali residui amari» spiega Rosario Timpone della Citrech. «Dopo macinazione ed essiccazione si ottiene una farina con caratteristiche proprie delle fibre alimentari e in grado di assorbire acqua in quantità pari a 8 volte il suo peso».

 

 

Ed è proprio questo “effetto spugna” che permetterebbe alla farina di sostituire almeno in parte i grassi alimentari – in particolare l’olio di palma – nei prodotti da forno.

Le fibre estratte dal pastazzo possono contribuire a dare morbidezza a dolci e prodotti da forno

«In torte, brioche e merendine i grassi servono per dare struttura e morbidezza all’impasto» ricorda Barbagallo. «Ma per l’effetto morbidezza basta trovare il modo di trattenere acqua, impedendo al prodotto di seccare: la farina derivata dal pastazzo può essere d’aiuto proprio in questo senso». In linea di principio, l’aggiunta del 5% di fibra di arancia alla comune farina di grano permette di ridurre fino al 50% la quantità di grassi nell’impasto. «Naturalmente – precisa Timpone – per i futuri sviluppi industriali saranno necessari ulteriori test che dovranno coinvolgere aziende produttrici ed esperti formulatori di ricette». A questo proposito, il gruppo di ricerca è in contatto con l’azienda locale di prodotti da forno Dais per le prossime sperimentazioni.

Non è tutto. La farina essiccata di arancia, infatti, può essere prodotta anche in forma solubile, con l’obiettivo di addizionarla alle bibite – in particolare le classiche aranciate – per aggiungere quelle fibre che comunemente non possiedono.

Valentina Murelli

http://www.ilfattoalimentare.it/pastazzo-agrumi-palma.html

 

 

 

 

 

NAVELINA

Washington Navel. È la capostipite delle cultivar NAVEL; deriva da una mutazione gemmaria di Selecta, che a sua volta avrebbe avuto origine in Portogallo dall’arancio “de Umbigo” già descritto all’inizio del XIX secolo. Dopo la Valencia è la cultivar più diffusa nel mondo.

I frutti sono di pezzatura medio-elevata, maturano a partire da gennaio e possono essere raccolti fino a tutto febbraio. è presente nei principali Paesi agrumicoli del mondo. In Italia, inizialmente, è stata introdotta una linea denominata Brasiliano che ha avuto il centro di maggiore diffusione a Ribera, in provincia di Agrigento; la sua produzione ha rifornito i mercati del Meridione d’Italia e in particolare di Palermo.

Ne esistono due cloni: Brasiliano m500, risanato mediante microinnesto presso l’Università di Catania e Brasiliano nucellare 92 selezionato presso il Centro di Miglioramento Genetico di Palermo. Successivamente è stata importata la linea nucellare C.E.S.3033 costituita da Frost in California. Quest’ultima, che si è moderatamente diffusa in Sicilia, Basilicata e Sardegna, non sempre esprime elevata produttività.

Prodotto stagionale disponibile nei mesi di: Dicembre - Gennaio

 

 

 

 

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TAROCCO IPPOLITO

Deriva da una mutazione rinvenuta nei primi anni ’90 nel lentinese; le prime osservazioni condotte presso l’Università di Catania hanno consentito di esprimere giudizi positivi riguardanti diverse caratteristiche dei frutti. Tra queste la più rilevante è l’intensa pigmentazione, specie della polpa: dopo la cultivar Moro i frutti di Ippolito sono quelli che presentano i più alti contenuti di antociani. La pezzatura è piuttosto elevata, la forma leggermente ovale con lobo pedicellare appena accennato; la buccia è di spessore medio, a grana fine, a tessitura compatta e presenta screziature rosso-vinose.

Il sapore è particolarmente gradevole dato da un armonico rapporto tra zuccheri e acidi. La produttività è buona e i frutti resistono bene sulla pianta per un ampio periodo; la raccolta nelle aree precoci può avere inizio la prima metà di gennaio e proseguire per tutto febbraio e oltre nelle zone a vocazione tardiva.

Ha già suscitato un certo interesse e diversi sono gli impianti costituiti, malgrado il breve tempo trascorso dalla sua scoperta.

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TAROCCO NUCELLARE 57-1E-1. Si tratta della prima selezione di Tarocco, costituita nel 1957 presso l’allora Istituto Sperimentale per l’Agrumicoltura di Acireale; come detto la sua diffusione ha avuto inizio negli anni ’60 e si è affermata piuttosto rapidamente malgrado, inizialmente, presentasse una fase giovanile piuttosto lunga.

Va ricordato che al tempo, per accedere alle provvidenze vigenti, i nuovi impianti di Tarocco dovevano essere realizzati con questa linea e solo dopo diversi anni sono stati ammessi via via altri cloni, primi tra questi il Tarocco Galici e il Tarocco Catania.

Oltre che per la lunga fase giovanile si caratterizzava per l’elevata vigoria e la notevole presenza di spine; col passare del tempo e con i diversi passaggi d’innesto, la durata della fase giovanile è diminuita e le piante possono entrare in produzione già al terzo quarto anno. Una pianta adulta può produrre oltre 2 quintali di frutti in virtù del notevole sviluppo della chioma che, per contro, non consente densità superiori a 300-350 piante per ettaro.

L’epoca di maturazione è piuttosto precoce; nelle zone costiere la raccolta può avere inizio nella prima metà di dicembre e continuare per tutto gennaio, periodo oltre il quale i frutti possono essere soggetti a cascola e a fenomeni di senescenza, mentre nelle aree più interne può essere ritardata di qualche mese.

I frutti sono di pezzatura media, subsferici, a grana fine e pigmentano poco sia all’interno sia nella buccia; i principali pregi sono la precocità e la produttività, il maggiore difetto la spinescenza che, specie in presenza di vento, è causa di ferite ai frutti.  Il periodo di maturazione medio precoce (novembre-febbraio);

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Considerato l’ampio arco di tempo in cui è possibile riscontrare sul mercato la presenza di frutti di Tarocco, sarebbe auspicabile che anche il consumatore cominciasse a distinguere le caratteristiche dei diversi cloni per meglio apprezzarne le peculiarità. A tale scopo sarà necessario che la raccolta, il confezionamento e l’etichettatura vengano effettuati in maniera distinta e ciò, a oggi, non sempre avviene. Può accadere che la stessa confezione contenga frutti provenienti da zone di coltivazioni diverse o, peggio, da cloni a diversa epoca di maturazione, con la conseguenza che nella stessa mensa possono arrivare frutti troppo e/o poco maturi. Affinché si instauri un rapporto di fidelizzazione tra produzione e consumo è indispensabile che i frutti vengano commercializzati quando esprimono al meglio le potenzialità qualitative tipiche di ciascun genotipo

 

Piretti

 

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ACETOSELLA GIALLA (Acitedda o Acitazzu)

 

L’acetosella gialla  (Oxalis Pes-Caprae L.) propriamente conosciuta a Lentini col nome di “iauradduci” e in altre zone della sicilia come “trifogghiu acitusu” oppure “sucameli”, fa parte della famiglia delle Oxalidaceae. Alle oxalis in genere si attribuiscono olre 600 specie ed e’ diffusa in Europa, Sud-Africa, Messico, Cina, Brasile e Sud-America. Il nome deriva dal greco Oxys = acido e Sal = sale con evidente attinenza al sapore delle parti aeree della pianta. Il nome che indica la specie invece fa riferimento alla forma delle foglie che assomiglierebbe allo zoccolo della capra. Questa piantina erbacea perenne dall’aspetto gentile è nota in realtà per essere una delle piante più infestanti delle coltivazioni e dei giardini. Invasiva di ampie zone della Sicilia, occupa dal mare fino alla basa collina campi coltivati e incolti che si ammantano di un bellissimo giallo in inverno e all’inizio della primavera. La fioritura, in Sicilia, avviene tra gennaio-marzo. I fiori hanno colori splendenti alla luce del Sole; si chiudono al tramonto o quando è brutto tempo; sono davvero deliziosi e meravigliosi quando riempiono tutto il prato e diffondono una luce gialla intensa. Sono i Fiori della Sicilia!

Le foglie talvolta vengono usate per arricchire le insalate, infatti hanno un gradevole sapore leggermente aspro. Le foglie vengono inoltre usate anche in medicina perché contengono sostanze rinfrescanti, diuretiche, antiscorbutiche ed astringenti. Il sapore acidulo è dato dal ricco contenuto di ossalati. Si utilizza la pianta fresca raccogliendone le radici, il gambo e le foglie ancora tenere. La pianta essiccata perde le sue proprietà.

Dove si trova: l’acetosella ama un terreno fertile e ricco d’umidità e predilige le zone ombrose montane o collinari. La posizione ideale per l’acetosella è decisamente quella ombreggiata anche se, in Sicilia vegeta tranquillamente nelle zone assolate. Nel lentinese il territorio ne e’ ricchissimo e sovente si gode di vasti terreni invasi dai suoi bei fiori gialli che spesso diventano invadenti e si infiltrano dappertutto al punto che non vi e’ mezzo per liberarsene se non sterilizzando il terreno

 Quando si raccoglie: l’acetosella nel nostro territorio si puo’ gia’ raccogliere nel periodo gennaio-marzo, quando e’ in fioritura.

 ttenzione: e’ controindicata per quanti soffrono di disturbi e malattie renali. Rispettare scrupolosamente le dosi. Se ingerita in grandi quantità può causare lesioni renali e intossicazione. Avvertenza: per evitare effetti collaterali, usare sempre sotto controllo medico.

 Usi in Cucina:: come per altre acetoselle si possono utilizzare con moderazione le foglie crude in aggiunta alle insalate primaverili. In particolare per questa tipica specie si possono utilizzare anche i gambi, più consistenti che in altre. Per il loro sapore acidulo foglie  e gambi possono costituire la base o entrare a far parte di salse di accompagnamento per carni lessate, pesci o uova. Utilizzate come sostituto del limone se ne possono ricavare inoltre ottime limonate. Si può utilizzare inoltre anche l’uso dei piccoli bulbi consumati dopo averli arrostiti sulla brace, conditi o meno con olio e limone. L’utilizzo più comune comunque e’ quello del gambo come gradevole passatempo non solo dei ragazzi ma anche degli adulti, per ricavarci il succo amarognolo, asprigno e dolce allo stesso tempo.

 Curiosita’: negli usi più popolari si utilizzavano sulla pelle arrossata impacchi di questa erba, ma l’uso più frequente e immediato e’ quello di utilizzarne gli steli per togliere l’arsura durante escursioni o lavori faticosi di campagna. Il comportamento caratteristico dei fiori e delle foglie di chiudersi e ripiegare al ridursi della luce solare indica ancora oggi ai contadini la possibilità di piogge imminenti.

http://www.lentinionline.it/erbe/acetosella.htm

 

 

BIETOLA SELVATICA (Secala serbaggia)

 

La bietola selvatica o spontanea ha il suo nome di riconoscimento botanico Beta vulgaris. Sembra che bett sia un termine celtico per indicare il colore rosso e che questa sua caratteristica si rifletta nelle venature rossicce delle radici e sulle nervature centrali di molte varietà di bietola. Questa pianta è molto comune in Italia e la troviamo sotto i vigneti, nei luoghi sabbiosi, lungo zone coltivate e incolte ad un'altitudine che va dal piano sino a 600 m s.l.m. La raccolta delle foglie di bietola spontanea inizia da gennaio sino a giugno e riprende poi da ottobre a fine anno.

Molto simile come forma alla sorella coltivata con però più caratteristiche di resistenza e rusticità che si rispecchiano in maggior quantità di principi attivi salutari come vitamine e sali minerali. Infatti è importante come fonte di ferro con proprietà antianemiche ed è una delle verdure più ricche in vitamina A. Un consiglio per conservare tutte le sue preziose sostanze è quello di utilizzare anche l’acqua di cottura delle bietole visto che molti nutrienti sono solubili e per recuperarli va consumata l’acqua. Di facile utilizzo in cucina per torte salate e pasta verde, oltre che nelle zuppe, minestre e sformati, grazie al suo sapore delicato e gradevole.

http://www.cure-naturali.it/dieta-alimenti/piante-spontanee-commestibili-gennaio/38/4/f

 

 

CACCIALEPRE (Caccialebbra)

 

Caccialebbra, Grattalingua, Latticina, Latticino, Latticrepolo, Lattughino, Paparrastello, Terracrepolo.

Il primo termine del binomio è dedicato al medico e naturalista tedesco J. J. Reichard, mentre il secondo deriva dal greco picros = giallo, con riferimento al colore dei fiori.

Pianta erbacea perenne fornita di una radice ingrossata dalla quale, al sopraggiungere dell`inverno, vengono emessi getti formanti una rosetta basale di foglie tenere e carnosette, di colore verde-glauco, con margini spesso purpurei. Dalla rosetta emerge uno scapo, alto fino a 40 cm, che porta capolini cilindrici, piriformi prima della fioritura, costituiti da fiori gialli, gli esterni in genere bruni o venati inferiormente da strie purpuree. La fioritura avviene tutto l`anno, così come le foglie persistono in ogni stagione assumendo, però, un colore più scuro al sopraggiungere dell`estate. I frutti sono acheni di due tipi: gli esterni scuri, solcato-bernoccoluti, gli interni chiari e quasi lisci.

Il Caccialepre è diffuso in quasi tutta Italia, dove è comune sui terreni sassosi, incolti aridi, muri e rupi marittime. Non si rinviene oltre i 1000 m di altitudine.

Si raccoglie la rosetta basale quando è giovane e verde, prima che la pianta emetta lo scapo fiorale. La rosetta va troncata a livello del terreno con un coltello in modo da non ledere la radice. Il taglio provoca la fuoriuscita di una modesta quantità di latice bianco e dolciastro; questo per contatto annerisce la pelle, ma è innocuo e può essere facilmente rimosso con olio.

Le foglie del Caccialepre si consumano crude in insalata oppure lessate e perlopiù mescolate ad altri erbaggi, quali il Crespigno, la Lattuga alata, la Piattolina, ecc. Il Caccialepre è, infatti, particolarmente adatto per preparare le classiche mesticanze (i vidduri maritati o mischigghi). L`erborinatore inesperto può confondere il Caccialepre con altre erbe mangerecce, come il Lattugaccio (Chondrilla juncea L.) o la Lattuga alata (Lactuca viminea (L) Presl), data la somiglianza negli stadi giovanili.

Il Caccialepre è un erbaggio che rientra anche nelle tradizioni fitoalimurgiche di altre regioni d’Italia. In alcune aree ne è stata tentata la coltivazione.

Osservazioni sui nomi volgari. Il termine Caccialepre ha etimo incerto, sembra tuttavia (DURO, 1986-93); che esso sia composto da un primo elemento alterato: caccia(re) e la lepre; cioè erba utile come esca per cacciare la lepre. Il sinonimo Caccialebbra non ha nulla a che vedere con la malattia infettiva; è un meridionalismo; infatti in questo contesto linguistico lebbra è il plurale (neutro) di lebbru = lepre. Nomi dialettali Adrano:   Caccialebbru, Caccialebbra Belpasso:  Caccialepri Bronte: Gallepura, Giallepura Castiglione: Caccianepura  Linguaglossa:    Pirnici, Pirnici duci Maletto: Giallepura Milo: Caccialebbri Nicolosi: Evva di pinnici, Evva pinnici Pedara: Caccialebbri Ragalna:  Scaccialebbra, Scacciacalebbra Randazzo: Caccialiepura Santa Venerina: Caccialebbri

http://www.dipbot.unict.it/alimurgiche/scheda.aspx?i=11

 

 

 

Roberto, un pezzo di terra in regalo per la laurea: "Così costruisco il mio futuro"

04/01/2020 - 09:04di Carmen Greco

La richiesta del giovane è stata rivolta ai genitori che hanno acquistato un terreno a

Trecastagni dove è stata avviata una coltivazione di piante aromatiche

 

Roberto, un pezzo di terra in regalo per la laurea: "Così costruisco il mio futuro"

 

 

MAGNOLIA FALSO PEPE EUCALIPTO

 

Alberi da frutta

ARANCIO LIMONE MANDARINO KIWI MELO

 

Le palme più diffuse in Sicilia sono Phoenix canariensis (ma il punteruolo rosso l’ha distrutta quasi del tutto) Chamaerops humilis (la palma nana, l’unica endemica), Washingtonia filifera e W.robusta e Phoenix dactylifera (la palma da datteri).

 

Phoenix canariensis  Chamaerops humilis Washingtonia filifera Washingtonia robusta Phoenix dactylifera

 

 

I cacciatori del punteruolo rosso

di Mario Pintagro

 

«Altro che ghostbusters». I tecnici e gli specialisti impegnati nella lotta contro il punteruolo rosso che sta distruggendo le nostre palme rifiutano l´etichetta che il cronista gli vuole affibbiare. Loro non acchiappano fantasmi. Sì, è vero, i risultati non sono stati granché ma il nemico è insidioso, tangibile e difficile da sconfiggere in breve. C´è chi si appella alla scienza per monitorare questo coleottero asiatico che sgranocchia le palme canariensi - ne ha già distrutte tremila in Sicilia e altrettante sono intaccate - chi invece preferisce i metodi spicci che consistono nel salvare il salvabile. E chi, infine, vuole agire preventivamente, prima che la minaccia rossa - ma non si tratta di un insetto comunista, come qualcuno ironizza sul sito palermitano di repubblica - arrivi a colpire gli apici delle palme e a distruggerle. È il caso di Riccardo Agnello che non vuole compromettere la vista mozzafiato della sua villa di Mondello. Ha una sola palma in giardino, per il momento in ottima salute, ma tutt´intorno è un rosario di attacchi del coleottero che con il suo rostro in due settimane divora il cuore della palma condannandolo a morte. Agnello non ci sta a perdere il vanto del giardino. E ha chiamato Francesca Simonte, perito agrario e direttore Confagricoltura di Trapani che sta provando con l´endoterapia. Iniezioni di abamectina, un composto diluito, ottenuto da un batterio presente nel terreno, che agisce sul sistema nervoso di molti insetti. Ma il successo è garantito per piccoli insetti. Qualche iniezione del prodotto, addizionato con un concime fogliare e in via preventiva la palma dovrebbe essere al sicuro. O almeno si spera, visto che la Simonte ha visto morire una a una le palme del litorale Marausa a Trapani.

 Sempre in via preventiva è la tecnica proposta dallo studio agronomico Asa Consulting che ieri a Santa Flavia ha presentato i suoi studi. «Utilizziamo prodotti consentiti dal decreto dell´8 marzo - dice Enrico Camerata Scovazzo, agronomo dello studio - sostanze non nocive che vengono somministrate alle radici e assorbite nel giro di due settimane. Si effettuano 4 trattamenti all´anno». E di trattamenti endoterapici parlava qualche tempo fa anche l´agronomo egiziano Nabawy Metwaly, guardato con un po´ di scetticismo dall´ambiente accademico.

 

 

Ma ieri all´Asa è stato presentato anche un sistema biologico che contrasta il punteruolo con l´impiego di nematodi, piccoli vermi antagonisti. Tecnica già sperimentata da Stefano Colazza, entomologo della facoltà di Agraria. In giro sembra che si vedano meno palme attaccate dal punteruolo, forse è in corso una regressione? «Non bisogna cantare vittoria - spiega Giuseppe Barbera, tra i docenti impegnati nel progetto di monitoraggio - forse è il risultato delle diverse strategie messe in atto, dall´abbattimento delle piante malate ai trattamenti endoterapici e chirurgici».

 E mentre l´Università procede con il suo campo di sperimentazione in viale delle Scienze in cui sono coinvolte le facoltà di Agraria e Ingegneria, il punteruolo arriva in Francia. A Nizza non sanno che fare. Ieri mattina una troupe di France 2 è giunta a Palermo e ha ripreso come si interviene. L´assessore all´ambiente Francesca Grisafi ha illustrato il taglio di un esemplare ormai al secondo stadio, poi è passata a illustrare la tecnica di maggiore successo, quella dendrochirugica. Già sono state salvate 60 palme al Foro Italico, a villa Giulia e davanti lo stadio della Favorita. Troppo poco, ma è un timido segnale nella lotta contro il punteruolo rosso. Per più di un´ora cestelli mobili, camion e squadre di operai muniti di motosega andavano e venivano. Il Comune ha fatto un figurone davanti alle telecamere transalpine. Anche se il biotrituratore in azione era dell´Orto botanico.

http://palermo.repubblica.it/dettaglio/palme-i-cacciatori-del-punteruolo-rosso/1455723

 

 

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I DATTERI SICILIANI

di Antonio Castorina

 

 Le coltivazioni più famose e diffuse sull’Isola sono quelle degli agrumi, importati dagli Arabi. E sempre gli Arabi diffusero l’utilizzo delle Phoenix dactylifera L. più conosciuta come Palma da dattero.

Attualmente questo tipo di palma, per il suo portamento slanciato ed elegante, è utilizzata come pianta ornamentale in quasi tutte le città ed i paesi siciliani.

Quello che è curioso, però, è che in tantissime zone di Sicilia i frutti della palma da dattero, i datteri appunto, arrivano a maturazione e nonostantela Siciliasia una delle maggiori terre in cui questo frutto dalla polpa zuccherina viene consumato, non è mai partita una campagna di sensibilizzazione verso una coltivazione destinata al commercio.

Probabilmente il motivo va ricercato nella concorrenza che andrebbe a trovare il dattero siciliano, dovendo competere con i più celebri datteri nordafricani. Ma non è detto che la produzione non potrebbe essere proficua, infatti a sentire alcune persone di Catania e provincia che hanno assaggiato i datteri che spontaneamente sono maturati nella città etnea questi frutti non dovrebbero temere confronti, infatti  secondo la signora Serafina : “I datteri Siciliani sono molto simili, nel gusto, ai datteri Tunisini”mentre la signora Laura ha dichiarato: “Questi datteri sono carnosi e molto gradevoli al gusto”.

 Purtroppo è difficile trovare gente che abbia assaggiato i datteri che crescono e si maturano sulla nostra Isola, anche perché molte si trovano in giardini privati.

Nel centro storico di Catania, in piazza Cutelli ed piazza Iolanda, vi è una grande concentrazione di palme da dattero, all’interno di aiuole pubbliche, che riescono a portare a maturazione i loro frutti.

Questo è dovuto al fatto che nel centro della città etnea, in estate, si raggiungono elevate temperature, molto spesso vicine ai40°C,, l’inverno non è mai rigido ed inoltre le zone sulle quali insistono queste essenze arboree sono quotidianamente ed abbondantemente irrigate.

 La coltivazione per la commercializzazione dei datteri potrebbe rappresentare, oltre ad una novità nell’ambito delle coltivazioni siciliane ed europee, una nuova opportunità lavorativa.

Se è vero che le palme impiegano circa 20 anni per produrre i primi frutti è pur vero che le palme dattifere sparse perla Siciliagià oggi producono questo gustoso frutto, che attualmente dopo la maturazione cade a terra e resta a marcire ai piedi della pianta madre.

Attualmente la Siciliaè l’unica terra dove la palma da datteri cresce numerosa e dà frutti, ma non vengono sfruttati per la commercializzazione.

 Un freno alla coltivazione potrebbe essere caratterizzato dalla presenza del Rhynchophorus ferrugineus, meglio noto come punteruolo rosso.

Questo coleottero è responsabile della morte di un elevato numero di esemplari di palme, ma attualmente molte piante di questo genere non sono state attaccate dall’insetto e continuano a produrre datteri.

Insomma, la possibilità di vedere sulle tavole dei Siciliani dei datteri siciliani è ancora remota, ma la nostra Isola ne produce ed in buone quantità, pertanto attualmente possiamo gustarli mentre passeggiamo lungo le vie delle nostre città.

 

https://mis1943news.wordpress.com/2011/10/30/i-datteri-siciliani/

 

 

 

IL PANE CASARECCIO SICILIANO

La produzione del pane casereccio in Sicilia è caratterizzata da una diffusione che interessa, sebbene con carattere alquanto discontinuo e frammentato, tutto il territorio regionale, specialmente le piccole realtà rurali ed i paesi di provincia. La produzione di pane casereccio, oggi, è sempre meno relegata alla sola dimensione familiare ed è riconducibile a piccole ditte produttrici, panifici e fornai di paese che, provvisti di adeguati forni a legna, delle conoscenze e della sensibilità volta a mantenere le tradizioni, sono i veri custodi del patrimonio storico-culturale di questo prodotto tipico.

In letteratura sono presenti esaurienti descrizioni delle tecniche per la produzione di pane casereccio siciliano (cfr. Abbate & Giudici, 1998; Buttitta & Cusumano, 1991, Uccello, 1976).

Il pane casereccio siciliano è preparato esclusivamente con semola rimacinata di grano duro. Prima di procedere all’impasto la semola viene setacciata nel cosiddetto crivu (setaccio). Un tempo venivano utilizzati differenti setacci per separare le diverse frazioni della molitura: la farina integrale, ottenuta dalla macina, veniva fatta passare attraverso setacci a maglie sempre più fitte per separare canigghia (crusca), ranza (cruschello) e semola.

Il tipo di lievitazione impiegata è quella con lievito naturale, il crescenti (così chiamato prevalentemente nella Sicilia occidentale) o cruscenti (area catanese ed iblea); altri nomi per indicare il lievito naturale sono luvatu, luvatina, stadduni. Il lievito di casa è solitamente conservato in una ciotola di terracotta che in estate viene ricoperta con un panno per evitare l’indurimento.

Poco comune, ma non del tutto scomparso nel territorio siciliano, è l’impiego di crescenti maturi, stabilizzati, mantenuti da continui “rinfreschi” e ottenuti, in origine, attraverso pratiche tradizionali (utilizzo di latte acido, mosto, frutta matura, ecc.); più comune risulta essere, oggi, l’utilizzo della biga, preparata generalmente il giorno prima, prelevando una porzione di impasto destinato alla panificazione (spesso contenente già una frazione di lievito di birra) e lasciato inacidire naturalmente. L’impiego di questo metodo è, naturalmente, una pratica di più recente origine.

In alcune aree, per la preparazione dell’impasto, il lievito naturale viene stemperato con acqua tiepida, in altre viene aggiunto tal quale, alla semola e all’acqua. L’acqua può essere aggiunta a piccole quantità (nella maggior parte dei casi) oppure in un’unica soluzione.

In origine l’impasto era amalgamato manualmente nella maidda, un recipiente di legno con i bordi bassi che conteneva gli ingredienti. L’impasto veniva portato poi dalla maidda alla sbriga o briula, una tavola a forma di figura femminile, alla cui testa, tra due tavolette parallele è disposta l’estremità di una stanga robusta, detto sbriuni o sbriguni. Chi era sprovvisto della sbriga utilizzava un’altra tecnica “a pugnatura”, conficcando energicamente i pugni chiusi nell’impasto. Quando la pasta era stata raffinata si portava all’impanaturi e qui si tagliava a pezzi per ricavarne le forme volute.

 

Le forme, ottenute per spezzatura manuale, possono essere rotonde (vastedda), ad anello (cucciddati) o allungate (filoni); spesso sulla faccia dorsale dei pani sono aggiunti semi si sesamo (giuggiulena) o di papavero (paparina). La lievitazione procede per periodi di tempo che variano, in funzione dell’area considerata e della stagione, compresi tra 1 ora e mezza e 4 ore circa, sistemando le forme su teli di cotone, adagiati su ripiani di legno. In inverno, in particolare nelle Madonie, nei Nebrodi ed in altre aree montane, vengono impiegate coperte di lana per facilitare la lievitazione. Per verificare quando l’impasto è pronto per essere infornato si tubia, cioè si batte con le mani: la tonalità, più o meno cupa, indica il momento ottimale. La cottura avviene in forni a legna a fuoco diretto, alimentati prevalentemente con ulivo, ilice e quercia; quando la volta del forno si colora di bianco - “furnu camiatu”- si scopa il piano di cottura e si procede all’infornata. La brace raccolta all’imboccatura del forno spesso viene addossata al coperchio di ferro, per evitare perdite di calore. Spesso, alla fine della cottura, alcuni panificatori aprono la bocca del forno e voltano i pani per far si che non sia la sola faccia inferiore a cuocere; in alcuni casi, a metà cottura, il panificatore ha cura di effettuare un’operazione di rotazione dei pani all’interno del forno (svotata o girata do’ furnu), cambiando di posto i pezzi introdotti per primi con quelli infornati per ultimi: tale operazione permette una cottura omogenea dei pani introdotti. È in uso in molte aree della Sicilia attaccare alla bocca del forno a legna un piccolo pezzo di impasto per controllare il tempo di cottura: infatti, quando il cosiddetto “pizzicotto di pane” si stacca si considera completa la cottura del pane.

Per la cottura del pane, in molti paesi, erano un tempo adoperati i cosiddetti “forni di quartiere”; quando questi erano pronti per l’infornata il proprietario suonava una trombetta dal suono caratteristico, avvertendo così le massaie, che abitavano nelle vicinanze, che il forno era caldo e che si poteva infurnari.  Era uso anche obbligare le massaie a punzonare con un segno il proprio pane in modo tale che alla sfornata potesse essere facilmente riconosciuto. Queste tradizioni, oggi in fase di regressione in tutto il territorio regionale siciliano, conferivano all’ambiente forti riferimenti culturali e sociali; in particolare il profumo del pane appena sfornato, frammisto all’aroma della legna bruciata, caratterizzava l’atmosfera che appariva, pertanto, particolarmente ricca di sacralità.

Esistono in Sicilia due grandi tipologie di pane casereccio, contraddistinte entrambe da precise metodiche di produzione e caratteristici profili sensoriali. La distinzione fondamentale è essenzialmente riconducibile al quantitativo di acqua utilizzata per ottenere l’impasto e, probabilmente (ma questo richiederebbe mirate ed adeguate indagini per una verifica), anche alla varietà di grano duro impiegata. È possibile individuare un pane casereccio siciliano a pasta dura, prodotto mediante un impasto che contiene un tenore di acqua inferiore al 50 %, ed un pane casereccio propriamente detto (o, per essere più precisi, con tale nome identificato) caratterizzato da un impasto più morbido, con tenore di acqua generalmente superiore al 50-60 %. Le caratteristiche sensoriali, l’aspetto e i nomi di quest’ultima tipologia di pane casereccio, spesso, variano da zona in zona contribuendo ad arricchire le produzioni tipiche siciliane. Per ogni pane casereccio prodotto restano, comunque, quali elementi comuni, l’utilizzo di grano duro locale, di forni a legna a fuoco diretto e di lievito naturale.

http://www.ilgranoduro.it/atlante_categoria.aspx?categoria=Pane+casereccio+siciliano

 

 

 

 

 

 

MAIORCHINO DI NOVARA DI SICILIA

Il maiorchino è un formaggio quasi mitico. La sua origine non è infatti facile da stabilire con certezza: il nome appare in certi documenti del 1600 con riferimento al giuoco della maiorchina, una gara di lancio del formaggio a squadre tutt’oggi praticata a Novara di Sicilia. Certo è che le sue radici affondano per diversi secoli nel passato, attraverso la storia pastorale nella parte occidentale dei Monti Peloritani, la catena montuosa che divide il versante tirrenico da quello ionico lungo la Sicilia nord-orientale.Risultati immagini per maiorchino novara di sicilia

Qui, come d’altra parte in tutta la Sicilia, le terre rimasero di proprietà di pochi grandi latifondisti fino alla seconda metà del secolo scorso. Con l’avvento dell’agricoltura industriale e della globalizzazione, la struttura socio-economica rurale siciliana, rimasta pressoché inalterata per circa un millennio, si sgretolava irreversibilmente. Con essa, scomparivano gradualmente anche le conoscenze del mondo pastorale, trasmesse di generazione in generazione dagli zammattari (pastori-casari nel dialetto dei peloritani): tra queste, il metodo tradizionale di produzione del maiorchino. È a metà degli anni ottanta che Carmelo Ferrara fa la sua comparsa in questa storia.

Originario di Fondachelli Fantina, un paese incastonato nella valle del fiume Madridi, Carmelo cresce in una famiglia di contadini-pastori, prima di trasferirsi a Novara di Sicilia con l’intenzione di aprire una macelleria. Come succede in tutti i piccoli paesi siciliani, Carmelo è da sempre conosciuto con il suo soprannome: ‘u murgaellu’. “Era il 1985 quando mi decisi a recuperare il maiorchino, un formaggio di cui avevo tanto sentito parlare ma che già non si produceva più. Andai a cercare Don Peppino, un vecchio zammattaro al servizio della Contessa Maiorca”. Secondo ricostruzioni orali, questa donna di nobile famiglia palermitana possedeva vastissimi latifondi nei territori dei moderni comuni di Francavillla di Sicilia, Fondachelli Fantina e Novara di Sicilia.

Nelle terre della Contessa, i curatti (contadini, in dialetto locale) erano dediti alla coltivazione del grano e al mantenimento dei noccioleti, mentre pecurari e zammattari alla cura del bestiame ed alla produzione di carne e formaggi. “Don Peppino, allora già novantenne, mi spiegò che il nome maiorchino derivava da maiorca: non la contessa, bensì la varietà di grano tenero tradizionale coltivata estensivamente in queste zone”. Le pecore e le capre venivano condotte e lasciate pascolare dai pecurari tra i campi dove la maiorca era stata coltivata e poi mietuta. L’alimentazione a base di restuccia, tutto ciò che rimaneva dopo la mietitura, e di pascoli di montagna conferiva al latte un sapore inconfondibile: era proprio questo il latte usato nella produzione del maiorchino.

Dopo un lungo periodo di prove, Carmelo ha ricostruito il processo tradizionale di lavorazione dell’antico formaggio. Tutt’oggi, dopo oltre trent’anni, lo replica fedelmente nel suo caseificio artigianale di Novara di Sicilia e ci ha invitati a documentarlo durante il nostro giro delle Sicilia in 80 giorni. “Il metodo insegnatomi da Don Peppino è diverso dal procedimento di produzione del pecorino tradizionale”. Il latte di pecora e di capra viene mescolato in percentuThe milk heats upale del 60/40 all’interno di una quaddara (il tradizionale calderone di rame) e riscaldato a circa 45 gradi “Don Peppino e gli zammattari prima di lui non avevano termometri a disposizione: per controllare che il latte fosse giunto a temperatura mi disse che era sufficiente infilarci il braccio ‘finchè resiste la mano’. Raggiunta quella temperatura, si poteva aggiungere il caglio”. Il caglio che usa Carmelo, ottenuto dalle interiora del capretto, è lo stesso utilizzato dagli zammattari per generazioni. La quaddara viene quindi tolta dal fuoco per circa un’ora, in modo che si formi la cagliata. Quest’ultima viene poi rotta energicamente con l’ausilio di un attrezzo di legno prima di riportare la quaddara sul fuoco e riscaldarne nuovamente il contenuto ‘finchè resiste la mano’.

Raggiunta la fatidica temperatura, Carmelo tuffa le braccia nella quaddara per raccogliere la cagliata formando una palla compatta. Con l’aiuto di un telo di lino e del figlio Salvatore, Carmelo la trasferisce dalla quaddara al mastrello di legno, all’interno di una garbua, la fascia circolare che darà la forma finale al maiorchino. Prima di trasformarsi in formaggio, la palla di latte cagliato ancora densa di siero che riposa ora sul mastrello dovrà essere sottoposta ad un delicato processo di drenaggio.

Con un rudimentale ago d’acciaio, Carmelo infilza la palla di latte cagliato e la pressa delicatamente con le mani. Questa operazione va ripetuta, ci spiega, finchè il siero che fuoriesce non passa da un colore giallastro ad un bianco pulito: ciò può richiedere oltre un’ora di lavoro ritmato e paziente. Nel frattempo, al siero nella quaddara viene aggiunto del latte e la soluzione riscaldata nuovamente, stavolta a circa 85 gradi centigradi, per fare salire la ricotta (non a caso la ricotta prende il nome da questo processo di ri-cottura del siero una volta estratta la prima cagliata). Raccolta la ricotta, la neonata forma di maiorchino viene immersa nella quaddara per un’altra ora.

L’ultima fase della caseificazione prevede un secondo processo di drenaggio, del tutto simile al primo, ed un passaggio in salamoia. La neonata forma di maiorchino può ora iniziare l’iter di stagionatura: massaggiata col sale per circa tre mesi, la ruota di formaggio viene oliata anche settimanalmente fino a maturazione, da un minimo di 6/8 ad un massimo di 24 mesi. Più lunga la stagionatura, più forte, piccante e caratterizzato sarà il sapore del maiorchino.

Il figlio e la figlia di Carmelo, Salvatore e Caterina, vendono il maiorchino ed altre specialità della tradizione agricola e pastorale a Novara di Sicilia, alla macelleria ‘u Murgaellu. Due porte a fianco, Filippo, marito di Caterina, è il proprietario del Bar San Nicola, dove si utilizza la ricotta di Carmelo per produrre squisiti prodotti di pasticceria tipici di Novara: diti d’apostolo, ravioli di ricotta e, naturalmente, i cannoli. Se è raro che un turista possa lasciare Novara senza un assaggio di queste specialità ed una chiacchierata con l’altrettanto squisitamente ospitale Filippo, è ancora più raro vedere Carmelo in paese. Il suo posto è in montagna, tra i suoi animali o a saggiare col braccio nudo la temperatura del latte nella quaddara, come Don Peppino e tutti gli zammattari prima di lui.

https://slow-sicily.com/it/il-maiorchino-di-novara-di-sicilia/

 

 

 

Della ruzzola, il tradizionale gioco di strada, Cumpari Turiddu sapeva ogni cosa.Amava osservare lo sguardo un po’ nostalgico della nonna quando raccontava27579266_2054244854865107_3053155812500307968_n della forma di formaggio stagionato che veniva fatta rotolare lungo il pendio della via principale di Novara di Sicilia.Quel formaggio era il Maiorchino, e ancora oggi, durante il Carnevale, con le forme stagionate, nei comuni di Basicò e Novara di Sicilia, in provincia di Messina, si continua a giocare: i pastori gareggiano facendole rotolare lungo il pendio della via principale del paese.Il Maiorchino è un formaggio di antica produzione, sembra che abbia fatto la sua prima apparizione nel Seicento. Risultati immagini per maiorchino novara di sicilia

Viene prodotto da febbraio a metà giugno, se l’annata è buona, sempre in piccole quantità.Latte crudo di pecora mischiato con un 20% di latte di capra (e a volte anche con un 20% di latte di mucca) unito a un caglio in pasta di capretto o agnello. Tutti animali allevati sui pascoli ricchi di essenze foraggere spontanee dei monti Peloritani.Il formaggio viene fatto ancora oggi con attrezzature tradizionali: una caldaia di rame stagnato, chiamata “quarara”, un bastone di legno, detto “brocca”, una fascera di legno, la “garbua”, un tavoliere di legno, il “mastrello” e un’asta di legno o ferro.

Dopo la rottura della cagliata e la cottura nella quarara la pasta viene messa nelle fascere per la foratura: con un ago di ferro, il minacino, si bucano le bolle d’aria che si formano nella pasta, si fa fuoriuscire il siero, e poi si pressa delicatamente con le mani la superficie del formaggio.Questa operazione è lenta e delicata, e può durare anche due ore, spesso, poi, viene ripetuta una seconda volta dopo un’ulteriore cottura.La forma così ottenuta si sala a secco per 20, 30 giorni e infine si fa stagionare, anche 24 mesi, in locali di pietra interrati, freschi e umidi, dotati di scaffali in legno.

Il maiorchino ha forma cilindrica a facce piane, ha una crosta giallo ambrato che diventa marrone con l’avanzare della stagionatura e una pasta bianca compatta tendente al paglierino. L’altezza dello scalzo è di 12 cm e il diametro di 35 cm, il peso va dai 10 ai 18 chili.Il Maiorchino è il risultato di una tradizione secolare, ma è ad alto rischio di estinzione.La tecnica di produzione è infatti molto complessa e il formaggio richiede un lungo periodo di stagionatura: questo intenso lavoro di preparazione non viene ripagato dal mercato.Il Presidio Slow Food vuole risollevare le sorti del prodotto, cercando di convincere i produttori locali a far rinascere una produzione di formaggio che ha grandi potenzialità.Per questo Me Cumpari Turiddu l’ha scelto e inserito sia tra le sue selezioni di formaggi che in alcuni piatti del menù.

Credits Foto: @Marycris88

MAIORCHINOPRESIDI SLOW FOOD

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