Per qualcuno segna la fine delle vacanze e il rientro al lavoro. Per altri, invece, l'inizio di un periodo più tranquillo. Per tutti, però, settembre è il mese in cui i prodotti più prettamente estivi lasciano il posto a quelli di passaggio verso i giorni più freddi, così come man mano cambiano le giornate, così lentamente cambiano profumi, sapori e colori dei nostri cibi.

 

È un carico incredibilmente goloso, quello che settembre porta settembre con sé. Fatto di frutta dolcissima e ricca. Ci sono le prugne e le susine che sono un retaggio della fine di agosto, e l'uva di ogni tipo e colore. Quella da vino, che matura settimana dopo settimana nelle varie zone di Italia che si preparano alla vendemmia, e quella da tavola. Pizzutello, uva fragola, uva spina. Ma anche le più comuni Regina e Italia. Non ci saranno più le angurie più fresche, ma arrivano mele, pere e i frutti di bosco di ogni tipo. Coglieteli ora, se siete così fortunati da vivere accanto a macchie verdi. Fatene confetture, culis per arricchire gelati o creme, crostate, ma non dimenticate che i frutti rossi sono una delle classiche abbinate ai piatti di carne. Ma iI frutti più caratteristici di questo mese sono i fichi, della qualità detta, non a caso, “settembrini”. Altamente zuccherini, deliziosi freschi, golosi anche appena passati in forno o alla griglia, accompagnati da formaggio - ideale il caprino - e miele, si abbinano alla perfezione anche ai sapori salati, come il prosciutto (farciteci la pizza bianca, vi stregherà) speck e così via. Se avete lo spazio ideale provate ad essiccarne un po' per la scorta invernale.

La verdura

I pomodori e le melanzane, protagonisti sulle nostre tavole in agosto, ancora fanno capolino sui banchi del mercato, ma andranno via via perdendo il loro appeal, lasciando il posto alle prime zucche e, nel procedere del mese, bietole e cicorie. Rientrati in città ci saranno, forse, meno occasioni per fare grigliate all'aperto, ma di certo non mancheranno le opportunità per preparare in vario modo le verdure migliori di questi ultimi gironi d'estate: ottime conserve, sottolio e sottaceto, sono spesso il corredo del rientro dalla villeggiatura estiva. Ma per chi si trova in zone dal clima più fresco, settembre tiene a battesimo i primi arrosti e le prime zuppe. Iniziano infatti in questo periodo a fare la loro comparsa le verdure a foglia, spinaci, cicorie, coste, cavolfiori e bietole. Con il primo fresco e le prime piogge autunnali arrivano i funghi. Galletti, finferli, porcini, ovoli, chiodini e prataioli da fare fritti, al forno, trifolati, in insalata, o usati per un sugo o una zuppa, sapranno dare conforto a chi rimpiange gli ortaggi (e le vacanze) dell'estate.

a cura di Antonella De Santis

 

 

ortaggi da frutto: cetriolo, carosello, zucchina, zucca, peperone, melanzana, fagiolino, pomodoro;

 

ortaggi da tubero: patata, topinambur

 

LA PATATA NOVELLA DI SIRACUSA

è un prodotto ortofrutticolo tipico dei comuni di Augusta, Siracusa, Avola, Noto e Pachino, in provincia di Siracusa; non a caso viene denominata anche ‘patata tipica di Siracusa’.

 È una produzione tipica siciliana, che è stata ufficialmente inserita nella lista dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani, dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali.

Viene coltivata nella zona costiera della provincia, per la quale rappresenta la più importante risorsa ortofrutticola, coprendo quasi il 50% della superficie siciliana coltivata a patata, con una produzione che supera il milione di quintali di prodotto.

 La patata novella di Siracusa è caratterizzata da forma ovale allungata, di dimensione medio-grossa, da buccia liscia, sottile e di colore giallo, e da polpa, a pasta gialla, più morbida di quella a pasta bianca.

A differenza della patata novella di Messina, varietà precoce che viene colta tra maggio e giugno, la patata novella di Siracusa si cuoce più in fretta e tiene bene la cottura; viene dunque usata più per piatti cotti o fritti. Le varianti Spunta e Sieglinde, coltivate presso la provincia di Messina, vengono infatti spesso utilizzate come contorno dell'insalata di polpo o nella ghiotta di piscistoccu, piatto a base di tranci di stoccafisso cotti in un intingolo di salsa ottenuta con sedano, olive verdi salate, capperi, salsa di pomodoro, patate.

 In cucina, la patata novella di Siracusa si adatta dunque a molteplici usi: ‘all’insalata’, dopo esser stata cotta al vapore o al forno, per la preparazione della purea, di gnocchi, o come ingrediente delle impanate: focacce dalla forma a mezzaluna, spesso farcite anche con salsiccia, spinaci, tuma e insaccati; nel pizzolo, la famosa focaccia di Sortino, e nelle fritture, come le crocché.

La patata di Siracusa si può trovare, insieme alla buccia grattugiata del limone ‘Femminello’, altro prodotto tipico siciliano nella lista del P.A.T., anche nell’impasto delle tipiche zeppole di San Martino, che vengono realizzate in occasione della festa dell’11 novembre, e consumate anche nelle Festività Natalizie.

 Altri prodotti D.O.P. e I.G.P. della zona della provincia, sono l’olio extravergine d’oliva ‘Monti Iblei’, il pecorino siciliano, l’arancia rossa di Sicilia (che condivide con le zone di Catania ed Enna), il pomodoro di Pachino, il miele di Sortino, la mandorla d’Avola e, naturalmente, il Nero d’Avola, vino rosso siciliano prodotto dall’omonimo vitigno, coltivato presso la zona di Noto e Pachino.

 Autore | Enrica Bartalotta

http://www.siciliafan.it/patata-novella-siracusa-prodotto-agroalimentare-tradizionale-siciliano/

 

 

INSALATA DI SETTEMBRE. 15 RICETTE VELOCI

 

 

 

ZUCCA

Con il termine zucca vengono identificati i frutti di diverse piante appartenenti alla famiglia delle Cucurbitaceae, in particolare alcune specie del genere Cucurbita (Cucurbita maxima, Cucurbita pepo e Cucurbita moschata) ma anche specie appartenenti ad altri generi come ad esempio la Lagenaria vulgaris o zucca ornamentale. Il periodo di raccolta in Italia va da settembre a tutto novembre.

La zucca è comunemente usata nella cucina di diverse culture: oltre alla polpa di zucca, se ne mangiano anche i semi, opportunamente salati. La zucca è un ortaggio che si presta a mille ricette: si consuma cucinata al forno, al vapore, nel risotto o nelle minestre, fritta nella pastella. Particolarmente famosi sono i tortelli alla mantovana, ripieni appunto dell'omonima varietà di zucca.

Dai semi si ottiene un olio rossiccio usato in cosmesi e cucina tradizionale. Anche della zucca si possono usare i fiori, solamente quelli maschili, quelli cioè con il gambo, che si chiama peduncolo, sottile, che dopo l'impollinazione sono destinati ad appassire, da friggere, dopo averli impanati, come quelli delle zucchine.

Nei paesi anglosassoni la zucca è utilizzata per la costruzione della Jack-o'-lantern, caratteristica lanterna rudimentale utilizzata durante la festa di Halloween per scacciare Spiriti maligni che secondo la leggenda vagano sperduti sulla terra e si dice che se una persona o un animale posseduto da uno di questi spiriti si avvicini alla casa in cui è presente una zucca quest'ultima si illumini di un azzurro intenso e lo spirito che tenta di entrarvi viene intrappolato nella fiamma della zucca

La zucca è stata importata in Europa dai coloni spagnoli dall'America

(Wikipedia)

 

 

 

 

 

Friariello

 

I friarelli, detti anche puparuoli friarelli o pipioli, sono un piatto della cucina campana che si basa su una particolare varietà di peperoni. I tipici ortaggi che sono alla base di questo piatto si sono diffusi anche in altre zone e regioni dell'Italia centrale e meridionale, dove sono conosciuti anche con il nome italianizzato di friggitelli.

L'ingrediente base è costituito da una particolare cultivar di peperoni verdi nani e dolci, non piccanti. La cottura avviene per frittura in olio d'oliva, senza alcuna impanatura, immergendo nell'olio di frittura caldo gli ortaggi ben asciutti, interi, lasciando intatto un abbozzo del picciolo che rimane utile la momento del cosnumo.

Si servono nel piatto, spruzzati di sale e ancora caldi, sia come verdura a sé stante sia come contorno di altri piatti. Si consumano senza utilizzo di posate, mangiandoli per intero, afferrandoli per il residuo moncone di picciolo. Ai peperoni possono accompagnarsi patate tenere, tagliate grosse, fritte nello stesso olio di frittura.

 

 

 

 

Il pomodoro a Grappolo di Pachino IGP è una delle tipologie di pomodoro protette dal marchio IGP pomodoro di Pachino. Prodotto di recente introduzione, assomma uno standard qualitativo eccellente dei frutti e una combinazione di resistenze di tutto rispetto.Ottima la resistenza al freddo. I frutti tondi, dal colore brillante e attraente, con il colletto verde molto scuro, di un colore verde mela, senza spalla, raggiungono un colore rosso scuro lucido ed una consistenza eccezionali alla maturazione. Il peso medio si aggira sui 130-160 grammi.

Il pomodoro Tondo Liscio di Pachino IGP è una delle tipologie di pomodoro protette dal marchio IGP pomodoro di Pachino. Piccolo e rotondo, di colore verde scuro, inconfondibile per il gusto molto marcato. E’ molto apprezzato dai consumatori d’oltralpe. I suoi frutti sono di consistenza ineguagliabile.

 

 

I pomodori blu (o pomodori neri, o pomodori viola; blue/black/purple tomato nella letteratura scientifica internazionale) sono cultivar di pomodoro prodotte mediante tecniche di selezione e miglioramento genetico al fine di ottenere, dai frutti, la produzione di grandi quantità di antociani, una classe di pigmenti idrosolubili appartenente alla famiglia dei flavonoidi, responsabili della colorazione scura, blu o viola, di molti frutti, come le more, i mirtilli, e i frutti di aronia.

Alcune di queste varietà di pianta hanno già raggiunto il mercato, con i nomi commerciali "Indigo Rose" e "SunBlack". "SunBlack. (Wikipedia)

 

POMODORO SECCO

 

Nella Sicilia sud-orientale è un‘antica tradizione quella di conservare il pomodoro facendolo essiccare al sole, con sale marino per aiutare la disidratazione. Si otteneva in questo modo la “ciappa” che poi veniva conservata sottolio, mettendo tra le due fette ottenute una foglia di basilico e formaggio pecorino. Chiaramente bisognava consumarle abbastanza rapidamente, ma per conservarle a lungo, basta mettere solo una foglia di basilico tra le due parti, e metterle in un vaso ben sigillato, senza nient’altro. Nel momento di servire, togliere la foglia di basilico vecchia, metterne una fresca, formaggio pecorino e olio d’oliva. Vi assicuro che resterete sorpresi dalla bontà del piatto. Altra variante della conservazione del pomodoro secco è “u capuliatu”, cioè pomodoro secco tritato con basilico e peperoncino, e poi conservato sottolio. Nella tradizione contadina era abitudine, quando si faceva il pane, prenderne uno ancora ben caldo e condirlo con pomodoro secco o capuliatu, ma anche con altre varianti gustosissime, ecco il “pani cunzatu”. Qui di seguito ricette semplici con i “ciappi” e il “capuliatu” e alla fine anche “u pani cunzatu”.

http://www.clabattaglia.it/Default.aspx?tabid=156

 

 

 

Curiosità:  Il pomodoro secco è uno dei pochi modi macrobiotici di mangiare i pomodori. Alimento eccessivamente yin, da crudi sono perfetti se si mangiano molte proteine animali in quanto compensano l'eccesso di sodio della carne con il potassio che contengono. Se si segue una dieta vegana o macrobiotica si rischia un eccesso di acidità e piccoli problemi all'intestino. Seccarli al sole (elemento yang) limita questo eccesso.

 Un po' di storia: Il pomodoro (Solanum lycopersicum, L. 1753, secondo alcuni autori Lycopersicon esculentum, della famiglia delle Solanacee, è una pianta i cui frutti sono bacche dal caratteristico colore rosso alla base di molti piatti della cucina italiana.

 Le parti verdi, compresi i frutti verdi, sono tossici, in quanto contengono solanina, un glicoalcaloide steroidale, che non viene eliminata nemmeno per mezzo dei processi di cottura.

 Il pomodoro è nativo della zona del centro-Sud America e della parte meridionale del Nord America, zona compresa oggi tra i paesi del Messico e Perù. Gli aztechi lo chiamarono xitomatl , il termine tomatl indicava vari frutti simili fra loro, in genere sugosi. La salsa di pomodoro divenne parte integrante della cucina azteca. Alcuni affermarono che il pomodoro aveva proprietà afrodisiache, sarebbe questo il motivo per cui i francesi l'hanno chiamato pomme d'amour, "pomo d'amore". II pomodoro, ancora in certi paesi dell'interno della Sicilia, è indicato anche col nome di pùma-d'amùri, esattamente come nell'equivalente francese "pomme d'amour". Si dice che dopo la sua introduzione in Europa Sir Walter Raleigh avrebbe donato questa piantina carica dei suoi frutti alla Regina Elisabetta, battezzandola col nome di apples of love (pomo d'amore) in francese "pomme d'amour". La data del suo arrivo in Europa è l'anno 1540, quando cioè Hernán Cortés rientrò in patria e ne portò gli esemplari; ma non ebbe assolutamente una coltivazione e diffusione fino alla seconda metà del XVII secolo .

 Arriva in Italia nel 1596 ma solo più tardi, trovando condizioni climatiche favorevoli nel sud del paese, si ha il viraggio del suo colore dall'originario e caratteristico colore oro, che diede appunto il nome alla pianta, all'attuale rosso, grazie a selezioni e innesti successivi.  

Il pomodoro è stato classificato scientificamente per la prima volta da Carlo Linneo nel 1753 nel genere Solanum, come Solanum lycopersicum (lycopersicum deriva dal latino e significa pesca dei lupi).

 Nel 1768 tuttavia Philip Miller cambiò il nome, sostenendo che le differenze dalle altre piante del genere Solanum, quali patata e melanzana, erano sostanziali, tali da giustificare la creazione di un nuovo genere: da qui il nuovo nome scientifico di Lycopersicon esculentum. Questo nome ebbe notevole successo, sebbene fosse contrario alle regole di nomenclatura vegetale, secondo cui, se si sposta la specie in un nuovo genere, il nome della specie (lycopersicum) non deve essere cambiato, ma solo il nome del genere: H. Karst corresse l'errore nel 1881 e pubblicò il nome formalmente corretto Lycopersicon lycopersicum.

 La controversia sul nome scientifico del pomodoro non è tuttavia finita. Innanzitutto il nome di Miller era fino a poco fa il più usato, nonostante l'errore indicato prima. Poi, le moderne tecniche di biologia molecolare hanno permesso di creare precisi alberi filogenetici, che hanno indicato come il pomodoro in realtà faccia parte veramente del genere Solanum, dando sostanzialmente ragione a Linneo. Il nome ufficiale è oggi quindi Solanum lycopersicum, sebbene il nome di Miller rimanga ancora in uso in molte pubblicazioni.

In generale, la pianta del pomodoro ha andamento strisciante. Nei nostri climi, la coltivazione a terra può causare deterioramento delle bacche e della pianta in generale, che, come molte colture orticole di origine esotica, può soffrire gli effetti dell'accumulo di umidità, dei parassiti, e di diverse fitopatologie.

 Per questo motivo è necessaria normalmente l'installazione di sostegni; tuttavia alcune specie, più basse e robuste, non hanno bisogno di essere sostenute in quanto sono ad accrescimento determinato, ossia, una volta raggiunto un certo grado di accrescimento, esse smettono di svilupparsi e producono le bacche.

 Per i pomodori da tavola si preferisce la semina in semenzaio, con successivo trapianto sul terreno. I pomodori gradiscono esposizione assolata, anche se nelle ore più calde questo può causare sofferenza alla pianta; terreno ben fertilizzato; moderata ma regolare irrigazione.

 Molti coltivatori attestano che la qualità dell'acqua influisce in modo percettibile sulla qualità dell'ortaggio, e la temperatura dell'acqua di irrigazione non deve mai essere tanto diversa dalla temperatura ambiente da causare shock termici. Per questo motivo si consiglia l'irrigazione mattutina. Per aumentare la produttività ed evitare che l'eccessivo sviluppo della parte verde sottragga risorse alla pianta, le varietà indeterminate vanno sottoposte alla sfemminellatura o scacchiatura, che consiste nell'eliminazione dei germogli cosiddetti ascellari.

Questi sono riconoscibili perché nascono alla base di una ramificazione già esistente e danno luogo allo sdoppiamento del fusto della pianta. Vanno eliminati con le dita non appena si presentano. La raccolta è fatta a mano. Molte qualità di pomodoro, quando giungono a maturazione, modificano la base del picciolo per facilitare il distacco della bacca, che risulta quindi molto agevole.

 Biodiversità della specie

 Nonostante le cultivar rosse siano le uniche presenti in commercio, le bacche del pomodoro possono assumere colorazioni differenti. Si va dalle cultivar di colore bianco (white queen, white tomesol) a quelle di gialle (douce de Picardie, wendy, lemon), rosa (thai pink), arancioni (moonglow), verdi anche a maturazione (green zebra), e persino violacee (nero di Crimea, purple perfect). In alcune cultivar la buccia è leggermente pelosa, simile alla pelle di una pesca. Esistono pomodori lunghi (San Marzano), rotondi e molto grossi (beefteak), a forma di ciliegia, riuniti in grappoli (reisetomaten), e persino cavi all'interno (tomate à farcir). A seconda delle cultivar, la raccolta può avvenire da 40-50 giorni a oltre 120 giorni dal trapianto.

 http://www.clabattaglia.it/Default.aspx?tabid=156

_______________________________

 

Regole per dare un senso all'insalata di pomodoro

Beato pomodoro, il più amato dagli italiani, idolatrato, utilizzato in ogni dove, conservato, tagliato, cotto e crudo, protagonista indiscusso di milioni di ricette. La morte sua in questa stagione, oltre che strofinato sopra al pane, è l’insalata di pomodori (con annessa scarpetta finale, ça va sans dire).

 Ma aprendo il banale tema tra amici ho scoperto che non se ne viene fuori. Le varianti sono infinite e ovviamente ognuno detiene il titolo di campione in carica del “miglior preparatore al mondo della migliore insalata di pomodoro”.

LA SCELTA DEL POMODORO

Partiamo dalle basi. La scelta della varietà di pomodoro è fondamentale. Data per scontata la stagionalità e la bontà del prodotto, ecco che il mondo si divide in solo San Marzano, Cuore di bue per forza, quello di Sorrento, il Costoluto Fiorentino, assolutamente Camone sardo. Quello che si vergogna e dice per ultimo Ciliegino, ma anche Pachino. Poi ci sono quelli che in disparte ti guardano e non sanno assolutamente di cosa tu stia parlando così animatamente, pensano prima che siano nomi di santi o feste paesane, poi alla pazzia. La tua. Vagli a dire che anche del cuore di bue esistono più varietà.

Io: Scelgo il cuore di bue, buccia sottile, polpa abbondante, pochi semi.

 

 

COME TAGLIARLO

Il dibattito sembrerà finito dopo un’ora a parlare di varietà. No, mai. Altra ora a discutere di come si taglia: a fette, a pezzettini, a cubetti, a spicchi grossi, spaccato in due. Evidentemente dipende molto dalla varietà del pomodoro che scegliamo.

Io: lo preferisco a fette.

 ERBE AROMATICHE &CO

Un punto dolente. Qui intervengono le provenienze, le tradizioni, a volte anche le convinzioni. Per finire, i gusti personali e la seppur lontana possibilità di ricredersi. Aglio a spicchi che poi si toglie prima di servire, aglio a pezzettini, origano fresco, basilico spezzettato a mano, basilico julienne, origano secco, prezzemolo, erba cipollina.

Io: esiste solo il basilico spezzettato a mano. A volte l’aglio a pezzettoni. Mi piace anche l’origano fresco, ma non vince mai.

 CONDIMENTO

Il sale entra a pieno titolo nel dibattito e Maldon sembra essere diventato nostro fratello “uso solo il sale di Maldon”, “per me Maldon”. Ammetto che nell’insalata di pomodori e in altre ricette e preparazioni ci sta davvero bene, ma non uccidiamo il sale fino. D’altronde nelle ricette, in quasi tutte, c’è ancora il rassicurante e generico “Sale e pepe” in fondo. L’olio extra vergine d’oliva invece non è in discussione e non si discuterà qui la tipologia. Rischiamo di allungare troppo. Ci sono poi gli eretici dell’aceto, ma solo quello di mele, per carità balsamico, suvvia aceto di vino.

Io: sale (di Maldon, lo ammetto) e olio extra vergine d’oliva.

 ALTRI ORPELLI.

Chi non ce la fa proprio a consumare in pace una gradevole insalata di pomodori, aggiunge a piacere (o a vanvera) cetriolo, mozzarella (detta anche “sindrome da caprese per forza”), cipolla, tonno. Dopo di che, c’è solo la denuncia.

Io: non se ne può proprio discutere.

 L’idea che ognuno di noi ha della preparazione delle ricette, anche le più disarmanti e semplici come questa, è sempre travolta dalla dura realtà. Per esempio i tuoi amici che vogliono convincerti della bontà del prezzemolo nell’insalata di pomodori e tu che vuoi solo abbracciarti stretto stretto ad un pomodoro cuore di bue e non sentirli.

http://www.dissapore.com/grande-notizia/come-fare-linsalata-di-pomodori/

 

 

 

In Sicilia le verdure d'orto e di campo si sono sempre consumate anche crude che oggi, con un cattivo neologismo, chiamiamo crudità. Il crudo, che si identificava col selvatico, in Sicilia è stato sempre sempre civile.

Goethe, recandosi a Calascibetta, rimase stupito e scrisse nel suo diario del 30 aprile 1787: «Con meraviglia vedemmo quegli austeri personaggi fermarsi davanti a un ciuffo di cardi e recidere con affilati coltellini le cime degli alti steli; strinsero poi fra le punta delle dita quelle loro spinose conquiste le mondarono dell'involucro e divorarono di gusto la polpa”.

SPIGOLATURE STORICHE SULLA CUCINA DI SICILIA – Gino Schilirò – Aracne editrice 2019. Esclusiva concessione del Prof. Schilirò per mimmorapisarda.it.

 

 

TURCA (tonda nera)

 

Il periodo della semina è assai dipendente dalla zona in cui si opera. Nel nord si semina sotto tunnel o in cassone ai primi di Marzo. Bisogna insomma tener presente che, per svilupparsi, la piantina di melanzana necessita di una temperatura piuttosto costante che si aggiri intorno ai 15° centigradi. Si semina a spaglio, piuttosto rado per non dovere poi diradare troppo, e su un substrato composto da terriccio fine mescolato con pari quantità di torba concimata. Seminate preferibilmente sul bagnato con uno strato di mezzo cm circa di sabbia.

 

Tracciate dei solchetti nell’appezzamento adibito allo scopo ed appoggiate i soggetti a distanza di 50 cm l’uno dall’altro sulla fila. La distanza tra i solchi si aggirerà fra i 60-70 cm. Una volta che sono poste tutte le piante in un solo solco colmatelo di terra premendo bene intorno alle piantine stesse. La melanzana per ben produrre, necessita di potatura: si devono asportare cioè i getti secondari che si sviluppano all’ascella dei getti primari: su ogni pianta non ne devono restare più di 8-10. Il raccolto è scalare ed il consumo deve essere immediato.

 

 

SETA (Tonda violetta)

 

PIANTA DI ORIGINE Pianta erbacea annuale della famiglia delle Solanacee con radice fittonante e fusto eretto, rigido e ramificato, un po’ spinoso che raggiunge circa 70-80 cm, foglie lobate, fiori solitari ascellari, violetti, anch’essi un po’ spinosi. I frutti sono bacche, violacee, o bianche, di forma tonda, oblunga od ovoidale, con la parte superiore avvolta in un calice. La superficie è lucente, liscia o a costole. Grandezza, forma e colore si differenziano a seconda della varietà.

UTILIZZAZIONE ALIMENTARE La parte edibile è costituita dai frutti dotati di buccia spessa e polpa carnosa di colore biancastro. Fra le varietà più diffuse ricordiamo la Gigante bianca di New York, la Precoce di Barbentane, la Violetta lunga di Napoli, la Violetta tonda. Le melanzane vengono consumate sia tagliate a fette che a dadi, cotte, sia grigliate che fritte, impanate o lessate. Spesso questo ortaggio entra in ricette elaborate come ad esempio melanzane alla parmigiana, o melanzane ripiene.

COLTIVAZIONE Predilige climi temperati o caldi, e soffre il gelo. Viene coltivata, in semenzaio riscaldato, nel sud Italia in gennaio-febbraio, al centro-nord in marzo. Quando le piantine hanno raggiunto 6-7 cm di altezza ed hanno emesso la quinta foglia, si trapiantano in vivaio, in terreni poco profondi, di medio impasto o sabbiosi, ricchi di sostanze organiche e dopo 2 mesi si piantano nell'orto alla distanza di 50 cm sulle file e 70 cm tra le file. L’irrigazione del terreno deve essere costante. La raccolta si effettua da giugno in quando i frutti non sono del tutto maturi e si protrae fino a Settembre.

 

Sono stati gli arabi a portare dal lontano Oriente le melenzane in Sicilia. Come tutte le solonacee contengono un alcaloide amaro e scarsamente tossico: la solanina, che si credeva generasse "malinconici umori ed eccessiva lascivia" da dove il nome malum insanum. Nell'Italia del centro nord dovevano passare secoli prima che la melenzana entrasse in cucina.

 

(da "I sapori lontani della cucina siciliana" di Gino Schilirò - Lancillotto e Ginevra Editori

 

 

 

 

 

 

 

ortaggi da bulbo: cipolla, aglio, scalogno, porro, cipollotto.

 

 

CIPOLLA DI TROPEA

A cura di Caterina Lenti

 

Ha un sapore delizioso, raffinato e leggero ed è estremamente versatile

Furono i Fenici e i Greci ad introdurre in Calabria l’uso della cipolla, appreso, a loro volta, da Assiri e Babilonesi. L’area storica di produzione in Calabria è il territorio di Capo Vaticano nel Comune di Ricadi, ma il nome “Rossa di Tropea” è scaturito dal semplice fatto che le spedizioni delle cipolle in tutto il mondo avvenivano dallo scalo ferroviario di Tropea. Il trasporto delle famosissime cipolle rosse dai campi alla stazione di Tropea, avveniva tramite somari o tramite carri trainati dai buoi, percorrendo sentieri a ridosso del mare.

La distesa del promontorio di Capo Vaticano che si propaga verso Tropea – Parghelia è caratterizzata da lussureggianti orti famosi per la “Rossa di Tropea”. Stiamo parlando della cipolla, coltivata sui terrazzamenti del Monte Poro, di Ricadi e lungo la costa da Nicotera fino oltre la piana di Lamezia Terme. La cipolla di Tropea, che vanta la denominazione IGP fin dal 2008, rappresenta un souvenir davvero salutare dalla forma rotonda o ovoidale, dal sapore delizioso, leggero, raffinato e croccante. Questo magico dono della natura, coltivato sui suoli vulcanici, freschi, profondi, ricchi soprattutto di potassio, studiati dai pedologi di tutto il mondo al fine di risalire alle origini e di giustificare la nobile composizione, particolarmente fertile, rappresenta un vero e proprio elisir di lunga vita.

La cipolla di Tropea, infatti, previene infarti e malattie cardiovascolari, ha proprietà antibiotiche e antiossidanti; contiene tioli, composti organici naturali che contrastano l’accumulo di sedimenti grassi, facendo pulizia tra le lipoproteine che inquinano il sangue e induriscono le arterie, è indicata come rimedio contro le malattie della pelle, dona sollievo in caso di raffreddore e influenza, è un antiemorragico, tonifica le vene e le arterie, esercita un’azione benefica sulla diuresi e sull’ipertensione, cura le infezioni intestinali, previene la calcolosi renale e la pertosse, è diuretica.

La cipolla di Tropea contiene solo 26 calorie ogni 100 grammi di prodotto ed è indicata nelle diete dei cardiopatici per il suo potere antisclerotico, combatte il deficit fisico per l’alto contenuto di ferro e vitamine, contrasta i radicali liberi, abbassa i livelli di colesterolo cattivo nel sangue. Flavonoidi, fenoli, quercetina e sali minerali riducono notevolmente il rischio di cancro alla laringe, al fegato, al colon e alle ovaie, mentre i solforati di cromo sono efficaci nella cura del diabete, riducendo gli zuccheri nel sangue.

La cipolla di Tropea, ideale per soffritti, sott’aceto, nelle insalate miste con pomodori freschi, olive e origano, è l’ingrediente principale di numerose golosità tra cui gelati e una buonissima confettura ottima con la carne, col formaggio pecorino stagionato, con caciocavallo, gorgonzola e frittate in genere.

  

http://www.meteoweb.eu/2015/05/la-cipolla-di-tropea-tutte-le-sue-straordinarie-proprieta-benefiche/447871/#EPyiqBm67hrkrOKW.99

 

 

CIPOLLA DI GIARRATANA

 

Da sempre il comune di Giarratana, negli Iblei, è noto per la produzione di cipolle straordinariamente dolci e dalle dimensioni molto grandi. Bulbi dalla forma un poco schiacciata, con tunica di colore bianco brunastro, polpa bianca, sapida, mai pungente, che pesano normalmente circa 500 grammi, ma che possono anche superare i 3 Kg.

L’altopiano ibleo è solcato da vallate anguste, più o meno profonde, incastonate nella bianca roccia calcarea da cui si originano i suoli bruni che, assieme al clima collinare, determinano le condizioni ambientali ideali per la coltivazione di questa cultivar di cipolla. Tradizionalmente la semina viene effettuata a partire dalla fine di ottobre, durante il plenilunio o con luna calante, in semenzaio, e il trapianto ha luogo in febbraio-marzo quando, per ogni metro quadro si dispongono circa 16-20 piantine.

La raccolta comincia a partire dalla fine di luglio e continua lungo tutto il mese di agosto e Settembre.

Protagonista di molte ricette tradizionali della provincia di Ragusa, la cipolla di Giarratana sostiene la sapidità delle focacce “chiuse” – le scacce – ripiene con pomodoro e cipolla, dei contorni a base di cipolla arrostita alla griglia e delle cipolle ripiene con spezie. È molto dolce, per nulla pungente, caratteristica peculiare di questo ortaggio, e quindi è ottima anche cruda, in insalata, o condita semplicemente con olio extravergine di oliva e sale. Date le dimensioni, spesso viene anche cucinata ripiena.Con un pizzico di fantasia la cipolla di Giarratana può essere cucinata in svariati modi.

http://www.cipolladigiarratana.com/

Sagra della Cipolla, degustazione di piatti a base di cipolla. La Sagra della cipolla si svolge annualmente il 14 agosto a Giarratana (RG), cittadina di origini antichissime molto rinomata per la produzione di cipolle. Per l'occasione vengono allestiti degli stand, per le vie del paese, dove, questo ortaggio viene cucinato e servito in tutte le versioni possibili e immaginabili, cotta e cruda, e accompagnata da formaggi tipici ed ottimo vino.

L'atmosfera è genuina, con contorni barocchi ed aria di montagna. La sagra è l'occasione per migliaia di turisti di gustare questo saporitissimo ortaggio dal colore bianco e dalla forma schiacciata, che a Giarratana è unico nel suo genere. Mercatino dell'artigianato, folklore e musica

La cipolla di questo centro montano è unica nel suo genere, piatta e incredibilmente dolce. E' un tipico prodotto giarratanese, un'originale specie più carnosa e chiara rispetto alle varietà più comuni della tavola, che arriva a pesare sino a trecento grammi. Le grandi dimensioni rappresentano la sua unicità. Per una volta è lei, la "Cenerentola" della cucina, la protagonista della festa: la cipolla, la musica, i suoni, l'arte e i fuochi di artificio sono il suo contorno.

 Per maggiori informazioni: Comune di Giarratana  Tel. 0932.974311 - www.comunegiarratana.gov.it

 

 

 

 

Il limone è una pianta generosa: seguendo il ciclo delle stagioni sa regalare tre differenti fioriture, garantendo freschi raccolti per tutto l’anno. Si tratta di una naturale magia che accompagna un frutto dalle potenti proprietà benefiche. Ecco perché le tre fioriture di limoni rientrano nella selezione di prodotti a marchio Orto Italiano di Citrus: frutta e ortaggi a filiera controllata che aiutano gli studi scientifici finanziati dalla Fondazione Umberto Veronesi nell’ambito della Nutrigenomica e promuovono l’educazione alimentare.

 

Varietà di Limoni

 

Esistono diverse varietà di limoni, le cui differenze risiedono sopratutto nella loro presentabilità esteriore, mentre identiche rimangono le caratteristiche organolettiche e la loro commerciabilità. L'elencazione è molto lunga e si può pure affermare che quelle di maggior interesse si riferiscono a cultivar nazionali che straniere.

Le cultivar di maggiore diffusione in Italia sono:

 Femminello comune (con le sue diverse clonazioni (Femminello a Zagara Bianca, Femminello IGP siracusano, Femminello apireno Continella, femminello Dosaco, Femminello SantaTeresa, Femminello Scandurra, Femminello Lunario) è la cultivar più diffusa a livello nazionale, sopratutto in Sicilia e in Calabria, coprendo quasi il 70% della produzione nazionale. Presenta la caratteristica della rifiorescenza, per cui a parte la produzione normale, caratterizzata da limoni con epicarpo rugoso ma dotati di elevata acidità, che copre il periodo ottobre-marzo, il ripetersi della fioritura consente una raccolta più precoce (Sett-ott) con il Primofiore, mentre il periodo Aprile-Maggio viene coperta dai Bianchetti, con l'epicarpo poco rugoso, di scarsa acidità e di colore giallo pallido. I verdelli si raccolgono durante il periodo estivo e si presentano meno acidi, privi di semi e con l'epicarpo liscio.'

Interdonato: è diffuso nel versante Ionico messinese, di origini incerte, è di pezzatura medio-grande allungata, ma poco succoso , la sua rilevanza è da accreditare alla precocità della produzione basata sopratutto sul Primofiore.

Monachello: poco rilevante poichè di scarsa produttività, anche se rispetto alle altre cultivar resiste di più al malsecco.

Sfusato amalfitano (o femminello sfusato): diffuso nella costiera amalfitana , è di grande pezzatura, quasi privo di semi, presenta la scorza piuttosto spessa e rugosa, ricca di oli essenziali, da cui per la prima volta i contadini della zona hanno prodotto e diffuso il famoso Limoncello.

Femminello Lunario: è un cultivar dalla scarsa produttività e scarso contenuto di acido citrico e oli essenziali, nonostante la sua caratteristica sia quella della fioritura durante tutto l'anno "il limone delle quattro stagioni". Alla scarsa importanza commerciale, si contrappone, proprio per la sua grande capacità di fioritura e fruttificazione continua, un largo impiego negli orti e giardini o come pianta ornamentale da vaso.

Femminello apireno Continella: prende nome dall'agricoltore Saverio Continella di Acireale, che lo ha scoperto; varietà pregiata, poichè quasi priva di semi, è di piccola pezzatura, con la buccia spessa, di buona succosità e con un tasso piuttosto alto di acidità.

http://www.valdiverdura.com/limoni-di-sicilia

 

Limone di Pettineo - Pettineo (ME), allevato senza l'ausilio dell'irrigazione

 

 

INTERDONATO DI MESSINA

 

Caratteristiche fisiche e organiche: pezzatura medio-elevata compresa tra 80 e 350 gr., forma tipicamente ellittica con umbone pronunciato e cicatrice stilare poco depressa epicarpo sottile, poco rugoso con ghiandole oleifere distese colore verde opaco con viraggio sul giallo ad inizio della maturazione commerciale e colore giallo ad eccezione delle estremità che mantengono una colorazione verde opaco alla maturazione fisiologica polpa di colore giallo, tessitura media e deliquescente con semi rari o assenti succo di colore giallo citrino, con resa non inferiore al 25% e acidità totale inferiore al 5%.

Possono ottenere la denominazione IGP Limone Interdonato Messina Jonica solo i limoni appartenenti alla categoria commerciale «Extra» e «I».

L’indicazione geografica protetta “Limone Interdonato Messina Jonica” è riservata alla cultivar “Interdonato“, ibrido naturale tra un clone di cedro e un clone di limone, appartenente alla famiglia Rutacee; genere Citrus; specie C. limon. Il frutto è apprezzato in tutti i mercati nazionali ed internazionali. Vi sono molteplici teorie secondo le quali il carattere autoctono della cultivar Interdonato è, comunque, da attribuirsi ad una combinazione di fattori naturali ed antropici peculiari dell’areale di coltivazione e non riproducibili altrove.

 Zone di produzione: Comuni di Messina, Scaletta Zanclea, Itala, Alì, Alì’ Terme, Nizza di Sicilia, Roccalumera, Fiumedinisi, Pagliara, Mandanici, Furci Siculo, S. Teresa di Riva, Letojanni, S. Alessio Siculo, Forza D’Agrò, Taormina e Casalvecchio Siculo; Giardini Naxos e Savoca, in provincia di Messina.

 Maturazione: L’Interdonato è una varietà precoce, già disponibile da settembre. Per un mese circa è l’unico limone sul mercato e questo periodo di “primizia” è l’unico durante il quale i coltivatori riescono a spuntare un buon prezzo. La raccolta si protrae fino ad aprile.

Il limone è un vero e proprio toccasana per la prevenzione delle coliche e dei calcoli renali. Ma gli effetti benefici del limone sono riscontrati anche in caso di infezioni della gola, cattiva digestione, stipsi, problemi ai denti, febbre, cura dei capelli, cura della pelle, diabete, emorragie interne, reumatismi, ustioni, sovrappeso, disturbi respiratori, colera e ipertensione. Il limone aiuta inoltre a rafforzare il sistema immunitario, purifica l’apparato digerente ed è utile nelle cure degli attacchi di cuore. Il limone è ricco di vitamina C, vitamina B, fosforo, proteine ed anche carboidrati. Contiene anche flavonoidi, sostanze con proprietà antiossidanti e anti-cancro.

 Consorzio di Tutela Limone Interdonato - Via Umberto I. 369 - 98026 Nizza di Sicilia (Messina)

 http://www.colturedisicilia.it/limone-interdonato-messina/

 

 

IL FEMMINELLO CONTINELLA DI ACIREALE

Le cinque fioriture del «Femminello».

 

Dai primofiore ai maiolini, dai verdelli ai bastardi e ai marziani per la cultivar dominante nella zona fino agli Anni 50.
Il limone rappresenta la specie più emblematica della zona costiera orientale etnea, nella quale trova effettiva localizzazione grazie al clima favorevole. La limonicoltura è pertanto una componente dominante del paesaggio della riviera jonico etnea, per questo motivo meglio nota come «riviera dei limoni». La dominanza si va attenuando, proprio per ragioni climatiche, a mano a mano che dalla costa
si procede verso l'interno; la coltura, in genere, è più presente nelle aree a quote inferiori ai 150-200 metri. La sua coltivazione, nel corso degli anni ‘50, è stata progressivamente sostituita, lungo la zona costiera ionica, a quella della vite, almeno nelle aree compatibili per condizioni orografiche, climatiche e per la disponibilità di acqua di irrigazione.
Anche per questo motivo, nella zona il limone spesso coesiste con altre colture sia arboree sia erbacee; e a volte risulta persino consociato con fruttiferi diversi, tra cui il ciliegio. La coltura, a causa di una crisi di mercato che tende a diventare strutturale, attraversa una fase delicata che si coglie anche con riferimento alle cultivar utilizzate (il Femminello, varietà dominante fino agli anni ‘50, ha ceduto nel tempo il posto ad altri cloni più resistenti ai gravi attacchi del malsecco) e alla scarsa uniformità della produzione.
Sulla cultivar «Femminello» si possono elencare ben cinque fioriture principali a cui corrispondono fruttificazioni che assumono particolari denominazioni. La più importante dà origine a frutti che maturano in un arco di tempo molto lungo: da ottobre a marzo. Questi vengono chiamati «invernali» e hanno un epicarpo più o meno rugoso, acidità elevata, semi presenti in numero variabile. I frutti derivati da questa fioritura che maturano più anticipatamente (tra la fine di settembre e i primi di ottobre) sono noti commercialmente con il termine di «primofiore».
I «maiolini», chiamati anche «biancucci» o «bianchetti» presentano un epicarpo poco rugoso, un colore giallo pallido, un minor numero di semi e una più bassa acidità rispetto a quelli invernali. La fruttificazione è spesso a grappolo. La maturazione cade normalmente nei mesi di aprile-maggio.
I famosi «verdelli» giungono invece a maturazione nell'estate dell'anno seguente e spuntano ottimi prezzi sui mercati nazionali ed esteri. I «verdelli» si formano spesso a grappoli. Essi sono caratterizzati da un epicarpo liscio e una bassa acidità, mentre i semi sono quasi tutti abortiti.
Abbiamo poi i «bastardi» che si presentano con epicarpo liscio, di colore giallo carico, con stilo persistente e maturano dopo circa un anno. Infine i «marzani»; non sono mai molto numerosi, con forma più o meno rotondeggiante, epicarpo rugoso, umbone largo e schiacciato, acidità elevata, semi più o meno numerosi. I «marzani» vengono di solito raccolti assieme ai limoni «invernali».
17/09/2011 La Sicilia

 

 

FICHI D'INDIA

 

Quando si parla di fichi d’India, è inevitabile non pensare all’estate e al Sud Italia, in particolare alla Sicilia e alla Calabria, due regioni tra le più generose di questi frutti, che si trovano di stagione già a partire da fine agosto.

I fichi d’India hanno un gusto dolce e offrono eccellenti proprietà per la salute. Favoriscono la longevità. «La loro polpa è ricca di antiossidanti in grado di contrastare i radicali liberi e di inibire l’invecchiamento, aumentando così le aspettative di vita» dice la nutrizionista Valentina Galiazzo, specializzata in biochimica clinica. Le loro proprietà benefiche sono tante: ecco tutti i benefici dei fichi d’India da conoscere.

Sono un frutto super saziante

I fichi d’India possono essere consumati tranquillamente anche a dieta. «I fichi d'India apportano poco più di 50 calorie ogni 100 grammi e vantano un buon contenuto di fibre, che rendono più lento lo svuotamento gastrico e danno sazietà. Sono poi un frutto con un discreto contenuto di acqua e potassio, che stimolano la diuresi» dice la nutrizionista Valentina Galiazzo.

 

       https://www.mimmorapisarda.it/2023/377.jpg

Il consiglio però è di non esagerare nelle quantità. «Questo frutto fornisce anche quote importanti di zuccheri a rapido assorbimento che consumati in gran quantità favoriscono gli sbalzi glicemici e l’aumento di peso, oltre a una serie di problemi di salute» spiega l’esperta. «Per questo motivo meglio limitarsi a un paio di frutti al giorno. Il consumo ideale è lontano dai pasti principali. Sconsigliato invece il loro consumo se si hanno problemi digestivi. I semi di questo frutto sono particolarmente difficili da digerire e potrebbero in alcuni casi peggiorare i disturbi gastrointestinali».

Sono un utilissimo lassativo naturale: «Promuovono la regolarità intestinale e contrastano la stitichezza grazie alla pectina e a tante altre fibre alimentari», spiega la nutrizionista Galiazzo.

Danno tanta energia

I fichi d’India vantano anche un ottimo contenuto di minerali. «La polpa carnosa di questo frutto è ricca di magnesio, potassio, selenio e zinco che sono degli ottimi alleati a tavola per contrastare gli stati di stanchezza. Apporta poi vitamine del gruppo B e glucidi che contribuiscono alla produzione di ormoni che regolano i livelli di energia tra cui la dopamina» spiega l’esperta.

Fanno bene al cuore

I fichi d’India consumati in una dieta sana ed equilibrata contribuiscono ad avere una salute di ferro. «La polpa ma anche la buccia di questo frutto che è commestibile è ricchissima di carotenoidi, antiossidanti che favoriscono il colesterolo “buono” (HDL), contrastando pressione alta e trigliceridi. A questi si aggiungono anche l’acido ascorbico, i tocoferoli e la quercetina, che insieme alla luteina e alle fibre, promuovono la corretta circolazione del sangue. I flavonoidi di cui è ricco questo frutto inoltre grazie alla loro azione altamente protettiva aiutano a difendere la salute del sistema cardiovascolare e ad abbassare l’incidenza di disturbi e malattie, tra cui l’infarto».

fonte Siciliafan

 

 

 

__________________________________________________________________________________________________________

LE VARIETA' PIU' DIFFUSE IN QUESTO MESE

 

Cardillo - Cultivar poco diffusa, il nome deriva dalla colorazione della buccia che ricorda quella del piumaggio del cardellino. L’albero è vigoroso con portamento aperto, le foglie di dimensione media hanno forma ellittico allargata, margine serrato e picciolo lungo; i fiori con petali ellittici e liberi, bianchi con intense sfumature rosa, sbocciano nella III decade di aprile; i frutti di dimensione media o medio-grande, hanno forma rotondo conica, lievemente asimmetrica, peduncolo lungo, buccia giallo verde tendente al giallo con sovraccolore rosso chiaro; la polpa è bianca, succosa, acidula con leggero sapore di azzeruolo, gradevole, si raccoglie nella III decade di settembre e si consuma precocemente come frutto fresco.

 

Cirino - Cultivar poco diffusa, caratterizzata dall’aspetto della buccia lucida e cerosa che la rendono particolarmente attraente. L’albero è vigoroso e ha portamento aperto, le foglie di media dimensione hanno forma ellittico allargata, margine bicrenato e picciolo corto; i fiori sono piccoli, con petali arrotondati e sovrapposti di colore bianco venato di porpora, la fioritura avviene nella III decade di aprile. I frutti di media dimensione hanno forma arrotondata con cavità peduncolare profonda, peduncolo corto e di medio spessore, buccia di colore giallo biancastro con sovraccolore rosa; la polpa è bianca, fine, dolce, profumata, di buon sapore. Si raccoglie nella III decade di settembre e si consuma come frutto

 

Fonte: Antichi frutti dell'Etna, di C. Bonfanti, A. Continella, A. Gentile, S. La Malfa

 

 Risultati immagini per MELE ETNA

 

 

La piccola grande frutta "dimenticata"
Facci bedda, Lappiuni, Mela Ruggia, Romaneddu, Gelato Cola, Cirino, Nuntagnisi, Barriato, Rotolo. Sono tutti nomi di varietà di mele dell'Etna.
Frutti sconosciuti o, nella migliore delle ipotesi dimenticati e introvabili, che non trovano posto sugli scaffali
dei supermercati. Mele piccolissime ed enormi, come il Rotolo dall'antica unità di misura il "rotolo" (circa 800 gr.) che sarebbero già estinte se la caparbietà di piccoli produttori non le avesse resuscitate al gusto dei più curiosi. Frutta che, finora, esisteva solo nel ricordo dei più anziani e che, invece, meriterebbe un posto d'onore nelle produzioni tipiche dell'Etna.
La signora Agata Cristaldi coltiva da anni queste mele assieme a suo marito Alfio Zappalà. "Alcune sono bellissime - dice con un pizzico d'orgoglio - nella piazzetta del Castagno dei centro cavalli a Sant'Alfio - per esempio il tipo Romaneddu sulla pianta è uno spettacolo, sembra un albero di Natale, perché ogni ramo ha queste meline a grappolo, il ramo quasi non si vede.

Sono belle da vedere e da mangiare". Da venticinque anni, da quando si sono sposati, Agata e Alfio Zappalà hanno testardamente voluto salvaguardare questo tipo di alberi da frutto. "Una volta non avevano mercato - ricorda lei - oggi però c'è una riscoperta. Molti compaesani hanno seguito il nostro esempio e la gente sta cominciando a comprendere il valore di queste mele".

Piante spontanee o coltivate questo tipo di frutta è, spesso tipica della stagione autunnale. Profumati, dai colori caldi e dai nomi originali: mele Cola, mele cotogne, pere spinelle, 'nzalore, sorbe, uva fragola, senza dimenticare nocciole (quelle dell'Etna sono ormai una vera rarità), melagrane e marroni la ripresa d'interesse verso i frutti di un tempo è rivolta anche al recupero di antichi metodi di conservazione, lavorazione e consumo alimentare e si sposa benissimo con la ritrovata ricerca di un cibo che sia quanto più espressione del territorio.
Ma perchè queste coltivazioni sono andate perdute?
"La frutta dimenticata non si presta alla distribuzione logistica del mercato ordinario ma a quello del mercato locale - risponde Antonio Coco, anima della "Fera Bio" ai Benedettini - ormai molte cose sono purtroppo irrimediabilmente perdute, non ci sono più neanche nel nostro repertorio gustativo. Io solo ricordo il sapore delle pere che raccoglievo d'inverno su un cratere vulcanico dell'Etna, pere che crescevano solo lì, ma la maggior parte delle persone non conosce più le mele Gelato Cola. Questo discorso vale non solo per la frutta ma anche per alcune varietà di grano, è un discorso complessivo di erosione genetica".
"Noi abbiamo riconvertito le produzioni agricole per coltivare ecotipi locali - spiega Carla La Placa, alla guida un agriturismo in provincia di Enna - come la cicerchia di Aidone. Certo, sarebbe stato molto più semplice comprare prodotti surgelati, aprire le buste e gettare tutto nell'acqua calda, ma la nostra scelta è stata quella di privilegiare il territorio e fornire una vetrina dei prodotti locali. Ci costa molto di più in termini di lavoro, dalla coltivazione alla cucina, ma è una fatica che viene ripagata - soprattutto tra i turisti stranieri - dai quali abbiamo i maggiori riconoscimenti
Carmen Greco - La Sicilia del 16.10.2012

 

 

 

Renetta. È la più “nobile” delle mele visto che il suo nome deriva dal francese reine, che significa regina. Grossa, dalla forma appiattita ha la buccia gialla con macchie scure. Si conserva a lungo e anche se la buccia diventa grinzosa significa che la sua polpa è ancora più buona e profumata. È la mela per eccellenza dei classici della cucina altoatesina: lo strudel e le frittelle di mele. Attenzione: è bene sbucciarla all’ultimo minuto perché si ossida in fretta. Settembre

Annurca. Questa varietà di mela è riconosciuta con il marchio IGP ed è originaria dell’Italia centro-meridionale, in particolare della Campania in cui è impiegata nei dolci e in un liquore tipico. Questa mela si riconosce per la buccia color rosso vinoso, il profumo molto intenso e per la polpa croccante, leggermente acidula e succosa. Settembre Stark Delicious. Per come è entrata nell’immaginario collettivo, la mela di Biancaneve doveva essere una Stark Delicious, visto il colore rosso intenso della sua buccia. Ha un sapore dolce senza punte di acidità quindi è gustosa consumata al naturale. Quando è più matura la sua consistenza diventa più farinosa, quindi la Stark Delicious può essere cotta in piatti salati molto originali, come in accompagnamento con il pollo al curry. Settembre Royal Gala. È grazie al frutticoltore neozelandese J.H. Kidd nel 1920 se oggi possiamo gustare questa mela molto succosa e croccante. Visto che va consumata nell’immediato, altrimenti perderebbe l’aroma, è la mela ideale per essere frullata e impiegati in centrifugati e succhi di frutta senza zuccheri aggiunti perché è sempre dolce. Per questo è la mela preferita dai bambini. Ago-Set

 

 

 

 

_______________________________________________________________________________________________________________

 

LE VARIETA' PIU' DIFFUSE IN QUESTO MESE

 

CAVALIERE - Cultivar poco diffusa, l’albero è mediamente vigoroso con portamento ricadente, i rami sono lunghi e flessibili e conferiscono alla pianta un aspetto scapigliato. Le foglie sono grandi, di forma ellittico-allargata, con margine seghettato e picciolo corto. I fiori grandi con petali accavallati sbocciano nella II decade di aprile. I frutti hanno forma turbinata, buccia giallo chiaro con sfaccettatura rossa a maturazione, il peduncolo lungo e di media grossezza è inserito obliquamente rispetto all’asse del frutto. La polpa è succosa, poco zuccherina, di sapore leggermente allappante. Destinata al consumo fresco, si raccoglie nella I-II decade di settembre e si presta alla conservazione fino al mese di ottobre, sensibile alla ticchiolatura.

 

Fonte: Antichi frutti dell'Etna, di C. Bonfanti, A. Continella, A. Gentile, S. La Malfa

 

 

 

 

ABATE FÉTEL - Si raccoglie in settembre, quando la buccia comincia a ingiallire. Raccolte più precoci, o in momenti non adatti nel luogo di coltura, portano ad avere frutti che non maturano bene e restano legnosi. La vigoria è media su cotogno, elevata su franco.  Il frutto è di pezzatura grossa (pesa circa 270 grammi), caratterizzato da un «collo» allungato. La buccia è di colore giallo chiaro o giallo, arrossata nella parte esposta al sole. La polpa, bianca, è fondente, di ottimo sapore, leggermente acidula.

KAISER - Si raccoglie nella seconda metà di settembre. Anche in questo caso è bene individuare la giusta epoca di raccolta nel luogo di coltura per evitare di avere poi frutti legnosi, immangiabili. L’albero è vigoroso e non ha affinità con il cotogno;

Il frutto è grosso (pesa circa 250 grammi), panciuto, a volte con collo breve e stretto. La buccia è di colore bronzato leggermente rugginoso. La polpa, bianco-giallastra, è talora granulosa, ma fondente, zuccherina, profumata.

 

CONFERENCE - Si raccoglie a fine agosto-primi di settembre. È di vigoria medio-scarsa, specialmente quando innestata su cotogno. Adatta agli ambienti settentrionali, è particolarmente diffusa in Emilia-Romagna. Il frutto è di pezzatura media (pesa circa 200 grammi) ma resta piccolo se l’albero è molto carico; la buccia è generalmente verde, spesso coperta da macchie di ruggine. La polpa è fondente, di sapore squisito, zuccherina e aromatica.

DECANA DEL COMIZIO - È considerata una delle migliori varietà di pero. Si raccoglie in settembre. L’albero è vigoroso anche quando è innestato su cotogno; la messa a frutto è lenta e la produttività tende all’alternanza.  Fruttifica su branchette deboli. Il frutto è grosso (pesa circa 250 grammi), con buccia giallastra arrossata al sole e con macchie di ruggine. La polpa è bianca, fondente, profumata, deliziosa.

http://www.informatoreagrario.it/ita/riviste/Vitincam/Vic1203/frutteto.asp

 

 

PESCA TARDIVA DI LEONFORTE

 

La “Pesca tardiva di Leonforte” è ottenuta dai due ecotipi locali “Bianco di Leonforte” e “Giallone di Leonforte“, non iscritti nel catalogo nazionale delle varietà. Dagli anni Settanta la Pesca di Leonforte rappresenta un motore importante per l’economia locale di quest’area della Sicilia. Il sacchetto di carta pergamenata in cui vengono avvolti i frutti 120-150 giorni prima della completa maturazione, protegge le pesche da parassiti e intemperie ed evita l’uso eccessivo di concimi di origine industriale. A questo prodotto è dedicata una Sagra annuale che si tiene ogni prima domenica di ottobre.

La caratteristica che contraddistingue la Pesca tardiva di Leonforte dalle sue concorrenti è il periodo di maturazione: dalla prima decade di settembre a tutto ottobre e addirittura a novembre. Zone di produzione: Comuni di Leonforte, Enna, Calascibetta, Nissoria Assoro ed Agira, in provincia di Enna.

La pesca contiene la vitamina A, detta anche retinolo, che ha funzione protettiva e favorisce la crescita delle mucose, della pelle, delle ossa e dei denti. Contiene anche vitamina B1, importantissima per il processo di trasformazione degli idrati di carbonio in energia e per il buon funzionamento del sistema nevoso. La vitamina B2 contenuta nelle pesche è indispensabile per la salute delle unghie, dei capelli e della pelle. La pesca contiene anche la vitamina C, molto importante nella lotta contro le infezioni, specie quella da raffreddamento, è utile al rafforzamento dei capillari e del collagene, limita i danni e le rotture dei vasi capillari ed è antiossidante. Un’altra vitamina contenuta nelle pesche è la PP, importante per il buon funzionamento dello stomaco, del sistema nervoso e per l'ossigenazione del sangue.

_____________________________________________________________________________________________

 

Le pesche nel sacchetto. Una sorpresa nella terra degli aranci e dei mandorli. La Sicilia è terra di agrumi, olivi, mandorli, fichi d’India. Le pesche, si direbbe, sono roba dell’Emilia Romagna, della Campania, del Piemonte. Roba da frutteti iperspecializzati. Al limite, su quei terreni assetati e in quel caldo africano si potrebbero cercare le primizie, che so, una pesca che matura a maggio, magari anche prima. E invece no.
Nel cuore della Sicilia ci sono pesche antiche e, mentre l’Italia ormai da un secolo coltiva soltanto varietà americane e corre dietro alle “pesche di moda”, qui si sono conservate. Nessuno le ha disturbate perché non erano così importanti: a Leonforte la produzione vera era quella di agrumi e di frumento. Gli alberi di pesche nascevano fra gli aranci, e si lasciavano lì. Nascevano dai semi, per caso, e per caso si incrociavano. E siccome qui non siamo sulle coste assolate, ma alle pendici dei monti Erei, erano perlopiù pesche tardive.
Ci volle un po’ di tempo, ma poi qualcuno si accorse che quegli alberi erano preziosi: quale altra regione italiana poteva permettersi pesche appena raccolte ai Santi? Quale altra zona siciliana aveva la fortuna di Leonforte: possedere ricche sorgenti d’acqua? Perché le pesche devono essere irrigate, altrimenti non vivono.
Così, negli anni ’50, nasce il primo pescheto “specializzato”: poca cosa, un terreno di due tumuli (mezzo ettaro), ma nella celebre Contrada Noce, “la zona migliore - ci spiegano - con i terreni argillosi e bagnati dalle acque della Gran Fonte”.
Nel 1951 Carmelo Salomone, uno dei pionieri della pesca di Leonforte, con quei due tumuli guadagna una cifra ai tempi straordinaria: due milioni. Ma dopo appena tre anni, gli agricoltori ricevono un telegramma: bisogna sospendere la raccolta perché le pesche appena consegnate sono marce. È arrivata la mosca mediterranea, un flagello. La coltivazione è abbandonata: per anni le pesche rimangono sugli alberi.

Fino all’idea geniale. Un certo Pappalardo di Acireale, che a Leonforte possiede un appezzamento di agrumi, inizia a difendere i frutti con un sacchetto. È il 1965. Poco per volta la pratica dell’insacchettamento si diffonde e la storia della pesca di Leonforte ricomincia.
La storia di una piccola “follia”, di un lavoro certosino che inizia a giugno, ogni anno. I frutti ancora piccoli e verdi sono insacchettati a mano, uno per uno. I sacchetti di carta pergamenata si chiudono con un sottilissimo fil di ferro: proteggono le pesche dalla mosca, ma anche dal vento, dalla grandine e poi consentono di raccoglierle quando sono dolci e mature. Un lavoro per uomini (in Sicilia le donne non vanno in campagna) che viene pagato a cottimo: 35 lire per ogni sacchetto (i
n un giorno i più veloci ne legano più di 2 mila). Fino agli anni ’70 la carta si comprava a Giarre: le donne di Leonforte se la facevano tagliare su misura e la cucivano a macchina. Anche fare i sacchetti era un piccolo mestiere: si guadagnavano 4 o 5 lire al sacchetto.
Ora i sacchetti si comprano già incollati, ma il lavoro manuale è ancora tanto: bisogna dare il rame agli alberi, potarli, dare l’olio bianco alle gemme quando sono gonfie e rosa (rigorosamente l’ultimo trattamento), irrigare, concimare, fare un’ultima potatura a giugno (quella verde, per togliere i succhioni e diradare i frutti). Anche la raccolta è un’operazione delicatissima: alla fine di settembre i sacchettini con il loro prezioso contenuto vengono staccati dall’albero con una leggera rotazione del picciolo (guai a strapparli). Poi si scartano le pesche e si selezionano, ancora una volta a mano e ancora una volta una per una: si eliminano i frutti con qualche difetto e si dividono gli altri in base alle dimensioni: da una parte le più piccole e via via le più grandi, divise meticolosamente in base al diametro.

 

 

 

 

LA PESCA SBERGIA Risultati immagini per pesca sbergia

si trova soltanto nella valle del Niceto, nei comuni di Monforte San Giorgio, San Pier Niceto e Torregrotta, tutti nel Messinese. Non è facilissimo trovarla sui banchi dei fruttivendoli, ma se la trovate, approfittatene, perché è una vera prelibatezza. Si raccoglie solitamente tra luglio e agosto ed è caratterizzata da una buccia liscia e dalla polpa bianca, oltre che dal sapore dolce.

Secondo la tradizione, a introdurre la Sbergia sono state le popolazioni arabe che si stanziarono nella zona a partire dal 965: sarebbe stato il risultato di alcuni innesti sperimentali. Lo stesso termine Sbergia deriverebbe dall’arabo al-berchiga, trasformato in seguito nel francese alberges nel corso della dominazione angioina, fino ad arrivare all’attuale terminologia.

La coltivazione nella valle del Niceto è accertata con prove documentali già a partire dal XVI secolo, evidenziata da Antonino Venuti nel suo trattato De agricultura opusculum del 1516.

Caratteristiche

Le caratteristiche climatiche e colturali tipiche dell’area in cui è diffusa, le conferiscono alcune caratteristiche organolettiche non riscontrabili nelle produzioni di altre località. Il prodotto è abbastanza delicato: si deteriora velocemente e gli alberi che lo fruttificano sono molto esigenti in fatto di difesa parassitaria, potatura e sostegno dei rami.

Attualmente la Sbergia viene prodotta su una superficie stimata tra i 75 e i 90 ettari con una produzione media globale annua di circa 8000 tonnellate. Il mercato di commercializzazione è limitato alle provincie di Messina, Catania e Reggio Calabria e, a causa delle modeste dimensioni delle superfici coltivate, le produzioni non riescono a soddisfare le richieste di mercato. Il ricavo lordo si aggira tra 800.000 e 1,5 milioni di euro su tutto il comprensorio di diffusione.

Proprietà della pesca Sbergia

Come tutte le pesche, anche la Sbergia è fatta principalmente di acqua, è ricca di fibre che regolano l’intestino, di vitamina A e di vitamine del gruppo B e C. Contiene anche sali minerali, aiuta il sistema circolatorio e regola la pressione sanguigna. Ha un alto tasso di flavonoidi, che hanno azione antiossidante. Quasi assenti i grassi, ma alto il tasso di fruttosio. La Sbergia è diuretica, depurativa e disintossicante.

https://www.siciliafan.it/pesca-sbergia/?fbclid=IwAR2GU3nrL9pVB8NuJ_6YhcSEtvOfBZ--SgT2aZdKxlhHhg3lHEo-o_40A4c

 

 

 

L’azzeruolo, noto anche come lazzeruolo, è un albero da frutto tipico delle nostra tradizione rurale. I suoi piccoli e agrodolci frutti sono chiamati “azzeruole” e somigliano molto a una mela in miniatura.

Vi abbiamo già parlato di alberi da frutto come il giuggiolo, il corbezzolo, il gelso, tutte specie radicate nell’esperienza contadina, ma spesso dimenticate e sottovalutate nell’attuale panorama delle specie da frutto. Anche l’azzeruolo appartiene a questa particolare categoria, che sarebbe opportuno rivalutare, specie nell’ambito della coltivazione del frutteto familiare. Basta infatti anche uno solo di questi alberi, dal pregiato valore anche ornamentale, per avere un ottimo raccolto.

usi dei frutti.

https://www.coltivazionebiologica.it/azzeruolo/

 

Fichi, la fonte estiva di energia

Dolci e succosi, il fichi sono considerati “frutti della salute” per i suoi innumerevoli effetti positivi sull'organismo. E se abbinati con i cibi giusti aiuta a mantenere la linea

Pianta antichissima, citata nel Vecchio Testamento, sacra per buddisti e musulmani e per il dio Dioniso nell’antica Grecia, il fico fa parte del patrimonio arboreo del Mediterraneo da epoche remote. La sua origine è da ricercarsi nel Medio Oriente, da una antica regione chiamata Caria da cui sembra derivare anche il suo nome. Da sempre simbolo di prosperità e serenità, Platone sosteneva che contribuissero ad accrescere l’intelligenza, gli antichi romani ne erano ghiotti e persino Dante e Leopardi li nominano spesso nei propri scritti.

A giugno, all’inizio dell’estate, maturano i cosiddetti fichi fioroni, ricchi di nutrienti, di fibre anti-stipsi e di minerali drenanti; i forniti (o fichi veri) maturano da agosto a settembre e i fichi tardivi o cratiri arrivano in autunno. I fichi di giugno in particolare per il loro ottimo apporto di pectine e minerali hanno notevoli proprietà diuretiche e digestive e per questo consumarne tre o quattro al massimo al giorno non può certo far male alla linea. I fichi, infatti, hanno fama di essere nemici della linea come molta frutta “zuccherina” ma in realtà contengono fibre e potassio che combattono i ristagni di liquidi e di adipe e se ben abbinati, fanno dimagrire.

I fichi meno rischiosi per la linea sono quelli freschi che è sempre meglio abbinare ad una fonte proteica come uno yogurt naturale, la ricotta o anche il prosciutto crudo privato del grasso, e a una fonte di grassi “buoni” come noci, nocciole o mandorle. In questo modo, oltre ad esaltarne il sapore, si eviterà di far impennare la glicemia, alzare l’insulina e accelerare l’accumulo di adipe. I fichi secchi, invece, hanno un apporto calorico molto superiore (quasi 300 calorie in 100 grammi) ed è bene consumarli con parsimonia.

Ricchi di vitamine, in particolare A, B1, B2, B3 e C, i fichi sono mineralizzanti grazie alla presenza di calcio, potassio, magnesio, ferro e fosforo che fortificano ossa e denti e proteggono la pelle. Poiché sono molto nutrienti sono consigliati a chi svolge attività sportiva, lavori pesanti ma anche a bambini, anziani e donne in gravidanza. Preziosa fonte di polifenoli, sostanze naturali che svolgono un ruolo importante per la salute, i fichi sono antiossidanti, svolgono un’azione anticancerogena e combattono il colesterolo “cattivo” contribuendo a ridurlo.

https://www.lacucinaitaliana.it/news/salute-e-nutrizione/fichi-la-fonte-estiva-di-energia/

 

 

Sorbole, il frutto dimenticato usato contro le streghe

L'albero delle sorbole, il sorbo, è così bello che negli anni è stato utilizzato più per ornare i giardini che come fonte alimentare. Ecco i suoi frutti e la sua storia

“…ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi si disconvien fruttare al dolce fico” scriveva Dante nel suo ‘Inferno‘. Il sommo poeta nel Trecento contrapponeva il gusto aspro delle sorbole a quello dolce dei fichi e suggeriva che al fico non convenisse fruttare accanto al sorbo (l’albero delle sorbole). Nella nostra epoca è già un miracolo se qualcuno conosce il sapore delle sorbole. Coltivata soprattutto nell’antichità, è una specialità infatti ormai rara persino in Emilia dove pure si usa l’intercalare “sorbole” per esprimere stupore.

Le sorbole contro gli spiriti maligni

Le sorbole sono ormai di diritto inseriti tra i frutti dimenticati, come ad esempio le giuggiole, e solitamente è improbabile vederle nei banconi dei fruttivendoli e ancor meno in quelli dei supermercati. Questo nonostante siano ricche di vitamina C e siano apprezzate per le proprietà astringenti. I motivi? La pianta è molto bella, tra il fogliame, i fiori e i frutti maturi di colore rosso-arancio (simili a delle piccole mele), e perciò con il passare degli anni è stata usata nei giardini soprattutto come specie ornamentale, anche grazie alla credenza che tenesse lontano gli spiriti maligni e le streghe. Questo ha contribuito a diminuirne il ‘valore alimentare’ a favore di un utilizzo più estetico.

L’ammezzimento per renderle commestibili

Altro fatto che ha diminuito il consumo di sorbole è il fatto che i frutti non sono commestibili freschi, appena colti dall’albero, ma soltanto dopo aver subito “l’ammezzimento”; devono cioè essere colti molto maturi ed è necessario successivamente far continuare il loro processo di maturazione mettendoli nella paglia o facendoli essiccare al sole. A questo punto la polpa acidula diventa più dolce e acquisisce un sapore gradevole.

Sorbole in cucina

Le sorbole si usavano e si usano soprattutto per  preparare sidro, liquori (come il Sorbolino), confetture, salse e conserve. Le salse, in particolare quelle agrodolci, sono perfette per accompagnare la carne o i formaggi.

https://www.lacucinaitaliana.it/news/trend/cosa-sono-le-sorbole-il-frutto-dimenticato/

 

 

UVA DA TAVOLA DI MAZZARRONE

La coltivazione dell'uva da tavola nel Mazzarronese affonda le sue radici nel secolo scorso, come si evince da alcuni atti pubblici di compravendita di terreni coltivati a vigneto stipulati tra la fine del 1800 e l’inizio del 1900. Anche il Pastena, nel suo libro “La civiltà della vite in Sicilia”, riporta che alla fine del secolo scorso la produzione di uva da tavola rappresentava il 5 % della produzione viticola del  «Mandamento di Caltagirone». Nel corso degli anni a seguito di innovazioni tecniche e evoluzioni varietali l’uva da tavola di Mazzarrone ha assunto sempre maggiore rilevanza sino a diventare parte integrante e imprescindibile della vita locale.

Come si consuma. L’uva possiede numerose proprietà benefiche per l’organismo, che sono sfruttate al meglio se si consuma il frutto la mattina a digiuno: è disinfettante e antivirale, diuretica e lassativa, attiva le funzioni epatiche, facilita la digestione, contribuisce a ridurre il livello di colesterolo nel sangue. In cucina, si consuma fresca o si può utilizzare per la preparazione di dolci, marmellate, gelatine e sorbetti.
Si usa anche in cosmesi: il suo succo si utilizza per schiarire e ammorbidire la pelle.

Come si conserva. L’uva, se tenuta a temperature molto basse e con un tasso di umidità tra l’85 e il 90%, può essere conservata fino a sei settimane.
Come si produce. La forma di allevamento utilizzata per la coltivazione dell'uva da tavola è il tendone; per la cultivar Cardinal è utilizzata anche la controspalliera. Fra le tecniche di coltivazione ha particolare importanza la copertura dei vigneti con film plastico, adeguatamente fissato alla struttura del vigneto, allo scopo sia di anticipare la maturazione a giugno che posticipare la raccolta fino alla fine di dicembre. Altro elemento importante, fra le tecniche di coltivazione, è la potatura che viene eseguita al secco e al verde.
Molto importanti, al fine di migliorare qualitativamente la produzione, sono gli interventi sulla fruttificazione, diradamento dei grappoli, sistemazione dei grappoli ed interventi sui grappoli.

 (Caltagirone, Licodia Eubea, Mazzarrone (CT), Acate, Chiaramonte Gulfi, Comiso (RG)

La denominazione "Canicattì" designa i grappoli di uva da mensa, genere “Vitis Vinifera”, famiglia delle “Vitacee”, deRisultati immagini per comune di canicatti lla cultivar Italia nota come incrocio Pirovano "65" ottenuto dalla fecondazione della cultivar Bicane con polline di Moscato d’Amburgo, adattatosi alle particolari condizioni pedologiche e climatiche della zona geografica del Canicattese.

Assaggio

Sapore dolce con delicato aroma di moscato dal gusto gradevole, polpa carnosa e croccante.

Caratteristiche

L’Uva da tavola Italia di Canicattì è la varietà di maggior pregio prodotta tra i comuni di Canicattì e Delia, nelle province di Agrigento e Caltanissetta.

Disponibile da luglio ad ottobre, è apprezzata nel mondo per l’inconfondibile sapore, il fresco profumo e le pregiate qualità nutritive che ne fanno un prodotto unico.

Dai grappoli resistenti, con acini medi o grossi, dorati e croccanti, è gustosa ed equilibrata.

Grappoli medio grandi, di forma conico-piramidale, giustamente spargoli, senza acinellature, di dimensioni, forma e colore uniformi con raspi armonicamente sviluppati, peduncolo lignificato; acini medio grossi di forma sferoidale ellissoidale, con colorazione da giallo tenue a giallo paglierino dorato. Con circa l’8% di fruttosio, l’8% di glucosio e con oltre l’80% di acqua, possiede numerose proprietà benefiche per l’organismo: è disinfettante, antivirale, diuretica.

Come si ottiene

L’uva da mensa "Canicattì" viene prodotta in vigneti allevati a tendone al sesto variabile da m. 2.80 x 2.80 a m. 3 x 3 a "mono palco" e/o a "doppio palco".

I vigneti vengono coperti con materiali di copertura per garantire la conservazione sulle piante dell’uva che può essere raccolta e commercializzata allo stato fresco nei mesi autunno-invernali fino alla prima/seconda decade di gennaio.

La raccolta si effettua dalla terza decade di agosto alla seconda decade di gennaio dell’anno successivo

Le tecniche di produzione adottate consistono nella potatura in verde, concimazioni organo-minerali, operazioni in verde quali eliminazione germogli, sfogliatura, raddrizzamenti grappoli, diradamento, selezione grappoli, irrigazione di soccorso, interventi fitosanitari.

La produzione media per ettaro è di q. 250.

La Regione Sicilia potrà indicare idonee e dettagliate  prescrizioni per garantire qualità e conformazione dei grappoli.

Nell’ambito di questo limite la Regione Sicilia, tenuto conto dell’andamento stagionale e delle condizioni ambientali e di coltivazione, fissa annualmente, entro il mese di luglio di ogni anno, la produzione media unitaria.

La storia

La vite arrivò nel Mediterraneo già nel 600 a.C.. grazie ai Fenici che la fecero conoscere in Francia.

Successivamente furono i Romani ad esportane le piante in Germania.

In riferimento alla coltivazione dell’uva della tipologia “Italia”, venne introdotta nel nostro Paese nei primi anni del XX° secolo.

Nell’areale di Canicattì prese piede  solo all’inizio degli anni ‘70, prendendo il posto delle colture tradizionali quali cereali, mandorleti e leguminose.

L’idea di impollinare la vecchia varietà Bicane con polline dell’altrettanto antica Moscato d’Amburgo, si deve all’illustre genetista, professore presso l’Istituto di Frutticoltura ed Elettrogenetica di Roma, Alberto Pirovano (1884-1973), dando il via ad una delle produzioni più tipiche della zona: prende il suo nome, incrocio Pirovano 65,la cultivar coltivata in questo areale. Da questo incrocio si ottenne, oltre che un bell’aspetto e una qualità eccellente, un prodotto dalla lunga serbevolezza.

Se mantenuto a bassa temperatura e con un tasso di umidità di 85/95%, si conserva intatta per 5/6 settimane dalla raccolta  Già nel novembre del 1997 è diventato prodotto certificato IGP, prima uva da tavola ad ottenere questo riconoscimento.

Origine

Provincia di AGRIGENTO: Canicattì, Castrofilippo, Racalmuto, Grotte, Naro, Camastra. C.Bello di Licata, Ravanusa, Favara, Agrigento, Licata, Comitini, Aragona, Palma di Montechiaro. Provincia di CALTANISSETTA: Caltanissetta, Serradifalco, Montedoro, Butera, Sommatino, Delia, Mazzarino, Riesi, Gela, S.Cataldo, Milena.

Tipologia Unica, commercializzata in confezioni di capacità minima 0,5 Kg e multipli, secondo le disposizioni che verranno in tal senso adottate dalla Regione Sicilia, opportunamente sigillate.

UtilizzoA llo stato fresco, nella preparazione di dolci, marmellate, succhi, gelatine e sorbetti.

Valori EnergeticiValori nutrizionali per 100 grammi di prodotto: Acqua (g) 80,3 Proteine (g) 0,5 Lipidi (g) 0,1 Carboidrati disponibili (g) 15,6 Zuccheri solubili (g) 15,6 Fibra totale (g) 1,5 Energia (kcal) 61 Sodio (mg) 1 Potassio (mg) 192 Ferro (mg) 0,4 Calcio (mg) 27 Fosforo (mg) 4 Zinco (mg) 0,12 Rame (mg) 0,27 Tiamina (mg) 0,03 Riboflavina (mg) 0,03 Niacina (mg) 0,4 Vitamina A retinolo eq. (µg) 4 Vitamina C (mg) 6

 Indirizzi Utili

CONSORZIO PER LA TUTELA E LA PROMOZIONE DELL’ UVA DA TAVOLA DI CANICATTI’ I.G.P

Contrada Carlino - 92024 - CANICATTÌ (AG)  Tel.+390922831053  

www.uvaigpdicanicatti.it

www.ciboitaliano.com

Le fasi della vendemmia: la raccolta

La prima fase della vendemmia consiste nella raccolta dei grappoli, da effettuare nelle ore più fresche, a mano o meccanicamente: tagliati con forbici apposite, e privati delle foglie, i grappoli migliori, privi di muffe e di acini marci, vengono adagiati in un cesto che sarà a sua volta svuotato in cassette dalla capienza massima di 20 chili per evitare che gli acini vengano schiacciati.

 Una volta riempite, le cassette vengono svuotate solitamente in carrelli da 2000 kg che verranno poi portati alla pigiatura. E’ fondamentale che passi meno tempo possibile tra la raccolta e la pigiatura, per evitare che gli acini si deteriorino: grappoli sodi, con la buccia ben integra sono la premessa indispensabile per ottenere un buon vino.

 

 

 Le fasi della vendemmia: la pigiatura

L’uva raccolta viene dunque trasportata nei locali in cui verrà pigiata. Prima della vera e propria pigiatura, i grappoli vengono convogliati con nastri e coclee alla diraspa, la macchina che separa gli acini dal raspo, rispettando l’integrità dei primi. Questo processo è fondamentale perchè i raspi, pigiati, cederebbero sostanze tanniche dal gusto legnoso e allappante.

 Solo dopo, quindi, si può pasare alla fase della pigiatura. In alternativa, si possono utilizzare macchine pigiadiraspatrici, che sono in grado di pigiare l’uva e contemporaneamente scartare i raspi.

 

 

Le fasi della vendemmia: la fermentazione

Il mosto ottenuto con la pigiatura viene pompato nelle vasche dette fermentatori dove comincerà la fase della fermentazione. Quest’ultima potrà essere di tre tipi: la fermentazione in rosso, che dà origine a vini rossi, prevede che il mosto rimanga a contatto con le bucce, in modo da permettere la dissoluzione dei polifenoli e degli aromi contenuti nella buccia e nei vinaccioli.

La fermentazione in bianco, invece, permette di produrre vini bianchi ed è ottenuta separando subito il mosto dalle bucce e i vinaccioli: i vini ottenuti saranno, dunque, quasi privi di tannini, avranno dei profumi fruttati e gusto fresco e delicato. Esiste, infine, la vinificazione in rosato che prevede un periodo di macerazione delle parti solide nel mosto molto breve, dalle 24 alle 36 ore.

 

Le ultime fasi della vendemmia

Terminata la fermentazione, comincia forse una delle fasi più caratterizzanti, quella di rifermentazione e invecchiamento che darà origine ai vini più diversi, dagli spumanti ai vini da meditazione, a seconda del processo seguito.

 Il risultato sarà in ogni caso frutto di mesi di lavoro, di secoli di tradizioni trasmesse di padre in figlio per produrre un nettare che sia espressione della storia e delle caratteristiche del suo territorio di origine e per ripercorrere ogni anno al meglio questo rituale dell’agricoltura cantato dai poeti di ogni secoli.

http://www.enjoyfoodwine.it/fasi-della-vendemmia/

 

 

 

Neruda con questa poesia elogia il vino e le sue proprietà. Il vino è figlio della terra, è il frutto del lavoro paziente dell'uomo, è l'occasione della socialità, è il trionfo della vita, è il tramite dell'amore. E infatti la parte centrale dell'ode si concentra sui paragoni tra il corpo della donna ed elementi enoici per un' esaltazione dei sensi, per poi tornare a riprendere i temi della socialità del vino e del lavoro comune di uomo e natura per produrlo.

 

https://www.mimmorapisarda.it/2024/ff.jpg

 

 

 

 

LE STRADE DEL VINO SICILIANO

 

La vite in Sicilia fu introdotta dai Fenici, ma furono i Greci, nel (VIII sec. a.C. a portare la cultura enoica in Sicilia.

Sotto i Romani la coltura della vite era piuttosto importante: la Malvasia delle Eolie, il Pollio di Siracusa, il Mamertino di Messina venivano esportati ed apprezzati in tutto il mondo latino. Con le invasioni barbariche ( V sec. d.C. ) si ebbe una battuta d'arresto nella produzione, che continuò con l'invasione musulmana.

In seguito la produzione di vini siciliani subì varie accelerazioni e battute di arresto, fino ad esplodere nel durante il 1800, grazie anche alla celebrità del Marsala, quando il commercio del vino divenne uno dei fattori principali dell'economia locale. Fu infatti in questo periodo che nacquero le storiche e prestigiose cantine siciliane: Duca di Salaparuta (1824), Florio (1836), Amodeo (1837), Rallo (1860), Curatolo Arini (1875), Carlo Pellegrino (1880) e Lombardo (1881).

 In seguito ci fu una grande crisi dovuta alla filossera che decimò i vigneti. Il ripristino dei vigneti colpiti dalla fillossera durò oltre mezzo secolo e terminò durante gli anni 1950. Durante questo periodo il mercato cambiò notevolmente e la richiesta di vini da taglio diminuì molto: questo evento costrinse i prodduttori siciliani ad un drastico cambiamento di produzione, ma fu durante gli anni '70 che si registrò il nuovo sviluppo dell'enologia siciliana che ha consentito ai vini dell'isola di affermarsi in tutto il mondo.

Dalla rinascita del grandioso Marsala alla rivalutazione del ricco e locale patrimonio di uve, la Sicilia ha dimostrato - ancora una volta - di essere una straordinaria terra da vino. Sono proprio i vini prodotti con le uve locali - fra queste Grillo, Catarratto, Inzolia, Moscato d'Alessandria o Zibibbo, Malvasia, Nero d'Avola e Frappato - a riscuotere maggiore successo fra gli appassionati di vini.

Oggi la Sicilia si contraddistingue principalmente per la produzione dei suoi ricchi e suadenti vini dolci - Passito di Pantelleria e Malvasia delle Lipari in particolare - e con una delle sue uve rosse, il Nero d'Avola - un tempo dimenticata e oggi giustamente rivalutata - si producono interessanti e importanti vini rossi.

Negli ultimi anni si è notevolmente sviluppata la zona dell'Etna, in particolare per i suoi vini rossi, da uve Nerello Mascalese e Nerello Cappuccio, caratterizzati dal colore scarico e dagli aromi delicati, che la accumunano al pinot nero. (foto di Domenico Milella)

 

 

 

 

 

I vini IGT siciliani

 

Salemi IGT  D.M. 10/10/95 (G.U. n. 269 del 17/11/95)

Salina IGT  D.M. 10/10/95 (G.U. n. 269 del 17/11/95)

Camarro IGT D.M. 10/10/95 (G.U. n. 269 del 17/11/95)

Colli Ericini IGT D.M. 10/10/95 (G.U. n. 269 del 17/11/95)

Fontanarossa di Cerda IGT  D.M. 10/10/95 (G.U. n. 269 del 17/11/95)

Sicilia IGT  D.M. 10/10/95 (G.U. n. 269 del 17/11/95)

Valle Belice IGT D.M. 10/10/95 (G.U. n. 269 del 17/11/95)

 

 

Risultati immagini per vinificazione schema

 

 

 

 

Nel Catanese la zona più importante per produzione vinicola è quella dell'Etna, dove grazie alle condizioni climatiche legate al vulcano, si ottiene un ottimo vino DOC Etna, nelle tre qualità rosso, bianco e rosato.

Le città produttrici in questa zona sono dodici: Linguaglossa, Castiglione di Sicilia, Piedimonte, Pedara, Milo, Randazzo, Sant'Alfio, Riposto, Trecastagni, Santa Venerina, Viagrande e Zafferana Etnea. I vitigni coltivati sono il Cataratto, il Carricante, il Nerello Mascalese e l'Inzolia. Oltre alla visita nelle numerose cantine è d'obbligo l'ascesa ai crateri dell'Etna e una visita ai centri storici di Randazzo, Linguaglossa e Zafferana Etnea in occasione dell'Ottobrata.

 

Etna bianco

Zona di produzione: i colli che circondano Catania.

Vitigni: Carricante 60%, Cataratto bianco comune o lucido fino al 40%. Possono concorrere Trebbiano, Minnella bianca ed altri vitigni non aromatici a frutto bianco fino ad un massimo del 15%.

Gradazione alcolica minima: 11,5%. Invecchiamento: nessuno.

Caratteristiche organolettiche: colore giallo paglierino con leggeri riflessi dorati; profumo delicato di Carricante; sapore secco, fresco, armonico. Qualificazioni: nessuna.

Abbinamenti :antipasti magri, primi piatti con sughi di pesce, fritture e gratin di acciughe e sardine, pesci in bianco con salse delicate.

 

Etna bianco superiore

Zona di produzione: parte del territorio del comune di Milo.

Vitigni: Carricante 80%, Cataratto bianco comune o lucido fino al 20%. Possono concorrere Trebbiano, Minnella bianca ed altri vitigni non aromatici a frutto bianco.

Gradazione alcolica minima: 12%. Invecchiamento: nessuno.

Caratteristiche organolettiche: colore giallo paglierino molto scarico con riflessi verdognoli; profumo delicato, di frutto; sapore secco, lievemente fresco, armonico e morbido.

Qualificazioni: nessuna. Abbinamenti :frutti di mare crudi, risotti marinari, crostacei arrosto, pesci pregiati al forno o al cartoccio, zuppe di pesce saporite.

 

Etna rosato

Zona di produzione: i colli che circondano Catania.

Vitigni: Nerello Mascalese minimo 80%, Nerello mantellato (Nerello cappuccio) fino al 20%. Possono concorrere altri vitigni non aromatici a frutto bianco fino ad un massimo del 10%. Gradazione alcolica minima: 12,5%. Invecchiamento: nessuno.

Caratteristiche organolettiche: colore rosso rubino che con l'invecchiamento presenta leggeri riflessi granato o rosato tendente al rubino; profumo vinoso, intenso e caratteristico; sapore secco, caldo, robusto, pieno, armonico. Qualificazioni: nessuna.

Abbinamenti :primi piatti con sughi di carne, arrosti di carni bianche, vitello e manzo stufati, grigliate miste, formaggi vaccini stagionati.

 

Etna rosso

Zona di produzione: i colli che circondano Catania.

Vitigni: Nerello Mascalese minimo 80%, Nerello mantellato (Nerello cappuccio) fino al 20%. Possono concorrere altri vitigni non aromatici a frutto bianco fino ad un massimo del 10%. Gradazione alcolica minima: 12,5%. Invecchiamento: nessuno.

Caratteristiche organolettiche: colore rosso rubino che con l'invecchiamento presenta leggeri riflessi granato o rosato tendente al rubino; profumo vinoso, intenso e caratteristico; sapore secco, caldo, robusto, pieno, armonico. Qualificazioni: nessuna.

Abbinamenti :primi piatti con sughi di carne, arrosti di carni bianche, vitello e manzo stufati, grigliate miste, formaggi vaccini stagionati.

 

 

 

Località di produzione

  • Aci S.Antonio, Nicolosi, Pedara, Zafferana, Viagrande - VINI DEL BOSCO ETNEO

  • Adrano (CT) - ADRANO ROSSO

  • Bronte (CT) - MADERA DELL’ETNA

  • Catania - ARABESCO BIANCO - ARABESCO ROSSO

  • Etna - BOSCO DELL’ETNA ROSSO, BIANCO DI S. VENERINA

  • SAN SALVADOR ROSSO - VINI DELLA PIANA DI MASCALI - BIANCAVILLA ROSSO

  • BOSCO DELL’ETNA BIANCO - VINO ETNA MAZZULLO BIANCO E ROSSO D.O.C. - TRECASTAGNI - BELPASSO ROSSO - ETNEI DI MEZZA MONTAGNA - CICLOPI ROSSO - BIANCAVILLA BIANCO

  • Etna (Riposto) - ANTEO ROSATO - ANTEO ROSSO - ANTEO BIANCO

  • Fiumefreddo (CT) - TERREMORTE

  • Giarre (CT) - ETNA ROSSO SETTETORRI  

  • Linguaglossa (CT) - ETNA ROSSO RAGABO (ROSSO DELL’ETNA)

  • Mascalucia (CT) - OMBRA

  • Milo (CT) - ETNA ROSATO VILLAGRANDE o VINO DEL GATTOPARDO, ETNA BIANCO SUPERIORE VILLAGRANDE, ETNA ROSSO VILLAGRANDE

  • Misterbianco (CT) - TERREFORTI, CICLOPI ROSE’, CICLOPI BIANCO

  • Paternò e Ragalna (CT) - RAGALNA BIANCO E ROSSO

  • Randazzo (CT) - RANDAZZO, ETNA ROSSO CALDERARA, ETNA BIANCO CALDERARA

  • Riposto (CT) - ETNA ROSSO, NERELLO QUATTROSTELLE, ETNA BIANCO, ETNA ROSSO - FATTORIA DI PASSO CAVALLO 1809, SILENO

  • S.Giovanni Montebello di Giarre (CT) -ETNA ROSSO - FATTORIA VILLA IOLANDA

  • Solicchiata (CT) - SPARVIERO BIANCO E ROSSO, ETNA ROSSO SOLICCHIATA, ETNA ROSSO TORREPALINO, ETNA BIANCO TORREPALINO, ETNA ROSATO MONTEDOLCE

  • Mascali (CT) - NERELLO MASCALESE

 

 

 

Le fasi della vinificazione in rosso

 

Pigiatura e diraspatura.

Prima di effettuare le varie operazioni che portano alla formazione del vino rosso, è sempre opportuno verificare l'integrità e la sanità delle uve. Consigliabile è poi utilizzare uve omogenee, della stessa varietà, magari tenendo conto dell'età del vigneto, del portinnesto, dei lotti che rendono uve qualitativamente migliori ecc.: in questo modo è possibile ottenere un prodotto di qualità ottimale, partendo già dall'inizio con una buona materia prima.

Operazioni meccaniche sulle uve (ricevimento, pigiatura, diraspatura)

Sono operazioni solitamente riunite in una macchina combinata chiamata diraspapigiatrice. Nel caso di vini rossi, non avviene la separazione tra mosto e fase solida.

Trasferimento in vasca

Dopo diraspatura e pigiatura, il mosto è trasferito alla vasca di fermentazione, addizionato di lieviti e di attivanti di fermentazione. L’operazione di trasferimento può essere effettuata con una pompa, usando il tragitto più breve possibile e con il minor numero di gomiti.

Fermentazione alcolica e macerazione

E' consigliabile svolgere la macerazione e la contemporanea fermentazione a temperatura controllata, in modo da evitare anomalie nel processo (arresti di fermentazione, sviluppi microbici indesiderati ecc.). In generale, temperature ottimali per la fermentazione e la macerazione sono 25-30°C, in quanto permettono una buona estrazione di sostanze coloranti e di composti tannici. Diffuso è l'utilizzo di enzimi pectolici, che permettono una maggiore disgregazione delle strutture cellulari dell'uva; questa pratica, nel suo complesso, permette di aumentare le rese di pressatura delle vinacce e di estrarre più facilmente dalle parti solide composti fenolici e aromatici, con l’obiettivo di avere vini più ricchi in tannini, meno astringenti e amari. Importante in questa fase è effettuare rimontaggi e follature: l'azione di rimescolamento che ne consegue permette una buona omogenizzazione della massa, aumentando l'estrazione e permettendo l'introduzione nel mosto di limitate quantità di ossigeno indispensabili per i lieviti.

Per quello che riguarda la tipologia dei lieviti da utilizzare, si rimanda a quanto già detto nella fermentazione dei vini bianchi.

Svinatura e pressatura

Subito dopo la fermentazione e la macerazione, viene eseguita la svinatura, ovvero la separazione del fermentato dalle parti solide, operazione che può essere eseguita per sgrondatura. Successivamente si passa alla pressatura delle vinacce: ciò che si ottiene può essere aggiunto in quantità variabile allo sgrondato, in funzione del prodotto che si vuole ottenere. Normalmente la pressatura non avviene con un’unica operazione, ma è il risultato di una serie di operazioni di incremento della pressione: questo influenza la qualità del vino di pressa che quindi va separato in diversi lotti. In particolare si separa il vino di prima pressatura (2/3 del vino di pressa), che è di buona qualità, dal vino di seconda pressatura (1/3 del vino di pressa), di qualità inferiore, perché ottenuto a pressione elevata e di conseguenza contenente sostanze dal gusto amaro ed erbaceo (in aggiunta al gusto astringente dei tannini di pressa).

Fermentazione malo-lattica

Al termine della fermentazione alcolica, viene effettuata la fermentazione malo-lattica, che conferisce maggiore stabilità e ammorbidisce il gusto del vino. La fermentazione viene operata da batteri lattici anaerobi, che si sviluppano nella massa del vino e decompongono l'acido malico in acido lattico e anidride carbonica. Opportuno è l'inoculo di batteri lattici selezionati, per ovviare a problemi relativi alla partenza e alla continuazione di questa fermentazione.

Affinamento e maturazione

A seconda della tipologia di prodotto che si vuole ottenere, si opta per metodi di affinamento diversi. In generale, per prodotti freschi e di pronto consumo, ci si limita ad utilizzare contenitori di affinamento in acciaio inox; per prodotti più evoluti, si possono utilizzare contenitori in legno: questa pratica, certamente più onerosa, deve però essere valutata in base alla tipologia di prodotto che si ottiene e al possibile maggior riscontro economico. Il legno non è un materiale inerte e per questo motivo, durante l'affinamento, cede al vino sostanze e aromi che ne modificano le caratteristiche (struttura, corpo, profumi ecc.), oltre a permettere una lenta e continua ossigenazione del vino stesso. Le interazioni fra contenitore legnoso, ambiente e vino sono ovviamente, in funzione di numerose variabili, quali le dimensioni del recipiente (rapporto superficie/volume), tipo di essenza legnosa, stagionatura e tostatura del legno ecc..

Stabilizzazione e confezionamento

Anche i vini rossi, come i vini bianchi, necessitano di trattamenti stabilizzanti, che servono a mantenerne intatte le caratteristiche fino al consumo. Per le tipologie di trattamenti e per il confezionamento, si rimanda a ciò che è stato detto per i vini bianchi.

 

 

 

PERCHE' POLIFEMO SI ADDORMENTO' BEATAMENTE.

 

Etna, "vitigni reliquie" da riscoprire, "cugini" dimenticati di Nerello e Carricante

02/07/2018 - 17:03di Carmen Greco

 

Una ricerca del Dipartimento di Agricoltura, Alimentazione e Ambiente dell’Università di Catania fa riscoprire le uve autoctone minori e apre nuove possibilità per vini dal carattere sempre più vulcanico

Etna, "vitigni reliquie" da riscoprire, "cugini" dimenticati di Nerello e Carricante

Chi ha detto che i vitigni di successo sull’Etna debbano essere solo Nerello Mascalese e Carricante? Il patrimonio di uve autoctone è molto più ricco di quello che conosciamo.

Lo testimonia una ricerca del Di3A (il Dipartimento di Agricoltura, Alimentazione e Ambiente dell’Università di Catania) che ha individuato una quindicina di “vitigni reliquie”, analizzandone le caratteristiche, la morfologia, le diverse varietà, il patrimonio genetico.

Lo studio, avviato da Antonio Cicala, ricercatore del Di3A che si è occupato anche di vecchie tecniche colturali, è firmato da Elisabetta Nicolosi, Stefano La Malfa, Alessandra Gentile (docenti del Di3A) e da Filippo Ferlito, ricercatore del Crea (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria, di Acireale).

«Quando negli anni Duemila - ricorda Elisabetta Nicolosi - il nostro dipartimento iniziò a caratterizzare il germoplasma frutticolo del territorio etneo, nell’andare in giro per catalogare le diverse varietà di frutta, attraverso le interviste agli agricoltori locali, ci imbattevamo in piante di vite “diverse” in mezzo ai vigneti delle quali i viticoltori ci raccontavano le particolarità. Abbiamo poi confrontato queste notizie con la letteratura esistente, che è abbastanza vasta e testimonia i vitigni presenti nel nostro territorio chiamati con tantissimi nomi diversi».

«Nel Vertunno Etneo (un testo dell’Ottocento dell’abate Geremia dove sono descritte le varietà delle uve coltivate sull’Etna ndr) vengono citati oltre 50 vitigni “minori” - dice Filippo Ferlito - oltre quelli già conosciuti, presenti da tempo immemore sull’Etna. Per questa ricerca ci siamo interfacciati con una popolazione di vecchi agricoltori che oggi, forse, non esiste più.

 

 

Dal 2001 al 2005 abbiamo “segnato” le piante, al momento giusto siamo andati a prelevare il materiale che abbiamo messo a dimora in un nostro campo sperimentale, poi abbiamo replicato l’operazione su un altro campo sperimentale sull’Etna (a Nicolosi, dove sono stati piantati altri vitigni reliquie di tutta la Regione ndr), e una volta che queste piante sono andate in produzione abbiamo eseguito altri tre-quattro anni di rilievi ampelografici».

Perché “reliquie”?

«Perché le piante sono davvero poche numericamente, appartenenti a 15-20 vitigni».

Ma potrebbero avere uno futuro importante da un punto di vista enologico?

«Intendiamoci - chiarisce la prof. Nicolosi - da un punto di vista produttivo non potranno avere lo sviluppo degli altri più diffusi, nel senso che non hanno delle caratteristiche tali da essere vinificati in purezza. Utilizzati, però, in un uvaggio, il discorso potrebbe essere interessante se non altro per il fatto che sempre di più dalle nostre parti c’è un ritorno al prodotto di nicchia legato strettamente all’identità del territorio e sul vino dell’Etna, in questo momento, c’è un boom. Questi vitigni antichi potrebbero, per la loro storia, alcuni si pensa addirittura pre-fillossera, dare sicuramente quel qualcosa di più attrattivo per l’enoturismo che sta andando alla grande».

 

 

Altrimenti tutto verrebbe relegato in una sorta di studio di archeo-agricoltura...

«Non è solo un discorso da museo anche perché la coltivazione di questi vitigni dovrebbe comunque passare dall’iscrizione di alcuni di questi nel registro nazionale delle varietà. Affinchè un vitigno possa essere coltivato è necessario, infatti, che venga “autorizzato” ed è nostra intenzione iscriverli. In maniera non ufficiale molti viticoltori, magari ex nostri studenti, ce li hanno chiesti per impiantarli».

Però se nessuno li ha più coltivati un motivo ci sarà?

«Perchè fino alla metà degli Anni Novanta - risponde Ferlito - si è preferita la quantità alla qualità. Queste varietà non erano molto produttive, non avevano lo stesso periodo di maturazione del Nerello Mascalese, non erano molto carichi di colore e quindi venivano man mano abbandonati. Oggi che i gusti sono cambiati e i vini un po’ scarichi di colore hanno un mercato, le prospettive sono diverse. Poi i motivi per cui sono stati abbandonati possono essere vari. La Vispara, per esempio, non ha avuto successo, perché era una varietà molto precoce, se il contadino non interveniva raccongliendola per il consumo della famiglia, se la mangiavano le api. Una volta le famiglie vivevano con quello che producevano, il Nerello Mascalese serviva per il vino, altre uve con particolari gusti e dagli acini più grossi come la Minnella o il Barbarossa avevano una duplice attitudine anche come uva da tavola».

A parte la produzione di vino, quale può essere il ruolo di questi vitigni?

«Se queste varietà hanno resistito fino ad oggi - argomenta la prof. Nicolosi - le informazioni sul loro patrimonio genetico possono essere molto utili. Un esempio è il Terribbile (con due “b” ndr), chiamato così non a caso perché ha dei geni molto resistenti. Il Terribbile ha un bel grappolo, fitto, compatto, produttivo; in un programma di miglioramento genetico potrebbe essere utilizzato tranquillamente. Moscatella nera e Moscatidduni li stiamo portando avanti da 8 anni per “trasferire” alcuni caratteri trovati in queste reliquie nell’uva da tavola. Tornando al Terribbile le analisi qualitative hanno rivelato un bell’equilibrio acidità-zuccheri con valori interessanti non abbiamo ancora fatto le microvinificazioni per vedere il loro comportamento». «I colleghi delle Soat - dice Ferlito hanno fatto delle prove vinificando tutte le varietà a bacca rossa insieme. È venuto fuori un vino dal sapore forte assomigliante al Nerello Mascalese».

Da parte dei vecchi coltivatori che tipo di accoglienza avete avuto?

«Grande collaborazione - afferma Ferlito - erano felicissimi. Purtroppo è un mondo che per motivi anagrafici sta scomparendo, ma loro hanno in mano non solo la cultura dei vitigni reliquia ma anche le vecchie tecniche di coltivazione. I “munzeddi” erano dei veri capolavori (le montagnette di terra attorno alle piante, una tecnica che si utilizzava in inverno per favorire la raccolta dell’acqua ndr), ma stanno scomparendo assieme ai loro inventori».

«E poi - interviene Nicolosi - bisogna considerare che i grandi investimenti sull’Etna sono stati anche possibili perché molti piccoli agricoltori che avevano anche meno di un ettaro di terreno hanno venduto. Oggi che un ettaro di terreno vitato sull’Etna costa 80mila euro, molti hanno venduto accorpando gli appezzamenti. Il piccolo coltivatore non esiste più. Sarebbe bello se questi grandi produttori che sono sbarcati sull’Etna destinassero anche mezzo ettaro alla coltivazione di questi vitigni antichi, per loro sarebbe sicuramente un valore aggiunto. Se anche arrivassero ad imbottigliare 2.000 bottiglie di un vino prodotto esclusivamente con i vitigni reliquia, sarebbe un bel risultato...».

Un po’ quello che accade con i grani antichi...

«Sì, anche se quello è un capitolo a parte. Si parla tanto di viticoltura eroica, di viticoltura di montagna. Oggi che sull’Etna ci sono, ed è un bene, grandi investimenti, continuare a coltivare la vite sulle colline terrazzate dove si può entrare solo con un piccolo ceppo (l’attrezzo per arare ndr) significa non solo tramandare un metodo ma anche “mantenere” un paesaggio unico. Il problema, infatti, non è solo il reperimento e la caratterizzazione dei vitigni dimenticati, ma il loro mantenimento perché sono varietà che necessitano di spazi e cure particolari. Devono aver un ruolo, altrimenti restano sui libri».

 

http://www.lasicilia.it/news/cibo-salute/172121/etna-vitigni-reliquie-da-riscoprire-cugini-dimenticati-di-nerello-e-carricante.html

 

Risultati immagini per enoetna 2018

 

 

 

 

 

 

NOCCIOLE DEI NEBRODI

 

Storia e origine

Il nocciolo è un arbusto d'epoca preistorica. La diffusione nel continente europeo iniziò al termine dell'ultima glaciazione, circa 10.000 anni fa. Oggi l'Italia, con le coltivazioni di noccioli in Campania, Lazio, Piemonte, Liguria e Sicilia, è uno tra i principali produttori al mondo. In Sicilia si trovano piantagioni di pregio sulle pendici dei Monti Nebrodi. Le nocciole qui prodotte sono particolarmente apprezzati per l'ottimo equilibrio fra aroma, profumo e consistenza. La loro produzione inizia intorno al 1890 in seguito al perdurare della crisi della gelsicoltura che venne  sostituita degnamente grazie alla facilità di adattamento dei noccioli, alla sua produttività e a un apparato radicale molto fitto, utile a prevenire l'erosione del suolo.

Uso

Le nocciole possono essere consumate come frutta secca, tostate, o trasformate in crema di nocciole. Largamente impiegate nella pasticceria locale per la preparazione di gelati, semifreddi e dolci caratteristici come i croccantini e il torrone.

Produzione

Il nocciolo è un arbusto di medio sviluppo che in genere non supera i 5 metri di altezza. Vegeta bene dalla pianura alla collina fino a circa 1300 metri di altezza e si adatta a diversi tipi di terreno, purché non troppo umido.

Il nocciolo è classificato come pianta "monoica" per la compresenza di fiori maschili e femminili in un unico arbusto. I fiori maschili sono i più appariscenti, costituiti da lunghi filamenti che si formano sui rami nella stagione estiva. In inverno terminano lo sviluppo allungandosi e liberando una grande quantità di polline che, sfruttando il vento, raggiunge i fiori femminili. Quindi inizia la formazione del frutto che  termina nei mesi di Agosto - Settembre.

La raccolta va eseguita a completa maturità, quando le nocciole tendono a staccarsi e cadere, e le brattee che li avvolgono disseccano.

http://www.monsu.it/gusto-di-sicilia/sicilianita/nocciola-dei-nebrodi/

 

IL SUCCO DI MELOGRANO

Il succo di melograno si ottiene attraverso la spremitura a freddo di questo buonissimo frutto colto durante la stagione autunnale. Considerato da molti un potente rimedio naturale contro tante malattie, scopriamo insieme quali sono i benefici del succo di melograno e le sue controindicazioni. Spremendo gli arilli del melograno si ottiene un buonissimo succo, ricco di proprietà benefiche per la nostra salute. E’ possibile acquistarlo nei negozi oppure, prepararlo direttamente in casa. Il succo di melograno casereccio è senza dubbio migliore perché puro e freschissimo. Questi due punti sono indispensabili se vogliamo assorbire tutte le sostanze nutritive del frutto, i conservanti e gli zuccheri aggiunti da alcune aziende infatti, andrebbero a alterare le sue proprietà.

Come preparare il succo di melograno Tutto ciò di cui avete bisogno è un melograno maturo e uno spremi agrumi. Il succo si estrae come da un’arancia o un limone. Solo dovete prendere alcune precauzioni extra perché il suo succo rosso crea macchie che non vengono via, tagliere e abiti inclusi. Rimuovete con il coltello la corona e dopo, incidete la buccia da una parte all’altra fino alla zona bianca, facendo attenzione a non tagliare anche gli arilli che servono appunto per creare il succo. Aprite il melograno partendo dai tagli che avete fatto per dividerlo in due parti e spremete. Potete così gustare una buonissima e sana spremuta di melograno pura. Benefici del succo di melograno Grazie all’acido ellagico presente all’interno del succo di melograno, è possibile contrastare e prevenire la Tenia Solium, volgarmente definita verme solitario, che entra in contatto con il nostro intestino principalmente a causa del consumo di carne di maiale poco cotta. 



Il succo di melograno ha attirato l’interesse di molte persone soprattutto perché sembra che riesca a contrastare le cellule cancerogene, portandole alla morte. Questa azione è data dall’acido ellagico e i flavonoidi, sostanze antiossidanti presenti nel succo di melograno. Non una semplice teoria, ma un vero e proprio studio scientifico pubblicato su Translational Oncology. Ha un’azione preventiva soprattutto contro i tumori dei polmoni, della prostrata, del seno e della pelle. La rivista Toxicology and Industrial Health pubblicò uno studio nel quale venne evidenziato come la spremuta di melograno riesce a proteggere il fegato da eventuali agenti nocivi. Anche contro i reni svolge la stessa azione positiva.

 

L’assunzione costante di succo di melograno agisce sul sistema cardiocircolatorio contrastando sia l’ispessimento arterioso che la formazione delle placche aterosclerotiche. Aumenta il colesterolo buono nel sangue, contrasta le infezioni e aiuta a mantenere la pressione bassa. LEGGI ANCHE » » » Scala ORAC: qual’è il potere antiossidante del succo di melograno? Effetti positivi nella vita quotidiana I benefici del succo di melograno si possono riscontrare ogni giorno. Aiuta a contrastare la diarrea grazie al potere astringente, rafforza il sistema immunitario contro i malanni stagionali e le allergie. Sembra inoltre una bevanda naturale perfetta per contrastare ansia e depressione. Consideriamo infatti che il melograno è ricco di vitamina C, molto più dell’arancia e di qualsiasi altro frutto. Per questo motivo è l’ideale per combattere gli stati influenzali. Inoltre è importante sapere che il succo di melograno protegge il corpo dai tumori della pelle, contrastando l’azione nociva dei raggi UV sull’epidermide e favorisce l’abbronzatura. Il succo puro protegge i denti dalle carie e svolge una funzione analoga sulla mucosa gastrica, purificandola da eventuali batteri. Controindicazioni del succo di melograno Studi medici hanno confermato che il succo di melograno ha effetti collaterali più o meno gravi e può interferire con farmaci antidepressivi, per l’ipertensione e antinfiammatori. Le controindicazioni del melograno non rimangono limitate a questo specifico campo. Sembra infatti che anche un utilizzo spropositato del frutto (soprattutto se non biologico) possa portare a intossicazioni (a causa degli insetticidi utilizzati). Gli effetti collaterali più comuni fino a oggi sono stati casi di mal di testa, sonnolenza, una certa difficoltà a respirare e un senso di vertigini. Ognuno di voi poi, dovrà tener di conto delle possibili (e personali) reazioni allergiche nei confronti di uno specifico alimento. Se avete alcuni dubbi o avete notato che, assumendo un farmaco e subito dopo del succo di melograno si sono presentati effetti collaterali, fatelo presente al vostro medico e chiedete consiglio a lui. In alcuni casi poi sarebbe bene limitare l’assunzione di questa bevanda a cicli ben stabiliti e durante momenti precisi della giornata

 

Fonte: http://www.viversano.net/alimentazione/mangiare-sano/succo-di-melograno/

 

 

 

 

 

 

Angurie, ecco perché non dovreste buttare i semi

 Contengono più nutrienti della polpa del frutto: una trentina di grammi apporta 8 grammi di proteine e 13 di grassi per lo più insaturi, oltre a minerali come ferro, magnesio, fosforo, potassio e zinco

Le angurie senza semi sono sempre più richieste anche in Italia, oltre che nel Nord e nel Centro dell’Europa. Invece in Africa, in Asia e in Medio Oriente rimangono più apprezzate quelle “ordinarie”, proprio perché per le popolazioni che vivono in queste aree, anche i semi sono preziosi: vengono tostati e consumati come spuntino (il loro sapore ricorda quello delle noci), possono essere macinati (la loro farina si usa per fare il pane), o ancora schiacciati e trasformati in una pasta utile per addensare e arricchire le zuppe. L’olio estratto dai semi, infine, può essere utilizzato per cuocere e friggere.Immagine correlata

D’altra parte, i semi di anguria contengono, in realtà, ancora più nutrienti rispetto alla polpa del frutto: una porzione da una trentina di grammi di semi essiccati apporta circa 160 calorie, 8 grammi di proteine ​​e 13 grammi di grassi (per lo più insaturi), oltre a minerali come ferro, magnesio, fosforo, potassio e zinco. I semi contengono anche vari fitochimici, inclusi i flavonoidi.

È per questo che alcuni studiosi hanno già promosso i semi di anguria a superfood, utile per prevenire l’obesità, l’artrite e il diabete, e per proteggere il sistema immunitario. Le ricerche svolte finora, però, hanno testato l’effetto dei semi soprattutto sugli animali: sono necessari altri studi clinici, prima di poter assicurare la validità di queste conclusioni anche sugli uomini.

Intanto, i semi possono diventare uno spuntino sano, ricco di nutrienti benefici e adatto anche a chi vuole tenere sotto controllo il peso. Basti pensare che in una porzione da 30 grammi ce ne sono circa 400: addirittura troppi da mangiare in una volta sola. Invece una porzione di patatine dello stesso peso ne contiene solo 15.  Una grande manciata di semi di anguria contiene circa 55 semi e pesa circa 4 grammi, per un totale di una ventina di calorie: molto meno di un pacchetto di patatine.

I semi prelevati direttamente dall’anguria non sono appetitosi, perché la buccia è dura e amara. Ma tostarli è semplice. Innanzitutto, bisogna scegliere quelli scuri e scartare quelli bianchi. Dopo averli risciacquati in uno scolapasta, bisogna lasciarli asciugare bene. Poi, in un wok o in una padella, si scalda un po’ di olio di oliva e si aggiungono i semi, e si mescola frequentemente fino a quando non diventano bruni. Alla fine, si può aggiungere una spolverata di sale.

Oppure si possono distribuire i semi su una teglia da forno (se lo si desidera, si possono insaporire con un filo d’olio e una spolverata di sale): devono cuocere per circa 15-20 minuti a circa 160°, fino a quando non cominciano a profumare. I semi tostati, oltre che come spuntino, possono anche essere utilizzati per arricchire l’insalata, oppure uniti al muesli di frutta secca e avena.

https://www.lacucinaitaliana.it/news/salute-e-nutrizione/semi-angurie/

 

 

 

 

 

Il territorio etneo è ricco di piante erbacee spontanee molte delle quali, assieme ai funghi ed ai frutti di bosco, fino ad un passato non troppo lontano rappresentavano una fondamentale risorsa alimentare per le popolazioni locali (contadini, boscaioli, pastori, ecc.). Infatti, era prassi quasi quotidiana andare per le sciare, le timpe, i coltivi ed i boschi in cerca di verdure selvatiche.

Tale abitudine alimentare, principalmente, traeva origini da uno stato di necessità, data la cronica indigenza in cui versava la popolazione rurale e talora quella cittadina. Pure i cacciatori avevano l'abitudine di raccogliere piante selvatiche che trovavano nel loro girovagare.

Si cercavano verdure selvatiche anche per variare la dieta giornaliera, principalmente a base di pasta, carne e legumi, e per la mancanza delle diverse varietà di ortaggi carnosi, multicolori ed esotici che oggi si trovano, invece, in bella mostra nei negozi di frutta e verdura. Da questa abitudine alimentare, attraverso i secoli, è giunto fino a noi un imponente patrimonio culturale, tramandato di generazione in generazione.

 http://www.dipbot.unict.it/alimurgiche/introduzione.htm

 

AZZERUOLO (Anzaloru)

 

Azzeruolo: sembra una mela ma non lo è. E’ di più

C'è un frutto che somiglia ad una mela piccola di colore bianco, giallastro o rossastro, dalla polpa dolce, croccante ed incredibilmente profumata: l'azzeruolo.

L'azzeruolo è una pianta da frutto della famiglia delle Rosaceae.

Gran parte dei botanici ritiene che questa specie sia originaria dell'Asia Minore o dell'isola di Creta, da cui si sarebbe diffusa come coltivazione in tutto il resto del bacino del Mediterraneo (in particolare nel Nord Africa) e dell'Europa.

In Sicilia la possiamo trovare un po' in tutte le province.

Si tratta di una pianta rustica capace di crescere in tutti i terreni. L'importante è che non siano troppo argillosi e umidi. Diciamo che preferisce le terre calcaree e secche. Meglio ancora se esposte a mezzogiorno.

I frutti si raccolgono soprattutto in autunno, ma non si possono usare se non dopo che siano lasciati a maturare sulla paglia per un paio di giorni.

Curiosità: Nel XVI secolo, Giacomo Castelvetro chiamava i frutti "Lazzeroni" e sosteneva che essi erano "un frutto non soltanto bello e piacevole all’occhio ma buono e di gusto e molto sano per i corpi indisposti" attribuendogli, inoltre, virtù curative: "il suo sapore è agrodolce, ed è fuor di dubbio che allevia la sete delle febbri ardenti, e per questa ragione, i medici lo danno agli affebbrati". Era così convinto delle proprietà di questa bacca che ne fece dono a Sir Arrigo Wottoni, un diplomatico inglese che rese numerose visite all’Italia.

Viola Dante

http://www.siciliafan.it/azzeruolo-sembra-una-mela-ma-non-lo-e-e-di-piu

 

 

 

LAMPASCIONE (Lampasciuni)

 

Il lampascione è una pianta erbacea diffusa nei Paesi mediterranei, dal bulbo simile ad una cipolla, che si raccoglie rimuovendo il terreno sovrastante, caratterizzato da uno stelo corto con piccoli fiori viola. La sua raccolta, in estate e in autunno, va effettuata con grande cura, dato che la superficie del lampascione lo fa aderire molto bene al terreno e pertanto deve essere sbriciolato e scrostato dalla parte esterna.

I lampascioni, preferiti da tanti estimatori, detestati da altri, di certo non conoscono mezze misure: o si amano, o si odiano e, per la maggior parte degli italiani, restano tutt’oggi un mistero. Dopo alcuni approfonditi studi botanici, il lampascione viene correttamente appellato come “Leopoldia comosa”. Già conosciuto ad Egizi, Greci e Romani, le sue virtù furono sperimentate sin dal I secolo d.C. dal famoso medico greco Galeno, che lo descriveva come diuretico, lassativo e depurativo e, in seguito, da numerosi grandi dell’antichità, tra cui Plinio e Teofrasto. Nel Salento, il lampascione si concretizza nella venerazione della Madonna dei Lampascioni: la Madonna Addolorata, ogni primo venerdì di Marzo, nella bellissima Acaya, cambia nome, divenendo “La Madonna dei Lampascioni” e la celebrazione religiosa si integra con la tradizionale fiera, nonché sagra dei lampascioni, degustati in tutti i modi. Ma il lampascione sta davvero a cuore ai pugliesi in genere, al punto che a San Severo di Puglia è stata fondata l’Accademia del lampascione per valorizzare le sue caratteristiche.

I lampascioni hanno un aspetto del tutto simile a quello di una cipolla, ma dal sapore leggermente amarognolo. Sono ricchi di acqua, di fibre solubili (che, gonfiandosi nello stomaco, inducono un maggior senso di sazietà),contengono sali minerali e vitamine, sono assolutamente ipocalorici, avendo solo 30 calorie ogni 100 gr.; inoltre riducono il rischio di cardiopatie; sono consigliati dai dietologi per chi soffre di stitichezza (assieme ad altri vegetali fibrosi); contribuiscono ad abbassare i grassi e gli zuccheri nel sangue, a prevenire la formazione di trombi e ad abbassare la pressione. Inoltre, il lampascione stimola l’appetito e attiva le funzioni gastriche, stimola la secrezione biliare, pulisce gli intestini e previene il cancro intestinale per la sua azione antiputrida . E’ poi dotato di potere antinfiammatorio e antimicrobico, è utile particolarmente nei casi di infiammazione della vescica e dell’intestino, riduce il colesterolo. Gli antichi romani ritenevano persino che il lampascione fosse un potente afrodisiaco, esaltando il desiderio e le capacità amorose e sembra che per questo motivo fosse d’augurio portarlo in tavola nel corso dei banchetti nuziali.

 A cura di Caterina Lenti

 

 

COTOGNO

 

Cotogno -Cydonia oblonga Mill. Famiglia: Rosaceae Genere:   Cydonia Specie:   C. oblonga  Nome locale: Melacotogna

Il cotogno é una delle più antiche piante da frutto conosciute: era coltivato già nel 2.000 a.c. dai Babilonesi, tra i Greci era considerato frutto sacro ad Afrodite e in epoca romana era ben noto, venendo citato da Catone, Plinio e Virgilio.

Le varietà con i frutti a forma di mela sono dette meli cotogni, mentre quelle con i frutti più allungati sono dette peri cotogni. Ovviamente, trattandosi di specie ben definita, pur avendo il frutto a pomo che può assumere diverse forme, il cotogno è una pianta da frutto distinta da meli e peri.

Si presenta come un piccolo albero deciduo, che può raggiungere i 5–8 m di altezza. Le foglie alternate, semplici, sono lunghe 6–11 cm, con margine intero, pubescenti (finemente pelose). I fiori sono bianchi o rosa, con cinque petali, con corolle di 5–7 cm di diametro; la fioritura avviene tardivamente (fine aprile inizio di maggio) e si ha dopo la emissione delle foglie.

I frutti, di colore giallo oro intenso, sono di dimensioni variabili, (a volte molto grandi in alcune varietà) asimmetrici, maliformi o piriformi. La buccia del frutto è fittamente ricoperta di peluria che scompare a maturazione ed è comunque facilmente rimossa.

La polpa è facilmente ossidabile (scurisce all'aria), poco dolce ed astringente.

I semi sono poligonali, numerosi, spesso agglutinati tra loro da uno strato di mucillagine.

Originario dell'Asia Minore e della zona del Caucaso, oggi è diffuso principalmente nell'areale occidentale del Mediterraneo ed in Cina; un tempo molto diffuso anche in Italia, dagli anni '60 ad oggi si è verificata una notevole contrazione della produzione dato che la distribuzione dei frutti non interessa le grandi reti commerciali.

Data la limitata dimensione propria delle piante di cotogno, governata anche da opportune potature, i cotogni trovano spazio e sono ancora coltivati in orti e frutteti domestici.

Il frutto è usato per la preparazione di confetture, gelatine, mostarde, distillati e liquori.

A tal proposito una curiosità degna di nota è che la parola marmellata viene dal portoghese marmelo che è il nome lusitano del cotogno; significando quasi, la predestinazione naturale dei frutti del cotogno.

La condizione di limitata dolcezza della polpa non significa assenza di zuccheri, ma la loro presenza sotto forma di lunghe catene glucidiche, che danno l'effetto soggettivo della scarsa dolcezza; con la cottura, nella preparazione di confetture, e quindi con la frammentazione dei polisaccaridi la polpa assume una dolcezza intensa, e la liberazione di un profumo di miele.

L'elevato contenuto di pectina produce un veloce addensamento della confettura o della gelatina, limitando i tempi di cottura.

In epoca precedente la diffusione dello zucchero raffinato la confettura semisolida di cotogne era con il miele (costosissimo) uno dei pochi cibi dolci facilmente disponibili e soprattutto ben conservabili.

I frutti venivano anche posti negli armadi e nei cassetti per profumare la biancheria.

La cotognata, gelatina semisolida in piccoli pezzi, è famosissima nel Ragusano, nell'area dell'Etna e nel Basso Lodigiano, soprattutto a Codogno.

http://www.olivamara.it/cotogno.html

 

 

BAGOLARO  (Minicuccu)

 

Il nome “middicuccu” (chiamato anche minicuccu o milicuccu) pare derivi dal greco “melikokkos”, cioè “dolce chicco”. In italiano è detto “bagolaro”, ma in francese ha un nome che somiglia al siciliano, “micocoulier de Provence”. Gli etnei associano il middicuccu alla vendemmia. Il suo frutto matura ad ottobre e, da piccoli, tutti si sono fatti scorpacciate della sua polpa, del sapore simile ai datteri. Non è un frutto generoso: è difficile raccoglierlo dai rami sempre troppo alti, e la polpa è scarsa, quasi tutto pelle e nòcciolo, ma il sapore dolcissimo ripaga della fatica. Il nòcciolo veniva anche usato come munizione per le cerbottane. Insomma, il middicuccu non è un frutto per chi ha fretta o non ha voglia di giocare. I’ vigne di Fessina, come la gente di queste parti definisce i vigneti della tenuta, sono sorvegliate da un grande albero maestoso, con le radici che, come una serpe, avvolgono i blocchi del muro di cinta del borgo di Rovittello, i cui rami volano verso il cielo a guardare i Nebrodi. Il Millicucco lo chiamano, fascinoso e ieratico custode del borgo.

http://divinando.blogspot.it/2013/10/i-dolci-giochi-del-middicuccu-in-tempo.html

 

 

Boschi dell’ambiente mediterraneo

CIPRESSO CORBEZZOLO LECCIO SUGHERO

 

Alberi da frutta

VITE MELOGRANO COTOGNO AZZERUOLO PERO

 

 

 

Il  piacere del cioccolato più forte del fascino del rosone fondente

di Andrea Lodato

 

Modica (Ragusa) - «Si fa così, rossetto e cioccolato che non mangiarli sarebbe un peccato». Ornella Vanoni, già. Facciamo che sostituiamo il rossetto del fascino femminile, con il Barocco della bellezza universale. Ecco Modica servita, pronta all’uso per la testa, per gli occhi, per il cuore. E per la gola. Perché qua ci sono monumenti mozzafiato, alcuni dei quali ancora nascosti, ancora da recuperare all’antica bellezza e alla completa fruizione, ci sono le scacce di pummaroru e cipudda, ma anche trattorie, ristoranti, pasticcerie di altissima qualità. Ma se a Punta Secca c’è Montalbano (anche se non c’è), qua c’è soprattutto il cioccolato. E lo vedi, e lo senti, e lo mangi. Quanto appeal eserciti oggi sui turisti è quasi sorprendente. Con orgoglio, e forse una punta di pudore, lo confessa anche il direttore del Consorzio di tutela del cioccolato, Nino Scivoletto.

 «La sensazione è che da un po’ di tempo a questa parte al primo posto come fattore attrattivo per i turisti per Modica ci sia proprio il nostro cioccolato. Diciamo anche più delle bellezze architettoniche stesse, e la cosa un po’ ci dispiace, ovviamente. Ma sembra così».

 Per spiegarci in termini più pratici da cosa si deduca la forza trainante del cioccolato modicano, Scivoletto ci ricorda che qui si producono ogni anno qualcosa come 12 milioni di barrette di cioccolato e che il 40% circa la gente le consuma qua. Insomma il turista viene, guarda, resta sbalordito per la bellezza del Duomo di San Giorgio, di Palazzo Polara, della vista imperdibile dalla panoramica che domina la città, ma poi si scioglie nel gusto del cioccolato modicano.

Sarà anche questo un segreto, ma aspettando settembre e il riconoscimento definitivo da parte dell’Ue dell’Igp per questo prodotto davvero unico, Modica è anche mille altre cose e, soprattutto, un fermento inarrestabile. Negli ultimi anni sono sorte decine di associazioni, enti, Immagine correlatagruppi, tutti concentrati nel campo della promozione turistica. Francesco Frasca Polara è il presidente del Consorzio degli operatori turistici di Modica. Ed è felice.

 «Certo, i numeri sono straordinari. Già il numero di presenze registrate nel primo scorcio di questa estate conferma un trend molto interessante per Modica e per tutta questa area. Perché i turisti sanno che qui trovano quel che cercano, c’è un’offerta mirata, precisa, inequivocabile. E c’è, effettivamente, anche il proliferare di associazioni che hanno scelto di dedicarsi al turismo, all’assistenza dei turisti, a fare da guide anche per presentare percorsi inediti, non quelli tradizionalmente indicati nelle guide». Il fermento c’è, è grande, intenso e contagioso. E Polara sottolinea come ancora ci siano tantissimi stranieri che cercano di comprare case, antiche masserie, rustici da ristrutturare da queste parti.

 «Devo dire che nonostante il brand Modica sia ormai affermato in Europa, grazie al barocco, al cioccolato, a tante manifestazioni che si sviluppano lungo una stagione che comincia in primavera e continua anche in autunno, per chi cerca di acquistare i prezzi sono ancora abbordabili. Soprattutto se si pensa a stranieri che vengono da mercati come quello svizzero, o tedesco. Per loro trovare una casa al mare acquistabile con 100 mila euro è praticamente un affarone».

 Francesco Frasca Polara, come tanti da queste parti, ha ristrutturato un antico casale, che apparteneva alla sua famiglia e lo ha destinato a B&B, nel cuore della campagna modicana. Valori aggiunti queste antiche strutture che garantiscano ricettività, come i palazzi ristrutturati in centro, che sono richiestissimi. Naturalmente dietro e dentro questo successo c’è anche il ruolo dell’amministrazione. Il sindaco, Ignazio Abbate, nel giro di pochi giorni ha firmato un accordo per la pulizia del Parco archeologico di Cava d’Ispica e ha partecipato al convegno “Un ponte a Est”, con cui si sono gettate le basi per una collaborazione con l’Ucraina. Il sogno, realizzabile, è quello di avviare una collaborazione commerciale e turistica con l’Ucraina. Primo step chiedere che venga varato un volo diretto Comiso-Kiev. Perché è dall’Est che si muove un numero crescente di turisti. Dunque mercato da sviluppare offrendo sole, mare, bellezze storiche. E un pezzo di cioccolato, sempre.

fonte www.lasicilia.it 9.7.2017

 

La barretta di cioccolato modicano, non si può improvvisare. Forme moderne, aerodinamiche, artistiche, non sono ammesse. Dagli stampi metallici esce ancora, da centinaia di anni, sempre la stessa, squisita barretta di Cioccolato Modicano.

Da sempre a Modica si produce cioccolato aromatizzato con CANNELLA, VANIGLIA e da alcuni anni vi è stata la riscoperta dell'aromatizzazione arcaica al PEPERONCINO.

Quasi tutti i laboratori artigianali che producono il pregiato Cioccolato Modicano, propongono ormai altre varianti di gusto da affiancare alla produzione dei gusti tradizionali: CAFFÈ, ARANCIA, LIMONE, AGRUMI MISTI, ANICE, CARRUBA, e NATURALE le essenze più utilizzate.

Alcuni Produttori propongono i gusti MENTA, con aggiunta di GRANELLA DI MANDORLE o aromatizzato al PEPE BIANCO, al PISTACCHIO, allo ZENZERO, alla MANNA, al SALE DI TRAPANI...

Le misure standard della barretta di Cioccolato Modicano: Lunghezza 13 cm, Larghezza 4,5 cm e Altezza 1,2 cm. Peso 100 grammi all'origine, avvolta in carta oleata.

 

 

 

 

 

 

LA RAZZA BOVINA SARDO-MODICANA

 è la razza bovina originaria dell’antica Contea di Modica. È presente in Italia, con soli 2.000 esemplari, di cui 650 solo in Sicilia.

Il dibattito sulla provenienza della razza è ancora in corso, ma alcuni pensano che sia giunta in Europa al seguito di Normanni e Angioini. Di certo si sa che è originaria dell’antica Contea di Modica, oggi parte della provincia di Ragusa, e che è arrivata a diffondersi anche in Sardegna, dove, agli inizi del Novecento, è stata incrociata con alcune razze autoctone, dando vita alla razza Sardo-Modicana. Utilizzata molto spesso nei campi, come animale da traino per l’aratura, Il suo declino è iniziato negli anni Sessanta, a causa dell’introduzione dei mezzi meccanici, ma anche della scarsa resa di latte e carne del bovide, che è passato, nel giro di poco tempo, da un nucleo di 25.000 capi allevati ad un magro 2.000 degli attuali. Per salvaguardarla dall’estinzione, l’Associazione Italiana Allevatori l’ha inserita, nel 1985, nel Registro Anagrafico delle popolazioni bovine autoctone e gruppi etnici a limitata diffusione.

 

La modicana è una razza di vacca selvaggia, che viene allevata tutto l’anno allo stato brado. Come tutte le vacche selvagge, dà latte solo se affiancata dal vitellino; la sua presenza infatti stimola nella mamma il rilascio di ossitocina, l’ormone adibito alla produzione del latte, che provoca una contrazione delle cellule muscolari e quindi offre, secondo un atto semi-volontario, il prezioso liquido che viene utilizzato per produrre il Ragusano, il noto caciocavallo D.O.P. siciliano e il Ragusano del Presidio Slow Food. L’allevamento di tipo brado è anche garanzia di un’elevata qualità delle carni, anche se questa non è una risorsa particolarmente sfruttata della razza.

Il maschio è caratterizzato da mantello rosso scuro uniforme, più scuro rispetto a quello della femmina; in testa si presenta generalmente con leggero ciuffo sulla testa e un fiocco nero sulla parte finale della coda. Può avere sfumature che vanno dal nero al fromentino chiaro. Nero è anche il naso, la zona degli occhi e le unghie, mentre le corna sono giallastre alla base e nere in punta. La mammella è grande con capezzoli lunghi e grossi. Taglia e statura sono modeste, ma la sua struttura robusta fa raggiungere al maschio anche i 160 centimetri e i 900–1000 chili di peso; la femmina solitamente non supera i 145 centimetri al garrese, ma arriva a pesare anche poco più della metà del maschio.

La razza Modicana viene sfruttata soprattutto per la produzione del latte; pregiate sono anche le sue carni, ed è considerata di grosso rilievo anche per il lavoro, visto che presenta arti robusti e unghioni molto forti. È inoltre una razza particolarmente facile all’adattamento, in quanto resiste bene al clima torrido che caratterizza le estati mediterranee. Viene allevata allo stato brado, fatta eccezione per i periodi di scarsità del pascolo, a cui alterna periodi di stalla. La produzione di latte è discreta, e si aggira tra i 18 e i 22 chili al giorno.

La Sardo-Modicana è composta invece da 4.000 esemplari, costituiti dall’incrocio di razza Modicana autoctona siciliana e di un bovide allevato nel Montiferru, di cui era attestata già la presenza, intorno al 1870, nell’area del comune di Santu Lussurgiu, nella provincia di Oristano. Questa popolazione, unica nel suo genere, veniva utilizzata, come la sua antesignana autoctona di Sicilia, per il lavoro nei campi; oggi viene utilizzata per la produzione di carne, ma soprattutto di latte, dal quale si ottengono formaggi tipici come il ‘sa fresa’, ‘sa trizza’ e il prodotto a pasta filata ‘su casizolu’.

Per la tutela della razza, presso l’Istituto Sperimentale Zootecnico sono conservate circa 12.000 dosi di liquido spermatico, messe a disposizione degli allevatori. L'azienda Giardinello dell’ISZ alleva un nucleo di esemplari Modicani di elevato valore genetico, con l’obiettivo di studiarne, in collaborazione con il Dipartimento di Scienze Entomologiche, Fitopatologice, Microbiologiche Agrarie e Zootecniche dell'Università di Palermo, le caratteristiche produttive e riproduttive.

Il Presidio Slow Food sta lavorando per valorizzare anche la qualità della carne della razza Modicana. un progetto attivato in collaborazione con la Soat di Santa Croce Camerina e la Soat di Ragusa, che coinvolge anche le scuole e i ristoratori locali. L’obiettivo è quello di far conoscere e diffondere tutti gli elementi principali che giocano un ruolo fondamentale nella consistenza e fattura della carne della Modicana. Come per le altre razze da pascolo, anche questa carne è infatti difficile da individuare, perché una volta superato il giusto grado di frollatura, si fa più dura e tenace. Inoltre, è caratterizzata da un colore rosso brillante e da zone di grasso giallastre, che spesso non piacciono al consumatore, ma che sono garanzia di qualità, perché attestano l’origine naturale del prodotto, che viene alimentato solo con erbe dei pascoli, ricchi di betacarotene, il prototipo della vitamina A che abbronzando la nostra pelle, è responsabile del colore vivo di verdure come i pomodori, i peperoni, le carote, e dunque della carne degli animali che dei prati esposti al sole fanno uso e consumo.

Enrica Bartalotta

http://www.siciliafan.it/modicana-razza-tipica-ragusano-produttrice-latte-d-p/