Dicembre, un mese che illumina l’inverno con le decorazioni natalizie per le strade e gli addobbi casalinghi. Dalle biete a coste alla scarola, dai mandarini ai kiwi, passando per sarde e rana pescatrice, ecco i prodotti da comprare a dicembre. Un paniere che vi aiuterà a mantenervi in forma in vista delle scorpacciate di fine mese. Verdura Con il freddo non tutta la natura va in letargo, anzi, i banchi dei mercati di dicembre sono straripanti di verdure: bietole rosse e a coste, carote, cardi, cavolini di Bruxelles, cavolfiori, carciofi, porri, verze, indivia, radicchio, patate dolci, sedano bianco e sedano rapa, finocchi e topinambur. Un vero tripudio vegetale che, se impiegato con attenzione, può alleggerire persino le tavole dei giorni di festa, o almeno renderla ancora più varia. Molte delle ricette del periodo natalizio si basano proprio su questi ingredienti: una su tutte, l’insalata di rinforzo napoletana, fatta con il cavolfiore lessato e “tutti i resti” - o quasi - del pranzo di Natale. Ma prima e dopo le feste, dicembre è il momento ideale per insalate golose o zuppe corroboranti, come l'insalata siciliana con arance, finocchi e olive, o quella di carciofi crudi della Liguria, la minestra di scarole lucana o quella di cardi abruzzese.
Frutta Se le cavolacee sono le regine dell’inverno, altrettanto si può dire degli agrumi che colorano le tavole di arancione. Via libera dunque ad arance, mandarini e clementine, una preziosa riserva di vitamina c per affrontare l’inverno. Ma sui banchi dei mercati questo mese troveremo tanta frutta golosa, come i kiwi, le pere, i cachi (gli ultimi), le mele e le mele cotogne, le melagrane. Impiegarla in cucina è semplice: potete partire da un dolce, come il classico strudel di mele o la torta ricotta e pere, ma anche provare piatti salati, dai più semplici come le tartine con pere e gorgonzola, ai più elaborati come l’arrosto di maiale con le mele o il risotto alla melagrana. Ma questo è anche il mese in cui si consuma la frutta secca: mandorle, noci, nocciole, pistacchi. Prodotti ricchi di nutrimenti: sali minerali, proteine, acidi grassi, fibre e amminoacidi, da mangiare fra un pasto e l’altro per saziare la fame, mai dopo un pranzo abbondante perché molto calorici. A dicembre sono ingredienti importanti per alcune ricette dolci regionali come lo zelten, torta tipica del Sud Tirol fatta con frutta secca, uvetta, cannella e canditi, o il fristingo marchigiano fatto con fichi, cioccolato e frutta secca, ma sono fondamentali anche per preparare dolci più comuni come come i torroni e gli amaretti. a cura di Francesca Fiore
lattuga, radicchio, bietola, asparago, indivia, borragine, sedano, spinacio, rucola, catalogna, cavolo, basilico, bietola, spinaci, cardo, cicoria;
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carciofo, cavolfiore, broccolo;
CAVOLFIORE VIOLETTO DI SICILIA E' una varietà tipica. L'infiorescenze sono di ottima qualità, molto uniforme, dal peso elevato di kg 1,5 e dal colore violetto intenso. Si raccoglie a 100-110 giorni dal trapianto. Le varietà di cavolfiore violetto che mettiamo a disposizione consentono l'adattamento ai diversi ambienti e ai diversi periodi dell'anno. Il cavolfiore violetto è una varietà nostrana che si contraddistingue dagli altri cavolfiori per il suo sapore inconfondibile e unico. In cucina le ricette più utilizzate sono: cavolfiori gratinati, cavolfiori in pastella, fritti, a forno o semplicemente lessati e conditi con olio e sale.
Informazioni nutrizionali: Ricco di sali minerali Calcio e Potassio, fibre, antiossidanti e Vitamina B2 in grado di stimolare la produzione di globuli rossi nel sangue, quindi ottimo rimedio per chi ha problemi di anemia. Inoltre i cavolfiori sono a basso contenuto calorico e privi di glutine, infatti sono molto utilizzati nelle diete ipocaloriche. Curiosità: I broccoli sono molto utilizzati in cucina fin dai tempi antichi, per le loro proprietà organolettiche e salutari, ma una nota dolente per questi ortaggi è purtroppo l'odore, alquanto sgradevole, sprigionato durante la cottura: ciò e dovuto alla presenza dello zolfo contenuto in discreta quantità nei loro tessuti. A tale problema possiamo rimediare, mantenendo le nostre case integre e profumate, spremendo un limone nell’acqua di cottura. La cottura a vapore è quella che riesce ad esaltare il sapore dei broccoli ed a mantenere inalterate tutte le loro proprietà benefiche e nutritive.
__________________________________________________________________________________________________________ Il melo è tra le specie più rappresentative della frutticoltura del territorio etneo. L’ampia adattabilità di questa specie ad ambienti più freddi ne consente, infatti, la presenza lungo le pendici del vulcano a quote più elevate rispetto a quelle raggiungibili da altre specie (fino a 1500 m s.l.m.. Si può senz’altro affermare che la diffusione sul massiccio etneo del melo è relativamente maggiore rispetto a quanto si registra in altri contesti dell’isola. La fascia altitudinale maggiormente interessata alla melicoltura è quella compresa tra i 600 e 1400 m di quota, mentre gli areali maggiormente interessati alla coltivazione sono quelli ricadenti nei comuni di Zafferana Etnea, Milo, Sant’Alfio e Mascali per quanto riguarda il versante orientale e Pedara, Nicolosi, Ragalna, Biancavilla, Adrano per quanto riguarda il versante sud-occidentale. Fino alla prima metà del secolo scorso la melicoltura ha rivestito nell’ambiente etneo un ruolo strategico, esprimendo una sorta di unicità all’interno del comparto frutticolo siciliano. In questo ambiente infatti il melo ha trovato condizioni pedoclimatiche idonee a soddisfare le sue particolari esigenze bioagronomiche, sia pure spesso in assenza di apporti irrigui e di concimi. Era la melicoltura tradizionale che si avvantaggiava dell’utilizzo di soggetti franchi, spesso identificati come selvatici, e, almeno per i primi periodi d’impianto, dell’uso generalizzato di terreni di origine boschiva, notoriamente apportatori di fertilità residua. La realizzazione di diversi impianti in condizione limite, sia per quota altimetrica che per giacitura, che per accessibilità, testimoniano dell’interesse che la coltura ha riscosso.
Tale interesse giustifica anche la presenza dell’elevato numero di cultivar e accessioni locali coltivate quale risultato di una stratificazione colturale e di un’attenzione che è rimasta viva fin quando i limiti orografici e strutturali erano ancora poco determinanti sulla sua redditività; la fine del localismo e l’arrivo massiccio di prodotti da altre regioni coincidono con l’inesorabile e rapido declino. A tradizionali impianti basati su tali cultivar locali, negli ultimi decenni si sono affiancati, ove consentito dalle condizioni morfo-pedologiche, quelli realizzati con le moderne varietà e con protocolli di coltivazione più razionali. Non sono infrequenti sull’Etna i meleti specializzati o in consociazione con la vite, basati su moderne varietà del tipo “delicious” ad epicarpo rosso, innestate su portinnesti selezionati, che in qualche modo sono riusciti a rivitalizzare economicamente il comparto. Tuttavia oggi l’interesse nei confronti del patrimonio frutticolo tradizionale dell’Etna travalica il mero aspetto economico ed investe più in generale la problematica della salvaguardia del germoplasma. Attualmente il panorama varietale è dominato da numerose cultivar locali, in alcuni casi oggetto di rivalutazione sul mercato in funzione di alcune pregevoli caratteristiche di qualità. Molto apprezzate sono ad esempio le mele Cola e Gelato cola ad epicarpo bianco-cremeo; il quadro delle cultivar ad epicarpo rosso è meno definito per la più massiva presenza di varietà di introduzione anche recente. Accanto a quelle ricordate, numerose altre cultivar locali si rinvengono ancora sull’Etna e rappresentano un patrimonio genetico meritevole di essere raccolto, descritto e conservato
LE VARIETA' PIU' DIFFUSE IN QUESTO MESE
Fonte: Antichi frutti dell'Etna, di C. Bonfanti, A. Continella, A. Gentile, S. La Malfa
Le Arance
I primi agrumeti sono stati creati dagli arabi, che con la loro abilità hanno costruito i primi sistemi di irrigazione e quindi hanno creato la coltivazione dell'arancia amara; solo nel 16.mo secolo fu introdotta quella dolce originaria della cina. Il termine "agrumi" si riferisce al gusto acidulo o agre di questi frutti: arancia, limone, pompelmo, clementine cedro ed altri. Le arance, si suddividono in due grandi gruppi: 1) le pigmentate: varietà tarocco, moro, sanguinello 2) le bionde: varietà naveline, ovale, valencia Nel considerare le caratteristiche nutrizionali si può affermare che esse contengono l'87% circa d'acqua, pochi grassi e proteine, molti minerali come calcio, fosforo, potassio, ferro selenio e soprattutto diverse vitamine fra cui oltre alla vitamina C, la A, B1, e la B2; da non sottovalutare inoltre che l'arancia è un frutto ipocalorico contiene circa 34 calorie per 100 grammi di succo. La fibra contenuta nel callo bianco sotto la buccia, regola l'assorbimento degli zuccheri, dei grassi e delle proteine evitando il diabete, l'arteriosclerosi, e favorisce il transito intestinale riducendo i fenomeni putrefattivi. L'acido citrico assolve una funzione importante nel corpo umano, quella di abbassare l'acidità, cioè il ph, oltre a proteggere la vitamina C contenuta nella polpa dei frutti e diminuire l'acidità delle urine e quindi prevenire la formazione di calcoli renali. Il corpo umano necessita di circa 50 mg. di vitamina al giorno, contenuti in circa 2-3 arance al giorno. Sono numerose le azioni salutari che le arance svolgono a favore del corpo umano: - Ricchissime di vitamina C, aumentano la resistenza del corpo umano contro i vari agenti chimici, fisici, ed ambientali, soprattutto d'inverno, aumentano le difese immunitarie contro virus e batteri, prevengono i disturbi cardiovascolari e svolgono un'azione antistress. - Ostacolano forme degenerative tumorali, grazie alla forte azione antiossidante esercitata nei confronti dei radicali liberi. - Assicurano un controllo attivo contro i radicali acidi, che non sono altro che sostanze chimiche tossiche prodotte da un'errata alimentazione. - Favoriscono la resistenza del corpo umano verso affezioni di varia natura come: angina, bronchite, malattie cardiovascolari, ipertensione, diabete, gengivite, obesità, emicrania, cefalea, reumatismi. - Favoriscono la deposizione di calcio e fosforo nelle ossa e nei denti, proprio per questo è molto importante nella dieta delle donne in gravidanza ed in menopausa, in quest'ultima previene l'osteoporosi. - Presentano proprietà antianemiche perché favoriscono l'assorbimento del ferro, utile per la formazione dei globuli rossi ed inoltre per chi fuma è consigliabile l'ingestione di dosi più alte di vitamina C al fine di ridurre i danni da nicotina. - Il loro contenuto di vitamine B1 e B2 stimola l'appetito, l'accrescimento, la digestione e migliora il sistema respiratorio ed i caroteni precursori della vitamina A sono utili per il sistema visivo e contro infezioni di varia natura. - Un'altra caratteristica peculiare dell'arancia è la funzione antiossidante svolta dai bioflavonoidi, dal betacarotene e da altri carotenoidi. Fra questi le antocianine che hanno un effetto sinergico contro la fragilità dei capillari ed un alto valore farmacologico nel trattamento degli stati infiammatori. L'arancia oltre ad avere il ruolo di frutto protagonista dei nostri inverni, offre molteplici soluzioni ad emergenze di vario genere: i gargarismi con il succo d'arancia giovano nelle gengitivi e stomatiti. L'infuso della scorza gode di proprietà aperitive e digestive. In cosmesi la polpa dei frutti viene utilizzata per ottenere una maschera che aiuta a prevenire l'avvizzimento precoce della pelle e la formazione di rughe. Il succo costituisce inoltre un importante ingrediente di lozioni astringenti e tonificanti. In cucina oltre che per il tradizionale consumo fresco, l'arancia può essere utilizzata per la produzione di succhi, marmellate, insalate salse e liquori. La buccia da cui si ottengono ottimi canditi, può essere impiegata nella preparazione di salse, dolci e marmellate. Le arance rappresentano un genuino ed efficace integratore naturale, poiché le loro qualità sono la leggerezza e la straordinaria ricchezza di sostanze utili per affrontare il quotidiano dispendio di energie. http://www.agricolapiromalli.com/agrumi-it/le-arance
Arancia rossa, la migliore stagione degli ultimi dieci anni
Scendono le temperature, la cima del vulcano Etna inizia ad imbiancarsi, si avvicina la stagione di raccolta degli agrumi in Sicilia. Le più attese sono sicuramente le arance rosse Tarocco, Moro e Sanguinello. «Quella che inizierà a dicembre si presenta come l’annata agrumicola migliore degli ultimi dieci anni dal punto di vista organolettico - annuncia Nello Alba, amministratore unico di Oranfrizer - fino ad ora le temperature sono state molto favorevoli, stiamo monitorando gli agrumeti. Le piogge stanno contribuendo a nutrire bene piante e frutti, attendiamo l’ultima fase di maturazione durante la quale avverrà la pigmentazione che le caratterizza, le arance raggiungeranno il loro rosso tipico che i consumatori apprezzano molto, i livelli di zuccheri e di acidità ci dicono che raccoglieremo frutti davvero eccellenti. Non ci sono volumi significativi di grande calibro - sottolinea Alba - e sono ridotti anche a causa degli effetti del virus della Tristeza. Ma disporremo di arance rosse di medio calibro fino a maggio». L’arancia rossa oltre a vantare l’Indicazione geografica protetta riconosciuta dall’Europa, è pregiata per il suo particolare gusto e per la sue proprietà. La sua polpa è ricca di antocianine, sostanze antiossidanti naturali molto importanti per l’organismo: danno il colore rosso intenso e contribuiscono a contrastare l’azione dei radicali liberi. A queste si aggiunge la vitamina C: con un’arancia rossa fresca dal peso medio di 100 grammi è possibile assumere 40 mg di antocianine e 60 mg di Vitamina C, basta sbucciare e mangiare un solo frutto per soddisfare il 75% del fabbisogno quotidiano di Vitamina C. L'apprezzamento per questi agrumi sta aumentando in Italia, ed anche in Nord Europa, soprattutto in Norvegia e Gran Bretagna, dove Oranfrizer esporta maggiormente le sue arance rosse.
Bionde comuni. È il gruppo più antico e numeroso, comprendente cultivar che producono frutti con semi e altre che producono frutti apireni; l’epoca di maturazione varia da precoce a tardiva. I frutti della maggior parte delle cultivar si adattano alla trasformazione industriale, poiché presentano alta resa in succo e bassi valori di limonina, un composto che, se presente in concentrazione elevata, conferisce ai succhi un sapore piuttosto amaro. Diversi sono i fattori che concorrono alla sua biosintesi e alla sua evoluzione nei frutti e nei possibili derivati; importante è il fattore genetico (cultivar) ma anche il portinnesto può influenzare la sua concentrazione. Soggetti tipo limone (alemow e rough lemon) tendono a presentare più alti contenuti. Il Comune è una cultivar di popolazione tipica della vecchia agrumicoltura siciliana che comprendeva diversi cloni, spesso indistintamente coltivati. Tra essi si ricordano il Biondo riccio, il Biondo di spina e il Biondo nostrale, tutti con frutti più o meno ricchi di semi e di basso pregio, nessuno dei quali è ormai più presente in coltura. Altri cloni non di origine siciliana e a diffusione locale sono il Biondo di Tursi e il Biondo Staccia, tipici della Basilicata, e il Tardivo di San Vito, che ha presentato un minimo di diffusione in Sardegna. ______________________________________________________________________________________________________________
Belladonna. Non ha avuto mai particolare diffusione a causa della sua irregolare produttività; presenta una spiccata alternanza e non è raro osservare piante per metà cariche e per metà no. Tuttavia i frutti sono di buona qualità, molto succosi, con pochi semi o del tutto apireni e di gusto gradevole. è di frequente presente negli orti annessi alle abitazioni rurali. ______________________________________________________________________________________________________________
Ovale. Denominato anche Calabrese, deriva da una mutazione chimerale di Biondo comune e perciò presenta una certa instabilità. Spesso sulle piante si riscontrano rami che producono frutti tipo Biondo che gli agricoltori chiamano impropriamente “apiati”, mentre si tratta di un ritorno ancestrale. L’ape, ingiustamente accusata, non può dare luogo a modificazioni dei frutti che non derivano da un atto fecondativo ma dallo sviluppo di un tessuto somatico che è quello dell’ovario. È stata la cultivar italiana di maggiore pregio, apprezzata per la bontà dei frutti e principalmente per la loro tardiva epoca di maturazione. La raccolta poteva essere effettuata a maggio inoltrato; se protratta ulteriormente si verificava un parziale rinverdimento della buccia. I frutti, inoltre, si prestavano bene a essere conservati fino all’estate, quando si utilizzavano anche ambienti freschi naturali come grotte e luoghi esposti a tramontana. La produttività non era sempre soddisfacente a causa di una bassa plasticità; presentava aree di elezione al di fuori delle quali produceva con irregolarità. Le piante, inoltre, erano soggette al fenomeno della rifiorenza che dava luogo alla formazione di frutti detti bastardi inservibili per la commercializzazione e che andavano eliminati poiché scompensavano ulteriormente l’equilibrio produttivo. Da circa trent’anni non si realizzano nuovi impianti; esistono ormai pochi vecchi impianti nei territori provinciali di Siracusa, Catania e Messina. Il suo declino è coinciso con l’introduzione della cultivar Valencia a maturazione altrettanto tardiva, di maggiore plasticità e che non presenta l’inconveniente della rifiorenza. ______________________________________________________________________________________________________________ Valencia Late. La denominazione fa pensare a un’origine spagnola mentre quasi certamente, per la prima volta, è stata rinvenuta in un’area agrumicola del Portogallo. È la cultivar più diffusa nel mondo, presenta ampia plasticità e in tutti i Paesi in cui è stata introdotta raramente ha manifestato problemi di produttività. I suoi frutti resistono a lungo sulla pianta e per un certo tempo (aprile-maggio) coesistono con quelli del ciclo produttivo successivo. Il periodo di raccolta è piuttosto ampio e può variare da metà marzo a tutto maggio; si conservano bene anche in post-raccolta. La produzione, a livello mondiale, è prevalentemente destinata alla trasformazione industriale, in quanto i frutti sono pressoché apireni e presentano alta resa in succo. In Italia questa cultivar che, come detto, a partire dagli anni ’70-’80 ha praticamente sostituito l’Ovale, si è diffusa abbastanza rapidamente e inizialmente ha avuto buon esito mercantile; tuttavia, con il crescere della produzione l’interesse è scemato anche perché la qualità dei frutti prodotti non sempre è ottimale, probabilmente a causa di un’insufficiente disponibilità di calore; nell’ambito dell’arancio, infatti, la Valencia è la cultivar a maggior fabbisogno in caldo. Il diminuito apprezzamento, inoltre, è imputabile all’avvento di cultivar Navel tardive, come la Lane Late, maggiormente gradite dal consumatore. Esistono diversi cloni di Valencia, i più importanti dei quali sono Olinda, Frost, Hughes e Campbell. In Italia, a cura dell’Università di Catania, sono stati introdotti e osservati i cloni Delta e Midknight originari del Sud Africa; entrambi producono frutti di buona qualità che maturano 3-4 settimane prima rispetto a quelli di Valencia Late e resistono a lungo sulla pianta. Altre cultivar straniere di un certo rilievo sono Cadenera, Berna e Salustiana in Spagna, Hamlin e Pineapple in Florida, destinate esclusivamente all’estrazione dei succhi, Pera in Brasile, anch’essa destinata all’industria e Shamouti in Israele; nessuna di queste ha avuto mai diffusione in Italia.
Bionde Navel
Tutte le cultivar di questo raggruppamento producono frutti con la non elevata succosità non costituisce un limite per il consumo fresco anzi conferisce maggiore croccantezza alla polpa. Nessuna cultivar Navel ha avuto origine in Italia. Washington Navel. È la capostipite delle cultivar di questo gruppo; deriva da una mutazione gemmaria di Selecta, che a sua volta avrebbe avuto origine in Portogallo dall’arancio “de Umbigo” già descritto all’inizio del XIX secolo. Dopo la Valencia è la cultivar più diffusa nel mondo. I frutti sono di pezzatura medio-elevata, maturano a partire da gennaio e possono essere raccolti fino a tutto febbraio. è presente nei principali Paesi agrumicoli del mondo. In Italia, inizialmente, è stata introdotta una linea denominata Brasiliano che ha avuto il centro di maggiore diffusione a Ribera, in provincia di Agrigento; la sua produzione ha rifornito i mercati del Meridione d’Italia e in particolare di Palermo. Ne esistono due cloni: Brasiliano m500, risanato mediante microinnesto presso l’Università di Catania e Brasiliano nucellare 92 selezionato presso il Centro di Miglioramento Genetico di Palermo. Successivamente è stata importata la linea nucellare C.E.S.3033 costituita da Frost in California. Quest’ultima, che si è moderatamente diffusa in Sicilia, Basilicata e Sardegna, non sempre esprime elevata produttività.
Navelina. È una mutazione originaria della California inizialmente denominata “Early Navel”. Le principali differenze con la Washington Navel consistono nella minore taglia della pianta e nell’anticipo di maturazione di circa tre settimane. I frutti sono leggermente più piccoli, la produttività è buona e costante. Più o meno diffusa nei principali Paesi agrumicoli, nel bacino del Mediterraneo è particolarmente affermata in Spagna e Italia. Nel nostro Paese la sua una cicatrice stilare più o meno ampia tale da ricordare la cicatrice ombelicale, da cui il nome. Ciò è dovuto al fenomeno della sincarpia (più frutti in uno) che dà luogo alla formazione di un frutticino parzialmente sviluppato derivante da un secondo verticillo di carpelli. Questo si colloca nella parte distale del frutto principale determinando una certa pressione verso l’esterno, causa della mancata cicatrizzazione regolare nel punto di distacco dello stilo dall’ovario. Altra caratteristica costante dei frutti è l’apirenia: poiché i fiori sono sterili, le antere non producono polline e l’embriosacco regredisce precocemente. Nella polpa si riscontrano tracce di semi non sviluppati, rappresentati dai tegumenti seminali. I frutti non sono ottimali per la trasformazione industriale perché, in genere, presentano bassa resa in succo e alti valori di limonina; Valencia Delta. La diffusione ha avuto inizio negli anni ’70 e rapidamente ha avuto riscontri positivi di mercato in virtù della sua precocità. Il moderato sviluppo della pianta, peraltro, ha consentito di aumentare la densità degli impianti facendo ottenere elevate produzioni per ettaro. Nelle aree costiere dove si esalta la precocità, la raccolta può essere effettuata a inizio ottobre, quando la buccia presenta ancora una pigmentazione insufficiente; in questo periodo, in genere, si fa ricorso alla pratica della deverdizzazione comunemente chiamata “stufatura”. Il successo iniziale ha fatto sì che questa cultivar venisse impiantata anche in aree non precoci col risultato di accrescere la disponibilità di frutti nei mesi di novembre e dicembre, quando già sul mercato sono presenti produzioni di tipo pigmentato preferite dal consumatore. Attualmente si dispone di tre cloni: uno di origine nucellare, Navelina ISA 315, e due da microinnesto, Navelina m35 e Navelina V.C.R. ______________________________________________________________________________________________________________
Newhall. Questa cultivar, anch’essa originaria della California come mutazione di W. Navel, è molto simile alla Navelina per epoca di maturazione e produttività, i frutti sono leggermente più allungati e anticipano di qualche giorno la pigmentazione della buccia. È abbastanza diffusa in Spagna e anche in Italia sta suscitando un certo interesse; ne esistono diverse selezioni, le più note delle quali sono INIALES 55/1, SRA 182 e V.C.R. Navelate. È una mutazione di W. Navel rinvenuta in Spagna nel 1948 e rilasciata per la propagazione dieci anni dopo. Il Paese dove si è maggiormente diffusa è quello di origine; in tutti gli altri in cui è stata introdotta, compresa l’Italia, ha avuto poco successo a causa della bassa produttività. In Spagna per attenuare tale difetto si fa ricorso all’uso di fitoregolatori alliganti e a incisione anulare. I frutti, di ottima qualità, sono di pezzatura medio-elevata, di forma tendente all’ovale e di ottimo sapore; l’epoca di maturazione è medio-tardiva; anche se il valore del rapporto di maturazione è già idoneo per il consumo a partire da gennaio, i frutti si mantengono bene sulla pianta fino a marzo-aprile. Lane Late. Attualmente è la cultivar Navel tardiva di maggiore interesse. Il suo nome le deriva dal signor L. Lane Curlwaa, proprietario dell’azienda in cui è stata rinvenuta la mutazione su una pianta di W. Navel in Australia nel 1950. La pianta è molto simile a quella di W. Navel e anche i frutti si somigliano; quelli di Lane Late hanno una buccia più sottile e più liscia, un ombelico più piccolo e dei solchi piuttosto pronunciati che dalla zona calicina si possono estendere fino alla zona equatoriale. I frutti, che già a fine gennaio presentano valori sufficienti del rapporto di maturazione, resistono bene sulla pianta per oltre tre mesi. In Australia, dove questa cultivar rappresenta circa il 30% della produzione dei Navel, la raccolta si protrae sino a fine ottobre, in Spagna, Italia e altri Paesi dell’emisfero boreale sino ad aprile/maggio. Le prime osservazioni condotte presso l’Università di Catania ne hanno confermato tutte le caratteristiche positive e fino a stagione inoltrata non si sono manifestati casi di cascola pre-raccolta e/o di granulazione, fenomeni che con una certa frequenza sono stati segnalati in California, dove si sconsiglia l’impiego di portinnesti tipo limone. Negli ultimi anni, nella parte finale della campagna di commercializzazione, i frutti di Lane Late, maggiormente graditi dai consumatori, tendono a sostituire quelli di Valencia. Cara Cara. Il nome coincide con quello dell’azienda in cui è stata scoperta la mutazione su una pianta di W. Navel nella provincia di Valencia, in Venezuela, nel 1976. La particolarità di questa cultivar è che i suoi frutti presentano un’intensa e uniforme pigmentazione rossa della polpa, molto simile a quella dei frutti del pompelmo Star Ruby, il pigmento che conferisce tale caratteristica, infatti, è il licopene e non gli antociani. Altra peculiarità di questi frutti è che con la spremitura la pigmentazione si trasmette solo in parte al succo, che appare leggermente rosato. Le restanti caratteristiche dei frutti, compresa l’epoca di maturazione, sono pressoché identiche a quelle di W. Navel e anche la pianta è molto simile. Pigmentate Non si ha certezza della data e del luogo in cui per la prima volta compare una pianta che produce frutti a polpa rossa. Il primo a farne cenno sembra essere il Ferrari a metà del XVII secolo in Hesperides. Nel libro IV della trattazione si parla di mele d’oro che fanno risplendere le isole in cui vengono coltivate (le Filippine). Di tali frutti vengono distinti cinque generi (quinquplicis generis); uno di questi presenta la polpa di colore rosso e sa di uva ma è straordinariamente differente (sapiat uvam [...] mire dispar). L’autore racconta di aver sentito (audivi flavescere) notizie di questi straordinari frutti da un monaco del suo stesso ordine che a lungo e con vantaggio per la salute si era trattenuto nelle isole. In seguito, Risso e Poiteau, all’inizio del XIX secolo, descrivono alcune tipologie di frutti pigmentati quali l’Oranger à pulpe Rouge (Citrus aurantium hirochunticum), l’Oranger piriforme, l’Oranger de Gènes e l’Oranger de Malte. Solo dopo qualche secolo in Italia è Giuseppe Insenga in Agrumi siciliani a fare menzione dell’arancio ovale sanguigno (Citrus aurantium ellipticum Nobis); va ricordato che al tempo l’arancio amaro e l’arancio dolce erano considerati due varietà della stessa specie.
Oltre che per la presenza di antocianine le arance rosse si distinguono per diverse altre caratteristiche: - presentano più alti valori di vitamina C; questa nei diversi frutti di agrumi raggiunge valori tra 50 e 60 mg per 100 ml; il succo rosso, in particolare quello dei frutti di Tarocco, raggiunge valori di oltre 70 mg; - sia i frutti che il succo sono di gusto particolarmente gradevole, dato da un rapporto armonico tra zuccheri e acidi e da una serie di sostanze aromatiche quali il limonene, il butanoato di etile e gli esanoli; - i succhi rossi, inoltre, si contraddistinguono per il più alto contenuto di acidi idrossicinnamici e per i maggiori livelli di acido cumarico; - i contenuti di acidi durante l’evoluzione dei processi di maturazione non si abbassano mai al punto da conferire un sapore piuttosto scialbo
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CLEMENTINA
Vi siete chiesti quale sia la differenza tra mandarino e clementina? I due frutti si assomigliano molto, ma ci sono differenze significative a partire dall’aspetto fino alla consistenza della polpa e al suo sapore. Prima di tutto, la forma. Basta guardare con attenzione e noteremo che la forma della clementina è sempre ben rotonda, meno appiattita di quella del mandarino. Forma e scorza Come il mandarino, anche la clementina si sbuccia e si divide in spicchi con facilità. La scorza del mandarino è però più spessa, mentre quella della clementina è più sottile e flessibile. Il gusto della clementina è più simile all’arancia, con un perfetto equilibrio tra l’agro e il dolce, mentre il mandarino è più aspro. Semi, o no? Se non amate i semi all’interno del frutto, il nostro consiglio è di preferire le clementine. I mandarini, infatti, li contengono in quantità (ma in alcuni casi hanno un loro fascino, come potete leggere qui). Nella clementina la presenza dei semi è più rara, anche se non del tutto esclusa: a causa dell’impollinazione incrociata dalle api, a volte compare qualche seme anche in questo frutto. Una diversa origine In merito alla differenza tra mandarino e clementina, bisogna ricordare anche che l’origine dei due frutti è differente. Secondo gli storici la coltura dei mandarini risale a ben 3mila anni fa, in Cina e in Giappone. Il luogo di origine delle clementine è invece più controverso: Cina o Algeria. Oggi le clementine, della famiglia dei mandaranci, sono coltivate soprattutto in Marocco, Spagna, Algeria e Italia (in Calabria, Puglia e Sicilia). Caratteristiche nutrizionali La differenza fra mandarino e clementina riguarda anche le caratteristiche nutrizionali… per altro ottime in entrambi i casi. Entrambi offrono un elevato contenuto di vitamina C, ottimo antiossidante. Ma se i mandarini contengono 26,7 mg di vitamina C per 100 grammi, le clementine fanno di più con 48,8 mg per 100 grammi. Il contenuto calorico è più contenuto nelle clementine: 47 calorie per 100 grammi contro le 53 dei mandarini. A differenza delle clementine, i mandarini hanno infatti una considerevole concentrazione di zuccheri (10,58 g/100 g). Rispetto alle clementine i mandarini contengono più fibra: 1,8 grammi contro 1,7 grammi. http://www.territori.coop.it/cultura/che-differenza-ce-tra-mandarino-e-clementina
piantagioni di fichidindia
LA FRUTTA SECCA
foto di Francesco Raciti
La calia e simenza è un tipico alimento consumato in tutta la Sicilia in occasione delle feste patronali (come quella di Sant'Agata a Catania o di Santa Rosalia a Palermo) o altri eventi di grande rilievo, solitamente nelle feste rionali e durante le processioni sia in estate che in inverno. La calia si prepara tostando (in siciliano caliannu) dei ceci nella sabbia bollente e salata. La simenza, invece, si ricava dai semi di zucca secchi, che subiscono la stessa preparazione della calia. Solitamente, calia e simenza vengono mangiati in compagnia durante le processioni o le semplici passeggiate nelle vie della città. Sono vendute da venditori ambulanti che le preparano sul posto in quanto sono più buone mangiate tiepide e croccanti. La quarume (in siciliano "pietanza calda"), italianizzata in caldume, è uno dei tipici piatti da strada di Palermo e Catania. Un venditore di quarume è detto quarumaru. La si può trovare, dalla mattina alla sera, sia nei mercati rionali che presso alcuni banchi di rivendita sparsi in tutta la città. È composta da viscere di vitello (tipicamente ventra, matruzza, centopelle e ziniere) bollite nella "quarara" con cipolle, sedano, carote, prezzemolo. Viene servita calda con sale, pepe, olio, limone.
La calia (dal latino colius = polvere). Ceci tostati nella sabbia che
i siciliani consumano per passatempo insieme ai calacausi (arachidi) e a
simenza (semi di zucca tostati e salati.
(da "I sapori lontani della cucina
siciliana" di Gino Schilirò - Lancillotto e Ginevra Editori
IL FICO SECCO
Fichi secchi Il fico secco invece può iniziare la sua essicazione già sull’albero, in buone condizioni di sole, per poi continuare per circa un settimana. Una volta completata l’essicazione naturale di norma si passano in una stufa per completare l’essiccazione. A volte, invece, i fichi si passano prima nelle stufe e poi si procede con l’essicazione naturale al sole per avere un prodotto dal colore più chiaro. I fichi secchi possono essere essiccati naturalmente al sole, artificialmente in essiccatoi, o addirittura infornati: le varietà più pregiate per questa lavorazione sono Brogiotto Bianco, Brogiotto Nero, Dottato e S. Pietro, tutti con buccia fine e polpa carnosa, originari del Centro Sud. La buccia dei fichi si mangia? Tendenzialmente non andrebbe mangiata in quanto non potendo essere lavata per non sciupare la polpa potrebbe non essere pulita soprattutto se il frutto non proviene da una pianta che conosciamo e che sappiamo come è stata trattata, altrimenti potrebbe contenere antiparassitari.
Di certo è da evitare di mangiare il latte che fuoriesce dal picciolo. Un consiglio È sempre bene aprire il fico in due prima di mangiarlo, perchè la sua polpa succosa e dolce potrebbe aver invitato qualche ospite indesiderato. Fichi della tradizione Lonzino di fico Detto anche lonza di fico, lonzetta di fico o salame di fico è un dolce tipico marchigiano, prodotto principalmente nella provincia di Ancona. Il lonzino di fico è riconosciuto prodotto agroalimentare tradizionale delle campagne marchigiane dove un tempo si coltivavano fichi in grande abbondanza e che erano divenuti una vera rarità. È presidio Slow food dal 1999. Di forma cilindrica con una lunghezza tra 15 e 20 centimetri e circa 6 di diametro, si presenta avvolto da foglie di fico legate con fili proprio come una lonza. Al taglio il prodotto mostra un colore bruno-dorato con inserti chiari di frutta a guscio disseminati nella pasta. Il sapore è gradevole e dolce, si percepisce nettamente il gusto del fico essiccato, con un forte sentore di frutta a guscio. Fegato alla veneziana Il fegato alla Veneziana è una delle molteplici ricette tipiche della tradizione gastronomica veneta. Le origini di questo piatto, chiamato in veneto figà àea Venessiana, risalgono al tempo dei Romani che usavano cucinare il fegato insieme ai fichi per coprirne l'odore un pò forte. I Veneziani col passare del tempo sostituirono i fichi con le cipolle e fecero diventare questa ricetta una delle più apprezzate della cucina veneta. Cucciddati o buccelati siciliani Sono dolci di Natale siciliani tipici preparati con fichi e mandorle. Solitamente a forma di ciambella vengono preparati in forme più ridotte: i cucciddatini. Gli ingredienti, variabili da luogo a luogo, consistono in fichi secchi, mandorle, noci, nocciole e pistacchi.
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Campagna ennese (foto Nino Gemmellaro)
Per questo motivo, quando vi trovate davanti agli scaffali della pasta ai supermercati (ma, credetemi, è dura), controllate dietro la confezione che non ci sia scritto "U.E." o "extra U.E." Scegliete le marche dove c'è scritto "grano italiano", meglio ancora "grano siciliano" ovvero il Granaio di Roma (circa 250 anni a.C.). Mangiate sano, dimenticatevi il buon papà manager in trasferta all'estero, che scopre la farfalla B...... lasciata dalla figlioletta dentro la tasca della sua giacca. Scordatevi queste sceneggiate, perchè .... dove c'è salute c'è casa. (M.R.)
Stella di Natale: le cure per farla durare Resta la pianta delle feste per eccellenza: sempre intensamente colorata, capace di attirare l’attenzione e di creare da sola un’atmosfera natalizia. In genere viene eliminata a fine stagione, invece curata bene può non solo sopravvivere ma diventare una splendida pianta verde da appartamento, assumendo talvolta forme insolite e contorte degne di un sapiente bonsaista. Se dovete ancora acquistare la pianta, scegliete gli esemplari più folti, non importa se molto grandi, con brattee intensamente colorate e fusti fogliati fino alla base senza cicatrici che indichino come già abbia iniziato a spogliarsi. Una volta giunti a casa liberate la pianta perché, pur temendo l’aria secca delle nostre case, un ambiente confinato come la confezione può rivelarsi anche peggio. Comportatevi così anche con le piante ricevute in regalo e fate in modo che luce e aria possano raggiungere tutte le parti della pianta. Teme l’aria troppo secca e il freddo
La stella di Natale è una pianta da appartamento fresco o addirittura da scale e da veranda: se queste sono condizionate e luminose, a temperature costanti di 20 °C e l’umidità resta elevata, Poinsettia pulcherrima o Euphorbia pulcherrima cresce con forza. In questo periodo festivo, in cui la pianta si tiene in soggiorno, riservate alla stella di Natale la posizione più luminosa della casa: l’ideale sarebbe metterla davanti a una portafinestra che però si apra solo di rado per evitare le correnti fredde. Il fattore principale per la durata della pianta in casa e dopo è l’umidità dell’aria, che gioca un ruolo più importante delle bagnature: un’irrorazione quotidiana con acqua non calcarea, così che non si macchino le foglie, è sempre gradita. Si bagna ogni due o tre giorni saggiando con le dita il grado di umidità del terreno ma, meglio ancora, anche il peso del vaso perché, specie per le piante di taglia media e grande, non esiste un’adeguata proporzione fra massa fogliare e terra disponibile, e le piante con poca terra asciugano rapidamente e hanno bisogno di acqua spesso. Il terriccio non deve mai seccare del tutto ma restare fresco senza essere fradicio. Per questa ragione eliminate l’acqua presente nel sottovaso dieci minuti dopo la bagnatura. Attenzione Non posizionate la poinsettia in una zona di passaggio perché le piante con portamento eretto possono facilmente impigliarsi in chi passa e i rami non sono molto flessibili, è facile che si spezzino alla base, perdendo una parte rilevante dell’intera chioma.
Boschi dell’ambiente alpino
Alberi da frutta
La tuma, prodotto tipico di tutta la Sicilia Per tuma s'intende un determinato grado di stagionatura del formaggio pecorino; a cui appartengono anche, in grado differente, il primosale e il tumazzu di vacca. Il termine viene quindi spesso usato sostantivato a indicare un vero e proprio formaggio a sé. Comunemente, col termine tuma o toma, si identifica un formaggio fresco a base di latte ovino, vaccino, o con una mistura di essi. La tuma è un formaggio tipico siciliano, prodotto dalla cagliata senza alcuna aggiunta di sale; ecco perché si consiglia di consumarlo fresco, entro una, al massimo due settimane dalla sua produzione. Alcuni formaggi tuma vengono prodotti anche con latte vaccino, mentre in origine erano solo a base di latte ovino. In Francia, Piemonte e Val d'Aosta, la tuma viene prodotta con altri metodi di lavorazione, anche se il nome ha un’assonanza con quello del prodotto siciliano. Il Tumazzu di vacca o Fiore sicano, è un formaggio tipico siciliano incluso nell'elenco dei prodotti agroalimentari tradizionali del Mipaaf. Realizzato da una mistura di latte ovino e vaccino, è caratterizzato dalla fase di immersione nel siero, a 85 gradi, delle forme, per un periodo di almeno 2 ore. Dopodiché avviene la stagionatura, che va dai 3 ai 18 mesi, in cui le forme vengono frequentemente girate e rimaneggiate con uno straccio di acqua e sale, e con l’aggiunta di olio e a volte anche aceto. Il Fiore sicano è un formaggio prodotto tipicamente nei comuni di Bivona, Cammarata e Santo Stefano Quisquina, siti nella provincia di Agrigento; Castronovo di Sicilia, Palazzo Adriano e Prizzi appartenenti alla provincia di Palermo. Alle forme viene tipicamente aggiunto, a volte, del peperoncino o del pepe. La tuma viene utilizzata in molte ricette della tradizione siciliana; è come si dice ‘il prezzemolo’ della cucina isolana; viene utilizzata infatti per arricchire o dare sapore a molteplici piatti, dai più semplici, come la scacciata e gli arancini, a quelli più elaborati, come il monumentale Taganu d’Aragona, timballo di mezze maniche a base di sugo di carne, realizzato dalle parti di Agrigento in onore della Pasqua. Ma la tuma può essere usata e preparata come la si preferisce, anche come condimento di piatti meno tradizionali e ricercati come la pizza, e viene mangiata anche sola, ad esempio fritta, accompagnata dalle alici, come ingrediente principale di involtini, oppure cotta all’argentiera, ovvero passata alla piastra con aceto, pepe e origano, insieme ad un contorno semplice di pomodorini e rucola; o ancora cruda all’insalata, magari insieme alle cipolle. A Vizzini, in provincia di Catania, nell’ambito della Sagra della Ricotta, la ‘tuma di piecura’ viene festeggiata con un evento in onore del gusto. La tuma spesso infatti campeggia presso tutte le manifestazioni in cui vi sia un’esposizione culinaria dei prodotti tipici siciliani, perché si sposa benissimo con tutto, ad esempio con miele, nocciole e vino rosso. Enrica Bartalotta http://www.siciliafan.it/tuma-prodotto-tipico-tutta-sicilia/
A Nicosia ( En), un prodotto caseario d’eccellenza: la mozzarella di bufala
Probabilmente pochi conoscono la solida e variegata tradizione enogastronomica nicosiana che, io stessa, ho scoperto solo da pochi giorni rimanendone assai sorpresa. Oltre ad essere una cucina genuina, in larga misura grazie al fatto che la maggior parte della materia prima è di reperimento locale, la cucina nicosiana è anche molto varia ed anche abbastanza ricercata, e la sua raffinatezza è dovuta ad un elemento storico molto importante: la fusione assai felice dell’antica tradizione nobiliare con quella contadina. Nicosia infatti è conosciuta come la “ città dei 24 baroni” ed essendo terra di baronìe la sua tradizione enogastronomica è decisamente “nobile”. burrataPer la sua posizione geografica, per i pascoli particolarmente ubertosi e verdeggianti, la città è da sempre dedita all’agricoltura e al pascolo: questo la rende nota per la genuinità dei suoi prodotti, ed in particolare per le carni, specie le ovine e le suine. Ma un’altra eccellenza nasce in quei territori che non tutti conoscono: parlo della mozzarella di bufala. Punta di diamante di una produzione casearia degna di nota che comprende formaggi di varia stagionatura, la mozzarella di bufala nicosiana ha caratteristiche organolettiche davvero eccellenti, così come l’ottima burrata. caseificioHo gustato quella del Caseificio Albereto: un’azienda moderna,all’avanguardia ed accreditata ,con una fascia di clientela in continua crescita, che prende il nome dalla contrada in cui insistono i suoi stabilimenti in cui si produce una vasta gamma di prodotti sia caseari che di carne bufalina. L’intera produzione dell’azienda si avvale di prodotto locale, dal latte ai capi di bestiame, tutti di allevamento siciliano. Un altro dei prodotti di punta dell’azienda è la ricotta, ma noi ci soffermeremo sulla mozzarella che presenta caratteristiche davvero eccellenti in cui la gamma organolettica si dispiega lentamente rivelando una storia ed una tradizione ma soprattutto l’assoluto rispetto delle procedure di lavorazione. Intanto occorre precisare che la giusta conservazione di tutti i prodotti freschi è in frigorifero: per la mozzarella di bufala e per degustarla al meglio, il consiglio è di tirarla fuori dal frigo almeno due ore prima di consumarla. Le sue caratteristiche infatti saranno meglio percebili e maggiormente epprezzabili a temperatura ambiente. Idealmente la mozzarella andrà privata del suo involucro e del suo liquido di governo e posta in ciotole di porcellana per almeno due ore. Dopo quel tempo al taglio si verificherà immediata la fuoruscita del latte, a garanzia di freschezza, e la mozzarella risulterà ammorbidita e pertanto più gradevole sia al palato che alla masticazione. guasteddaRispetto alla gamma del caseificio Albereto una menzione spetta anche alla burrata che, come del resto anche le mozzarelle, viene prodotta a fermentazione naturale, quindi senza addizione di acido citrico. Questo procedimento del tutto naturale preserva le caratteristiche organolettiche che partendo da una nota di dolcezza, sprigionano la gustosa sapidità assolutamente caratteristica della mozzarella di bufala.Io l’ho gustata in purezza, proprio per catturarne ogni caratteristica, ma anche come ripieno della “guastedda” ennese, condita giusto con un filo di olio extra vergine di oliva ed una spolverata di origano dopo un sostanziale ripasso in forno caldo. Veramente eccellente, sia al naturale, sia scaldata e quasi filante come ripieno della guastedda. L’azienda, che merita di essere conosciuta ancora più di quanto non sia già, ha un suo sito web in cui è illustrata la gamma dei prodotti e che è possibile visitare qui http://www.caseificioalbereto.it/ Alessandra Verzera
I grani antichi tornano sui campi siciliani «Per anni li ho coltivati come marijuana» AGATA PASQUALINO 29 LUGLIO 2012
Giuseppe Li Rosi è un imprenditore agricolo di Raddusa. Da otto anni coltiva grani autoctoni siciliani. Una coltivazione che è stata abbandonata e che rischiava di scomparire perché soppiantata dai nuovi grani modificati geneticamente. «È il risultato della ricerca del profitto a discapito della salute», dice l'agricoltore catanese che con la sua scommessa sui prodotti digeribili e pieni di sapore del frumento antico sfida le multinazionali Pensava di andarsene via e invece è rimasto in Sicilia, a curare la terra. Ma Giuseppe Li Rosi, imprenditore agricolo di Raddusa da tre generazioni, non è un semplice agricoltore che fornisce materie prime all�industria. È un coltivatore di grani antichi siciliani, patrimonio genetico appartenente alla biodiversità mediterranea e frutto della selezione fatta dai contadini in novemila anni di storia dell�agricoltura. E di quei grani fa anche prodotti finiti - farine, pasta e biscotti - «digeribili, pieni di sapore e odore», dice. Un'impresa non facile perché la loro coltivazione è stata abbandonata per decenni e soppiantata dai nuovi grani modificati geneticamente. «Tutto inizia quando il grano è stato nanizzato perché c�era la necessità da parte dell�industria chimica di piazzare il nitrato di ammonio, residuo della seconda guerra mondiale», spiega Li Rosi che è anche presidente della Stazione sperimentale di granicoltura di Caltagirone, un centro di ricerca dove sono conservati 49 ecotipi di grani locali siciliani. «Cominciarono ad usarlo in agricoltura per la mutagenesi indotta, da cui nel 1974 nacque il creso, un grano mutato geneticamente che produceva il doppio di quello normale. Il pretesto - continua - era quello di risolvere il problema della fame del mondo, ma è chiaro che non ci sono riusciti». Ciò che hanno fatto, invece, per l'agricoltore siciliano è «togliere il diritto del seme al contadino, disseminare per il mondo grani sempre più iperproteici che il nostro intestino non riesce a digerire dando il via a tutte le intolleranze e le allergie». E infine hanno portato alla «disattivazione delle aziende agricole, perché il contadino è stato costretto ad acquistare dall�industria i prodotti chimici. Prima il nitrato di ammonio, poi i fosfati, per continuare con i diserbi e i fungicidi necessari per difendere le piante nanizzate, che hanno un sistema immunitario destabilizzato, dalle malerbe e dalle malattie». Li Rosi ne è convinto: «Hanno tentato di cancellare i grani antichi dalla faccia della terra per poter vendere i semi su cui le ditte sementiere e le multinazionali hanno i loro diritti», spiega. Oggi, infatti, i contadini pagano le royalties, il diritto di proprietà, sui semi di grano, «mentre quelli delle varietà autoctone sono stati messi prima ai margini - racconta - poi nessuno li ha più coltivati e oggi addirittura uno scambio o una vendita tra contadini è un�azione illegale, perché non rientrano nella lista delle varietà commerciali e di quelle nel registro nazionale». Per questo, nella sua azienda di famiglia in contrada Pietrapesce tra la provincia di Catania e Enna, all'inizio ha dovuto coltivarli di nascosto. «Ho capito che se mi avessero scoperto mi avrebbero bloccato i contributi europei per l�azienda. Quindi per circa otto anni li ho seminati come se fossero marijuana», dichiara. Da un paio d'anni li ha introdotti come semi aziendali e la produzione biologica gli permette di utilizzarli. La sua azienda agricola di 200 ettari è la più grande nella coltivazione di grani antichi in Sicilia e la seconda per grandezza e varietà in Italia. Vi coltiva quattro tipi di grano: il Timilia, lo Strazzavisazz, la varietà più antica di grano duro presente in Sicilia chiamato per questo anche settecentanni, il grano tenero Maiorca e il margherito o bidì dalle ottime caratteristiche panificatorie. Grani che producono il 50 per cento in meno rispetto alle varietà moderne � 20 quintali per ettaro invece di 40 o 50 - con un bassissimo indice di glutine e per questo digeribili. «Il paradosso è che un indice di glutine che non è digeribile è detto ottimo, mentre un frumento digeribile viene descritto con glutine scarso - afferma Li Rosi - L�indice di glutine alto velocizza il processo di pastificazione, perché il grano può essere sottoposto a temperature di essiccazione molto alte, quindi serve all�industria, ma il nostro intestino non lo riconosce e comincia a produrre radicali liberi che causano mali che vanno dalle allergie ai tumori. È il solito discorso del profitto a discapito della salute, fatto su un alimento che mangiamo giornalmente». L'imprenditore di Raddusa invece pensa alla qualità, ma senza dimenticare il guadagno. «Spero di riuscire a guadagnare di più di un�azienda agricola normale perché vendo anche prodotti finiti», afferma. Il mercato per le farine, pasta e biscotti che da un anno e mezzo vende con il marchio Terre frumentarie è al Nord. «Il prezzo lo decido io e non Chicago, sede della borsa mondiale del grano a settemila chilometri di distanza», dice. Lo decide in base alle spese e offre un prodotto digeribile e che dà più energia perché «a differenza dei grani moderni abituati a ricevere il concime dall�alto, sono capaci di trovare micronutrienti nel terreno che vengono trasferiti nel prodotto finito», spiega. E a chi obietta che i prodotti biologici costano troppo e che sono di nicchia, lui risponde che pensa invece che siano per coloro che hanno preso coscienza. 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Un chilo della sua pasta costa cinque euro. «Non è un prezzo esagerato - spiega - Lo pensiamo perché ci hanno abituati a spendere 90 centesimi per un chilo di pasta. Ma com�è fatta questa pasta?» , chiede retoricamente. «Comprandola non stai spendendo cinque volte di meno, ma buttando 90 centesimi per danneggiare la tua salute e quella dei tuoi figli. Con qualche euro in più, invece, sono sicuro di dare ai miei figli un prodotto genuino e salubre, e contribuisco alla biodiversità e a salvare le aziende agricole che sono la base della crescita delle nazioni». «Il consumatore - suggerisce Li Rosi - dovrebbe porsi una domanda, che è la stessa che si facevano gli uomini primitivi quando andavano alla ricerca del cibo: cos�è buono e cos�è cattivo, cosa mi permette di proliferare e cosa invece mi toglie energia». Il problema per l'agricoltore è che questa domanda non ce la si fa più «perché siamo talmente bombardati dalla pubblicità che ci siamo convinti di avere tutto il cibo a disposizione». Eppure, dice, «nessuno mai metterebbe nafta o benzina sporca nella propria macchina, ce ne guardiamo tutti bene, perché invece non pensiamo a cosa introduciamo nel nostro corpo?». E dà la colpa all�ingegneria sociale «che ha tagliato il rapporto con le tradizioni convincendo per 150 anni la gente che il prodotto industriale è quello più salubre, asettico, sano, e addirittura di moda, portandoci a comprare il cibo con gli occhi chiusi. Mentre prima si guardavano le mani di chi ti vendeva il pane e se aveva le unghia nere non lo si comprava». Per Giuseppe Li Rosi scegliere i grani antichi significa dedicare più tempo alla ricerca del cibo. Invece di fare la corsa con i carrelli. «Ai primordi l�uomo dedicava tutta la giornata alla ricerca del cibo e fino a 60 anni fa si impiegavano ore in cucina. Oggi lo vogliamo portato fino a casa», dice. Lui concorda con il filosofo Ludwig Feuerbach che pensava che siamo ciò che mangi. «Infatti - dice - il nostro cervello si attiva in presenza di elementi chimici. Molti microelementi non si trovano più nel ciao e molte aree del nostro cervello sono disattivate. Per evolverci dobbiamo cambiare modo di vivere, pensare e di nutrirci».
I SALUMI DI CHIARAMONTE GULFI Lo chiamano il “Balcone della Sicilia” ed è l’angolo dell’Isola che offre all’occhio il più ampio panorama di cui si possa godere. È Chiaramonte Gulfi, nella provincia di Ragusa, sui monti Iblei. “Affacciandosi” dalla vetta di una collina, lo sguardo va da Gela all’Etna, con la valle degli Ippari e i paesini che include. Ma il suo meglio Chiaramonte Gulfi lo offre in tavola, per le specialità gastronomiche che produce e che negli anni ne hanno fatto sinonimo di alta qualità in Italia e nel mondo. Le carni e i salumi, gli oli e i vini: Chiaramonte Gulfi è tutta da gustare. Al primo posto la professionalità dei produttori, la ricerca della novità ma soprattutto di una raffinata eccellenza, quella che ha posto questa località in vetta alla classifica come Miglior Comune per l’offerta gastronomica Best in Sicily 2013. A conquistare i palati dei più raffinati gourmet ad esempio è stata la macelleria Il Chiaramontano, di Massimiliano Castro, premiato come Miglior Macellaio nel 2012, per i suoi salumi e le carni di asino e bufala. “Oltre a creare un prodotto di qualità – dice Castro - abbiamo anche dato un nuovo impulso all’allevamento dell’asino ragusano, finalizzato in passato solo alla produzione del latte”. Un’idea lungimirante, se si pensa che oggi prodotti come il carpaccio, la mortadella e specialmente il salame di asina, sono un’icona di eccellenza, adesso richiesti anche all’estero. E di eccellenza si parla anche per la produzione dell’olio extravergine, al quale è stato riconosciuto negli ultimi anni una qualità di alto pregio per le particolari proprietà organolettiche. I premiati nel campo sono state le aziende agricole Cinque Colli (Best in Sicily 2009) e Pianogrillo (2011). La prima si estende in contrada Mazzaronello per 27 ettari coltivati quasi per la maggior parte ad uliveto. La seconda sorge in un antico feudo e si estende per 70 ettari sulle pendici dell’altipiano ibleo: 9.000 piante d’olivo, tra le quali alcune hanno raggiunto gli 800 anni d’età. Tra le colture la varietà principale, nonché la più antica e apprezzata anche a livello internazionale, è la tonda iblea, che produce un olio pregiatissimo e profumato. Banditi pesticidi e concimi chimici: a Pianogrillo la parola d’ordine è agricoltura biologica. Ma dal 2010 una parte della tenuta è destinata anche all’allevamento del suino nero dei Nebrodi. Un progetto concepito per contribuire alla salvaguardia e alla valorizzazione di questa tipica razza siciliana. Di apprezzabili sorprese a Chiaramonte Gulfi ce ne sono anche per gli amanti del buon vino. Un premio all’alta qualità in questo campo è spettato proprio nel 2014 all’azienda Gulfi, per la produzione del migliore rosso, secondo la guida del Giornale di Sicilia. I vini nascono da una viticoltura bio-organica e tradizionale: qui le vigne producono le loro uve secondo natura e l’uomo è solo tenuto a raccoglierne i frutti migliori. Niente prodotti chimici invasivi e nemmeno l’irrigazione. Tutto viene da sé e i risultati confermano la validità delle tecniche più antiche. All’interno dell’azienda sorgono anche l’Hosterja e la Locanda Gulfi. È possibile soggiornare in una delle 7 camere e intanto partecipare alle degustazioni dei vini di produzione dell’azienda. Ma anche all’Hosterja, dove il menù giornaliero è sempre legato ai prodotti di stagione, ci sono proprio in sala le botti dalle quali gli ospiti possono spillare da sé il vino ed apprezzarne la bontà. Anche tra le mura della città si può trovare il meglio della gastronomia locale. In una delle molte stradine medievali si trova il ristorante Majore, che da anni ha il suo forte nella preparazione dei piatti a base di maialino dei Nebrodi. Lo si capisce anche solo dando uno sguardo d’insieme al locale: le pareti recitano “Qui si magnifica il porco” e una volta accomodati a tavola si capisce il perché. Della preparazione di piatti a base di maiale qui si è fatta una vera e propria arte, che viene tramandata di generazione in generazione e che punta alla conservazione di una tradizione tanto antica quanto succulenta. Quella del maiale del resto è una tradizione sentita e diffusa in tutto il paese ed infatti ogni anno, il lunedì che precede il Carnevale, a Chiaramonte Gulfi prende vita la Sagra della salsiccia, che conclude i due giorni di sfilate e parate di carri in maschera. Un’ottima occasione per conoscere da vicino questo “Balcone della Sicilia”, che apre nuovi orizzonti anche agli amanti dell’enogastronomia di qualità.
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