Siamo in piena estate, nel mese più caldo e ricco di frutti. Melanzane, peperoni, zucchine e poi cocomero e pesche. A luglio il mercato è pieno di colori e sapori irresistibili. In questo periodo scegliamo prodotti più leggeri e poveri di grasso, perché il nostro organismo non richiede dosi extra per superare le temperature più rigide. Ci viene in soccorso il pesce a completare una dieta equilibrata e adeguata alle esigenze di stagione: orate, rombi, scorfani e acciughe, molto ricche di omega tre. Una grigliata, un buon bianco, un contorno di verdure e una fetta di cocomero fresco. La cena è servita.

 

 

 

 

 Nel mese più caldo dell'anno e il mercato si riempie dei prodotti estivi, quelli che richiedono alte temperature per crescere al meglio. Si tratta di frutta e verdura rigogliose e colorate, ricche di sapore e vitamine. Prodotti che si prestano a piatti invitanti e irresistibili, ideale complemento per serate all'insegna della convivialità.

L'orto di luglio è un trionfo di ortaggi golosi, che seducono anche chi non è amante delle verdure. Un esempio? I peperoni. Da fare ripieni, alla brace, al forno, perfetto in contorni come nella classica peperonata, ma da provare anche come condimento per la pasta. Crudi arricchiscono di brio le insalate di stagione. Tante le varietà e i colori: rossi, gialli o verdi, coe verdi sono i friggitelli. Senza parlare del Carmagnola o il Senise che in questi giorni si mangia fresco, ma che la tradizione vuole venga essiccato per dare vita a uno dei prodotti tipici della cucina lucana: il peperone crusco. Provatelo insieme al baccalà, è uno degli abbinamenti classici. Ci sarà un motivo!

Sempre a proposito di ortaggi di stagione non si può non dare spazio alle melanzane. Anche loro non sono, nell'immaginario comune, sinonimo di cucina leggera e dietetica. Ma, ovviamente, dipende dall'uso che se ne fa. Fritte, panate o meno, in parmigiana (con le sue molte ricette), nella pasta alla Norma o in caponata sono un carico di energia. Ma grigliate o al forno si addicono anche a chi cerca una cucina leggera. Usatene la polpa (lessata, cotta al vapore oppure al forno) per fare delle polpette, il ripieno di ravioli, oppure un semplice patè da usare con crostini di pane. E poi imparate a riconoscerne le varietà: la rossa di Rotonda simile a un pomodoro (altra eccellenza lucana), la Violetta lunga palermitana, laVioletta lunga delle cascine con frutto violetto, la Violetta nana precoce a frutto piccolo, la Melanzana di Murcia con foglie e fusto spinosi, frutto violetto e rotondo, o la Tonda comune di Firenze, di colore violetto pallido ibrido, con pochi semi, polpa tenera e compatta.

Luglio è anche il mese di zucchine (usate anche loro per una parmigiana, o crude in carpaccio), bietole, basilico, cipollotti, cetrioli, fagiolini, lattughino, ravanelli, rucola, sedano verde e, ovviamente, pomodori. Questo è il momento della raccolta dei pomodorini vesuviani del piennolo, poi legati intorno a un filo di canapa e appesi (piénnoli) ad asciugare in ambienti asciutti e ventilati.

Luglio è uno dei mesi con più disponibilità di frutta. Albicocche, ciliegie, fichi, lamponi, pesche, prugne, ribes, uva spina e l’immancabile anguria (o cocomero). È il sinonimo dell'estate: composta per il 94% da acqua (94% circa), una piccolissima percentuale di proteine e fibra alimentare, glucidi, minerali, sodio, potassio, ferro fosforo e calcio, vitamine A e C,vitamina PP, vitamina B2, vitamina B1. Il licopene, che conferisce all'anguria il tipico colore rosso, è un prezioso antiossidante. Senza contare l'alto contenuto di acqua e vitamine, fondamentali per combattere il caldo eccessivo.

De Sanctis

 

 

ravanello, carota, pastinaca, barbabietola, rapa, navone;

 

RAVANELLO COMUNE (Raphanus sativus L., 1753)

E' una diffusa pianta edule, appartenente alla famiglia delle Brassicaceae.

La famiglia delle Brassicaceae (assieme alle Asteraceae) è una delle più numerose delle Angiosperme con circa 350 generi e 3000 specie, diffusa principalmente nella fascia temperata e fredda del nostro globo. Il genere Raphanus comprende pochissime specie, due delle quali sono presenti spontaneamente sul territorio italiano.

La pianta e i fiori di Raphanus sativus possono essere facilmente confusi con quelli del Raphanus raphanistrum. Un semplice metodo per distinguere le due specie è quello di osservare i frutti. Nella siliqua di Raphanus sativus i semi sono molto ravvicinati mentre per il Raphanus raphanistrum i semi sono più distanziati e la siliqua si restringe notevolmente per poi riallargarsi tra un seme e il successivo assumendo una forma più caratteristica (siliqua a strozzature).

Il nome generico (Raphanus) deriva dalla voce greca raphanos (e successivamente dal latino raphanus) che a sua volta è collegata alla radice greca raphys (= rapa) e al persiano antico rafe; il cui significato approssimativo è “rapida apparizione” alludendo alla rapida germinazione dei semi di queste piante. Ma la parola raphanos potrebbe anche avere un collegamento a un'altra radice greca: raphis; il cui significato è “rafide” o “ago”, alludendo in questo caso alla forma sottile e allungata di alcune radici di queste piante.

Il nome specifico (sativus) significa letteralmente “ciò che è seminato”, indica quindi una pianta seminata e coltivata dall'uomo. Il binomio scientifico attualmente accettato (Raphanus sativus) è stato proposto da Carl von Linné (Rashult, 23 maggio 1707 –Uppsala, 10 gennaio 1778), biologo e scrittore svedese, considerato il padre della moderna classificazione scientifica degli organismi viventi, nella pubblicazione Species Plantarum del 1753. In lingua tedesca questa pianta si chiama Garten-Rettich; in francese si chiama Radis cultivé; in inglese si chiama garden Radish.

 

Il portamento del Ravanello

Queste piante possono raggiungere l'altezza massima di un metro (minima 20 cm; altezza media 30 cm). Il ciclo biologico è biennale (la fioritura avviene nel secondo anno) e la pianta è monocarpica ossia produce un solo frutto all'anno. In certi casi può essere definita anche a ciclo annuale oppure perenne[6]. La forma biologica è terofita scaposa (T scap), sono piante erbacee che differiscono dalle altre forme biologiche poiché, essendo annuali, superano la stagione avversa sotto forma di seme. Sono inoltre munite di asse fiorale eretto con poche foglie. Ma possono essere definite anche emicriptofite scapose (H scap), ossia piante con gemme svernanti al livello del suolo e protette dalla lettiera o dalla neve. Tutta la pianta è fondamentalmente glabra.

Radici

La radice è del tipo a fittone ingrossato con varie forme. Questa radice ha la caratteristica di accumulare inizialmente al suo interno diverse quantità di sostanze nutritive per poi essere utilizzate durante lo sviluppo successivo del fiore e del frutto. È questo il motivo per cui la radice si gonfia così notevolmente. Il colore normalmente è rosso vivo (ma vi sono molte varietà a colori diversi). Nelle specie selvatiche la radice tende a regredire in una forma sottile. Mentre invece nelle varietà coltivate la forma è molto varia (rotonda, globosa, semi-lunga, lunga). Dimensioni delle radici: larghezza 0,5 – 45 cm; lunghezza: 1 – 100 cm (in Cina e in Giappone la varietà longipinnatus LH Bailey possiede una radice da 50 kg di peso e 1 m di lunghezza, con rosette basali enormi di circa 2 m di diametro)

(Wikipedia)

 

carciofo, cavolfiore, broccolo;

 

 

CAVOLO RAPA DI ACIREALE "TRUNZU DI ACI"

Le Brassicacee sono una grande famiglia di piante erbacee ubiquitariamente presenti in tutto il mondo, comprese le regioni polari; ne fanno parte il cavolo cappuccio, i cavolini di Bruxelles, i broccoli, il cavolo verza, il cavolfiore rosso, il cavolo rapa e altri.

 La varietà di nostro interesse oggi è il cavolo rapa o cavolo Trunzu di ACI, presidio Slow Food, una varietà di cavolo particolarmente semplice da riconoscere grazie alla sua parte edule, dove presenta delle striature violacee comune a molti ortaggi coltivati nella zona (luoghi limitrofi il vulcano Etna). Il curioso nome attribuitogli, deriva da un appellativo che i catanesi  utilizzano in maniera scherzosa nei confronti degli abitanti di ACI.

La sua comparsa e presenza sui mercati locali risale alla prima metà del 900 e perdura fino agli anni 40, dove lascia spazio alle produzioni più redditizie; subito a ridosso del dopoguerra, a causa della migrazione e della diminuzione delle aree coltivabili, questa coltivazione si riduce a circa un ettaro nella zona del catanese, per spostarsi nel ragusano.

Oggi è una varietà molto ricercata e le produzioni intensive mettono a rischio le caratteristiche intrinseche di questo alimento, in quanto le brassicacee mostrano una straordinaria capacità di raccogliere e fissare nei propri tessuti i minerali presenti nel suolo, questo non esclude i metalli pesanti (cromo, piombo, arsenico, cadmio ecc) eventualmente presenti in terreni non idonei; questo dovrebbe spingerci ad assicurarci la provenienza di tali ortaggi, ed in questo la condotta è motivo di selezione e di scelta.

Le caratteristiche nutrizionali di questo alimento, lo rendono eccellente per chi vuole mantenersi in forma, in quanto il basso apporto calorico (solo 27 Kcal per 100g di prodotto!) ci permette un suo consumo frequente e quotidiano. Contribuisce efficacemente contro le ulcere gastro duodenali (grazie alla presenza del fattore U, ovvero glutammina)  e apporta cospicue quantità di fibre (quindi ottimo potere saziante), minerali e vitamina C e B6, ma dato sicuramente più importante, è la sua azione preventiva nei confronti di alcune tipologie di tumori.

 Questa sua azione sembra essere associata oltre che alla presenza di polifenoli, anche ai glucosinati, isotiocianati e gli indoli, sostanze fortemente termolabili che si degradano facilmente con la cottura. Il consiglio?  Cuocere il meno possibile questi ortaggi e con poca acqua!

Andrea Busalacchi

Esperto in nutrizione e Docente di Integrazione nutrizionale presso le Università Bicocca di Milano, di Catania e il CONI.

http://www.cronachedigusto.it/archiviodal-05042011/393-qui-slow-food/10848-il-cavolo-trunzu-di-aci-un-rimedio-per-prevenire-i-tumori-.html

 

 

 

 

basilico, maggiorana, prezzemolo, santoreggia comune, cerfoglio.

 

BASILICO

Gli antichi Egizi e i Greci lo utilizzavano per le offerte sacrificali, ritenendolo di buon auspicio per l’aldilà. Viene citato da Plinio il Vecchio, che attribuisce alla pianta capacità di generare stati di torpore e pazzia. I Galli coltivavano il basilico a luglio/agosto finché in fiore. basilico Chi raccoglieva questa pianta sacra doveva sottoporsi a rigidi rituali di purificazione: lavarsi la mano con cui si doveva raccogliere nell’acqua di tre sorgenti diverse, rivestirsi di abiti puliti, tenersi a distanza dalle persone impure e non utilizzare attrezzi in metallo per tagliare i fusti. Il basilico era considerato una pianta sacra in quanto lo si riteneva capace di guarire le ferite, come quelle di archibugio; era quindi un ingrediente, insieme ad altre 16 erbe, dell’acqua vulneraria, usata un tempo per applicazioni esterne. Elisabetta da Messina, eroina del Decamerone di Boccaccio, seppellì la testa del suo amante in un vaso di basilico annaffiandolo con le sue lacrime. Nelle miniature dei manoscritti del Medioevo, il basilico è il simbolo dell’odio e di Satana. Il folklore ebraico suggerisce che dia forza durante il digiuno. Una leggenda africana sostiene che il basilico protegge contro gli scorpioni.Il basilico sacro (Ocimum tenuiflorum) è una pianta venerata in molte tradizioni della religione hindu. Originario dell’Asia tropicale, fu coltivato inizialmente in Iran o in India e giunse attraverso il Medio Oriente in Europa, in Italia e nel sud della Francia. Nel XVII secolo iniziò ad essere coltivato anche in Inghilterra e, con le prime spedizioni migratorie, nelle Americhe. Il nome deriva dal greco βασιλεύς (basileus) “re”, e – in latino – basilicum, “reale”, per la grande rilevanza conferita a questa erba. Altre interpretazioni etimologiche legano il nome al basilisco, che si pensava generato, come gli scorpioni ed altri animali velenosi, da questa pianta. vasinicola

 

 

Le temperature ottimali di coltivazione sono tra i 20 – 25°C ma con un buon tenore di umidità tollera anche temperature più alte. In tal caso, va annaffiato generosamente ma facendo attenzione ai ristagni idrici che non sono graditi. Essendo una particolare pianta che cresce in pieno sole e può essere coltivata egregiamente sia in vaso che in piena terra. Importante è ricordare che le temperature al di sotto dei 10°C non sono ben tollerate..

Il basilico è una particolarmente esigente in fatto di terreni, l’importante è che sia un terreno fertile, a ph neutro e drenante.

La moltiplicazione del basilico avviene per seme, nel periodo tra marzo ed aprile. Le foglie devono essere raccolte gradualmente, quando necessitano tagliandole con tutto il picciolo.

Il responsabile dell’aroma è l’olio essenziale, costituito, tra l’altro, da: eugenolo, estragolo, linalolo, cineolo, metil augenoli che a seconda della maggiore o minore quantità di uno di questi componenti si ha un basilico più o meno profumato o con aromi particolari.

http://www.paccozero.it/2016/01/25/basilico/

 

 

foto di Rosangela Russo

 

 

 

 

 

 

ortaggi da frutto: cetriolo, carosello, zucchina, zucca, peperone, melanzana, fagiolino, pomodoro;

 

 

FAGIOLINO MASCALESE

Si tratta di una varietà di fagiolino detto mascalese, dalla zona di produzione essendo coltivato a Mascali e frazioni limitrofe.

Mascali è un comune di 10.000 abitanti,appartenente alla regione agricola 7delle colline litoranee di Acireale.

Una posizione invidiabile infatti il territorio va dal livello del mare,alle zone collinari che arrivano oltre i 900 metri.

Il fagiolino rappresenta uno dei prodotti tipici della zona,inizia a comparire verso la metà del mese di luglio e dura fino alla fine d'agosto poi ancora se ne trova,fino alla metà di settembre, ma inizia a peggiorare qualitativamente.

Le quantità prodotte son scarse ed essendo ricercato per l'intensità del sapore e la mancanza quasi totale di filamenti,ne risulta un prezzo altino sui 6-7 euro al kg.

http://www.cookaround.com/yabbse1/showthread.php?t=47403

 

 

 

 

 

ortaggi da frutto: cetriolo, carosello, zucchina, zucca, peperone, melanzana, fagiolino, pomodoro;

 

 

LA ZUCCHINA

La zucchina (Cucurbita pepo L.) è una specie della famiglia delle Cucurbitaceae i cui frutti sono utilizzati immaturi.

È una pianta annuale con fusto erbaceo flessibile strisciante o rampicante, gracile. Venne importata in Europa intorno al 1500 dopo la scoperta dell'America.

È una pianta monoica, cioè pianta che produce fiori unisessuali, uno maschile e uno femminile, portati però dalla stessa pianta. Il fiore maschile porta il polline, e ha lo scopo di impollinare il fiore femminile che porta l'ovario, che una volta impollinato, questo possa diventare il frutto. Il fiore maschile una volta prodotto il polline che feconderà il fiore femminile, ha finito il suo scopo ed è destinato a seccarsi, mentre il fiore femminile produrrà il frutto. L'impollinazione viene fatta per opera di insetti (impollinazione entomofila), per lo più api e bombi. I frutti hanno numerose forme e colori, a seconda delle varietà e delle cultivar prodotte dall'uomo.

 

 

Appartengono a questa specie differenti cultivar:

le zucchine lunghe, le più diffuse nei mercati europei. Il frutto è generalmente cilindrico, più raramente piriforme. Il colore più comune è il verde scuro, anche se esistono varietà verdi chiare (comunemente chiamate "romanesche"), striate, e persino dalla buccia completamente bianca o gialla. Tra le cultivar ascrivibili a questa tipologia si possono segnalare lo Zucchino Nero di Milano, a buccia verde assai scura, lo Zucchino Fiorentino, a buccia striata e assai scanalata, lo Zucchino Siciliano, leggermente piriforme e a buccia verde molto pallida.

le zucchine tonde, dal frutto sferico. Queste cultivar sono tutte di colore verde eccetto alcuni ibridi F1. Da citare: Tondo di Piacenza, di colore scuro; Tondo di Nizza, più chiaro e appiattito ai poli; Tondo di Firenze. Questa tipologia è molto apprezzata in cucina per ricette che richiedano un ripieno, dal momento che la forma si presta in modo ottimale.

le zucchine patisson (dette in inglese patty pan o ufo squash), dalla forma lobata e un gusto più deciso di quello delle zucchine comuni, che ricorda vagamente il cuore di carciofo. Le cultivar disponibili sono numerose, ma simili tra loro. Buona parte di esse è di origine francese. Generalmente si distinguono in base ai colori: ci sono cultivar gialle, arancioni, verdi chiare, verdi scure, bianche e variegate (in francese panaché).

le zucchine eccentriche, che hanno una forma non riconducibile alle altre tipologie. Da segnalare la varietà Crookneck, dal frutto a collo d'oca e buccia gialla, affine alla cultivar detta "rugoso friulano".

Si sviluppa adeguatamente in clima mite ed in posizione soleggiata ma ben aerata.

È una pianta da rinnovo che apre una rotazione triennale. È consociabile con cipolle, fagioli rampicanti e lattuga.

I semi si interrano direttamente a dimora da aprile a giugno, e comunque quando la temperatura, sia diurna sia notturna, si mantiene sopra i 20 °C. Se ne piantano 2 o 3 per ogni buchetta, in verticale nel terreno e con la parte più stretta rivolta verso il basso: un vaso lungo e profondo può ospitare una sola pianta. Per i giardinieri neofiti si consiglia di acquistare piantine già pronte.

Il suolo deve essere ben lavorato, profondo e di medio impasto, ben drenato per evitare ristagni d'acqua e ricchi di sostanze organiche. Per ottenere rendimenti adeguati e frutti di qualità in coltivazioni biologiche occorre distribuire quattro o cinque quintali di letame maturo per cento metri quadrati. Il letame dovrà essere interrato alla profondità media di quaranta centimetri.

Su terreni ben lavorati, se le piante sono sufficientemente distanziate (densità inferiore a 1,4 piante per metro quadrato) il rendimento può arrivare a 40-45 frutti per pianta anche se valori tipici sono piuttosto di 20-25 frutti per pianta.

I frutti vanno colti quando sono di dimensioni ancora modeste (da otto a dieci settimane dalla semina). In effetti ad accrescimento completo il frutto presenta semi che per quantità e dimensione non lo rendono più commestibile.

Le zucchine hanno un bassissimo valore calorico e sono composte per il 95% d'acqua. Contengono molte vitamine A e C e carotenoidi, che apportano una consistente azione antitumorale.[senza fonte] Sono riconosciute molto utili per astenie, infiammazioni urinarie, insufficienze renali, dispepsie, enteriti, dissenteria, stipsi, affezioni cardiache e diabete.[senza fonte] Oltre a tutto quello già elencato, fin dall'antichità venivano utilizzare per favorire il sonno, rilassare la mente, ed era particolarmente indicato per chi si sentiva spossato.[senza fonte] Inoltre è provato che l'azione delle zucchine sulla nostra pelle è molto benefico giacché favorisce l'abbronzatura (essendo molto presente la vitamina A) e ne combatte l'invecchiamento. Riconosciuto è anche l'aiuto apportato dai semi di zucca nella cura della prostata.

Le zucchine in cucina

Le zucchine entrano da sole o con altre verdure in varie preparazioni alimentari. Tra i primi compaiono a volte come condimento della pasta o come uno dei principali ingredienti del minestrone. I loro fiori vengono utilizzati per fritture, a volte ripieni. Le zucchine finemente affettate possono anche venire cucinate in carpione e servite come antipasto.

I modi di utilizzo sono diversi a seconda delle forme e dimensioni: si possono utilizzare lessati, o, nel caso delle zucchine, fritti dopo averli tagliati a fettine e impanati, altri ancora al forno.

Il fiore di zucca o fiore di zucchino (chiamato anche fiorillo), dal colore giallo-arancione, è molto utilizzato in campo culinario; per questo vengono utilizzati prevalentemente i fiori maschili quelli che hanno il gambo, chiamato peduncolo, sottile e che sono destinati, dopo l'impollinazione a seccare. Vengono pertanto colti quando sono ancora turgidi e usati generalmente fritti. Volendo usare i fiori femminili, ma già di maschili ve ne sono a sufficienza, si devono recidere con delicatezza, senza danneggiare l'ovario cui sono portati ove non danneggiarlo e così perderlo. Pertanto, come già detto il fiore si usa solitamente fritto, per ricavarne piatti come gli sciurilli napoletani o i fiori di zucca in pastella "alla romana".

fonte Wikipedia

 

 

 

 

Peperoni italiani: le varietà più pregiate

 

30/08/2016  Massimo Lanari

Non solo il colore verde, giallo e rosso: a cambiare è anche la forma, il sapore, le modalità di conservazione. Dai peperoni cruschi lucani alle papacelle napoletane fino alle varianti piemontesi, piccolo viaggio nei tesori estivi del nostro territorio

Variety of chile and bell peppers.

Saremo pure tornati dalle ferie ma davanti abbiamo un altro mese d’estate. E dunque in cucina splende ancora il regno dei peperoni. Assieme ai pomodori, alle zucchine e alle melanzane, è lui il vero ortaggio dell’estate, da consumare crudo o cotto, ripieno o grigliato. Ma quali sono le principali tipologie di peperone in circolazione e quali peperoni italiani esistono?

Peperoni gialli, rossi e verdi: gemelli diversi

La prima differenza riguarda i colori: rosso, giallo e verde. Il peperone rosso ha polpa croccante e consistente e sapore deciso, ideale per preparare bruschette o contorni. Quello giallo è più carnoso e succoso, con un sapore più dolce e una maggiore tenerezza: perfetto per i peperoni in agrodolce o per il pollo con i peperoni. I peperoni verdi non sono invece nient’altro che gli esemplari non ancora pienamente maturati delle varianti rossa e gialla. Il gusto leggermente acidulo lo rende perfetto per le insalate, anche a crudo.

 

Corni e non solo

Tra le varianti più pregiate del nostro Paese c’è il peperone di Pontecorvo Dop, dalla forma di corno e la buccia rossa e sottile, noto fin dall’inizio dell’800.

O il lucano peperone di Senise IGP, anch’essi rossi e dalla forma a corno, utilizzati fin dal XVI secolo per la produzione dei famosi peperoni cruschi: ossia essiccati al sole e poi consumati fritti nell’olio extravergine d’oliva. Da notare che la pianta di peperone, Capsicum annuum, è la stessa di quasi tutti i peperoncini, dai quali si distinguono unicamente per la forma e il sapore dolce anziché piccante. Di grande qualità anche il peperone di Nocera rosso, tra le tipologie di grandi dimensioni più gustose.

Trionfi partenopei

Una roba da veri intenditori insomma, al pari della papacella napoletana, peperone dalle bacche piccole schiacciate e costolute, molto carnoso e dal sapore spiccato, ideale per le tradizionali preparazioni sottaceto partenopee. Il motivo? La dolcezza della sua polpa, perfetto ingrediente delle famose insalate di rinforzo natalizie, per tacere poi delle e papaccelle ‘mbuttunate. Il nome deriva probabilmente dagli orti del Nolano in cui si coltivava un tempo la papaccella (le parule), che si trovavano in particolare nelle vicinanze di Brusciano, dove molti abitanti hanno come cognome “Papaccio”. Ultimo capitolo della saga dell’italico peperone? Restiamo in Campania con i friggitelli (o friarelli o puparuoli friarelli o peperoncini di fiume). Per i quali, vista la loro bontà, dovremmo aprire un capitolo a parte…

http://www.lacucinaitaliana.it/news/in-primo-piano/le-varieta-dei-peperoni-italiani/

 

I peperoni tutti uguali? Proprio no: il colore dell'ortaggio, infatti, è indice di precise caratteristiche (infatti, per esempio, il peperone rosso è più costoso di quello verde; e ancora, sempre quello verde, spesso risulta più difficile da digerire).

I peperoni verdi sono versioni non ancora mature di quelli rossi, arancioni o gialli. E poiché meno maturi hanno un sapore un poco più amaro, oltre a causare i già citati problemi digestivi.  Poiché meno maturi e raccolti prima, i peperoni verdi richiedono un minor tempo di crescita.

I peperoni gialli, arancioni e rossi sfruttano più risorse per la maturazione, e per questo costano di più. Tutti i peperoni sono una grande fonte di vitamina A e C,

Quelli rossi contengono 11 volte più beta-carotene, fondamentale nella prevenzione ai tumori, rispetto a quelli verdi.

 Al contrario, i peperoni gialli hanno più vitamina C di quelli verdi, ma meno vitamina A e beta-carotene.

 

 

 

 

 

 

Il rosso del Pomodoro di Pachino Igp brillerà all’Expo venerdì 26 giugno. Ci sarà anche il Consorzio di Tutela Pomodoro di Pachino Igp tra le eccellenze gastronomiche che rappresenteranno il sud est nella settimana dal 22 al 27 giugno, gestita dal Gal. Una presenza che sarà declinata attraverso diversi canali: dal racconto della filiera di produzione del pomodoro di Pachino Igp alla valorizzazione del suo territorio di provenienza, segreto delle sue eccezionali qualità organolettiche e nutritive.

“La nostra presenza ad Expo rappresenta la conferma che le nostre strategie di marketing, tutela e promozione hanno assunto da qualche anno una misura globale- spiega il Presidente del Consorzio Sebastiano Fortunato-. Certamente non siamo stati facilitati dall’organizzazione regionale, che in questi mesi ha peccato gravemente di programmazione, ma con determinazione abbiamo superato tutti i problemi”.

“Oltre alla logistica e alla programmazione regionale- aggiunge il direttore del Consorzio, Salvatore Chiaramida-, anche quella della manifestazione milanese e del Ministero hanno fatto delle scelte poco rispettose delle eccellenze agroalimentari, che invece sarebbero dovute essere al centro del tema dell’Expo. Basti ricordare che dal 15 al 21 giugno si è svolta ‘la settimana del Pomodoro’ coinvolgendo numerosi padiglioni di vari paesi, ma puntando solo sul pomodoro industriale ed escludendo completamente quello da mensa, come il nostro”.

In quest’ottica la partnership con il Comune di Pachino diventa strategica per comunicare una specialità agroalimentare che è rappresentata in gran parte da un territorio unico al mondo: ”Riteniamo che l’Expo sia un’occasione importante non solo per esporre in vetrina i gioielli migliori di un territorio, ma soprattutto, dato il tema di questa edizione legato ad una nutrizione sana e consapevole, per lavorare in maniera sinergica con gli altri partner del settore e quelli territoriali su una corretta informazione alimentare- spiegano Salvatore Dell’Arte e Massimo Pavan, i due vicepresidenti che rappresenteranno il Consorzio a Milano venerdì 26-.

È infatti solo attraverso una corretta informazione che possiamo spiegare perché il nostro prodotto è unico: l’Indicazione Geografica Protetta rappresenta il riconoscimento di condizioni pedoclimatiche territoriali irripetibili. Ricordiamo che Pachino è il Comune più assolato d’Europa secondo i dati Enea. Questo, insieme alla salinità dei terreni, determina le caratteristiche organolettiche e nutritive del nostro ‘oro rosso’, apprezzate in tutto il mondo”. La grande attenzione rivolta al cibo sarà valorizzata anche attraverso dei cooking show, in occasione dei quali gli chef del territorio faranno conoscere le prelibatezze del sud est siciliano.

“L’Expo – ha dichiarato il sindaco Roberto Bruno – è una straordinaria opportunità per far conoscere le nostre bellezze e le peculiarità di una città che si può fregiare di un triplice marchio legato al food: oltre al pomodoro anche il vino e il pesce”.

http://www.igppachino.it/index.php/consorzio/blog/loro-rosso-del-pomodoro-di-pachino-brilla-ad-expo

 

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LE VARIETA' PIU' CONOSCIUTE NEI MERCATI SICILIANI

 

Il pomodoro Ciliegino di Pachino IGP ovvero l’Indicazione Geografica Protetta; è il prodotto che identifica direttamente il nome Pachino in tutto il mondo, nella tipologia ciliegino. Si distingue per il numero di frutti nel grappolo a spina di pesce, generalmente superiore ad 8, per le dimensioni piccole dei frutti, da 22 a 32 millimetri di diametro e per la colorazione rossa brillante dei frutti maturi. Gustoso e dolcissimo lo si coltiva nella zona di territorio compresa tra Pachino, Ispica, Portopalo di C.P. e Noto, identificata dal Disciplinare di Produzione. I fattori produttivi che esaltano il gusto e la qualità sono l’elevata luminosità invernale, la salinità delle acque di falda utilizzate per l’irrigazione, i terreni fertili di natura argillosa e di medio impasto ed infine il clima mite, tipico mediterraneo.

Il pomodoro Costoluto di Pachino IGP è una delle tipologie di pomodoro protette dal marchio IGP pomodoro di Pachino. E' un pomodoro di medie dimensioni, verde con viragio rossastro in fase di maturazione. Pomodoro insalataro per antonomasia, si distingue per l'eccezionale serbevolezza e per la polpa croccante. Il sapore è intenso e armonico. Da oltre 50 anni è il leader indiscusso e incontrastato nel suo settore, in sé racchiude tutte le qualità visive e organolettiche. Gli agricoltori pachinesi hanno sviluppato le caratteristiche genetiche usando delle tecniche di coltivazione innovative, che lo hanno reso praticamente inimitabile, fuori dal comprensorio pachinese. Oggi queste varietà rappresentano i fiori all'occhiello alle produzioni della nostra Sicilia.

 

Il pomodoro Datterino si differenzia dalle altre tipologie di pomodoro, per le dimensioni ridotte e per la tipica forma allungata a "dattero". Rispetto alle altre varietà di pomodoro, presenta un grado zuccherino più elevato che può raggiungere i 12° Brix, la buccia si presenta estremamente sottile e di un intenso colore rosso brillante. Ogni grappolo di pomodoro datterino è a forma di lisca di pesce e presenta dai 10 ai 15 pomodorini di circa 40 gr. ciascuno. Il pomodoro datterino si conserva molto bene in frigo, ed è molto apprezzato per preparare bruschette, insalate, antipasti. Anche questa varietà di pomodoro si può trovare sul mercato durante tutto l'anno.

 

Il pomodoro Marinda è una tipologia di Pomodoro Costoluto da raccolta appena invaiato, si distingue per la forma appiattita dei frutti, dall’elevato numero di costolature, non meno di 10 e dalla cosidetta “spalla” verde, che circonda come una pennellata di colore la parte apicale. E’ storicamente il prodotto che identifica la primizia di Pachino; gustoso, sapido e croccante lo si coltiva nella zona di territorio compresa tra Pachino, Ispica, Portopalo  e Noto, identificata dal Disciplinare di Porduzione.

E’ disponibile solo nei mesi autunnali, invernali e primaverili.

 

 

 note tratte da  www.saporidipachino.it

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

MELANZANA NERA,  TONDA , OVALE (Turca)

 

Il periodo della semina è assai dipendente dalla zona in cui si opera. Nel nord si semina sotto tunnel o in cassone ai primi di Marzo. Bisogna insomma tener presente che, per svilupparsi, la piantina di melanzana necessita di una temperatura piuttosto costante che si aggiri intorno ai 15° centigradi. Si semina a spaglio, piuttosto rado per non dovere poi diradare troppo, e su un substrato composto da terriccio fine mescolato con pari quantità di torba concimata. Seminate preferibilmente sul bagnato con uno strato di mezzo cm circa di sabbia. Tracciate dei solchetti nell’appezzamento adibito allo scopo ed appoggiate i soggetti a distanza di 50 cm l’uno dall’altro sulla fila. La distanza tra i solchi si aggirerà fra i 60-70 cm. Una volta che sono poste tutte le piante in un solo solco colmatelo di terra premendo bene intorno alle piantine stesse. La melanzana per ben produrre, necessita di potatura: si devono asportare cioè i getti secondari che si sviluppano all’ascella dei getti primari: su ogni pianta non ne devono restare più di 8-10. Il raccolto è scalare ed il consumo deve essere immediato.

 

 

 

 

LE PRINCIPALI VARIETA' SICILIANE PRESENTI AI MERCATI

 

 

La melanzana Baffa black beauty produce frutti di forma globosa con costolatura marcata, di colore viola-nerastro. Per la raccolta occorrono circa 50-70 giorni dal trapianto. La particolarità di questa melanzana sta nella polpa presentandosi molto spessa e con pochi semi. In cucina viene consumata fritta, a forno, arrosto e anche per preparazioni di conserve sott'olio.

La melanzana sciacchitana si presenta di colore nero lucido, di grosse dimensioni e di forma ovale-piriforme. La pianta, generalmente vigorosa, raggiunge una altezza media di 80-90 cm. Questa varietà di melanzana è molto produttiva, coltivata soprattutto in Sicilia nelle zone agrigentine, in particolare nella zona di Sciacca . Si raccolgono mediamente 8-9 melanzane per ogni pianta.

 

Ibrido di melanzana violetta a ciclo medio adatto per serra e pieno campo. La melanzana Zebrina è di forma ovale allungata di color crema con leggere striature viola dal peso medio di 150-250 gr. Negli ultimi anni, le melanzane striate, sono sempre di più coltivate, in tutta Italia e in particolar modo nell'area meridionale. La Zebrina è utilizzata in cucina per preparare parmigiane, caponate, ripieni  o semplicemente fritta o arrosto.

 

fava, pisello, fagiolo, lenticchia, cece, cicerchia, lupino

 

 

FAGIOLI BORLOTTI

 

Il fagiolo (Phaseolus vulgaris L., 1758) è una pianta della famiglia delle leguminose originaria dell'America centrale. Fu importato, a seguito della scoperta dell'America, in Europa dove esistevano unicamente fagioli di specie appartenenti al genere Vigna, di origine subsahariana: i fagioli del genere Phaseolus si sono diffusi ovunque soppiantando il gruppo del mondo antico, in quanto si sono dimostrati più facili da coltivare e più redditizi (rispetto al Vigna la resa per ettaro è quasi doppia).

Viene coltivato per i semi, raccolti freschi (fagioli da sgranare) o secchi, oppure per l'intero legume da mangiare fresco (fagiolini o cornetti). Le varietà a ciclo vegetativo più lungo, nelle regioni temperate sono seminate in primavera, quelle a ciclo più breve in estate. Nel caso dei fagioli rampicanti è necessaria la collocazione di sostegni.

I fagioli sono i legumi più conosciuti e coltivati al mondo: ne sono note più di 300 varietà, ma quelle che vengono coltivate per essere commercializzate e consumate sono circa 60.

Venivano consumati in Italia già ai tempi dei Romani: allora si trattava di un alimento di importazione. Fu solo nel periodo di Cristoforo Colombo che si iniziò in Italia e in Europa a coltivarli. Nella nostra penisola, oggi è il Veneto la regione con la maggiore superficie dedicata alla coltura dei fagioli.

I bacelli sono facilmente riconoscibili: sono lunghi e di colore rosso-rosato macchiati di marrone.

http://www.greenstyle.it/fagioli-borlotti-qualita-valori-nutrizionali-164341.html

 

  https://www.mimmorapisarda.it/2024/181.jpg

 

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NOCE PESCA O NETTARINA

Perché la pesca noce è così liscia e priva della classica peluria che caratterizza le altre pesche? Dai vari innesti del passato verrebbe da rispondere, ma fino ad oggi la vera motivazione del loro aspetto liscio e lucente restava un mistero. A svelare l'arcano della glabra pesca nettarina ci ci ha pensato un gruppo di ricercatori del CRA di Roma, del Parco Parco Tecnologico Padano di Lodi e dell'Università Statale di Milano che ne hanno identificato il gene responsabile.

La ricerca tutta italiana pubblicata sulla rivista Plus One ha fatto luce su questa specie di pesche sempre più apprezzate che in Italia copre il 30% del mercato. Il nostro Belpaese, con una produzione annua di 1.3 milioni di tonnellate, è il secondo produttore mondiale di nettarine dopo la Cina, luogo di domesticamento delle pesche noci.

Il gene responsabile della perdita di peluria nella pesca si chiama PpeMYB25 e sembra essere il controllore della formazione sul frutto dei tricomi, le strutture filiformi che creano la peluria nei vegetali.

Così, se finora pesca e nettarina potevano essere distinte unicamente grazie alla storia della pianta o, ovviamente dal frutto, questa scoperta permetterà di distinguerle con assoluta certezza già dal seme o dalle giovani piantine. Insomma non bisognerà più attnedere che l'albero fruttifichi (di solito dopo 2-3 anni), ma basterà leggere il suo DNA.

Altri gruppi di ricerca in tutto il mondo avevano tentato senza successo di trovare il bandolo della matassa riuscendo al massimo a giungere all'identificazione della regione (ancora troppo grande, oltre 1 milione di basi) in cui si supponeva si trovasse il gene. Gli studiosi italiani sono riusciti invece a fare centro scoprendo che il gene in questione è in realtà un gene della famiglia MYB, che riunisce diversi fattori di trascrizione, cioè geni capaci di attivare specifiche vie metaboliche e funzioni nelle cellule, come ad esempio la colorazione del seme in mais.

"Per cercare di capire – spiega Laura Rossini, ricercatrice dell'Università di Milano che opera presso il Parco Tecnologico Padano – quale gene controlla questo carattere, abbiamo utilizzato un incrocio fra una varietà di pesca (Contender) con una di nettarina (Ambra) andando poi a cercare il gene responsabile di questo carattere in una regione ristretta del genoma. Confrontando la sequenza del DNA di questa regione in diverse pesche e nettarine abbiamo identificato 291 differenze tra le une e le altre. Una di queste differenze suggeriva come candidato un gene MYB che è strettamente imparentato con un gene responsabile della formazione delle fibre del cotone. Questa differenza abbiamo scoperto era dovuta alla presenza nelle nettarine, all'interno di questo gene, di un frammento di DNA che ne distrugge la funzionalità"."Grazie a questa scoperta – spiega Ignazio Verde del CRA di Roma – potremo ora selezionare a uno stadio molto precoce le piante di pesco senza mai perdere di vista il carattere nettarina, rendendo più efficiente il processo di selezione varietale".

Simona Falasca https://www.greenme.it/informarsi/natura-a-biodiversita/12728-pesca-noce-dna-nettarina#accept

 

 

 

LA PESCA BIANCA ” MONTAGNOLA” DI BIVONA

 

Nella zona dell'alta valle del Platani, nella splendida cornice dei monti Sicani e delle col­line circostanti si estende la coltivazione della pesca di Bivona o “montagnola”, come comunemente viene definiita, a rimarcare la provenienza da una area caratterizzata da una orografia collinare e montana.

Nell’ultimo decennio si è assistito ad un processo di continua espansione della peschi­coltura che ha interessato anche i comprensori limitrofi..

La superficie investita con questa tipologia di pesca in Sicilia supera i 150 ha, con una produzione complessiva stimabile in circa 35.000 quintali.

Il clima mite in queste zone ha permesso e favorito l’ottenimento di produzioni con peculiari caratteristiche organolettiche e merceologiche: polpa bianca e soda talvolta solcata da venature rosee tendenti al rosso, sapore dolce e aromatico.

Le prime pesche vengono raccolte alla fine di agosto e proseguono fino alla prima settimana di ottobre; questo fa si che il frutto sull'albero si lasci baciare dal caldo sole di Sicilia per tutto il periodo estivo, accumulando dolcezza e profumo.

Questo tipo di pesca risulta resistente alle manipolazioni ed al trasporto.

Da oggi sarà ufficialmente protetta contro le imitazioni ed i falsi e tutelata a livello Comunitario: la Pesca Bivona (chiamata anche Pescabivona), già molto apprezzata dai consumatori, ha conquistato una nuova Indicazione geografica protetta per l'Italia ed entra con la sua registrazione a fare parte della lista degli oltre 1.200 prodotti protetti dall'Unione Europea (le DOP e IGP italiane sono 264).

Si tratta di una nuova conferma per la Sicilia e per l'Italia, al vertice europeo per i prodotti di qualità: la denominazione Pesca Bivona indica i frutti di 4 ecotipi di pesca (Murtiddara o Primizia Bianca, Bianca, Agostina, Settembrina) originati ed evoluti in una zona di produzione che include porzioni del comune di Bivona (AG) e di altri comuni limitrofi – come Alessandria della Rocca (AG), S. Stefano Quisquina (AG), S. Biagio Platani (AG) e Palazzo Adriano (PA). Il pesco si iniziò a coltivare nelle zone geografiche di interesse nei primi anni '50: i primi pescheti specializzati sono stati impiantati a Nord del paese di Bivona e sono state usate come materiale di propagazione le migliori linee locali nate da seme.

 

 

 

 

 

COCO-ANANAS

 

Arriva il cocomero giapponese. L'estate 2007 si arricchisce di un nuovo frutto rinfrescante e dissetante. Arriva infatti il cocomero giapponese o coco-ananas. Sembra un'anguria, ma è più piccolo e il sapore ricorda un mix tra il dolce mango da cui ha origine, e l'ananas. All'ananas del resto assomiglia anche nel colore. Ma il giallo richiama soprattutto il Giappone, ecco perchè viene chiamato cocomero giapponese sebbene la produzione sia nostrana e precisamente localizzata in Sicilia, a Pachino nel Siracusano, e in Basilicata nel Materano, da un innesto, che però è di origine asiatica.

I produttori di Pachino affiancano così al fiorente business con il tradizionale ciliegino quello con questo frutto "esotico" novità dell'estate.

Dissetante, rinfrescante e depurativo come la tradizionale anguria o cocomero, il nuovo frutto è anche poco calorico e del tutto privo di grassi. E come l'anguria rossa contiene una buona quantità di vitamina A e vitamina C, potassio e altri minerali. Ma soprattutto è un toccasana ideale nella calura dell'estate, garantendo refrigerio immediato con la sua polpa fresca e zuccherina.

Rispetto al classico cocomero ha un sapore però più delicato, adatto a palati più fini, pur restando nel prezzo in linea con il parente stretto di polpa rossa (2 euro/kg).

Due le varietà presenti sul mercato, una con la buccia verde a strisce e l'altra con puntini gialli ed una lunga macchia dalla forma di mezza luna.

Le origini del cocomero, frutto re dell'estate risalgono a 5 anni fa nell'antico Egitto. Da allora l'anguria ha fatto molta strada offrendo varietà, gusti e forme spesso nuove, come l'anguria cubica brasiliana, fatta a forma di dado grazie a uno speciale procedimento di crescita in un contenitore trasparente. Una trovata che i supermercati britannici adotteranno già ad ottobre.

Tgcom

 

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Anguria, come sceglierla e gustarla al meglio

 

Dalla prova del graffio al colore dei semi: ecco cosa tenere d’occhio quando acquistiamo l’anguria e i consigli per conservarla al meglio

Heap of green water-melone outdoor

Scegliere l’anguria perfetta è impossibile? E chi lo ha detto? Certo, capita spesso, soprattutto durante la bella stagione, di comprare un’anguria e non vedere l’ora di addentarne una fetta rinfrescante appena tornati a casa, ritrovandosi però poi con una gran bella fregatura. Ma per evitare queste spiacevoli sorprese basta seguire alcuni piccoli accorgimenti nel momento dell’acquisto e del consumo.

Come scegliere l’anguria

Ricchissima di acqua, l’anguria è anche per tale motivo un frutto dissetante e rigenerante ideale per l’estate. Nell’immaginario collettivo, infatti, una bella fetta d’anguria è lo spuntino pomeridiano ideale per una giornata in spiaggia con gli amici. Per sceglierla bene dal fruttivendolo di fiducia o al supermercato, la prima mossa da fare riguarda l’impatto visivo che trasmette il prodotto che si sta per acquistare. In altre parole, una buona anguria deve avere una forma rigorosamente regolare e ovale.

Per essere certi che sia un frutto maturo al punto giusto, poi, è necessario toccarlo e picchiettare sulla buccia in modo da ascoltare il rumore che ne deriva: se è sordo vuol dire che la maturazione dell’anguria è completa e che quindi non ci sono problemi dietro l’angolo per il palato.

Se invece il rumore è vuoto meglio lasciar perdere, perché si tratta di un’anguria fin troppo matura. E quindi dal sapore e dalla consistenza tutt’altro che gradevoli.

Anguria, l’importanza del colore

Anche il colore della buccia è importante nella scelta di una buona anguria. Quella ideale è verde con striature e, se non si deve acquistare intera, ci si può basare sulla tinta della polpa per un’ulteriore verifica: se è di un rosso intenso, si può stare tranquilli. La buccia deve essere spessa meno di un centimetro e una prova suggerita per capire se si tratta di un frutto adeguato alle nostre esigenze è quella del “graffio”: se provando a staccare la buccia con l’unghia questa viene via facilmente, ciò vuol dire che il punto di maturazione raggiunto è ottimale per un assaggio rinfrescante e saporito. In caso contrario, la buccia non si stacca se il frutto è ancora acerbo.

Inoltre, occhio anche al colore dei semi: se bianchi indicano che l’anguria è acerba. Il picciolo, invece, non deve essere secco, perché in tal caso starebbe ad indicare un frutto raccolto molto tempo prima rispetto alla sua messa in vendita. Se al contrario il picciolo è morbido si tratta di un esemplare giunto alla maturazione esatta. Se poi dal picciolo fuoriesce del succo di colore arancione, vuol dire che si è in presenza di un’anguria matura e dal sapore zuccherino.

Come conservare e gustare l’anguria

Per conservare al meglio l’anguria è da evitare l’errore comune della pellicola trasparente adagiata sul frutto già affettato. Piuttosto è consigliabile conservarla in frigo già tagliata a pezzi medio-grandi e priva di buccia. Per esaltarne il gusto, invece, bisogna prima di tutto ricordarsi che l’anguria andrebbe consumata fresca, a fette, a cubetti o in una bella macedonia di frutta. Oltre alla classica fetta al naturale, l’anguria si può anche mangiare all’interno di spiedini di frutta mista o sotto forma di granita: basta frullare la polpa senza semi e mischiarla con zucchero e succo di limone.

http://www.lacucinaitaliana.it/news/trend/anguria-come-sceglierla-e-conservarla/?utm_source=facebook.com&utm_medium=marketing&utm_campaign=lacucinaitaliana

 

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MINI ANGURIA - Le varietà Cora Seeds

 

Nikas F1 (diploide): Ibrido precoce con pianta compatta, molto facile da gestire, con ottima allegagione dei frutti. Le operazioni di raccolta si possono effettuare in pochi passaggi, grazie all'uniformità di maturazione. Il frutto pesa mediamente 2 kg e presenta una buccia di colore verde scuro striato e lucido. La polpa è di un'ottimo colore rosso, croccante, gustosa, con micro semi presenti in un numero limitato. Inoltre il frutto risulta essere resistente durante il trasporto, per via di una buccia spessa. La presenza di microsemi è una peculiarità importante, offrendo i vantaggi produttivi di una coltura diploide ma allo stesso tempo mantendo caratteristiche tipiche delle senza semi come lunga conservazione e l'ottimo sapore. Per questi motivi rappresenta una valida alternativa alle varietà triploidi. Inoltre non è necessario l'uso di dell'impollinatore, permettendo la riduzione dei costi di produzione ed una migliore gestiore agronomica.

CRX 10085 F1 (diploide): Mini anguria del peso di 2 kg, con ciclo medio precoce, mediamente vigorosa e molto produttiva. Il frutto è di forma rotondeggiante con buccia verde scura striata e di medio spessore. La polpa è rossa, croccante, molto zuccherina e con microsemi in numero limitato. Questa varietà permette di mantenere una pezzatura equilibrata e ridotta anche in coltivazioni di pieno campo in piena estate.

Denise F1 o CRX 10401 (triploide): Minianguria seedless del peso di 2-3 kg di forma rotonda con polpa rossa estremamente dolce e croccante. Ha la peculiarità di essere molto produttiva, ben calibrata, particolarmente resistente alla tenuta in post raccolta, grazie al buon spessore e alla buccia. La pianta è molto rustica, vigorosa e coprente, con ciclo medio precoce. Fornisce elevate produzioni di calibro molto omogeneo. E' ideale per l'export e la grande distribuzione.

CRX 10048 F1 (impollinatore): Ibrido diploide a buccia tigrata, con pianta compatta molto precoce. Produce un frutto rotondeggiante del peso medio di 1,5 kg con polpa molto zuccherina e dolce con presenza all' interno di microsemi. Elevata la produttività. Data la notevole precocità è un ottimo ibrido indicato come impollinatore per le varietà seedless.

http://agronotizie.imagelinenetwork.com/vivaismo-e-sementi/2014/02/20/le-angurie-oggi-sono-mini/36401

 

 

 

CETRANGOLO o Tortarello

Il tortarello, varietà di melone consumato già all’epoca degli antichi romani.

 (Cucumis melo var. flexuosus), è una pianta rustica erbacea annuale, appartenente alla famiglia delle Cucurbitacee.  Si tratta di una particolare varietà di melone, utilizzato come ortaggio. Si raccoglie ancora immaturo e si consuma crudo alla stessa maniera del cetriolo.

E’ un prodotto coltivato nel versante adriatico dell’Italia meridionale,  in particolare in Abruzzo, Molise e Puglia. Si tratta di un ortaggio poco conosciuto al di fuori delle aree di produzione, coltivato prevalentemente su scala familiare, che rischia di scomparire.

Il tortarello è un alimento caratteristico della dieta mediterranea, consumato fresco nella stagione estiva. Può essere utilizzato anche senza togliere la buccia. Molto gustoso, si presta ad essere consumato da solo, con l’aggiunta di un pizzico di sale o condito con aceto e olio.  La ricetta classica del vastese  e dell’Abruzzo in generale, è in insalata assieme al pomodoro, condito solo con olio e sale o con l’aggiunta, a secondo delle tradizioni di famiglia, di aglio, cipolla, origano, sedano o peperoni verdi.  E’ molto ricco di acqua e possiede proprietà  rinfrescanti, depurative e che facilitano le funzioni urinarie. Il tortarello è decisamente più digeribile del cetriolo ed è raramente amaro, come talvolta accade per quest’ultimo.

 

 Del tortarello sono note 3 varietà: il tortarello abruzzese, il tortarello barese, il tortarello siciliano (detto cetrangolo).

Il frutto del tortarello abruzzese è di colore verde chiaro, lungo dai 45 agli 80 cm. Presenta un aspetto ritorto, in particolare nella parte terminale del frutto. La  buccia, non tomentosa, presenta scanalature longitudinali.  I frutti si raccolgono, ancora immaturi, solitamente quando raggiungono i 40-50 cm.  E’ una pianta facile da coltivare, a rapido accrescimento, vigorosa e molto produttiva.

Il tortarello verde barese, coltivato prevalentemente in Puglia, è di colore verde scuro,  con la buccia che presenta una leggera peluria caduca. Si consuma allo stesso modo del tortarello abruzzese. Altri ortaggi simili, coltivati in particolare nel leccese, sono anche il carosello e il barettiere.

Il tortarello siciliano (o cetrangolo), coltivato prevalentemente in Sicilia, per caratteristiche e sapore è molto simile al torarello barese, ma possiede diametro decisamente più sottile (massmo 4/6 cm). E’ chiamato localmente “cocòmmero” o “cetrangolo”.

 

CAROSELLO

 

Il carosello è una cucurbitacea appartenente  ad una popolazione locale della specie Cucumis melo L., caratteristica dell’area ionico-salentina e chiamata nel dialetto locale "carusella".

Si tratta di un prodotto ortofrutticolo che si consuma ancora immaturo in alternativa al cetriolo, rispetto al quale risulta più digeribile; il carosello ha un peso variabile tra 50 e 300 g, la polpa è di un verde chiaro, più dura di quella del cetriolo, ma croccante e piacevolissima al palato, è caratterizzata da una maggiore dolcezza, che varia a seconda del grado di maturazione in cui viene raccolto.

Spesso il carosello viene erroneamente confuso con il barattiere, considerati come un unico ecotipo: in realtà sono due prodotti che appartengono a due popolazioni differenti e che possono essere distinti sia per alcuni caratteri botanici (ad es. la biologia fiorale) che per forma, dimensione e composizione del frutto.

La regione Puglia ha inserito il carosello nell'elenco dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani col nome di ‘carosello di Manduria’, ‘carusella’.

 

 

 

Nel massiccio etneo la cerasicoltura riveste un ruolo rilevante estendendosi dalle aree rivierasche a circa mille metri di altitudine.

Il ciliegio si presenta raramente con impianti specializzati, bensì si trova più frequentemente in coltura consociata con altre specie arboree: dal limone nelle prime propaggini collinari, alla vite o altre drupacee o pomacee alle quote più elevate, con piante disposte irregolarmente o a filari lungo linee di confine tra appezzamenti limitrofi. Presente nel territorio in maniera sparsa sin dal XVII secolo, oggi la sua presenza si rileva più diffusamente sul versante orientale dell’Etna, trovando la sua più elettiva localizzazione nelle aree collinari. Presente a macchia di leopardo, in alcune zone caratterizza l’economia agraria dei singoli territori, particolarmente Giarre e Mascali in bassa collina, nonché a quote più elevate Santa Venerina, Trecastagni, Viagrande e Zafferana Etnea.

Nell’ambito di tali aree esso assume connotati differenti soprattutto in riferimento alle varietà e quindi all’epoca di maturazione e alle caratteristiche dei frutti. Nelle zone a quote più basse la coltura si esprime prevalentemente con cultivar a maturazione precoce; i mercati sono infatti molto interessati alle ciliegie delle varietà Maiolina, Maiolina a grappolo e Napoleone precoce. Altrettanto apprezzate, fino alla piena estate, sono le ciliegie dei territori di Viagrande, Trecastagni e comuni limitrofi, di cultivar a polpa dura, tra cui le rinomate Mastrantonio o Ciliegia di don Antoni, Napoleona, Raffiuna e numerose altre. Uno dei connotati caratterizzanti la cerasicoltura dell’Etna appare infatti la notevole ricchezza del patrimonio varietale; questa è espressione della antica coltivazione della specie, della necessità di consociare accessioni diverse per poter superare i frequenti fenomeni di autoincompatibilità, della esigenza di adattare la specie ad ambienti microclimatici differenziati, della opportunità di articolare temporalmente i calendari di maturazione e di offerta del prodotto. Tale privilegio viene ulteriormente esteso in virtù del gradiente altitudinale del territorio investito a questa coltura, che se da un lato consente di ampliare il periodo di offerta dei frutti di una singola varietà, dall’altro permette di intercettare interamente il calendario anticipando le varietà precoci o ritardando le tardive.

Nel contesto della valorizzazione della cerasicoltura etnea, un ruolo importante è rivestito anche dal recente conseguimento della denominazione DOP “Ciliegia dell’Etna”, che prevede la Ciliegia di Don Antoni come unica varietà, distinguendosi per la bassa acidità associata alla croccantezza e ad un buon tenore zuccherino dei frutti.

 

 

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MAIOLINA

 

"La Maiolina, trattandosi di una varietà molto precoce, di norma già alla fine di aprile è matura. Essendo la prima a maturare e ad arrivare sui mercati, il prezzo è sostenuto. La Ciliegia dell’Etna varietà Maiolina spunta un prezzo in campagna di 3-4 euro al chilo, mentre nei banconi degli ortomercati viene venduta a 7-10 euro al chilo.

La Ciliegia Maiolina, detta anche a grappolo, è di colore rosso o rosso intenso, secondo il grado di maturazione del frutto. Il frutto, di forma sferoidale, racchiude il nocciolo. La polpa è tenera, dal gusto moderatamente dolce, con un grado Brix di 16,5 e un’acidità di 0,63 (g/100 ml). "La Maiolina si raccoglie man mano che matura, a scalare, poi la si abbandona, per passare alla varietà Napoleone".

http://www.cittadelleciliegie.it/

 

 

 

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Si chiama ‘Mastrantoni” una delle varietà di ciliegia dell’Etna che ha ottenuto il marchio Dop. Il nome suona molto caratteristico. E in effetti lo è. Come spiegano i produttori, la denominazione deriva dalla varietà nata in maniera spontanea, “Don Antonio” (o “Mastrantonio”, appunto), a Tre- castagni. Si tratta di un ibrido spontaneo originatosi da un seme di Raffiuna e si presenta come un frutto di buona pezzatura con polpa croccante e di ottimo sapore.

E' stato scoperto che la Mastrantonio, caratterizzata grazie al lavoro dell’Unità operativa dell’assessorato di Giarre, in una sua fase di maturazione ha un concentrato di antociafine superiore persino alle arance rosse.

Un’annata da dimenticare Produzione in calo dell’80%

È un’annata da dimenticare, per i produttori cerasicoli, quella del 2007. Gli operatori accusano una moria di fiori, e dunque della produzione dell’80%, dovuta alla monilia, che ha compromesso la resa delle piante. E al danno, sostengono i produttori, è seguita la beffa, perché i quattro giorni pressoché ininterrotti di pioggia, a giugno, hanno ulteriormente ridotto quanto era riuscito a salvarsi dalla precedente minaccia. La produzioni è stata quindi ridotta al lumicino, costringendo gli operatori a rivedere anche i piani di commercializzazione. Sui danni subiti dalla Ciliegia dell’Etna il parlamentare regionale Fausto Fagone ha presentato un’interrogazione all’Ars.

È del 30 novembre 2006 il decreto per la Protezione transitoria accordata a livello nazionale alla denominazione «Ciliegia dell’Etna», «per la quale — si legge — è stata inviata istanza alla Commissione europea per la registrazione come Denominazione di origine protetta». Il decreto fa riferimento a «una piattaforma varietale composta dalle seguenti tipologie locali o ecotipi: la Mastrantonio, la Raffiuna, il gruppo Napoleona (precoce-verifica-forestiera) e la Maiolina».

Quindi indica la zona di produzione che «comprende in tutto o in parte il territorio amministrativo dei comuni di Giarre, Riposto, Mascali, Fiumefreddo di Sicilia, Piedimonte Etneo, Linguaglossa, Castiglione di Sicilia, Randazzo, Mito, Zafferana Etnea, Santa Venenna, Sant’Alfio, Trecastagni, Pedara, Viagrande, Nicolosi, Ragalna, Adrano, Bianca- villa, Santa Maria di Licodia, Belpasso, Aci Sant’Antonio, Acireale».

http://ciliegiaetna.blogspot.it/2007_11_01_archive.html

 

 

 

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Il melo è tra le specie più rappresentative della frutticoltura del territorio etneo. L’ampia adattabilità di questa specie ad ambienti più freddi ne consente, infatti, la presenza lungo le pendici del vulcano a quote più elevate rispetto a quelle raggiungibili da altre specie (fino a 1500 m s.l.m..

Si può senz’altro affermare che la diffusione sul massiccio etneo del melo è relativamente maggiore rispetto a quanto si registra in altri contesti dell’isola. La fascia altitudinale maggiormente interessata alla melicoltura è quella compresa tra i 600 e 1400 m di quota, mentre gli areali maggiormente interessati alla coltivazione sono quelli ricadenti nei comuni di Zafferana Etnea, Milo, Sant’Alfio e Mascali per quanto riguarda il versante orientale e Pedara, Nicolosi, Ragalna, Biancavilla, Adrano per quanto riguarda il versante sud-occidentale.

Fino alla prima metà del secolo scorso la melicoltura ha rivestito nell’ambiente etneo un ruolo strategico, esprimendo una sorta di unicità all’interno del comparto frutticolo siciliano. In questo ambiente infatti il melo ha trovato condizioni pedoclimatiche idonee a soddisfare le sue particolari esigenze bioagronomiche, sia pure spesso in assenza di apporti irrigui e di concimi. Era la melicoltura tradizionale che si avvantaggiava dell’utilizzo di soggetti franchi, spesso identificati come selvatici, e, almeno per i primi periodi d’impianto, dell’uso generalizzato di terreni di origine boschiva, notoriamente apportatori di fertilità residua.

La realizzazione di diversi impianti in condizione limite, sia per quota altimetrica che per giacitura, che per accessibilità, testimoniano dell’interesse che la coltura ha riscosso. Tale interesse giustifica anche la presenza dell’elevato numero di cultivar e accessioni locali coltivate quale risultato di una stratificazione colturale e di un’attenzione che è rimasta viva fin quando i limiti orografici e strutturali erano ancora poco determinanti sulla sua redditività; la fine del localismo e l’arrivo massiccio di prodotti da altre regioni coincidono con l’inesorabile e rapido declino. A tradizionali impianti basati su tali cultivar locali, negli ultimi decenni si sono affiancati, ove consentito dalle condizioni morfo-pedologiche, quelli realizzati con le moderne varietà e con protocolli di coltivazione più razionali. Non sono infrequenti sull’Etna i meleti specializzati o in consociazione con la vite, basati su moderne varietà del tipo “delicious” ad epicarpo rosso,

innestate su portinnesti selezionati, che in qualche modo sono riusciti a rivitalizzare economicamente il comparto. Tuttavia oggi l’interesse nei confronti del patrimonio frutticolo tradizionale dell’Etna travalica il mero aspetto economico ed investe più in generale la problematica della salvaguardia del germoplasma. Attualmente il panorama varietale è dominato da numerose cultivar locali, in alcuni casi oggetto di rivalutazione sul mercato in funzione di alcune pregevoli caratteristiche di qualità. Molto apprezzate sono ad esempio le mele Cola e Gelato cola ad epicarpo bianco-cremeo; il quadro delle cultivar ad epicarpo rosso è meno definito per la più massiva presenza di varietà di introduzione anche recente.

Accanto a quelle ricordate, numerose altre cultivar locali si rinvengono ancora sull’Etna e rappresentano un patrimonio genetico meritevole di essere raccolto, descritto e conservato

 

San Giovanni - Le mele di San Giovanni sono le prime mele a maturare sull’Etna, sono piuttosto rare e si trovano prevalentemente alle quote più basse. L’albero è scarsamente vigoroso e presenta portamento ricadente, la produzione è soggetta ad alternanza; le foglie sono ellittiche e hanno margine bicrenato e picciolo corto; i fiori sono abbondanti, piccoli, con petali ellittici e liberi, la fioritura avviene nella II decade di aprile. I frutti sono molto piccoli, di forma conica breve, con peduncolo lungo e di medio spessore, la buccia è gialla, sottile, liscia, priva di sovraccolore; la polpa è bianca, compatta, acidula e succosa, a maturazione avanzata perde sapidità e consistenza. Si raccoglie nella II decade di luglio, si conserva per breve tempo, si utilizza come frutto fresco.

 

 

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La pericoltura dell’Etna è ancora ricca di numerose accessioni a frutto medio o medio-piccolo tra le quali risulterebbero esclusive, o quasi, Buccadama, Chiuzzu, Falcuneddu, Ialofru, Iazzolo, Iazzuleddu, Moscatello, Rosa, Sanamalati etnese, Savino, Spineddu, Ucciarduni. Esse coprono per intero, quanto ad epoca di maturazione, il periodo compreso tra giugno e ottobre, senza contare le cultivar i cui frutti richiedono il passaggio in fruttaio dove maturano durante il pieno inverno; numerose altre cultivar locali non esclusive del territorio etneo sono presenti.

Rappresentato è il gruppo delle cosiddette perine (San Giovanni, Rosa, Facci bedda e Moscatello) i cui piccoli frutti sono conosciuti ed apprezzati sui mercati locali.

LE VARIETA' PIU' DIFFUSE IN QUESTO MESE

 

ANGELICO - Cultivar poco diffusa. La pianta è di medio vigore con portamento eretto; le foglie sono piccole, lanceolate, con margine seghettato e picciolo di media lunghezza; i fiori di media dimensione, con petali arrotondati e accavallati fioriscono nella prima decade di aprile. I frutti hanno forma ovoidale, pezzatura piccola, epidermide di medio spessore di colore giallo verde tendente al giallo intenso con lenticelle grandi e ben visibili; la polpa è morbida, dolce, succosa, delicatamente aromatica e profumata ma tende ad ammezzire rapidamente e contiene delle sclereidi. Cultivar con scarsa resistenza alle manipolazioni e poco idonea alla conservazione, si raccoglie nella II decade di luglio e si utilizza per il consumo fresco.

COSCIA - Anticamente denominata più pudicamente Gambi di donna, è la cultivar di pero più diffusa ed apprezzata dell’Etna. L’albero è di medio vigore, con portamento semiaperto; le foglie sono obovate con apice appuntito, margine crenato e picciolo corto; i fiori sono piccoli con petali separati di forma ovale, fiorisce nella II decade di aprile; i frutti, di forma piriforme hanno buccia sottile di colore verde chiaro tendente al giallo con lieve sovraccolore rosso sulla zona esposta al sole, si raccolgono tra la III decade di luglio e la II di agosto, si consumano prevalentemente allo stato fresco, con la refrigerazione è possibile protrarre la conservazione fino a tutto dicembre; si presta anche alla trasformazione in succhi e marmellate. La polpa è bianca, di tessitura fine, fondente e zuccherina, di ottimo sapore; il peduncolo è corto e robusto.

GENTILE -  Questa cultivar di origine nazionale introdotta negli anni ’40 dalla Stazione Sperimentale di frutticoltura e agrumicoltura di Acireale per ampliare l’offerta delle cultivar precoci, ha trovato diffusione e apprezzamento soprattutto nelle zone più basse del territorio. L’albero vigoroso e densamente ramificato ha portamento aperto, le foglie sono grandi, subrotonde, con margine intero e picciolo di media lunghezza; i fiori di media dimensione, con petali ovali e separati sbocciano nella I decade di aprile. I frutti di dimensione medio piccola sono piriformi troncati, la buccia è di colore prevalentemente verde chiaro e solo alcuni frutti presentano lieve sovraccolore rosso. La polpa è bianchissima, fondente, zuccherina, meno sapida nei frutti pienamente maturi; si raccoglie nella I decade di luglio e si consuma come frutto fresco subito dopo. Scarsa l’attitudine alla conservazione in frigo e la resistenza alle manipolazioni

IAZZOLO - Cultivar apprezzata e diffusa in tutta la Sicilia. L’albero di medio vigore ha portamento fastigiato, le foglie sono subrotonde di media dimensione; i fiori hanno petali ovali, separati e margine intero, fioriscono nella II decade di aprile. I frutti di piccola pezzatura hanno peduncolo di media lunghezza, sottile, inserito obliquamente rispetto all’asse del frutto, la buccia si presenta di colore verdegiallo, punteggiata, priva di sovraccolore, caratteristico è il calice grande ed aperto. La polpa è bianca, profumata, leggermente aromatica e mediamente zuccherina. La maturazione avviene tra la I e la II decade di agosto. I frutti sono mediamente resistenti alle manipolazioni e ai trasporti e possono essere conservati in magazzino per qualche settimana. 

MOSCATELLO NERO -  Cultivar poco diffusa, l’albero è vigoroso con portamento eretto e media produttività, le foglie strette e di media grandezza hanno forma subrotonda, margine intero e picciolo corto; i fiori di media grandezza hanno i petali di forma ovale e margine inciso, la fioritura avviene nella II decade di aprile. Il frutto è molto piccolo con peduncolo corto di medio spessore, la buccia, di una caratteristica colorazione violacea fino all’invaiatura, vira al giallo intenso con sovraccolore rosso porpora a maturazione, la polpa è bianco-gialla, fine, mediamente succosa, poco aromatica e zuccherina. Matura nella II decade di luglio, si consuma allo stato fresco. 

PUTIRI D'ESTATE - Corrisponde alla Butirra estiva, il cui nome fa riferimento alla delicatezza e succosità della polpa. Cultivar ancora molto diffusa e apprezzata, seconda per importanza dopo la Coscia, ma le cui superfici negli ultimi decenni sono andate via via contraendosi. L’albero è vigoroso, con portamento eretto e media densità della chioma; le foglie di media grandezza hanno forma obovata, margine seghettato, e picciolo lungo, sulla pagina superiore spesso sono visibili delle tipiche aree decolorate circolari. I fiori di media dimensione hanno petali ovali e separati, sbocciano nella I decade di aprile; i frutti hanno media dimensione e sono calebassiformi, con peduncolo di media lunghezza e spessore inserito in modo obliquo rispetto all’asse, buccia di colore verde uniforme o con sfaccettatura rosa nei frutti esposti al sole, rugginosità assente. Polpa bianca, fondente, zuccherina, con profumo e aroma delicato, cuore piccolo. Si raccoglie tra la II decade di luglio e la II decade di agosto e si consuma poco dopo. I frutti sono poco resistenti alle manipolazioni e tendono ad ammezzire, è possibile la conservazione in celle frigorifere fino alla fine di dicembre

Fonte: Antichi frutti dell'Etna, di C. Bonfanti, A. Continella, A. Gentile, S. La Malfa

 

Il melone che ha origine nel comune di Paceco è il soggetto del nostro approfondimento di oggi. Paceco, situata in Sicilia, vicino Trapani, ospita il melone giallo IGP, uno dei prodotti più antichi dell’agricoltura trapanese. Il sapore del melone di Paceco (detto anche Cartucciaro) è molto dolce, grazie all’idoneità dell’ambiente trapanese.

Il melone cartucciaro di Paceco si differenzia dagli altri meloni gialli per la peculiarità delle forma, più allungata, meno regolare, con la punta ricurva e la buccia liscia e gialla, ma anche per la sua polpa particolarmente succosa.

Il melone giallo, anche se meno famoso rispetto all’anguria, è anche stato rinominato ‘’melone d’inverno’’ perché è capace di mantenersi per lungo tempo. Anche se è noto per essere consumato come un frutto è in realtà della stessa famiglia di cetrioli e zucchine.  Già dal mese di giugno si possono osservare coltivazioni piene di meloni gialli. Il melone giallo è ricco di potassio e vitamine A e C, contiene anche calcio, fosforo e ferro. Ha un alto indice di sazietà, per cui è molto indicato nelle diete ipocaloriche. Ha spiccate proprietà dissetanti ed è un ottimo diuretico.

http://distagione.net/2016/08/26/melone-di-paceco-dolcissimo-frutto/

 

Perfetti a fine pasto, i meloni sono ormai entrati di diritto in uno dei classici antipasti estivi, insieme al prosciutto crudo. Provateli anche insieme ai gamberi, come secondo sfizioso, o magari accompagnati a del riso, per un inconueto piatto unico; provate anche a grigliarlo, vi stupirà! A proposito di griglia, e visto che l'estate è la stagione delle cotture alla brace, provate anche con le pesche. Potete poi accompagnarle a formaggi erborinati o anche con foie gras. Oppure trasformarle in un dolce facile e goloso: magari insieme a un po' di ricotta, di sciroppo o di gelato.

 

 

 

 

Una coltivazione di avocado alle pendici dell'Etna

Il 30enne Passanisi: «Meglio la terra del tribunale» FLAVIA MUSUMECI 4 DICEMBRE 2016

 

CRONACA – La crisi del mercato dei limoni, la passione per l'agricoltura e un viaggio in Brasile. Così nasce la coltura del frutto di origini sudamericane che viene prodotto a San Leonardello, vicino Carrubba di Giarre. Una produzione di 100mila chili concepita da un laureato in Giurisprudenza.

Alle pendici dell’Etna ha trovato il suo habitat un frutto di origine sudamericana. Complici il clima, il terreno vRisultati immagini per avocado etna andreaulcanico e la purezza dell’acqua, l’avocado - frutto amato dagli indigeni Aztechi e Maya - è diventato un prodotto biologico siciliano richiesto ed esportato in Italia e in Europa.

Chi ha creduto nel progetto Sicilia Avocado - dieci ettari di terra coltivati a San Leonardello (nei pressi di Carrubba di Giarre) e una produzione di 100mila chili di frutti verdi all’anno - è Andrea Passanisi, trentenne catanese, imprenditore e agricoltore di terza generazione. L’idea arriva dopo un viaggio in Brasile, «ai tribunali ho preferito la terra», racconta a MeridioNews Andrea, laureato in Giurisprudenza e con la passione per l’agricoltura ereditata dal nonno.

Sicilia Avocado è diventato in pochi anni un brand, «un modo per raccontare il bello della Sicilia - prosegue l’imprenditore -. Un’Isola di tradizione e innovazione, di passione e intraprendenza». Sono sei i dipendenti che ogni giorno si dedicano alla coltivazione e alla raccolta dei frutti. E il fattore umano sembra essere uno degli ingredienti del successo dell’operazione. «Questi terreni raccontano la storia di tre generazioni», spiega Andrea, oggi delegato provinciale di Coldiretti giovani Impresa Catania.

A lavorare quelle terre è stato per primo il nonno viticoltore. Ci ha pensato il padre, poi, a convertire i terreni in agrumeto, ma è la crisi del mercato dei limoni ad aver richiesto un cambio di rotta. «Il limone si vendeva a poco. Qual era l’opzione - si è chiesto Andrea - lasciare tutti a casa?». La risposta è arrivata nel 2013 con il suo progetto e adesso il delegato di Coldiretti vorrebbe riunire imprenditori e agricoltori siciliani in un consorzio. «Dobbiamo uscire dall’ottica individualista che ha contraddistinto la Sicilia – ha spiegato - e unire le forze per creare eccellenza».

http://catania.meridionews.it/articolo/49486/una-coltivazione-di-avocado-alle-pendici-delletna-il-30enne-passanisi-meglio-la-terra-del-tribunale/

 

 

 

 

IL GELSO NERO

è coltivato per i suoi frutti, considerati particolarmente gustosi e ricchi in principi nutritivi. Gli usi medicinali dei frutti di gelso sono decantati da Plinio che narra che presso i Romani i frutti acerbi del gelso nero, portati addosso, arrestavano le emorragie; mentre quelli maturi, uniti a miele, agresto secco, mirra e zafferano, davano un medicamento che veniva consigliato per combattere il mal di gola e i disturbi di stomaco Notizie delle proprietà medicamentose del gelso si trovano anche nella medicina tradizionale cinese, dove viene considerato epatoprotettore, rinforzante delle cartilagini, diuretico e normalizzatore della pressione sanguigna.

 I frutti, chiamati more, si raccolgono scalarmente, prelevando quelli maturi molto delicatamente, staccandoli con una leggera pressione delle dita. Va posta molta attenzione alla raccolta , che macchiano pelle e soprattutto tessuti. Essendo rapidamente deperibili, si conservano in frigo solo per qualche giorno. Il gelso bianco è poco usato come pianta da frutto per via del sapore dolciastro, tendente all’acidulo, dei suoi frutti, che venivano considerati lassativi e antibatterici contro il batterio coinvolto nella carie dentale.

 I gelsi contengono un alto quantitativo di ferro, circa 185 mg per 100 gr di frutti; una cosa assai rara tra i frutti di bosco, e pochissime calorie, circa 43 per 100 gr.

 Il gelso nero, presenta frutti di colore nero-violaceo saporiti, ricchi di antociani,preziosissimi antiossidanti presenti in tutti i vegetali di colore nero, viola e rosso, con azione vasoprotettrice. Nella corteccia della radice, impiegata come diuretico, purgante, ipoglicemizzante ed antianemico, è contenuta la morusina, un flavonoide con azione analgesica ideale nei casi di dolori alle terminazioni nervose (nella cute, sottocute, muscoli, fasce muscolari, articolazioni, periostio, sistema vascolare).

 Secondo la moderna fitoterapia, le foglie dei gelsi, in infusione, sono efficacissime contro il diabete. L’infuso si ottiene facendo bollire mezzo litro d’acqua, sminuzzandovi poi una manciata di foglie e lasciando riposare il tutto per 10 minuti. Preso nella misura di una tazzina prima dei pasti principali, è anche un ottimo coadiuvante in caso di glicosuria(presenza di glucosio nelle urine). Questo infuso è indicato anche nei casi di ipertensione e contro la diarrea. Dai frutti, invece, si ricava unosciroppo ad azione leggermente astringente (sciroppo di more),usato in farmacia, che è anche un ottimo collutorio per gargarismi in caso di mal di denti e di gengive infiammate. Gli stessi gargarismi si possono effettuare anche con l’infuso di foglie. Il decotto, ottenuto dalla corteccia (da 5 a 12 gr. ogni mezzo litro d’acqua), ha effetti purgativi ed è indicato nei casi di insufficienza renale e nella cura del diabete.

 http://www.siciliafan.it/gelso-nero/

 

 

 

 

 

 

 

RUCOLA SELVATICA

 

La Rucola Selvatica o Rughetta Selvatica (varie specie di Diplotaxis) appartenente alla stessa famiglia della Rucola Domestica (Brassicaceae) ma ad un genere diverso, il genere Diplotaxis. É spesso confusa con quella domestica per il sapore molto simile ma, è un altro tipo di pianta.

Quest'altro genere di pianta, sempre mangereccia e con proprietà molto vicine alla rucola domestica, è dotata di un sapore più penetrante e piccante.

Cresce ai margini delle strade, dalla zona campestre fino ai monti. Predilige terreni assolati, spesso presente nelle vigne, nei luoghi coltivati e anche negli incolti tra i ruderi e perfino antistante i muri. Le foglie basali sono un po’ carnose, oblunghe, strette, sinuato-dentate o lirato-pennatofesse. I fiori sono piccoli giallo solfini, formanti racemi. Le Diplotaxis sono presenti in circa 30 specie diverse, le più note varietà mediterranee sono la Diplotaxis muralis e la Diplotaxis tenuifolia. Per ovvie ragioni, è molto importante nella raccolta, prediligere quelle piante che crescono in sentieri non vicini al traffico automobilistico

http://www.atuttoportale.it/downloads/rubrica_amica_dimenticata/03_Rucola.pdf

 

 

CAPPERO COMUNE (Chiappiru)

 

Cappero (Capparis spinosa)

Il cappero è una pianta generosa. Ci regala fiori bellissimi dai grandi petali bianchi e dagli stami violacei visibilissimi per l’accentuato contrasto di colore, offrono boccioli e frutti eduli, radici dalle virtù medicamentose, ma più di ogni altra cosa è impagabile la tranquilla bellezza che una pianta di cappero regala ad un muro, sa di casa, di famiglia, di tempo passato. E non diamoci pensiero per le radici, per quanto ben sviluppate, potranno scrostarlo il muro di casa, ma mai portarne al crollo.

Il cappero, Capparis spinosa, famiglia Capparidaceae, è un suffrutice con una lunga radice e molti fusti lunghi fino ad 80 cm. di portamento vario. I fusti, semplici o ramificati, si originano tutti dal colletto radicale. Le foglie, di colore verde nella pagina superiore e glauche in quella inferiore, sono alterne e arrotondate, brevemente picciolate e di consistenza carnosa.

I fiori hanno quattro petali arrotondati e quattro sepali rotondi, sono ascellari e lungamente picciolati. Effimeri, si aprono verso sera e nella mattinata successiva iniziano ad appassire, dal mese di maggio fino alla fine dell’estate.

I frutti sono delle bacche di color verde scuro e forma oblunga. Giunti a maturazione si aprono mostrando un gran numero di semi quasi neri.

 Dove si trova

Pianta tipicamente mediterranea, il cappero riesce ad adattarsi anche in piccoli areali di nicchia nella Pianura padana o in luoghi che riescono a garantire condizioni calde e soleggiate. E’ diffusissimo al sud, frequente al centro, dirada la sua presenza mano a mano che si sale verso nord.

In natura possiamo trovarlo sulle scogliere, in vecchi muri a secco dove affonda le radici fra sasso e sasso, in terreni tendenzialmente aridi e rocciosi.

 Coltivare i capperi dentro ad un mattone

Un metodo originale per avere piante di capperi in giardino è quello consigliato da Francesco Corbetta nel suo “Piante spontanee mangerecce”. Prendiamo un mattone forato chiudiamo con cemento i fori da un lato, rovesciamolo e riempiamo i fori con calcinacci e frammenti di mattone tritati. In autunno cospargiamo il mattone di semi e dalla primavera iniziamo ad annaffiare con estrema regolarità. Per mantenere un livello base di umidità costante mettiamo il mattone all’interno di un sottovaso capiente. In autunno, quando iniziano le piogge, togliamo il sottovaso per evitare ristagni. Nella primavera successiva, a risultato positivo raggiunto, collochiamo il mattone, in un muretto a secco del giardino ben esposto al sole.

Nei vivai oggi è possibile acquistare dalla fine di aprile piante di cappero in vasetto. La scelta del luogo di messa a dimora è basilare per la loro sopravvivenza, non sempre garantita.

Se vogliamo regolare lo sviluppo eccessivo delle piante tagliamo i rami alla fine dell’inverno ad una lunghezza di circa 20 centimetri.

 Cosa e quando raccogliere

I boccioli del cappero devono essere raccolti in modo scalare per seguirne il progressivo ingrossamento. Ogni due o tre giorni visiteremo le piante senza però operare mai una raccolta totale, è meglio lasciare che una parte dei boccioli possa schiudersi e divenire frutti.

Le radici, impiegate come fitoterapico domestico dalle proprietà diuretiche e depurative, si raccolgono in autunno.

I frutti prima della completa maturazione quando stanno già ingrossandosi, ma sono teneri e carnosi con i semi ancora immaturi, teneri e chiari.

 Conservazione dei capperi

Raccogliamo i boccioli dei capperi e puliamoli con un panno leggermente umido. Stendiamoli e lasciamoli asciugare all’aria, mai al sole, a sera mettiamoli in aceto bianco precedentemente salato oppure in salamoia. Inseriamo un distanziatore fra coperchio e boccioli così che tutti rimangano coperti dal liquido. Durante la “stagionatura” i boccioli che alla raccolta risultano essere di sapore quasi neutro divengono piacevolmente aciduli.

Per mantenerli sotto sale, lasciamoli a bagno in acqua per un giorno intero, cambiandola spesso, poi per due giorni dentro ad un vaso riempito per metà di aceto di vino bianco, agitandoli spesso, infine, dopo averli lasciati scolare ed asciugare per una notte intera, li copriremo di sale.

http://www.giardini.biz/piante/piante-spontanee/cappero/

 

Capperi e Cucunci. Qual è la differenza.

È originaria dell’Asia Minore e della Grecia. Nasce spontanea su terreni calcarei asciutti, ma può essere coltivata. Da maggio a fine estate, è in pieno fermento, e sull’arbusto si trovano contemporaneamente boccioli, fiori profumatissimi e frutti. Nessuno le ha mai dedicato un’ode, ma è uno degli ingredienti fondamentali della cucina mediterranea. È la pianta del cappero (Capperis Spinosa).

 Quel che noi conosciamo come cappero, è il bocciolo non ancora aperto. Se non si coglie, e si lascia sbocciare il fiore, si avrà il frutto, ovvero il cucuncio. Ecco la differenza.

 All’aspetto, i capperi sono più piccoli, mentre i cucunci hanno forma affusolata. I cucunci all’interno hanno i semi, ma se colti al punto giusto, questi non saranno fastidiosi alla masticazione. Organoletticamente, i capperi sono più profumati, i cucunci più carnosi e dalla sapidità più accentuata. I cucunci in commercio si trovano molto spesso con il gambo attaccato, lungo qualche centimetro. Non è necessario. Anzi, a Pantelleria, isola dove questa pianta trova il suo microclima ideale, è uso eliminarlo, anche perché non è buono da mangiare.

 Capperi e cucunci si conservano tradizionalmente sotto sale. Per preparare i capperi, bisogna cogliere i boccioli, lasciarli asciugare al sole per un paio di giorni, e poi riporli in un vaso di vetro, alternando capperi e sale grosso. Serviranno all’incirca la stessa quantità di sale e capperi. Si formerà ogni giorno del liquido, che andrà eliminato. Quando non si forma più, i capperi sono pronti per essere consumati.

Procedimento analogo con i cucunci. Una volta pronti, possono essere tolti dal sale grosso e immersi per la conservazione in una soluzione acetica (acqua e aceto al 50%).

http://www.papilleclandestine.it/rubriche/capperi-cucunci-differenza/

 

 

Capperi lungo le strade di Stromboli (foto mimmo rapisarda)

 

I CAPPERI DELLE EOLIE

 

Il cappero un arbusto di cui si consumano, conservati sott’olio, sotto aceto o sotto sale, i boccioli, detti capperi e i frutti, detti cucunci .

La pianta del cappero, poco colpita da parassiti o malattie, entra in piena attivita’ vegetativa in primavera avanzata. La fioritura inizia nei mesi di maggio e giugno , si protrae durante durante tutta l’estate , diminuisce in autunno sino a raggiungere il riposo nei mesi invernali.

La sua riproduzione avviene per per seme, ma, data la scarsa geminabilità , in realtà è consigliabile affidarsi a quella per talee che, dopo un paio di anni , inizieranno gia’ a produrre parecchi fiori.

La raccolta dei boccioli , che debbono essere raccolti non appena germogliano, avviene nel periodo di fioritura tra lafine di maggio ed i primi di settembre.

La conservazione dei capperi avviene sott’olio, sott’aceto o sotto sale.

I capperi sotto sale sono da preferire al fine di mantenere inalterate le loro proprietà organolettiche ricche di proteine, vitamina A, vitamina E, vitamina C, vitaminaK,riboflavina, folati, niacina, calcio, manganese, ferro, magnesio e rame.

Una volta effettuata la raccolta dei capperi, questi vanno privati del picciolo, lavati e distesi su un canovaccio fino alla loro completa asciugatura.

Sucessivamente vanno invasati disponendo , in modo alternato, uno strato di capperii e uno di sale grosso che dovra’ costituire l’ultimo strato del vaso.

Rippore i capperi invasati  in un luogo fresco, asciutto e senza luce.

Se si dovesse formare del liquido sul fondo del vaso, e’ bene scolarlo e, eventualmente, rabboccare il vaso con altri strati di capperi e sale.

Dopo circa un mese si possono iniziare a consumare e la loro durata e’ di circa 2 anni.

Al momento della consumazione, e’ bene procedere ad un’accurata dissalazione immergendo icapperi per un’oretta in acqua fresca.

http://www.eolie.eu/gastronomia/capperi

 

 

 

 

 

ORIGANO

 

L’ORIGANO IN CUCINA. L’origano si abbina molto bene a carne, insalate estive e naturalmente alla vera pizza napoletana. E’ un ingrediente essenziale anche dell’insalata greca.

L’origano nella cucina abruzzese e molisana. Immancabile nelle ottime insalate di pomodoro; eccellente sul pane abbrustolito con olio e pomodoro, nella carne alla pizzaiola; si utilizza abbinato con carciofi, fave, cipolline e altri prodotti conservati sott’olio; essenziale sulla pizza bianca e al pomodoro e nel pollo al forno con le patate.

L’origano, è l’ ingrediente fondamentale delle “bulde”: un piatto tipico dell’Alto Vastese. Le “bulde” sono una variante locale di torcinello (turc’nell in dialetto pugliese e molisano). Nella variante preparata nell’Alto Vastese, le budella di agnello o capretto, dopo essere state accuratamente lavate, vengono avvolte in mazzetti composti ognuno da una decina di steli di origano, in precedenza “spelati” per conservarne i fiori e le foglie. Oltre a fungere da bastoncini di supporto, l’origano dona alla pietanza un caratteristico aroma. Le bulde vengono poi condite semplicemente con sale e peperoncino e cucinate alla brace. Si consumano specialmente nel periodo pasquale e a Ferragosto.

L’ origano è probabilmente l’erba aromatica più conosciuta e utilizzata della cucina mediterranea.

E’ un ingrediente fondamentale in molti piatti, specialmente dell’Italia meridionale, quali: la Pizza napoletana, la celeberrima “Caprese”, la carne alla “Pizzaiola” e molti altri. Si sposa particolarmente bene con i piatti a base di pomodoro, in special modo in insalata.

L’origano è spontaneo in gran parte dell’Europa e dell’Asia Occidentale e Centrale, ma le piante che crescono nelle regioni mediterranee hanno aroma assai più intenso e deciso.

 

Infatti, in Italia sono presenti 4 specie di origano; Comune, Meridionale, Maggiorana e Siciliano.

 

2) ORIGANO MERIDIONALE (Origanum heracleoticum). ARRIUNU.

Fusto eretto, generalmente arrossato, irto di peli bianchi, patenti o riflessi. Le foglie maggiori con picciolo di circa 5 mm e lamina ovata (12-18 x 22-27 mm), ottusamente dentellate, glabre di sopra, di sotto tomentose sui nervi. L’infiorescenza è poco addensata; le brattee (2-3 mm) sono verdi, coperte di sopra da ghiandole puntiformi dorate, lucide, verdi nel resto; calice 2-3 mm; corolla bianca o rosea 4 mm.

Habitat. Boscaglie rade, cespuglieti da 200 a 1400 m.

Fioritura. Da giugno ad agosto.

Distribuzione. Comune in Italia Meridionale, Sicilia e Sardegna. Segnalato anche nell’Appennino romagnolo, Toscana, Marche e Lazio, ma da confermare.

Note. Il Pignatti riferisce che questo è l’origano che, raccolto nel suo ambiente naturale in Sicilia e nel Meridione, fornisce l’ottimo condimento, di largo uso nella cucina italiana. Si usano le foglie e le parti fiorite, raccolte preferibilmente tra giugno e settembre, seccate all’ombra. L’Origano comune (O. vulgare) ha invece un aroma più acre e meno pregiato: si usa soprattutto per tisane in medicina popolare.

Questa specie – il “vero” origano- sarebbe dunque assente in Abruzzo e Molise. Ci riserviamo come Centro Studi Alto Vastese di effettuare ulteriori ricerche per verificare con precisione gli esemplari comunemente raccolti nel aree più calde e aride del vastese interno che potrebbero appartenere a O. heracleoticum.

3) ORIGANO MAGGIORANA (Origanum majorana), detto anche semplicemente Maggiorana o Persia. Pianta perenne, di origine asiatica e ampiamente coltivata in tutta Italia. Fusto pubescente, foglie ovate o ovato lanceolate (generalmente 5-10 x 8-20 mm), picciuolate, con base ottusa o arrotondata; corolla bianca o rosea.

Habitat. Incolti, bordi di vie.

Fioritura. Da giugno a settembre.

Distribuzione. Comunemente coltivata e subspontanea presso gli orti in tutto il territorio italiano.

  

http://www.altovastese.it/flora-2/origano-le-4-specie-presenti-in-italia-quando-si-raccoglie-e-come-essiccarlo/

 

 

 

 

ROSMARINO

Rosmarino (Rosmarinus officinalis) - Dalle Alpi alle piramidi può sembrare un parallelo esagerato, ma la diffusione del rosmarino non ha conosciuto frontiere: ritrovato all’interno delle tombe egizie unito agli scarabei propiziatori, usato dai romani sui roghi degli altari, distillato come farmaco da Isabella figlia di Ladislao di Polonia… e questo solo per attraversare il Mediterraneo e approdare ai mari del nord.

 Rosmarino, ovunque

 Il rosmarino cresce spontaneo lungo le coste delle isole e dell’Italia meridionale, ma in tutto il territorio è diffuso come aromatica. Altrove lo ritroviamo come pianta sopravvissuta all’abbandono delle vecchie case coloniche.

 Arbusto sempreverde, molto ramificato, in luogo riparato raggiunge un’altezza di due metri.

 Le foglie presentano una tipica colorazione verde scuro sulla pagina superiore che contrasta con il bianco argenteo della pagina inferiore. Lineari, opposte, sessili e molto folte le foglie sono di consistenza coriacea.

 I fiori azzurri si aprono per tutto l’anno se il clima lo consente. Sono presenti alla sommità dei fusti o in grappoli ascellari.

 Terreno e concimazione

 Il rosmarino non necessita di concimazioni particolari. Predilige terreni poveri, sabbiosi, anche con scheletro, sempre permeabili perché non sopporta il ristagno d’acqua.

 Metodi di propagazione

 Il rosmarino si riproduce per seme in primavera o per talea dalla primavera all’autunno, e anche per margotta.

 Il metodo più veloce, e forse anche il più sicuro, anche se effettivamente poco “romantico”, consiste nell’acquistare in primavera le piantine con pane di terra.

 Cerchiamo soggetti vigorosi e senza la minima ferita o scortecciatura. Prepariamo una buca sovradimensionata con fondo idoneo, soprattutto se il terreno del nostro giardino è argilloso o pesante, nell’intento di facilitare la crescita dell’apparato radicale.

 Dove in giardino

 Nelle zone costiere o meridionali dove il gelo è evento raro non richiede protezioni particolari, ma in collina ed in montagna, o nelle zone a clima continentale la tradizione lo vuole addossato ad un muro esposto a sud. Così protetto e ben irraggiato potrà superare la stagione fredda senza bisogno di teli di protezione.

 Le piante vecchie, allargate e con vegetazione rada, localizzata in modo particolare sui rami terminali, sono più soggette al gelo di piante a medio sviluppo con chioma compatta, e più difficilmente difendibili.

 Irrigazione e trattamenti

 Il rosmarino resiste bene a carenze idriche leggere e prolungate, tipico com’è di luoghi secchi, si giova però di irrigazioni mirate nel periodo estivo, una ogni 10 giorni.  Durante inverni molto secchi senza precipitazioni non dimentichiamoci di annaffiarlo con piccole quantità d’acqua, una volta ogni quindici giorni.

 Raccolta e conservazione

 E’ importante non possedere una pianta soltanto di rosmarino perché una gelata improvvisa potrebbe farla seccare privandoci della nostra fonte d’approvvigionamento. Piantiamo quindi più pianticelle di rosmarino nel nostro orto e nel nostro giardino, una ogni due anni sarebbe l’ideale.

 Il rosmarino, secondo le istruzioni del grande erborista Messegue, deve essere raccolto preferibilmente nei mesi di giugno e luglio, ma può essere raccolto in tutti periodi dell’anno durante i quali avviene la fioritura. Tagliamo i rami interi danneggiando il meno possibile la pianta. Leghiamoli a mazzi e lasciamoli seccare all’ombra. Conserviamo i rami avvolti nella carta da panettiere o le singole foglie in vasi scuri.

 Qualche ricetta diversa (Rosmarinus officinalis)

 Una buona tisana da fine giornata si ottiene con una parte di rosmarino secco, una di foglie d’alloro, una di bacche di ginepro. Dolcificare pochissimo.

 Per ottenere un vino liquoroso aromatizzato da servire come digestivo maceriamo 30 grammi di foglie fresche di rosmarino e la parte gialla della buccia di un quarto di limone biologico per una settimana in 100 gr di alcol. Filtriamo e aggiungiamo una bottiglia di vino bianco come potrebbe essere uno zibibbo o una malvasia. Aspettiamo qualche giorno prima di gustare.

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GELSO BIANCO

 Il gelso bianco o moro bianco (Morus alba L.) è un albero deciduo appartenente alla famiglia delle Moraceae, contenente lattice, originario della Cina settentrionale e della Corea. Venne introdotto in Europa verso il XV secolo, principalmente per l'uso delle sue foglie in bachicoltura come alimento dei bachi da seta e si rinviene sporadicamente a seguito di vecchie coltivazioni datate in Europa meridionale, specie in Italia e Spagna, dove la bachicoltura era particolarmente diffusa fino agli anni cinquanta.

Il gelso bianco è un albero ad accrescimento piuttosto rapido, alto fino a 15–20 m, con tronco che si presenta irregolarmente ramificato, chioma densa, ampia e arrotondata verso la sommità. Presenta radici di colore aranciato carico, robuste, profonde ed espanse, poco adatte a terreni secchi e aridi, pur presentando un fitto capillarizio che gli consente di sopravvivere anche in condizioni di moderata siccità. Vegeta in luoghi soleggiati o al massimo a mezz'ombra, e necessita di ampio spazio in quanto raggiunge notevoli dimensioni. Può vivere fino a 150 anni.

La corteccia è giallo-grigiastra con toni più o meno aranciati e cosparsa di numerose lenticelle giallino-biancastre nella pianta giovane, in seguito diviene marrone-brunastro scura, profondamente solcata e screpolata in fasci fibrosi più o meno verticali formanti piccole scaglie allungate. Il legno è duro, compatto, resistente e robusto, ottimo come combustibile e per piccoli lavori d'intarsio. Il durame è bruno scuro, mentre l'alburno è chiaro e di colore bianco-giallastro. Particolarità del gelso bianco è l'avere il cambio cribro-vascolare attaccato alla corteccia, e non all'alburno, come nella stragrande maggioranza delle piante vascolari, e questo ha particolare interesse soprattutto per quanto riguarda le tecniche d'innesto. Tutta la pianta è percorsa, al disotto dei tessuti di rivestimento (corteccia, derma fogliare ecc...), da una fitta rete di canali laticiferi apociziali, ossia formati a partire da poche cellule originarie embrionali polinucleate senza membrane divisorie, che si sono sviluppate e accresciute e ramificate per tutta la pianta, pur non anastomizzandosi con i tessuti circostanti formando un vero e proprio apparato escretore interno. Il lattice, elemento molto comune nella famiglia delle Moracee di cui il gelso bianco fa parte, contenuto nei canali laticiferi è denso e di colore bianco latte ed è irritante. I succhi intracellulari e le foglie contengono elevate quantità di alluminio, variabile in base alla tipologia di terreno in cui un singolo esemplare sviluppa, e vi è motivo di credere che esso non rappresenti un costituente casuale, ma abbia importanza nel chimismo della pianta. Il legno presenta, inoltre, varie molecole come fitoalessine e composti organici ad alto peso molecolare, e trova uso come reagente per la rilevazione chimica di numerosi cationi.

Le foglie si presentano caduche, alterne, distiche, portate da un picciolo scanalato e ornato da piccole stipole laterali caduche. Presentano un elevato polimorfismo, generalmente hanno forma ovato-acuta asimmetrica alla base, ma non di rado sono cuoriformi e in forme intermedie tra le due appena citate. La lunghezza varia dai 7 ai 14 cm e la larghezza è compresa tra i 4 e i 6 cm. La lamina si presenta intera, trilobata nelle foglie tripartite dei polloni basali. I margini sono dentato-seghettati (dentatura triangolare), l'apice acuto e la base leggermente cordata. Entrambe le pagine (superiore ed inferiore) si presentano glabre (senza peluria), di colore verde chiaro in primavera-estate e giallo carico in autunno. Quella superiore è lucida e liscia, quella inferiore scarsamente tomentosa sulle nervature. Il picciolo, leggermente tomentoso, è lungo 2-3 centimetri e presenta scanalature e stipole caduche. Le gemme sono piccole, larghe alla base ed appuntite all'apice, ognuna di esse è formata da 13 a 24 perule e nel fusticino da 5 a 12 foglioline. I giovani sono grigio-verdi, di aspetto liscio e con lunghi internodi, anche se non di rado presentano una fine tomentosità.

Foglie e frutti immaturi di gelso bianco. L'intero frutto è in realtà un'infruttescenza (sorosio) formata da un frutto vero rivestito da un falso frutto, la polpa, che deriva da una parte del calice fiorale ingrossata e divenuta carnosa

Fiori monoici, raramente ermafroditi. Quelli maschili (staminiferi) formano infiorescenze ad amento di forma cilindrica lunghe circa 2-3,5 cm, sono dotati di perianzio quadripartito segmentato e 4 stami producenti polline con filamenti inflessi nel bocciolo immaturo ed eretti durante l'antesi. È presente anche un rudimentale pistillo sterile. Quelli femminili (pistilliferi) si presentano come amenti globosi lunghi 1–2 cm, dotati di perianzio a quattro lacinie glabre erette, opposte a due a due (le esterne di dimensioni maggiori), e pistillo con ovario uniovulato. Lo stigma è glabro. L'ovario si presenta diviso in 2 parti, una delle quali abortisce (pistillo uniovulato), contenenti ciascuna un solo ovulo pendulo campilotropo; lo stilo centrale è diviso fin quasi alla base in due lobi stimmatici ricurvi e l'embrione che si forma a seguito della fecondazione si presenta curvo e accompagnato da albume carnoso, con cotiledoni incombenti e radichetta supera.

Entrambe le infiorescenze sono peduncolate (il fiore femminile presenta peduncolo lungo quanto se stesso) e a prima vista, specie se immaturi, assomigliano a tanti piccoli lamponi verdi di diversa lunghezza. Possono anche fiorire in capolini diclini ascellari. Solitamente i due fiori di diverso sesso sono portati da piante diverse, anche se non sono rari i casi di esemplari con ambedue le infiorescenze sulla stessa pianta. Il gelso bianco fiorisce in aprile-maggio. Unica nel regno vegetale è la velocità di emissione di polline dalle infiorescenze maschili, i cui stami, tramite un rapido movimento, liberano polline espellendolo a circa 560 km/h (oltre la metà della velocità del suono), rilasciando l'energia elastica accumulata durante la crescita in soli 25 µs (microsecondi), il che lo rende il movimento più veloce e rapido conosciuto finora nel regno vegetale.

I frutti, chiamati impropriamente more di gelso, sono infruttescenze composte formate dall'unione di un frutto vero e proprio, le nucule, e un falso frutto, che costituisce la polpa. Il nome corretto di questa infruttescenza è sorosio (botanicamente un falso frutto) e somiglia ad un piccolo lampone o ad una mora di rovo, ma è più grosso ed allungato. I sorosi hanno forma ovato-arrotondata e lunghezza da 1 a 3 cm. Sono costituiti da tante piccole sferule carnose unite tra loro, formate a loro volta da una nucula (frutto vero) ricoperta da un rivestimento polposo, derivato direttamente dal perianzio modificato del fiore femminile che l'ha originata (falso frutto). Queste sferule si fondono tra loro grazie ai rispettivi perianzi che, tramite complesse modifiche fisiologiche, divengono un'unica massa carnosa e succulenta che circonda tutte le varie nucule, formando il sorosio. Queste piccole unità carnose sono false pseudodrupe, hanno forma rotondeggiante (sferica) schiacciata ai bordi e presentano esocarpo sottile, mesocarpo carnoso e succulento ed endocarpo crostoso. Ognuna contiene un piccolo frutto vero, la nucula, dal guscio duro, coriaceo e legnoso e forma rotonda. Il perianzio modificato serve a potenziare la disseminazione dei semi, essendo molto appetito dagli uccelli, che cibandosi dei sorosi assumono anche le nucule contenenti i semi, che poi disperderanno con le feci. Il colore dei sorosi è bianco-giallognolo o rosa-violetto, e sono portati da un breve picciolo. Sono commestibili, la polpa è dolciastra con punte acidule già prima della maturazione, sebbene siano meno gustosi di quelli del gelso nero. Contengono il 22% di zuccheri, e hanno potere edulcorante, sia freschi che ridotti in farina. Una volta fermentati ci si può ottenere un liquore alcolico. I semi sono piccoli, sferici e sono diffusi principalmente dagli uccelli, che si cibano dei sorosi. In Italia e in Europa meridionale il gelso bianco ha trovato un habitat ideale, idoneo alla sua crescita e sviluppo, e in molte zone conclude il ciclo riproduttivo (messa a seme) senza particolari problemi, riproducendosi e moltiplicandosi spontaneamente per seme che, a differenza di molte piante esotiche o importate, non mostra alcun problema di sterilità o difficoltà di germinazione, dimostrando l'ampia adattabilità e naturalizzazione di questa specie.

 

 

 

 

Alberi da frutta

ALBICOCCO GELSO CEDRO PESCO

 

 

 

 

 

 

 

LA RICOTTA SALATA

La produzione: ogni zona ha la sua particolarità. Risultati immagini per ricotta salata vizziniGran parte del procedimento di produzione della Ricotta Salata è, ovviamente, lo stesso utilizzato per fare la ricotta tradizionale. Il siero di latte di vacca, capra o pecora (anche se a volte viene utilizzato il misto capra/pecora), è riscaldato in una caldaia stagnata detta “quarara”. Quando la temperatura del siero raggiunge i 40°-50°, in alcuni casi si aggiunge il sale. Dopo l'affioramento delle ricotte, queste vengono ripulite dalla schiuma con lo “scumaricotta” e poste nelle fiscelle. Le ricotte vengono poi rivoltate e fatte riposare.

 Dopo tre giorni si passa alla fase di salatura, effettuata con 40-50 grammi di sale per ogni forma. Successivamente le forme di Ricotta Salata sono lasciate a stagionare per un periodo non inferiore ai due mesi.

Curiosità: l'agra e i rametti di fico

Il procedimento per ottenere la Ricotta Salatta assume piccole e diverse sfumature, in base alla zona della Sicilia in cui viene prodotta. Alcuni produttori caseari, ad esempio, aggiungo al siero riscaldato l'agra, un miscuglio di fave, limoni e cruschelle di frumento avvolti in teli messi in acqua per due-tre giorni. Questo procedimento ha la funzione di creare uno strato batterico sulle pareti del “sirratizzu” (il recipiente in cui sono contenuti i teli), che garantirà l'acidificazione degli innesti futuri.

In altre zone della Sicilia, invece, si aggiunge la “ficarra”, una soluzione composta da acqua e rametti di fico, che aiuta la fuoriuscita della ricotta dal siero di latte riscaldato.

Vino e Ricotta Salata: un binomio perfetto

La Ricotta Salata si sposa perfettamente con i vini rossi tipici della terra siciliana. Particolarmente indicati per apprezzare al meglio la Ricotta Salata, sono il Cerasuolo di Vittoria e l'Etna Rosso.

http://www.dipasqualeformaggi.it/ricotta_salata.htm

 

 

 

tutte le foto e i commenti sono di Saro Lo Schiavo